Contro le ideologie del monopolio e contro il neopositivismo
Problemi e alternative della critica marxista in Italia (1955-1960)
di Eros Barone
Sdegno e tenacia, scienza e ribellione, rapido impulso, meditato consiglio, fredda pazienza, perseveranza infinita, intelligenza del particolare e intelligenza del tutto: solo ammaestrati dalla realtà potremo cambiare la realtà.
Bertolt Brecht, La linea di condotta.
1. Analisi della risoluzione Contro le ideologie del monopolio
Il documento in parola 1 costituisce senza dubbio una tappa essenziale della politica culturale del PCI durante gli anni Cinquanta del secolo scorso. Lo sforzo di aggiornamento e di affinamento degli strumenti di analisi e di elaborazione teorica, mutuati dal ‘laboratorio’ dello storicismo gramsciano, si colloca su un terreno largamente ignoto alla tradizione retorico-umanistica che per diversi anni, durante il periodo post-Liberazione, aveva condizionato gli stessi intellettuali comunisti; sul terreno, cioè, di una serrata critica delle ideologie tecnocratiche, aziendaliste e interclassiste sorte nel quadro della espansione dei monopoli e delle innovazioni organizzative introdotte nei moderni processi produttivi, particolarmente in alcuni grandi complessi industriali del Nord-Italia.
La parola d’ordine che illuminava le finalità politico-culturali della risoluzione riprendeva l’appello alla storica lotta “tra progresso e reazione” nella cultura moderna e riecheggiava gli anni delle battaglie per la laicità dell’istruzione e della cultura contro l’invadenza clericale e l’offensiva oscurantista scatenata dalla DC e dalla Chiesa di Pio XII dopo il 1948, nel periodo della restaurazione capitalistica. La parola d’ordine era infatti: “Per l’ulteriore sviluppo di una cultura libera, moderna e nazionale alla luce dell’umanesimo e dello storicismo marxista”.
Nel primo dei quattro paragrafi in cui si articolava il documento veniva tracciato in termini di severa autocritica un bilancio dell’azione del partito e degli intellettuali comunisti sul classico “terzo fronte”. Questa azione si era venuta svolgendo, nel quadro di una ricerca strategica in quel settore specifico delle alleanze politiche rappresentato dalle alleanze culturali, attraverso lo sforzo di promuovere una “cultura libera, moderna e nazionale”, sforzo parallelo alla lotta per l’affermazione del marxismo.
Appariva già implicita l’ammissione dell’esistenza di uno ‘scarto’ tra questi due momenti, che aveva creato una situazione nella quale la preoccupazione di assicurare la difesa e lo sviluppo di un vasto fronte progressivo comprendente le correnti avanzate della cultura liberal-crociana finiva col prevaricare sulla necessità di uno sviluppo autonomo del marxismo e col nuocere, per la sua congenita debolezza “sovrastrutturale”, all’analisi delle nuove “concezioni” sorte sul terreno dello sviluppo neocapitalistico.
Questo scarto, e il conseguente ritardo da esso generato, non mancherà di notare con la consueta acutezza, sia pure col tono della Cassandra inascoltata, Franco Fortini che in Dieci inverni commentava la risoluzione comunista: «A partire dal ’49, cioè dall’esaurirsi della resistenza immediata al 18 aprile [1948], la situazione era così bloccata sul piano della politica interna da esser diventata paradossalmente “sovrastrutturale” (così allora dicevo); qualunque fosse stato l’esito (distensione o guerra), era fornito agli intellettuali socialcomunisti uno straordinario ‘sursis’ [rinvio], nel quale avrebbero dovuto compiere quel lavoro che la Dichiarazione domanda ora [...] La necessità di tener duro all’interno del paese non ha consentito di ‘aprire’ la ricerca scientifico-culturale e ci si è esauriti, svenati, nella ricerca di una ‘apertura’ e di ‘alleanze’ culturali antifasciste, laiche ecc. [...] ora si capisce che la lotta compiuta nei tradizionali settori umanistici e artistici (quelli che presentavano maggiori possibilità di ‘fronte’) ha gravemente compromesso e ritardato l’apertura – prevedibile come inevitabile e da me vanamente profetizzata – del secondo fronte, quello filosofico-scientifico-economico [...] non si può continuare a parlare di mera ‘coesistenza’ in sede di teoria e di marxismo (...) o mi sbaglio o il momento ‘sovrastrutturale’, il ‘sursis’, è finito; si riapre una fase di ‘movimento’». 2
Dal canto suo, il documento comunista ribadiva la necessità di continuare la lotta contro l’oscurantismo clericale e di cogliere i fili che univano quest’ultimo all’azione politica, economica ed ideologica dell’imperialismo americano. Veniva, quindi, posto in evidenza l’oggetto specifico dell’analisi critica che occorreva compiere, ossia «l’analisi dell’azione di nuove correnti ed organizzazioni culturali suscitate direttamente dai grandi monopoli in funzione delle loro esigenze di dominazione politica ed economica».
Ma è nel secondo paragrafo della risoluzione che l’analisi comincia ad acquistare precisione e concretezza legandosi direttamente alla congiuntura politico-ideologica di quel momento: «Nel convegno degli intellettuali comunisti del ‘triangolo industriale’ si è compiuto un primo esame dell’azione ideologica del monopolio in rapporto con l’offensiva contro le libertà sindacali e politiche dei lavoratori intensificata in questi ultimi tempi dal padronato. Le condizioni da cui essa trae alimento sono date dalle forme particolari che in un regime di capitalismo monopolistico assumono la concentrazione della produzione e l’aumento del rendimento del lavoro: il capitalismo fonda sulla concentrazione della produzione e sull’aumento del rendimento del lavoro sul piano aziendale, il rafforzamento della propria posizione di privilegio nei confronti dei settori arretrati e sfruttati dell’economi nazionale, e l’aumento incessante del proprio profitto. Il grande monopolio tende però a presentare tali condizioni di privilegio come conseguenza inevitabile dello sviluppo delle forze produttive, tende cioè ad identificare la causa della propria conservazione con la causa stessa del progresso tecnico-scientifico e civile. Su questa base sorgono determinate ideologie come quella della “comunità aziendale” o del “tecnicismo” che servono a legare agli interessi del padronato tecnici, impiegati e gruppi di operai, cui vengono concesse – grazie ai margini consentiti dal profitto monopolistico – condizioni economiche relativamente migliori rispetto alla generale depressione e disoccupazione».
La peculiare funzione (in ultima analisi, politica) di ‘instrumentum regni’, cui assolvono queste ideologie, momento organico dell’attacco dei monopoli all’unità e all’autonomia della classe operaia e tappa importante di aggregazione di nuovi strati sociali (tecnici, impiegati ecc.) al blocco dominante, viene così chiarita: «Un’azione ideologica che tende a dare a molti quadri non operai l’illusoria sensazione di partecipare alla direzione aziendale, mentre di fatto si tende a trasformare tali quadri in burocrati privi di prospettive di occupazione al di fuori dell’azienda monopolistica (...) Così anche la tendenza ad una maggiore specializzazione diviene arma di dominio nelle mani del monopolio. Le teorie americane della “comunità aziendale”, della “produttività aziendale” e delle cosiddette “relazioni umane” sono utilizzate per condurre tentativi di corruzione ideologica e di divisione tra la classe operaia, così da distoglierne alcuni gruppi dalla lotta di classe e dalla politica generale. Ad esse si assegna soprattutto il compito di ostacolare la presa di coscienza da parte degli operai e dei lavoratori in genere e dello sfruttamento e della ‘alienazione umana’».
2. Una nozione ideologica al posto di un concetto scientifico
Compare, a questo punto, nel documento un termine generico, teoricamente alquanto compromesso: quello di ‘alienazione umana’, il quale non fa che alludere (ma non più che alludere) ad una manifestazione specifica e assai concreta dello sfruttamento della forza-lavoro entro le nuove forme organizzative della produzione create dal capitale monopolistico nel periodo della “seconda rivoluzione industriale”.
In effetti, è legittimo chiedersi, di fronte a questa ipostasi nata “alla luce dell’umanesimo e dello storicismo marxista”, quali processi materiali vengano lasciati nell’ombra e dissimulati dal termine ‘alienazione’, non più, nel migliore dei casi, che la rilevazione psicologica di quella ‘malattia’ che il capitale, designandola allo stesso modo, si propone di curare con le tecniche delle “relazioni umane”. Ancora, è altrettanto legittimo chiedersi quale altro luogo reale sia ‘indicato’ da questa nozione ideologica, e quali trasformazioni, anzi quale combinazione delle relazioni di appropriazione reale e di proprietà (o tra forze produttive nel processo lavorativo e rapporti di produzione, nella loro distinzione dalle forme giuridiche della proprietà) esso designi. In questo senso, l’opportunità di una digressione nasce dall’esigenza di capire come il ricorso a questi ‘genericismi’ 3 assolva dal compito ben più oneroso di un’indagine materialistica del moderno processo di produzione (e riproduzione) per cogliere in esso i caratteri nuovi dell’antagonismo tra classe operaia e capitale.
Sarebbe tuttavia ingeneroso imputare di questa insufficienza il documento in questione, anche se esso contribuisce a segnalarne l’esistenza, poiché buona parte del marxismo di quel periodo storico era caratterizzata dalla ripetizione ora della tesi, attribuita a Marx, dell’impoverimento crescente del proletariato, ora di un termine come quello testé criticato che si rivela incapace di afferrare il contenuto reale della intensificazione dello sfruttamento, la quale consiste anzitutto per Marx nel fatto che la condizione del salariato peggiora, sì, rispetto a quella del capitalista, ma peggiora in termini assoluti dal punto sociale e non economico. In sostanza, avviene che i rapporti di sottomissione politica (“Unterwerfung”, distinta da “Exploitation”) sono direttamente proporzionali all’aumento del “dispotismo” del capitale nella fabbrica e nella società. 4 D’altra parte, senza questa chiave interpretativa, dell’aumento cioè del dispotismo padronale e statuale, non è possibile comprendere la ‘necessità’ delle politiche di razionalizzazione dell’azienda monopolistica, le ‘human relations’, le tecniche della riorganizzazione, le ideologie della programmazione ecc.
Ma, dopo aver detto questo di scorcio, ritorniamo all’esame del documento comunista. Esso si svolge fino ad allargare l’orizzonte dell’analisi al di là delle aziende, in modo da ricomprendere criticamente nell’azione ideologica dei monopoli, quali suoi organici correlati “formali”, sotto il segno dell’americanismo, «la crescente penetrazione, nella cultura italiana, delle più recenti teorie neopositivistiche e sociologiche, di origine tedesca e anglosassone, ma diffuse soprattutto negli Stati Uniti, e di qui importate in Italia nel dopoguerra. Tali correnti – viene osservato – si presentano come ideologie tipiche del mondo moderno, strettamente connesse alla vita produttiva e pronte a far uso di nuove tecniche di ricerca».
Il dibattito, allora molto vivo all’interno degli ambienti marxisti e lungo tutti gli anni Cinquanta, sul modo di condurre la lotta ideale contro queste correnti filosofiche conoscerà, tra l’altro, importanti sviluppi grazie agli interventi di Lucio Lombardo-Radice, di Galvano Della Volpe e di Mario Alicata, 5 il quale giustamente, riferendosi all’intervento di Lombardo-Radice, proclive ad un recupero della filosofia crociana nel contesto di una polemica esclusiva contro il neopositivismo, precisava, nel solco del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, come la critica andasse esercitata e rivolta sia contro l’idealismo dei neopositivisti sia contro «quell’altra forma di idealismo, che è l’idealismo hegeliano nei modi che ha assunto in Italia con Benedetto Croce».
D’altra parte, nella risoluzione si affermava che non doveva sfuggire come il carattere di “modernità” con cui si presentavano quelle correnti fosse particolarmente adatto a influenzare «i ceti intellettuali più legati alla produzione industriale come i tecnici e i ricercatori scientifici», ed esercitasse pertanto una certa attrazione anche sui giovani «i cui interrogativi non ricevono più una risposta adeguata dalla tradizionale cultura borghese, idealista e spiritualista. Ecco perché di fronte all’arretratezza provinciale di tanta parte della cultura italiana, tali correnti americanistiche si presentano come rinnovatrici».
La critica sviluppata dal documento in questione si rivela di grande efficacia, proprio nella misura in cui definisce la portata non solo ideologica, ma pratico-sociale delle teorie oggetto di esame, le quali avanzano la pretesa di rappresentare il massimo della “modernità”. Ciò che queste correnti tendono ad affermare, con la presuntuosa (e incauta) dichiarazione di obsolescenza del marxismo nella cosiddetta “società industriale”, sono le tesi della estinzione della lotta di classe, della “fine delle ideologie” ecc. (si pensi ai vari Berle, Burnham e soci). È noto, per altro, che di questa ‘humus’ apologetico-apocalittica ha vitalmente bisogno di alimentarsi l’“American Creed” e che di siffatte dichiarazioni è intessuta l’ideologia dominante, quando, per parafrasare un’asserzione famosa, essa ama dire di sé che “l’histoire c’est moi!”.
A queste e a consimili forme di raffinata autocoscienza delle forze dominanti d’Oltreoceano si avvicinava, in Italia, lo stesso oscurantismo clericale, che non tardò ad identificare la propria affinità elettiva con esse e, sforzandosi di colmare il ‘gap’ prodotto dallo sviluppo ineguale anche nel campo delle sovrastrutture ideologiche, le assunse nel quadro delle proprie necessità di rammodernamento della cultura cattolica e le utilizzò in particolare, imprimendo nuovi indirizzi agli stessi istituti cattolici (si pensi all’Università del Sacro Cuore), nel settore degli studi psicologici e sociologici.
Nella parte finale del documento in parola, oltre a rivendicare l’importanza storica, per il rinnovamento della cultura nazionale, del contributo dato attraverso la diffusione del pensiero marxista e la pubblicazione dell’opera di Antonio Gramsci, la risoluzione indicava come le modificazioni (e i problemi nuovi) dell’economia italiana nel decennio 1945-1955 imponessero una ripresa e uno sviluppo della tematica gramsciana, soprattutto nei settori più connessi ai problemi dello sviluppo economico e produttivo.
La risoluzione, criticati «gli atteggiamenti di indifferente sufficienza o di aprioristico dispregio o di ingiustificato cedimento verso le dottrine neopositivistiche e sociologiche», si concludeva affermando che «il confronto e la polemica con tutte le manifestazioni dell’ideologia borghese sono connaturati all’uso creativo del marxismo», e assumendo questa feconda prospettiva (di risarcimento teorico e di uso critico del marxismo) delineava una serie di compiti in cui si esprimeva un programma teorico-culturale le cui linee portanti sono ancor oggi pienamente valide.
Con lo sguardo rivolto al presente sono, in effetti, da considerarsi come essenziali almeno due compiti indicati a conclusione del documento:
1. «Estendere e approfondire la conoscenza dell’azione ideologica dei monopoli e delle correnti culturali da cui essa trae ispirazione ed ausilio. Tale conoscenza deve rivolgersi non solo al contenuto ideale e alle forme organizzative di questa azione, ma anche alla base reale su cui essa si svolge. Lo studio dell’organizzazione capitalistica della produzione e dei suoi rapporti con tutta la vita del paese [...] sono tradizionalmente elementi fondamentali del marxismo anche in Italia. 6 Un’azione culturale in cui non trovassero largo posto i temi dell’economia, della produzione e della ricerca tecnologica e scientifica, sarebbe gravemente manchevole ai fini del rinnovamento della cultura italiana, della sua liberazione dal parassitismo e dall’accademismo. Si deve riconoscere che invece troppo scarso rilievo è stato dato a questi temi, rispetto a quelli tradizionali della cultura umanistica».
2. «Critica e polemica sempre più precisa e mordente in ogni campo, a partire dal terreno specifico dell’azienda monopolistica».
3. Una satira politico-filosofica in difesa del materialismo dialettico e storico
Tra i numerosi dibattiti di carattere teorico e metodologico che hanno caratterizzato nel corso degli anni Cinquanta del secolo scorso lo sviluppo politico-culturale della ‘sinistra’ italiana, uno dei più seri è stato certamente quello innescato dal vivace ‘pamphlet’ di Cesare Cases. 7 In questo dibattito intervennero alcuni tra gli esponenti più qualificati del marxismo italiano, dai giovani revisionisti della rivista Passato e Presente a Cesare Luporini e ai discepoli di Galvano Della Volpe. Se poi si considera che persino alcuni intellettuali della cosiddetta ‘sinistra laica’, spesso tendenti a svalutare come pure “diatribe scolastiche” i dibattiti interni allo schieramento marxista, uscirono, per una vota, dal loro aristocratico riserbo, non è difficile concludere che Cases aveva posto un problema realmente grave ed urgente, il cui chiarimento non poteva essere ulteriormente differito. In effetti, è giusto riconoscere al ‘pamphlet’ di Cases che, oltre a presentarsi, nonostante talune omissioni e semplificazioni, come una lettura quanto mai godibile in virtù di un gusto satirico assai raro nella nostra cultura letteraria e filosofica, 8 esso ebbe il merito di denunciare tutta una serie di equivoci e di compromessi ideologici maturati nella confusa situazione ideologica della sinistra italiana in séguito alla svolta revisionista del XX Congresso del PCUS e ai fatti d’Ungheria. Ma vi è di più, poiché Cases dimostrò sia di saper individuare assai bene taluni ‘elementi nodali’ che erano destinati ad occupare un posto di primo piano nella discussione teorica, sia la radicale incompatibilità di due concezioni ideologiche perfettamente antitetiche.
A questi risultati, che costituiscono l’aspetto realmente positivo del libretto, Cases poté giungere proprio perché capì di dover orientare la sua polemica contro un atteggiamento intellettuale che, pur sembrando caratteristico solo di un limitato settore del marxismo italiano, avrebbe esercitato una crescente influenza e avrebbe potuto offrire, in un futuro vicino o lontano, la base teorica per una nuova mistificazione del marxismo. Sennonché l’àmbito della critica esplicata da Cases non si limitava solo alla discussione dell’argomento enunciato nel titolo, ma muoveva da lì per affrontare un complesso assai più ampio di problemi caratteristici della cultura marxista italiana e mirava a definire i limiti e le carenze di un certo tipo di direzione politico-culturale. Così, Cases, proprio per il tono spregiudicato della sua satira e per la sua personale posizione di pubblicista indipendente, poté ‘stilizzare’ in maniera efficace il significato dei vari problemi, fino a porre in piena luce un dissidio fondamentale che fino a quel momento era stato smorzato dalla convergenza su determinati obiettivi e giudizi politici. Emergeva in tal modo il limite più grave delle discussioni svolte all’indomani del XX Congresso e delle stesse polemiche esplose sulle riviste di orientamento revisionista all’indomani dei fatti di Ungheria. Ad una visione più prospettica dello svolgimento di quel dibattito non può dunque sfuggire come alla maggiore consapevolezza delle singole posizioni teoriche corrispondesse, sul finire degli anni Cinquanta, una più diretta consapevolezza dei loro riflessi politici, e come, insomma, si andasse attenuando quella pericolosa “confusione delle lingue” che aveva permesso a intellettuali schierati su posizioni ideologiche profondamente contrastanti di proclamarsi ugualmente “marxisti” e di arrogarsi, magari, la nomea di difensori del “vero” metodo del materialismo storico.
Da questo punto di vista, la pungente critica di Cases, unilaterale e intransigente quanto si vuole, ma indubbiamente esplicita nei suoi fini come nel suo linguaggio, sortì l’utile conseguenza di costringere i suoi interlocutori ad assumere posizioni decise e precise e a formulare dei giudizi non reticenti sulle questioni di fondo del marxismo italiano. Non meno importante fu lo sforzo compiuto da Cases per liquidare i troppi equivoci di cui era ricca la storia recente del revisionismo italiano e per contrapporre a un certo facile e irenistico eclettismo la permanente validità di una ben definita “concezione del mondo”. Volendo perciò schematizzare l’impianto del libretto, il lettore si vede formulate e proposte le seguenti tesi:
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una definizione esatta e stringente della funzione ideologica delle dottrine neopositiviste e del loro effettivo rapporto con una nuova fase di sviluppo della società capitalistica che esse, per l’appunto, riflettono e giustificano;
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una polemica incalzante contro la progressiva penetrazione dell’atteggiamento intellettuale e delle tecniche neopositivistiche in taluni settori del marxismo italiano;
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la difesa della concezione integrale, totale ed organica della realtà che è a fondamento della concezione materialistico-dialettica e materialistico-storica, contro tutti i rinnovati tentativi di ridurre il marxismo a pura ‘metodologia’ o ad astratto canone di ricerca nell’àmbito delle scienze economiche e politico-sociali;
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un duro attacco sferrato contro tutti quegli studiosi marxisti (fossero essi i revisionisti di tendenza neopositivistica o gli esponenti della scuola di Della Volpe) che tentavano, in quel torno di tempo, di elaborare un’estetica marxista in polemica con i canoni estetici e filosofici del pensiero di Lukács;
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la difesa appassionata delle concezioni dello stesso Lukács, diretta non solo contro le sbrigative condanne dei neomarxisti, ma anche contro lo stesso tipo di giudizio storico-critico proposto da Gramsci;
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una valutazione complessiva dello svolgimento del marxismo italiano nel secondo dopoguerra e un vigoroso richiamo alla “linea dei classici” rappresentata sostanzialmente dalla direttrice Hegel-Marx-Lukács.
Ma non è tutto, giacché Cases delibava, nel contesto della trattazione di questi temi, altre importanti questioni particolari, proponendo giudizi spesso acuti sui caratteri tradizionali della cultura italiana e formulando alcuni pertinenti rilievi sull’uso scorretto della nozione di “provincialismo” adoperata con molta disinvoltura da certi scrittori ‘marxisti’ per avvalorare la superiorità delle nuove “tecniche”. Tuttavia, il tema più serio e importante fra quelli trattati o accennati da Cases è quello che ha dettato il titolo del ‘pamphlet’. La tesi secondo cui il neopositivismo nasconde, dietro il suo apparato metodologico, un nuovo tipo di ideologia in cui si rispecchiano e vengono giustificate, sul piano teoretico, le esigenze pratiche di una nuova fase di sviluppo della società capitalistica, è infatti il caposaldo più esatto e persuasivo di tutta la polemica di Cases. Questi, mutuando il filo conduttore della sua disamina critica da talune pagine fondamentali non solo di Lukács, ma anche di Horkheimer e Adorno, 9 aveva davvero ragione da vendere quando sottolineava che «il preteso carattere naturale del neopositivismo e del pragmatismo americano è intimamente legato alla conservazione delle strutture monopolistiche» 10 e che quindi la sua ‘metodologia’ continuava, in realtà, quel certo tipo di ‘apologia’ del regime capitalistico, adeguandolo ad una nuova epoca storica. Che tale fosse appunto il carattere storico del neopositivismo, corrispondente ad un’età di “compiuta barbarie”, in cui proprio “l’assenza di concezione del mondo” rappresentava l’unica possibile ideologia della società capitalistica, era una constatazione ampiamente suffragata non solo dall’atteggiamento pratico di molti suoi sostenitori, ma anche e soprattutto dalle dirette conseguenze dell’applicazione delle ‘tecniche’ o ‘metodologie’ di quel tipo al campo della ricerca storico-sociale. E Cases, cui erano ben noti gli atteggiamenti di dogmatica sufficienza propri di taluni ‘neomarxisti’ italiani, era perfettamente nel suo diritto quando notava che il “crisma di necessità” con cui venivano presentate le varie filosofie ‘operazionistiche’, era in sostanza un ultimo e aggiornato espediente ideologico che giovava perfettamente a dissolvere ogni concezione della realtà troppo critica e ‘pericolosa’ per sostituirla con un astratto mondo di modelli o di ‘simboli’, dietro al quale si nascondeva la realtà assai concreta di determinate strutture economico-sociali.
4. Il neopositivismo italiano fra utopia illuministica e mito tecnocratico
Certo, i neopositivisti, e in particolare molti dei neopositivisti italiani sulla cui sincerità democratica non era lecito sollevare alcun dubbio, avrebbero potuto giustamente ribellarsi contro un giudizio così drastico ed esclusivo, e dichiarare che il loro atteggiamento intellettuale era ‘illuministico’ e ‘critico’ e che tutta la loro filosofia era volta ad assicurare la liberazione della mente umana dall’illusione metafisica e teologale, così spesso latente nella suggestione dogmatica delle varie ‘concezioni del mondo’. D’altronde, che il neopositivismo, specie in Italia, potesse svolgere una giusta battaglia contro il predominio filosofico delle più stantìe metafisiche spiritualistiche o paraidealistiche, che il richiamo al ‘metodo’ ed alla concreta serietà del sapere scientifico potesse servire ad un’opera di svecchiamento della arcaiche strutture della ‘filosofia borghese’ italiana, era, anzi, una considerazione perfettamente legittima. E non v’è dubbio che la riduzione dell’attività filosofica all’analisi delle strutture linguistiche del discorso filosofico e lo sforzo di sottoporre tutti i pretesi problemi ‘teoretici’ tradizionali al rigoroso banco di prova di una logica rigorosa rappresentasse, nell’ambiente italiano, un fatto nuovo e realmente positivo. A una filosofia avvezza ad esaurire il suo compito nella costruzione ideologica di una realtà ideale, capace soltanto di ‘consacrare’ tutte le condizioni esistenti, il neopositivismo e le altre correnti affini volevano infatti contrapporre l’esatta misura di tecniche e strumenti metodologici aderenti alla prassi delle scienze e capaci di ricostruire l’unità logico-linguistica del sapere umano, al di là e al di fuori di qualsiasi deformazione metafisica. Sennonché questa accentuazione dell’aspetto ‘illuministico’ del neopositivismo, che caratterizza la maggior parte dei seguaci italiani di tali dottrine, poteva valere, in realtà, solo entro i limiti strettamente locali e contingenti di una situazione culturale particolare. In effetti, tutti i tentativi d’interpretazione progressista del neopositivismo si spuntavano e si spunteranno sempre contro la difficoltà insuperabile di conciliare due modi di concepire il significato e la destinazione della scienza che sono realmente inconciliabili. In parte per la stessa origine e formazione teorica dei suoi maggiori rappresentanti, in parte per il suo legame organico con l’ambiente storico dei grandi Stati borghesi il neopositivismo ha soprattutto espresso la tendenza a circoscrivere la propria analisi entro i confini della pura scienza e delle sue tecniche operative, relegando nell’ombra la vera, complessa realtà delle condizioni storiche e sociali del mondo in cui la stessa scienza esplica la sua prassi. Il fatto che, specie a causa dell’influsso del Morris, taluni neopositivisti si siano aperti alla considerazione di una ‘pragmatica’, affiancata alla ‘semantica’ e alla ‘sintassi’, come dimensione propria di un discorso psicologico, biologico e sociale, non è certo servito ad assicurare all’analisi neopositivistica un saldo fondamento storico-critico. Ed anzi, proprio quando è passato dal puro lavoro sui metodi e i linguaggi logico-scientifici ad ambiziosi tentativi di sistemazione epistemologica dei problemi economico-sociali, il neopositivismo si è trasformato facilmente da ‘meotodologia’ in ‘ideologia’, o meglio, pretendendo di dimostrare il ‘non senso’ scientifico di troppi problemi o istanze reali, ha finito col diventare il corrispettivo filosofico del ‘nuovo corso’ teorico e pratico del capitalismo. In tal modo, anche l’originaria componente empiriocriticista (che, come ebbe a notare finemente Luporini, 11 era pure all’origine del neopositivismo) si esaurì facilmente nella pura tendenza logica e formalistica vanificando perfino il senso più elementare delle dimensioni storiche in cui si formano ed operano gli stessi linguaggi scientifici. E poiché l’isolamento dei fatti linguistici e dei metodi della scienza presupponeva, alla lunga, la separazione radicale tra lo stesso discorso della scienza e la realtà che esso esprimeva, ne derivò inevitabilmente una nuova ‘reduplicazione’ di stampo idealistico e la sovrapposizione della struttura astratta e formale dei vari ‘discorsi’ alle loro basi concrete. L’arma che avrebbe dovuto sbaragliare, all’insegna di un rinnovato entusiasmo illuministico, le metafisiche e i “discorsi privi di senso” si mutava così, fin troppo facilmente, in una sorta di nuova metafisica o di neoplatonismo il cui oggetto era costituito dal mondo ‘separato’ del linguaggio. Pertanto, la vecchia radice idealistica, già latente nell’empiriocriticismo e in molte altre componenti storiche del neopositivismo (non escluso lo stesso pragmatismo da cui le nuove correnti filosofiche avevano tratto un sostanzioso alimento), poté produrre una nuova pianta, che attecchì facilmente e rapidamente su un terreno già ben preparato da tradizioni più o meno recenti.
Le conseguenze di tutto questo sono state e sono anche oggi quanto mai evidenti. Da un lato, infatti, il neopositivismo ha operato la riduzione integrale della razionalità a pura tecnica, a soluzione di problemi settoriali non inseriti mai in un contesto veramente unitario e totale. Ma, d’altra parte, il rifiuto programmatico delle tradizionali ‘concezioni del mondo’ (rifiuto che aveva certamente una giustificazione polemica nei confronti delle metafisiche e dei vecchi modelli di filosofia teologale) ha implicato ben presto anche l’abbandono di ogni presupposto o principio, riducendo tutto il discorso filosofico all’affannosa ricerca di ‘moduli’ o ‘modelli’ operativi e metodologici, continuamente superati ed abbandonati. Per ricorrere a un giudizio formulato da Marx nell’Ideologia tedesca circa gli ideologi idealisti, la ricerca del “pensiero senza presupposti”, l’illusione di una fondazione autosufficiente della scienza, ha indotto anche i neopositivisti a ignorare il carattere obiettivo della scienza e la sua incidenza reale. E, spesso, la battaglia neopositivistica contro certi “non sensi” metafisici, quali sarebbero per un antiolismo programmatico il ‘capitale’, il ‘socialismo’, la ‘democrazia’ ecc., ha implicato il più completo disarmo critico di fronte al mito della tecnica e alla tecnocrazia, che è quanto dire di fronte alle formulazioni ideologiche del capitalismo monopolista. Non a caso, nel gran parlare che si faceva nel corso degli anni Cinquanta, e ancor oggi si fa, di ‘tecniche’ e di ‘metodologie’ (e in particolare di tecniche e metodologie sociologiche), l’accento batteva sempre sull’inutilità delle soluzioni globali e sulla necessità di affidarsi unicamente all’intervento dei ‘competenti’ i quali, dal canto loro, sono inseriti in una struttura sociale di cui non vogliono e non sanno più rendersi conto. E non a caso, ai vecchi miti irrazionalistici, sempre indispensabili nell’età dei grandi contrasti fra i poli imperialistici, vengono sostituiti, in chiave ottimistica, nuovi miti sul potere taumaturgico della tecnica scientifica, sociologica, economica, oppure, per converso, in chiave pessimistica, sul carattere apocalittico-destinale della tecno-scienza, mentre il compito di elaborare una visione complessiva della realtà è attribuito di nuovo ai teologi, ossia ai più antichi specialisti della materia.
5. Il confronto/connubio tra marxismo e neopositivismo: una critica impietosa
I caratteri del neopositivismo, che Cases aveva incisivamente indicato sulla scorta delle analisi di Adorno e di Horkheimer non lasciavano il minimo spazio ai vari tentativi di pervenire ad una sorta di sintesi tra tecniche neopositivistiche e scienza/filosofia marxista. 12 Sennonché, una volta definita questa radicale incompatibilità, restava ancora da spiegare perché il neopositivismo avesse potuto penetrare così facilmente nello schieramento della sinistra italiana, trasformandosi nella base teorica di nuovi tentativi revisionistici. La spiegazione di questo fatto non è però difficile, se si considera che l’introduzione di motivi e temi neopositivistici ebbe in Italia aspetti e funzioni assai diverse, poiché essi, presentandosi come il prodotto filosofico di ambienti intellettuali scientificamente più avanzati di quello italiano, assunsero un carattere indubbiamente progressivo rispetto alla tradizionale limitazione umanistica della cultura italiana. Che il neopositivismo nella fase iniziale della sua fortuna italiana (avvenuta, del resto, ad opera di una coorte di studiosi, alcuni dei quali sarebbero successivamente approdati ad una concezione del mondo marxista-leninista, e basti citare qui i nomi di Ludovico Geymonat e di Ferruccio Rossi-Landi) avesse una significativa giustificazione teorica in un atto di svincolamento dall’esclusiva egemonia umanistica della cultura idealistica crocio-gentiliana, che esso, in un paese a limitato sviluppo tecnico-economico, fosse stato un richiamo necessario e salutare alla grande tradizione della scienza moderna, è un fatto che si intende agevolmente. In questo senso, il neopositivismo fu un fattore intellettuale importante della modernizzazione capitalistica del nostro paese. Inoltre, al di là di tutti i suoi limiti ideologici e storici, non vi è dubbio che il neopositivismo abbia contribuito al progresso di taluni campi d’indagine ben definiti e che abbia segnato un significativo progresso della coscienza critica delle tecniche e dei metodi scientifici. Sicché non desta meraviglia che un certo settore della cultura democratica italiana vi abbia trovato una nuova direttiva ideologica da sostituire ai vecchi princìpi crociani, e che l’istanza del rigore metodologico abbia attratto molti filosofi non marxisti, interessati a svolgere una ricerca filosofica atta ad incidere realmente sullo sviluppo della società italiana.
A queste ragioni, concernenti il settore della filosofia italiana che era estraneo allo schieramento marxista, occorre poi aggiungere un’altra considerazione, giustamente richiamata da Cases e concernente il carattere che aveva la cultura marxista italiana, in particolare nel secondo dopoguerra (1945-1960).
La formazione umanistica e idealistica, tipica della borghesia intellettuale italiana, attraverso la quale erano passati gli stessi quadri intellettuali dei partiti operai e lo stesso specifico carattere della tradizione marxista italiana, quale si era svolta da Labriola a Gramsci, erano state infatti altrettante ragioni della tendenza prevalentemente storico-umanistica che dominava lo sviluppo del marxismo italiano. Non solo; ma gli intellettuali marxisti, dovendo confrontarsi con una cultura permeata profondamente dal crocianesimo o dai suoi sviluppi più positivi e progressisti, furono, in certo qual modo, costretti a misurarsi continuamente con i loro precursori o antagonisti di parte idealista in campi d’indagine storica, filosofica e letteraria e a far valere, proprio su questo terreno, i temi già posti dalla riflessione di Gramsci. Ciò spiega come mai la direzione culturale dei partiti di ispirazione marxista sia rimasta per lungo tempo nelle mani di uomini certamente più sensibili alla problematica storica, estetica e filosofica, e come mai un ampio settore del marxismo italiano abbiano mutuato dalla stessa cultura idealista, contro la quale combatteva, taluni pregiudizi assai gravi riguardo alla riflessione scientifica e, soprattutto, riguardo a quel tipo di ricerche sociologiche e antropologiche che avevano invece un così largo sviluppo nella cultura anglosassone. Da questo punto di vista, non si può dire che le istanze di una base maggiormente scientifica e di un più solido fondamento sociologico del marxismo italiano, avanzate nel corso degli anni Cinquanta da un buon numero di intellettuali di sinistra, fossero soltanto frutto di un moda (come tende a sostenere Cases compiendo una forzatura polemica) e che non vi fosse molto di giusto nei loro rilievi critici sui limiti e le dimensioni tradizionali entro cui si era mossa, fino ad allora, la linea dominante della cultura marxista italiana.
Del resto, sulla necessità di appropriarsi delle particolari acquisizioni tecniche ed anche di metodi di indagine oggettivamente validi, elaborati da scienze che in Italia muovevano i primi passi, erano perfettamente d’accordo tutti i settori più avanzati della filosofia italiana. Basti rammentare che proprio Luporini, nel suo acuto intervento già citato, sostenne che «il marxista, più esattamente il “materialista storico”, ha da guardare con molta spregiudicatezza anche alle tecniche mentali che vengono comunemente designate come “convenzionalistiche” e “operativistiche”, purché ne siano precisati e indicati i limiti di validità». 13
Sennonché altro è accettare e trasformare in senso marxista tecniche utili e obiettivamente valide, altro recepire le prospettive ideologiche, in cui il neopositivismo ha inserito quelle stesse tecniche, e altra cosa ancora ritenere che l’atteggiamento ideologico e mentale del neopositivismo sia conciliabile con le direttive del materialismo storico e integrabile addirittura in una possibile sintesi “democratico-progressiva”. 14 In questo senso, il tentativo, indubbiamente assai abile e intelligente, compiuto da Preti, 15 costituiva un’interessante testimonianza delle intenzioni progressiste che animavano i migliori esponenti delle correnti neopositivistiche italiane, e del loro sforzo d’innestare le nuove tecniche metodologiche sul tronco di un’ideologia di ispirazione storicistica e marxista. Ma anche senza condividere la sbrigativa liquidazione di Cases, che sottovalutava eccessivamente la serietà della posizione di Preti, era giusto indicare tutti i pericoli impliciti ed espliciti di un atteggiamento intellettuale che, pur movendo da presupposti illuministici, finiva con l’approdare a un rinnovato pragmatismo, sostanziato, sì, da una chiara consapevolezza dei gravi problemi economico-sociali posti dallo sviluppo gigantesco della tecnica, ma fin troppo fiducioso circa la vittoriosa supremazia della ragione scientifica. Ragione per cui anche all’alto livello d’intelligenza e di personale acutezza, con cui Preti aveva espresso l’esigenza di un’alleanza organica tra la volontà rivoluzionaria della corrente marxista e la vocazione operativa della scienza moderna, si riproponeva il problema insopprimibile di una concezione unitaria delle diverse attività e manifestazioni umane. Sicché Cases aveva tutto il diritto di denunciare che «l’avere spopolato la terra delle concezioni del mondo, calunniate come miti e magie» poteva provocare «il disarmo intellettuale e morale dell’uomo di fronte al potere del capitalismo monopolistico, la democrazia alla rovescia per cui tutti sono ugualmente inermi di fronte a ciò che viene loro presentato come scientifico». 16
Che quindi Cases combattesse con particolare tenacia l’infiltrazione di questa “mentalità scientifica” e di certi miti tecnocratici nell’àmbito del marxismo e che, coerentemente, attaccasse con durezza quegli intellettuali “revisionisti” come Emilio Agazzi e Armanda Guiducci che rappresentavano tali tendenze, è pienamente comprensibile. La sua critica era anzi, a questo proposito, particolarmente calzante e persuasiva, perché la pretesa d’indicare nel ricorso alle metodologie ed alle tecniche neopositivistiche l’unica alternativa al materialismo dialettico nella sua configurazione ortodossa, correntemente definita (e nel contempo svalutata) con l’acronimo ‘Diamat’, era un’operazione non diversa da quella che fu operata nei riguardi del marxismo dall’idealismo crociano, anche se con altri propositi e altri scopi. La vanificazione sostanziale di tutti i presupposti teorici non solo del materialismo dialettico ma anche del materialismo storico, insieme con l’adesione ad un empirismo che aveva ormai liquidato ogni rigore di principio, erano infatti le più gravi conseguenze di un siffatto atteggiamento teorico che risolveva la crisi e il processo di rinnovamento del marxismo italiano in un revisionismo assai debole ed equivoco. 17 Ed è appunto contro questo pericolo che Cases difendeva, con giusta tenacia, il valore della concezione unitaria della realtà propria del materialismo storico, la sua visione totale ed organica di tutti i fenomeni del mondo storico, fondata sull’oggettiva verità di una conoscenza realmente scientifica.
6. Il giudizio critico su Gramsci
Ma la disamina condotta da Cases nel suo ‘pamphlet’ si estendeva, al di là dell’obiettivo neopositivista, ad altre ben più serie tradizioni del marxismo italiano e trovava espressione, in particolare, in un confronto diretto con Gramsci e con il tipo di ricerca intellettuale promosso dal pensatore sardo nei Quaderni del carcere. È giusto precisare, in questo senso, che trovava ancora una volta conferma la profonda onestà intellettuale che spingeva Cases a manifestare chiaramente i suoi dissensi rispetto alla ‘linea’ gramsciana e a sollevare delle obiezioni di non poco momento verso il metodo su cui essa si fondava. Da questo punto di vista, che vi fosse il pericolo di un’accettazione acritica dell’esperienza di Gramsci e che pesasse su tanti aspetti del marxismo italiano una tendenza alla riduzione manualistica e alla semplificazione delle sue tesi filosofiche e storiche, era anzi una considerazione del tutto legittima e difficilmente contestabile, soprattutto se si teneva conto di certi singolari tentativi di travestire Gramsci da ‘crociano’ o da ‘metodologo’, oppure, per converso, di dimostrare che la sua posizione coincideva con il più puro leninismo. Né era mancato chi aveva presentato Gramsci nelle vesti di un “sociologo moderno”, unicamente interessato ai problemi ‘tecnici’ di “organizzazione della cultura”, o chi riduceva tutta la sua ricerca a un fenomeno nazionale, prodotto delle condizioni arretrate della società italiana. Sennonché il pregio del giudizio critico formulato da Cases su Gramsci era proprio quello di aprire una discussione seria e precisa intorno ai limiti storici, peraltro inevitabili, della stessa concezione filosofica e storica di Gramsci, favorendo in tal modo, di là dagli approcci agiografici o svalutativi al pensiero dell’intellettuale sardo, un reale progresso della cultura marxista italiana.
In effetti, secondo l’approccio rigorosamente lukacsiano di Cases, Gramsci è, sì, un pensatore dotato di “indefettibile sensibilità” per il “carattere progressivo e reazionario di ogni manifestazione di pensiero”, ma in lui “difetta il metodo” e, quindi, la risoluzione “totale”, “organica” e “compiuta” della “concezione del mondo” marxista e la capacità di cogliere in termini di “unità dialettica” la complessa struttura del mondo storico. 18 Da queste considerazioni pesantemente critiche sulla insufficienza e sulla debolezza del metodo d’indagine gramsciano Cases deduceva, come necessaria conseguenza, un giudizio complessivo che investe, insieme con questa eredità intellettuale, il marxismo italiano, la cui «grandezza e miseria...si possono riassumere nella constatazione che esso non ha mai fatto uso del predicato ‘borghese’ aggiunto a parole come filosofia, storiografia, estetica ecc. Grandezza, perché si è così impedito di esaurire la critica in questo aggettivo, come avviene nel dogmatismo – miseria, perché ciò implicava la rinuncia ad affrontare di petto l’impostazione dei problemi in senso marxista». 19
Nondimeno, prescindendo dalla diversità del fine cui erano rivolte le opere dei due eminenti marxisti e dalle condizioni in cui esse furono scritte, Cases esemplificava la differenza interpretativa intercorrente tra Lukács e Gramsci attraverso il giudizio sul pragmatismo, contrapponendo alla compiutezza dell’analisi ideologica del primo 20 l’atteggiamento “pragmatico” del secondo 21 che “vede la quistione più a partire dalla superstruttura che dalla struttura” e “non tende...a inserire una determinata corrente di pensiero nel quadro totale dell’evoluzione della società, bensì a prenderla come un dato, a determinarne il valore progressivo e reazionario nelle ripercussioni che può avere come orientamento ideologico degli intellettuali e quindi indirettamente delle masse”. 22
Il corollario di questo modo di considerare il pensiero di Gramsci e il suo significato storico era evidente: per Cases l’eredità gramsciana era inficiata da questa “deficienza di metodo”, e se era pur stata “un elemento positivo di grande rilievo di fronte al pericolo del dogmatismo” era stata però anche “(in misura minore) una remora per il pieno sviluppo del marxismo”. Certo – e Cases non mancava onestamente di riconoscerlo – l’esperienza gramsciana era stata particolarmente preziosa “per evitare le semplificazioni grossolane” e “mantenere quella intelligenza critica del pensiero altrui, senza la quale non può esserci pensiero marxista”; tuttavia essa aveva pure alimentato “la tendenza a risolvere i problemi, caso per caso, a non concepirli come momenti dello sviluppo storico-sociale, e quindi a non dare alla ricerca una impostazione marxista ‘d’emblée’, che si servisse delle ricerche precedenti soltanto come materia prima, ma a partire dai risultati di queste ricerche correggendoli e modificandoli secondo le istanze di un punto di vista marxista”. 23 Da qui la “debolezza dei princìpi”, le facili infiltrazioni di altre ideologie e le suggestioni e i riflessi delle filosofie borghesi che caratterizzavano, spesso in modo vistoso, il marxismo italiano. Inoltre, secondo Cases, era evidente nell’impostazione culturale, nelle tendenze intellettuali di Gramsci e nelle stesse circostanze in cui maturò la sua adesione al marxismo, una certa “inclinazione al soggettivismo” 24 e alla sopravvalutazione della ‘tätige Seite’- il lato attivo, la mediazione pratica, di cui parlava Marx -. 25
Ora, è ben vero che Gramsci, intellettuale di formazione umanistica, radicato saldamente nell’ambiente storico della società italiana e, in qualche modo, partecipe della riforma idealistica della cultura borghese, poteva aver accentuato, nella sua necessaria lotta contro il marxismo di marca positivistica, il momento dell’azione rivoluzionaria, e può anche darsi che egli avesse rivendicato, con una forzatura polemica, contro l’oggettivismo di certe concezioni materialistiche, il valore dell’iniziativa consapevole, capace di mutare le condizioni e le strutture di una realtà storicamente data. Però di qui ad affermare che tale “accentuazione...viene a gettare un’ombra su ogni oggettivismo, sospettato di immobilismo, di consacrazione di ciò che sussiste, di spirito ‘tolemaico’” e, quindi, ad attribuire a Gramsci un “soggettivismo” che, se è presente in certi momenti e in certe parti della sua opera, è poi superato attraverso una progressiva maturazione intellettuale e politica del suo “metodo-concezione” sul terreno del materialismo storico-dialettico, il passo era davvero troppo lungo. 26 In realtà, questa volta il limite era ìnsito nella critica di Cases, il quale, seguendo Hegel e non Marx, riponeva il criterio oggettivo dell’indagine nella mediazione del fenomeno analizzato entro una totalità oggettiva, non nel metodo di Gramsci il quale, seguendo Lenin, riponeva il criterio oggettivo dell’indagine marxista, ciò che ne fa un metodo scientifico e non speculativo, nella discriminazione tra i rapporti di produzione e i fenomeni sovrastrutturali. In questo consiste, d’altronde, per il marxista il criterio della oggettività nei riguardi dei fenomeni storico-sociali. Certo, non vi è dubbio che, per tutta una serie di motivi in parte già accennati e in parte da approfondire in una sede specifica, in Gramsci vi sia una prevalenza dell’istanza umanistica rispetto alla componente naturalistica del marxismo. 27
Del resto, va detto che Gramsci non ebbe occasione di affrontare correnti di pensiero come quelle prese in esame da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo e vi sono problemi filosofici del marxismo-leninismo che, per forza di cose e circostanze, rimasero fuori della sua elaborazione. Sennonché, a parte tutti gli altri problemi teorici del marxismo e del leninismo (come quelli del potere, dell’egemonia, della classe e del partito ecc.), su cui il pensiero di Gramsci ha gettato tanta luce, a parte la sua ‘problematica’ circa la storia e la cultura italiana, ciò che sfuggiva alla critica di Cases era quel che maggiormente contava nella eredità intellettuale di Gramsci, ossia l’impostazione metodica fondamentale, consistente nel suo legame con i classici e nella ferma e chiara avversione, che criticamente lo animava, nei confronti di ogni mistificazione metafisica e speculativa del marxismo. Laddove ciò non nasce ‘ex nihilo’, o solo dalla psicologia e dal carattere, ma è connesso inscindibilmente all’attività ed esperienza di Gramsci come dirigente rivoluzionario, come uomo che aveva scelto di stare dalla parte della classe operaia, come uomo di partito. Ciò che, in altri termini, sfuggiva alla comprensione di Cases era un aspetto (o, se si preferisce, un elemento) essenzialmente filosofico, e cioè che il problema della oggettività nel marxismo, correttamente inteso, non può esser posto indipendentemente dal problema della soggettività.
In tal senso, si trattava – e ancor oggi si tratta – di capire che è impossibile elaborare il lato meramente oggettivo (di tutto ciò che l’attività umana cosciente, pratica e intellettuale, presuppone per essere essa stessa reale) senza parallelamente elaborare, anche nelle sue implicazioni gnoseologiche, la ‘tätige Seite’, l’attività soggettiva pratica dell’uomo, che non è più, come nell’idealismo, una proiezione fantastica dell’individuo (in un ‘Io puro’ o nello ‘Spirito’), bensì intelligenza della sua realtà come essere sociale. Di qui l’irriducibilità del marxismo a oggettivismo comunque travestito, di qui la battaglia di Lenin contro l’oggettivismo nelle scienze della storia e della società, di qui anche la gramsciana accentuazione della ‘tätige Seite’, che Cases combatteva, e la inseparabilità del materialismo dialettico dal materialismo storico (così come del materialismo storico dal materialismo dialettico). In conclusione, non si poteva negare che esistessero dei limiti in Gramsci, e sarebbe stato vano ignorarli di fronte alla sua grandezza, ma essi andavano individuati in una direzione diversa da quella lungo la quale Cases riteneva di doverli situare. 28
7. Elogio della “chiusura” ideologica parziale
Il merito principale del neopositivismo fu quello di aver inaugurato nel nostro paese, più che un nuovo indirizzo filosofico, un modo di pensare e di atteggiarsi (utile ed istruttivo anche per un marxista) rispetto ai problemi e alle esigenze di una società in fase di trasformazione strutturale, che nel complesso rappresentò il tentativo più serio di elaborare un programma di politica culturale capace di assecondare e di guidare, sia pure illuministicamente, quei processi di trasformazione. In questo senso, esso produsse i suoi frutti migliori nel campo della logica, della epistemologia, della linguistica, dei problemi etici e pedagogici (secondo l’ideale di una formazione laica, antiromantica, legata al senso vivo e concreto delle cose) e nell’ambito della storia del pensiero filosofico, così faziosamente amputata di voci non congeniali al suo indirizzo dalla imperante storiografia idealistica.
Ma è soprattutto nella chiara enunciazione delle tesi più caratteristiche della ‘riforma’ neopositivistica, così come venne esemplificata da Norberto Bobbio che ne fu uno dei propugnatori più decisi ed attivi, che diviene possibile cogliere gli elementi di novità culturale e nel contempo i limiti che fanno dell’esperienza del neopositivismo italiano il più organico tentativo di costruire l’ideologia del ‘blocco storico’ neocapitalistico al più alto livello di elaborazione allora praticabile in Italia e sul terreno di una preparazione del periodo che si può definire come il periodo del centro-sinistra e di un programma di riforme ‘razionalizzatrici’: «Meno metafisica e più scienza, meno teorie generali dell’universo e più analisi particolari di questo o quel programma concreto; meno discorsi sull’essere e più studi di storia, di economia, di sociologia e di politica; meno evocazioni dello spirito universale e più ricerche sui fatti bruti cui lo stesso spirito è incatenato; meno moralismo e più tecnicismo; meno eloquenza e più rigore linguistico; meno astruserie inaccessibili ai profani e più senso comune; meno intuizione dell’inverificabile e più intelligenza delle cose afferrabili da un sapere organizzato e sottoposto a severi controlli. Maggiore secchezza a costo di sembrare aridi. Astinenza dalle grandi sintesi a costo di passare per gente che non sa guardare al di là del proprio naso. Soprattutto non più filosofia come concezione del mondo ma filosofia come metodologia». 29
Lo stesso Cases, che si rendeva pienamente conto dell’insufficienza di una critica ideologica e di una liquidazione troppo politicizzata del neopositivismo che ne risolvesse il contenuto reale e gli elementi di verità nel metterne in luce la “genesi sociale” e la funzione oppiacea di “filosofia dei Babbitt”, 30 avvertiva la necessità, che si veniva facendo sempre più ineludibile, di ridefinire la scientificità del marxismo. Quest’ultima – scriveva nel suo ‘pamphlet’ - «non può essere oggetto di rassicurazione tautologica ma di discussione razionale». 31 A tale proposito, Cases, riferendosi sarcasticamente alle tendenze ‘concordistiche’ di certo marxismo e a quella che, a forza di essere ripetuta, era diventata la bolsa retorica ‘antidogmatica’ delle ‘aperture’, concludeva la sua polemica con un elogio della “chiusura” ideologica parziale: «Ma la vita dello spirito non può essere fatta soltanto di aperture: essa è un susseguirsi di aperture e di chiusure parziali, spontanee e necessarie, così come l’atto di respirare, in cui – diceva Goethe – è contenuta una duplice grazia: introdurre l’aria e liberarsene». 32 Una osservazione che è da considerare una regola d’oro per fondare su solide basi un fecondo rapporto critico tra il marxismo e la filosofia contemporanea (ivi compresa quella che, in modo esplicito ma più spesso implicito, è presente nelle scienze contemporanee).