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sinistra

Il “paradosso di Lenin”, la politica-struttura e l’effetto di sdoppiamento

di Roberto Sidoli

Di seguito la relazione di Roberto Sidoli all'assemblea del Centro Culturale Concetto Marchesi, tenuta il 14 settebre 2019

140 008 1Voglio focalizzare l’attenzione sul collegamento esistente tra lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento e il “paradosso di Lenin”, avente per oggetto il rapporto generale tra la sfera politica e quella economica, oltre che sullo sdoppiamento della stessa sfera politica in politica-sovrastruttura e politica-struttura, ossia politica intesa come espressione concentrata dell’economia.

Secondo la tesi dello sdoppiamento, dopo il 9000 a.C. e con l’inizio della rivoluzione tecnologica neolitica, non solo il genere umano è entrato nell’era del surplus, costante e accumulabile, ma altresì si è creato e consolidato un campo di potenzialità alternative, di matrice produttiva e politico-sociale, determinando quindi la simultanea genesi e cristallizzazione plurimillenaria – fino ad arrivare ai nostri giorni e all’inizio del terzo millennio – sia di una “linea rossa” collettivistica, gilanica e cooperativa (a partire dalla protocittà egualitaria di Gerico, 8500 a.C.) che invece di una variegata e alternativa “linea nera” di matrice classista, militarista e patriarcale, come nel lontano caso di quei predoni Kurgan che, con le loro sanguinose invasioni, infestarono l’Eurasia dal 4000 a.C. e per molti secoli.

Giorgio Galli recentemente si è chiesto: “la teoria dello sdoppiamento è compatibile con la teoria marxista? A me pare di si”.

Il celebre studioso milanese ha ragione e coglie nel segno.

La teoria dell’effetto di sdoppiamento risulta infatti compatibile con la concezione marxista anche perché costituisce uno sviluppo creativo di quest’ultimo, sviluppo basato su una miriade di fatti concreti che purtroppo in gran parte non risultavano a disposizione del geniale Karl Marx, morto nel lontano 1883: un Karl Marx che, per fare un solo esempio, non aveva (senza colpa alcuna) neanche il minimo sentore della fase di riproduzione plurimillenaria della “rossa” e collettivistica protocittà di Gerico, a partire dall’8500 a.C. e quindi dieci millenni or sono.

La teoria dell’effetto di sdoppiamento concorda senza alcun problema con il marxismo per così dire ortodosso rispetto all’esistenza plurimillenaria di una “Fase uno” (2.300.000-10.000 a.C.), durante il processo di sviluppo del genere umano: tappa storica contraddistinta sia dal comunismo primitivo che dall’impossibilità materiale per qualunque forma di sfruttamento della forza-lavoro, visto che l’allora molto basso livello di sviluppo delle forze produttive non consentiva che si producesse alcun surplus e pluspro-dotto, costante e accumulabile, a vantaggio di ipotetici sfruttatori del paleolitico.

Lo schema dell’effetto di sdoppiamento risulta altresì perfettamente in sintonia con il marxismo per così dire tradizionale anche riguardo alla previsione per cui, in assenza di una guerra nucleare su scala mondiale (ossia la forma ipermoderna di “comune rovina delle classi in lotta”; proposta in modo geniale da Marx ed Engels fin dal 1848), il processo di trasformazione del genere umano vedrà una “Fase tre” contraddistinta dal generoso comunismo sviluppato della gratuità e dell’abbondanza, mediante la regola gioiosa e fraterna del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Visto lo sviluppo esponenziale della robotica e dell’Intelligenza Artificiale, per limitarsi a soli due elementi della stupefacente rivoluzione tecnoscientifica in corso, entro un secolo al massimo (al massimo, non al minimo…) scompariranno come minimo gran parte delle attività lavorative umane ripetitive, sia di natura mentale che manuale, rendendo pertanto non solo desiderabile ma altresì possibile, guerre nucleari permettendo, il comunismo sviluppato e quel magnifico “diritto all’ozio” delineato da Paul Lafargue più di un secolo fa; rendendo perfettamente praticabile, sul piano materiale, e l’eliminazione della legge del valore e la scarsità relativa di beni di consumo, oltre ad anticaglie storiche quali gli stessi apparati statali, creando pertanto le condizioni indispensabili all’inizio della “vera storia” (Marx) della nostra specie e di un nuovo eone denso di potenzialità prometeiche, di contraddizioni inebrianti e di avventure su dimensioni difficili anche solo da immaginare, all’inizio del terzo millennio.

E per quanto riguarda invece l’intermedia “Fase due” dell’umanità, sorta a partire dalla rivoluzione produttiva del neolitico e attualmente in divenire tumultuoso?

Tutta una serie di fatti testardi e di elementi concreti, in gran parte sconosciuti a Marx perché scoperti oppure avvenuti dopo il marzo 1883, dimostrano che è venuta alla luce a partire dal 9000 a.C. una singolarità storica, tuttora in corso.

Un big-bang storico, per dirla in altri termini, tuttora in via di sviluppo.

L’apertura di un ampio spettro di potenzialità alternative; una sorta di esplosione quantistica all’interno della concreta praxis sociale della nostra specie, con un orizzonte intriso di diverse potenzialità socioproduttive e politico-sociali, sia positive che negative.

Le diverse tendenze e polarità sociali ed economiche, cooperative o classiste, si rivelarono nella pratica collettiva umana fin dall’8500 a.C. con la sopracitata Gerico, a sua volta splendido frutto maturato attraverso il formidabile salto di qualità tecnologico del neolitico, durante il quale emersero sia civiltà classiste-elitarie sia culture e protocittà collettivistiche.

Per fornire alcuni esempi concreti della teoria dello sdoppiamento, a partire dal 9000 a.C., si può subito notare che durante il neolitico-calcolitico le millenarie civiltà collettivistiche degli Ubaid, nell’odierno Iraq, e di Vinca nei Balcani si scontrarono con i feroci predoni kurgan prima, e indoeuropei in seguito.

Abbiamo inoltre la “città del sole” di Aristonico e quella in seguito guidata dallo schiavo Euno, in Sicilia, contrapposte all’impero schiavistico romano.

Le comuni rurali, sorte in tutto il mondo e con forti tendenze collettivistiche, furono sia unite che soggiogate dal feudalesimo e dal modo di produzione asiatico, a cui fornivano il surplus produttivo per le élites laiche o religiose.

Passando all’epoca contemporanea e in presenza di casi concreti con uno sviluppo qualitativo simile delle forze produttive, pensiamo alla Russia bolscevica, contrapposta alla Russia “bianca” e borghese del 1917-20.

Unione Sovietica contro Stati Uniti, dal 1945 al 1990: sdoppiamento planetario tra capitalismo e socialismo.

Corea del Nord contro Corea del Sud, dal 1945 ad oggi.

Cuba socialista e la vergognosa base USA di Guantanamo, sempre sul suolo cubano.

Il Venezuela di Maduro contro il corrotto Venezuela di Guaidò, eterodiretto dall’imperialismo americano.

Gli esempi in questo senso potrebbero essere moltiplicati facilmente, a partire dalla NEP leninista del 1921-28 e dai suoi eredi odierni e dell’inizio del terzo millennio, in importantissime aree del mondo quali la Cina.

Ma a cosa serve concretamente la tesi dell’effetto di sdoppiamento, con la sua analisi dell’epoca “sdoppiata” del surplus dal 9000 a.C. fino ai nostri giorni?

Se tale schema generale corrisponde approssimativamente alla verità, e cioè al processo dinamico e contraddittorio di sviluppo del genere umano dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri giorni, esso svolgerebbe un ruolo positivo intrinseco innanzitutto perché, come aveva rilevato Lenin, “la verità è sempre rivoluzionaria”.

Per trasformare la realtà, infatti, bisogna ben comprenderla e ben interpretarla. E a tale scopo serve costantemente una diretta pratica politico-sociale, individuale e collettiva, ma anche e simultaneamente un processo di analisi della pratica collettiva presente e passata, con un ininterrotto processo di esame critico e autocritico del passato recente e meno recente, delle sue diverse tendenze e controtendenze, della dialettica storica creatasi all’interno delle multiformi formazioni economico-sociali sviluppatesi negli ultimi millenni.

La celebre e geniale undicesima tesi su Feuerbach, elaborata nel 1845 da Marx, afferma infatti correttamente che «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi: si tratta però di trasformarlo»; ma essa non implica in alcun caso che bisogna smettere di conoscere e interpretare il processo di sviluppo del mondo e che tale forma di pratica umana sia inutile, se non addirittura dannosa.

Altrimenti non si riuscirebbe assolutamente a capire, se non chiamando in causa la categoria del masochismo, per quale ragione Marx avesse passato più di vent’anni al British Museum di Londra, al solo scopo di elaborare la critica dell’economia politica borghese; perché egli avesse scritto nel 1875 la splendida Critica al programma di Gotha, o per quale ragione in seguito egli si fosse affannato a scrivere e riscrivere più volte la lettera a Vera Zasulich nell’inverno del 1881, sempre al fine di “interpretare il mondo”.

In seconda battuta la teoria dell’effetto di sdoppiamento può svolgere una duplice funzione, ossia di legittimazione di alcune pratiche positive dei militanti anticapitalistici e di delegittimazione invece di altre modalità d’azione (e atteggiamenti mentali) negative, da essi sviluppate di frequente nel corso degli ultimi due secoli.

Lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento aiuta infatti a stimolare e sostenere:

  • le pratiche politiche (politico-sociali, politico-sindacali ecc.) degli attivisti anticapitalisti: far politica serve e diventa decisivo proprio perché la sfera politica è diventata l’anello centrale dell’attività umana dopo il 9000 a.C., con la genesi dell’era del surplus costante-accumulabile e del derivato effetto di sdoppiamento;

  • l’assunzione di una responsabilità diretta delle forze anticapitalistiche per il futuro del genere umano, visto che la nostra pratica politica collettiva contribuisce direttamente a indirizzarla in un senso o nell’altro, a sfruttare oppure non sfruttare le potenzialità socioproduttive offerte dall’effetto di sdoppiamento, a spostare “l’ago della bilancia storica” in un senso o nell’altro.

La migliore Rosa Luxemburg, quella del 1914-17, ha evidenziato il ruolo decisivo svolto dalla pratica politico-sociale nell’indirizzare il destino del genere umano notando, durante il primo macello interimperialistico che, «noi» (noi esseri umani e movimento anticapitalistico del tempo) «ci troviamo oggi, proprio come F. Engels aveva presagito una generazione addietro, quarant’anni fa, davanti alla scelta: o trionfo dell’imperialismo e crollo di tutta la civiltà come nell’antica Roma, spopolamento, distruzione, degenerazione, un grande cimitero, oppure vittoria del socialismo, cioè dell’azione cosciente di lotta del proletariato internazionale contro l’imperialismo ed il suo metodo: la guerra. Questo è un dilemma della storia mondiale, un’alternativa, in cui i piatti della bilancia oscillano tremando davanti alla decisione del proletariato cosciente.

Il futuro della civiltà e dell’umanità dipende dal fatto che il proletariato sappia, con decisione virile, gettare la sua spada rivoluzionaria sulla bilancia… Tutta la desolazione e la vergogna» (in cui era caduta la socialdemocrazia tedesca, dopo il 4 agosto 1914 e la sua approvazione della guerra imperialistica) «possono essere controbilanciati soltanto se noi dalla guerra e nella guerra impariamo come il proletariato può redimersi dal ruolo di un servo nelle mani delle classi dominanti a quello di padrone del suo destino».

Parole valide non solo per il 1916-17, a mio avviso, sull’alternativa storica in oggetto, ma anche all'inizio del terzo millennio.

La teoria in esame serve altresì a legittimare anche la resistenza offerta costantemente, seppur con alterno successo, dal movimento anticapitalistico contro l’avversario di classe, a dispetto della sua apparente strapotenza e invincibilità: secondo la teoria in esame, niente è conquistato per sempre ma allo stesso tempo niente è perso per sempre sul piano politico-sociale, guerra atomica mondiale permettendo.

Infatti anche alcune colossali sconfitte storiche incontrate dal movimento operaio rivoluzionario, come quella subita nel 1914-16, a determinate condizioni lasciarono il campo a colossali vittorie di quest’ultimo (Russia, 1917-20); già B. Brecht, nella sua splendida poesia intitolata “Lode della dialettica”, notò che i “vinti di oggi sono i vincitori del domani e il mai diventa oggi!”.

Lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento serve invece a criticare e delegittimare:

  • l’economicismo, inteso come culto ingiustificato del livello di maturità delle forze produttive. Le condizioni oggettive per l’affermazione della “linea rossa”, ossia a favore di un processo di sviluppo di matrice collettivistica del genere umano, esistevano già nel 9000 a.C., anche se allora solo in alcune aree geopolitiche all’avanguardia nella grandiosa rivoluzione produttiva del neolitico, a partire dalla protocittà “rossa” ed egualitaria di Gerico;

  • il disinteresse per la lotta politica e per l’acquisizione rivoluzionaria del controllo degli apparati statali, con forme pacifiche oppure violente a seconda delle condizioni storiche concrete;

  • la fiducia nel determinismo storico, giustamente detestato da W. Benjamin e inteso soprattutto come “inevitabile vittoria delle forze del progresso”. Una volta smentita e falsificata da dure sconfitte (1989-91), tale credenza tra l’altro si trasforma inevitabilmente nella tacita acquiescenza di massa di fronte alla “presunta fine nella storia” (Fukuyama) e al trionfo dei soliti “ricchi e potenti”, facendo sì che “tra gli oppressi molti dicano ora: quel che vogliamo, non verrà mai” (B. Brecht, ancora “Lode della dialettica”).

Inoltre la teoria dell’effetto di sdoppiamento prevede, anche per il presente e per i nostri tempi, che una radicale trasformazione dei decisivi rapporti di forza politici (ivi compresi quelli politico-militari, il grado di consenso di massa rispetto alle strutture socioproduttive dominanti ecc.) comporti e determini simultaneamente e a cascata un radicale mutamento anche nei precedenti rapporti sociali di produzione e di distribuzione, sia nelle società capitalistiche che in quelle (almeno in parte) ancora oggi collettivistiche.

Un’anticipazione e una prognosi che proprio la dinamica politica futura e su scala planetaria potrà confermare o smentire, verificare o falsificare, a partire da quel particolare “laboratorio politico”, di portata mondiale, costituito dal Venezuela bolivariano di Chavez e Maduro.

Ma non solo: lo schema teorico dell’effetto di sdoppiamento può essere usato anche per fornire una solida base di riferimento al “paradosso di Lenin”.

In cosa consiste tale “paradosso di Lenin”? La politica al posto di comando, in estrema sintesi.

Se si analizzano infatti le relazioni collettive riprodottesi negli ultimi seimila anni, proprio lo sviluppo (fondamentale solo in ultima istanza) dalle forze produttive sociali non ha fatto altro che consolidare il primato del “politico”, ossia il ruolo decisivo della sfera politica e degli apparati statali per la stessa riproduzione dei rapporti sociali di produzione, classisti o collettivistici, e per i risultati delle dinamiche socioproduttive.

Se si esamina il complesso multiforme di relazioni formatesi negli ultimi sei millenni tra sfera politica e interessi economici di classe, tra sfera politica e lotte di classe economiche, tra sfera politica e lotte materiali di frazioni e segmenti della stessa classe privilegiata, tra sfera politica e guerre-riarmo, tra sfera politica e tasse-moneta, tra sfera politica e la difesa-attacco alla proprietà privata (o pubblica), tra sfera politica e gli indirizzi generali della politica economica, via via affermatesi all’interno delle società classiste (o del socialismo deformato), emerge infatti un paradosso storico-teorico di grande rilevanza: e cioè che il “mezzo”, alias la sfera politica, ha assunto costantemente il primato e l’egemonia sul “fine”, ossia sulla sfera economica dei rapporti sociali di produzione e degli interessi materiali di classe.

Si tratta di un paradosso della scienza politica scoperto fin dal “Che fare?” del 1902: e a tal proposito si deve fare riferimento proprio al contributo teorico di Lenin che, forte di una lunghissima esperienza politica e di governo dall’ottobre 1917, trovò nel gennaio 1921 la soluzione più creativa e veritiera a uno dei nodi centrali della scienza politica, superando una delle contraddizioni presenti nella praxis teorica secolare del marxismo.

Durante un’accesa discussione sviluppatasi all’interno del partito bolscevico sul ruolo generale e sulle funzioni dei sindacati in uno stato post-rivoluzionario, Lenin descrisse infatti la sfera politica come “espressione concentrata dell’economia”, che tra l’altro non può che avere il “primato” e la supremazia “sull’economia”, ossia sugli interessi economici via via espressi dalle diverse classi sociali.

Lenin sottolineò con chiarezza che «è strano che si debba di nuovo porre una questione così elementare. Purtroppo Trotzky e Bukharin mi costringono a farlo. Entrambi mi rimproverano di “sostituire” un problema ad un altro, oppure di impostarlo “politicamente” mentre essi lo impostano “economicamente”. Bukharin lo ha persino detto nelle sue tesi e ha cercato di “elevarsi al di sopra” delle due parti: io riunisco l’una e l’altra impostazione, egli dice. L’errore teorico è palese. La politica è l’espressione concentrata dell’economia, ho ripetuto nel mio discorso, perché mi ero già sentito rimproverare la mia impostazione “politica”, rimprovero assolutamente privo di senso e inammissibile in bocca ad un marxista. La politica non può non avere il primato sull’economia. Ragionare diversamente significa dimenticare l’abbiccì del marxismo.

La mia valutazione politica è forse errata? Ditelo e dimostratelo. Ma dire (o anche solo ammettere indirettamente l’idea) che l’impostazione politica è equivalente a quella “economica”, che si può prendere “l’una e l’altra”, significa dimenticare l’abbiccì del marxismo.

In altre parole, l’impostazione politica significa: se noi trattiamo i sindacati in modo errato, sarà la fine del potere sovietico, della dittatura del proletariato (Una scissione tra il partito e i sindacati, se il partito avesse torto, farebbe certamente crollare il potere sovietico in un paese contadino come la Russia). Si può (e si deve) verificare a fondo questa considerazione, cioè esaminare, approfondire, decidere se questa impostazione è giusta o no. Ma dire: io “apprezzo” la vostra impostazione politica, “ma” essa è soltanto politica, mentre a noi ne occorre “anche una economica”, è come dire: io “apprezzo” la vostra considerazione secondo la quale facendo un determinato passo vi romperete il collo, ma tenete anche conto che è meglio essere sazi e vestiti anziché affamati e nudi.

Bukharin, preconizzando l’unione del punto di vista politico e di quello economico, è teoricamente scivolato nell’eclettismo.

Trotzky e Bukharin presentano le cose in questo modo: vedete, noi ci preoccupiamo dello sviluppo della produzione, voi invece soltanto della democrazia formale. È falso, perché il problema si pone (e, da marxisti, si può porre) soltanto così: senza una giusta impostazione politica una determinata classe non può mantenere il suo dominio, e non può quindi neppure assolvere il suo compito nella produzione».

La sfera politica, la “politica non può non avere il primato sull’economia”, secondo Lenin.

A giudizio di Lenin la sfera politica, il potere decisionale-repressivo e l’azione degli apparati statali costituiscono infatti almeno in parte l’espressione concentrata dell’economia, dei rapporti sociali di produzione e degli interessi materiali di classe, sia di carattere generale che corporativo, visto che a suo corretto avviso nelle società di classe (oppure collettivistiche e post-rivoluzionarie) si riproduce ininterrottamente un rapporto dialettico tra politica ed economia, creando una forma di simbiosi inscindibile tra questi due importanti segmenti della pratica umana, nel quale il politico assume costantemente un ruolo egemonico.

Anche se si esamina un passo del suo Che fare del 1902 si può concludere, senza forzature, che a giudizio di Lenin la sfera e le lotte politiche nella società di classe rappresentano un’espressione concentrata e di grado superiore rispetto alle lotte economiche, che si svolgono per determinati interessi materiali di classi in conflitto tra di loro, visto che in polemica con il menscevico B. Kricevski egli affermava: «A pag. 4, protestando contro le accuse di eresia economica, secondo lui assolutamente ingiustificate, l’autore esclama pateticamente: “Quale socialdemocratico ignora che, secondo la dottrina di Marx ed Engels, gli interessi economici delle diverse classi hanno una funzione decisiva nella storia e che, per conseguenza, in particolare la lotta del proletariato per i suoi interessi economici deve avere somma importanza per il suo sviluppo di classe e la sua lotta liberatrice”. Questo “per conseguenza” è assolutamente fuori posto. Dal fatto che gli interessi economici esercitano una funzione decisiva non conseguente affatto che lotta economica (professionale) sia di sommo interesse, perché gli interessi essenziali, “decisivi”, delle classi possono essere soddisfatti soltanto con trasformazioni politiche radicali in generale, e particolarmente, l’interesse economico fondamentale del proletariato può essere soddisfatto soltanto con una rivoluzione politica che sostituisca alla dittatura della borghesia la dittatura del proletariato. B. Kricevski ripete il ragionamento dei “V. V. della socialdemocrazia russa” (la politica segue l’economia ecc.) e dei bersteniani della socialdemocrazia tedesca (con un ragionamento analogo, Woltmann, per esempio, dimostrava che gli operai devono incominciare ad acquistare la “forza economica” prima di pensare alla rivoluzione politica)».

Concetti chiari, quelli esposti già nel 1902 da Lenin: “gli interessi essenziali, decisivi delle classi possono essere soddisfatti solo con trasformazioni politiche radicali”.

Non solo: essendo ben conosciuto l’apprezzamento espresso giustamente da Lenin per la nota definizione di Clausewitz, che descrisse sinteticamente la guerra come “prosecuzione della politica con altri mezzi”, si può concludere come anche a giudizio del grande rivoluzionario russo la politica costituisse l’espressione concentrata delle lotte internazionali, aperte o latenti, violente o “pacifiche” (commerciali, diplomatiche, finanziarie) via via sviluppatesi tra le diverse formazioni statali, classiste o del socialismo deformato, che si sono presentate sull’arena storica mondiale negli ultimi sei millenni, a partire dal primo stato teocratico sumero fino all’inizio del terzo millennio e alla politica interstatale dei nostri giorni.

Non solo: la teorizzazione “eretica” prodotta da Lenin sul rapporto fra sfera politica ed economica prese lo spunto proprio da un acceso scontro politico interno che divise nel 1920-21 il partito bolscevico, mandatario politico di larghi settori di una sola classe sociale, la classe operaia urbana e rurale. E proprio lo stesso sviluppo di un’importante discussione politica sul ruolo dei sindacati all’interno dei bolscevichi, ossia della frazione maggioritaria e relativamente “disciplinata” di una particolare classe, a sua volta relativamente omogenea dal punto di vista produttivo-sociale, prova immediatamente e attesta con particolare evidenza come la politica costituisca altresì anche l’espressione concentrata delle lotte e degli scontri tra le diverse opzioni e scelte di priorità politiche che si manifestino nel seno di una medesima classe sociale e/o forza politica su determinate tematiche economiche, sociali e di politica internazionale, di rilevanza generale per la gestione degli affari comuni di una formazione statale per l’acquisizione e conquista del controllo del potere decisionale/repressivo.

Si può pertanto concludere che, a giudizio di Vladimir Ilic Ulianov, la politica costituisce l’espressione concentrata dell’economia e dei rapporti sociali di produzione, delle lotte economico-materiali di classe e dei conflitti tra formazioni statali, oltre che dello scontro tra opzioni alternative in campo socio-economico (o di altra natura) sostenute da segmenti politico-sociali di classi sociali diverse, o della stessa classe; la politica in pratica diventa il “riassunto degli antagonismi” delle società di classe, come notò Marx nel lontano 1847.

Nel luglio del 1917 e in un suo importante discorso come relatore ufficiale al sesto congresso del partito bolscevico, poco prima dell’Ottobre Rosso, Stalin dichiarò con chiarezza e lucidità che “esiste un marxismo creativo e un marxismo dogmatico”, e che lui stava dalla parte del primo.

Anch’io la penso come Stalin.

E penso che sia ormai tempo che si torni a sviluppare un marxismo creativo e antidogmatico, partendo ad esempio da fatti testardi e concreti come la rossa citta collettivistica di Gerico, nell’8500 a.C.; come la civiltà collettivistica degli Ubaid; come le comuni rurali, gli Ayllu andini, l’obscina e il mir russo ecc.; come il processo di riproduzione pluridecennale dell’URSS, o di Cuba socialista e via elencando, a partire dal glorioso Ottobre Rosso del 1917.

Per affrontare in anticipo possibili accuse di politicismo, leggiamoci assieme un passo di uno splendido scritto di Lenin avente per oggetto niente di meno che la stessa valutazione della rivoluzione bolscevica.

Si tratta dell’articolo “Sulla nostra rivoluzione”, elaborato dal geniale Lenin nel gennaio del 1923 in polemica con il menscevico e “marxista” (marxista-economicista) N. Suchanov e, simultaneamente, in difesa della praxis politico-sociale che i comunisti adottarono nel 1917-23, demolendo le teorie economiciste e “marxiste” sull’immaturità oggettiva della Russia per il socialismo.

Lenin sottolineò infatti che “Per esempio, è infinitamente banale il loro argomento, studiato a memoria durante lo sviluppo della socialdemocrazia dell'Europa occidentale, secondo il quale noi non saremmo ancora maturi per il socialismo e secondo il quale da noi non esisterebbero, come dicono diversi signori "scienziati" che militano nelle loro fila, le premesse economiche obiettive per il socialismo. E non viene in mente a nessuno di domandarsi: ma un popolo che era davanti a una situazione rivoluzionaria, quale si era creata nella prima guerra imperialista, sotto l'imminenza di questa situazione senza via di uscita, non poteva forse gettarsi in una lotta che gli apriva almeno qualche speranza di conquistarsi condizioni non del tutto ordinarie per un ulteriore progresso della civiltà?

La Russia non ha raggiunto il livello di sviluppo delle forze produttive sulla base del quale è possibile il socialismo. Tutti gli eroi della II Internazionale, compreso naturalmente Suchanov, presentano questa tesi come oro colato. Questa tesi indiscutibile, la rimasticano continuamente e la considerano come decisiva per l'apprezzamento della nostra rivoluzione.

Ma che cosa fare se l'originalità della situazione ha innanzi tutto condotto la Russia nella guerra imperialista mondiale, nella quale erano coinvolti tutti i paesi dell'Europa occidentale che avevano una qualche influenza, ha creato per il suo sviluppo - nei confini della rivoluzione iniziantesi e in parte già iniziata in oriente - condizioni in cui noi potevamo attuare precisamente quella unione della "guerra dei contadini" con il movimento operaio, di cui parlava, come di una prospettiva possibile, un "marxista" come Marx, nei 1856, a proposito della Prussia?

Se per creare il socialismo occorre un certo grado di cultura (quantunque nessuno possa dire quale sia di preciso questo certo "grado di cultura", dato che esso è diverso in ogni Stato dell'Europa occidentale), perché non dovremmo allora cominciare con la conquista, per via rivoluzionaria, delle premesse necessarie per questo certo grado, in modo da potere in seguito - sulla base del potere operaio e contadino e del regime sovietico - metterci in marcia per raggiungere gli altri popoli?

Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà. Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare innanzi tutto quelle premesse della civiltà che sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei capitalisti russi per poi cominciare la marcia verso li socialismo? In quali libri avete letto che simili modificazioni di forma nello svolgimento storico ordinario sono inammissibili o impossibili?

Napoleone, se ben ricordo, scrisse "On s'engage et puis... on voit". Liberamente tradotto, ciò significa: "Prima bisogna impegnarsi in un combattimento serio e poi si vedrà". Ed ecco che anche noi, nell'ottobre 1917, ci siamo impegnati dapprima in un combattimento serio e soltanto dopo abbiamo visto taluni particolari dello sviluppo (dal punto di vista della storia mondiale, questi sono indubbiamente dei particolari), come la pace di Brest, o la Nuova politica economica, ecc. E oggi non v'è più alcun dubbio che, in linea generale, noi abbiamo ottenuto la vittoria”.

Un Lenin geniale, anche nella sua polemica contro l’economicismo “ortodosso” e pseudomarxista della socialdemocrazia e di Suchanov, costruendo e cristallizzando una categoria politica molto creativa, quale la centralità della sfera politica e del controllo degli apparati statali anche nel creare le sopracitate “premesse della civiltà” mediante la “via rivoluzionaria”, nel generare quel “certo grado di cultura” mediante la “via rivoluzionaria”.

Siamo in presenza di un particolare processo politico-sociale, allo stesso tempo efficace e antidogmatico, che venne riprodotto in seguito su scala planetaria, seppur con alcune significative varianti, nella Corea del Nord del 1945 come nella Cina del 1925-49, a Cuba nel 1957-59, in Angola e Mozambico dal 1957 al 1975; stiamo dunque analizzando una particolare dialettica rivoluzionaria di portata mondiale, nella quale non certo gli stati più avanzati sul piano economico e tecnologico, ma invece proprio quelli arretrati rispetto al livello di sviluppo produttivo passarono all’avanguardia e acquisirono il primato nella lotta per il socialismo/comunismo, nel processo di sviluppo dei rapporti sociali di produzione e distribuzione del genere umano.

Va infine almeno esposta, seppur in maniera ipersintetica, un'altra novità teorica avente per oggetto lo sdoppiamento e la suddivisione tra politica-sovrastruttura e politica-struttura, ossia politica-espressione concentrata dell’economia. Uno sdoppiamento e una suddivisione che, almeno nei fatti e implicitamente, era già perfettamente chiara a Karl Marx almeno da quando egli scrisse il meraviglioso ventiquattresimo capitolo del primo libro del suo Capitale, dedicato all’accumulazione originaria del capitalismo: senza che purtroppo quasi mai i suoi eredi e i suoi successori sviluppassero, esplicitamente e sul piano dell’elaborazione teorica, tale particolare biforcazione per il non certo breve periodo di circa centocinquanta anni, dal 1867 fino ad arrivare ai nostri giorni.

Cosa rientra nella categoria di politica-sovrastruttura, nelle società di classe oppure socialiste?

In essa rientrano le teorie ideologie e utopie politico-sociali, in primo luogo.

In seconda battuta, le lotte per l’acquisizione o per il mantenimento del potere e del controllo degli apparati statali.

In terzo luogo, l’aspetto strettamente diplomatico e/o militare dei rapporti internazionali, tra stati o blocchi di stati più o meno consolidati (Unione Europea, ecc.).

E ancora, le lotte costituzionali e quelle riguardanti la modifica/conservazione delle modalità di relazioni tra i diversi nuclei di potere e apparati statali (repubblica o monarchia? Brexit o non Brexit? E così via.).

L’elenco può essere facilmente allungato, ma passiamo ora invece all’analisi delle coordinate della politica-struttura, ossia del secondo lato e aspetto generale del “continente politica”: ovviamente tale settore della sfera politica, sia delle società classiste che di quelle socialiste, più o meno deformate, riguarda l’azione e la pressione esercitata dai governi e apparati sui rapporti sociali di produzione e distribuzione, a partire dalla difesa o attacco alla proprietà privata e/o pubblica.

Per quanto riguarda le formazioni economico-sociali capitalistiche, molti degli anelli più importanti della politica-struttura e della politica-espressione concentrata dell’economia erano stati esposti da Marx nel sopracitato ventiquattresimo capitolo del primo volume del Capitale, pubblicato nel lontano 1867.

Politica-struttura intesa infatti da Marx come periodici interventi dei poteri pubblici, del governo e degli apparati statali sulla proprietà pubblica, con l’espropriazione dei produttori autonomi rurali e dei piccoli contadini inglesi dal 1500 al 1815. Si può benissimo utilizzare tale snodo teorico e soprattutto materiale anche per il processo d’indagine all’inizio del terzo millennio, seppur con una serie di modifiche rispetto al 1867, riguardo ai processi contemporanei di privatizzazione delle risorse, ricchezze e proprietà pubbliche.

Politica-struttura intesa altresì come creazione e riproduzione del debito pubblico, strumento molto efficace fin dal Quattrocento per la borghesia. Si può benissimo utilizzare anche tale snodo teorico, e soprattutto materiale, per il processo d’indagine sui nostri giorni, seppur come una serie di modifiche rispetto al 1867…

Politica-struttura intesa come politica doganale e relazioni commerciali con l’estero di ciascun stato. Si può benissimo utilizzare anche tale snodo teorico materiale, per l'esame della situazione creata all'inizio del terzo millennio su scala mondiale ed europeo.

Politica-struttura intesa anche come tasse e fisco, “esazioni fiscali” secondo la terminologia marxiana utilizzato nel ventiquattresimo capitolo del Capitale.

Politica-struttura come politica monetaria, tassi d’interesse, ecc.: politica, certo, ma politica economica.

Politica-struttura intesa come il lato strettamente economico e finanziario delle dinamiche internazionali e delle relazioni tra stati, ivi comprese quelle “guerre commerciali” descritte da Marx anche nel suo ventiquattresimo capitolo del primo libro del Capitale.

Politica-struttura che si concretizza anche nel macrosettore delle infrastrutture (porti, ferrovie, autostrade, sistemi satellitari, ecc.) e in un campo variegato ove, nelle società capitalistiche, è particolarmente forte la simbiosi tra poteri politici e profitti privati (si pensi solo alle vicende della TAV italo-francese e delle autostrade italiane).

Politica-struttura da intendersi anche come appalti pubblici indirizzati verso il settore civile e militare, nel secondo caso creando la principale base materiale per il processo di riproduzione di quel “complesso militar-industriale” descritto da Eisenhower nel gennaio del 1961, nel suo discorso di addio da presidente statunitense.

L’elenco dei tasselli multiformi delle pratiche e oggettivazioni sociali da me comprese, incluse e sintetizzate sotto la categoria teorica di politica-struttura (e politica-espressione concentrata dell’economia) può essere facilmente ampliata e allargata: ma esiste qualche analista, studioso, quadro politico e militante marxista che voglia iniziare ad elaborare teoria sullo sdoppiamento tra politica-struttura e politica-sovrastruttura?

Oppure sulle interconnessioni sussistenti tra i due segmenti in oggetto, a partire dalla carsica trasformazione della politica-sovrastruttura in politica-espressione concentrata dell’economia, e viceversa.

Bisognerà riesaminare con molta attenzione, in ogni caso, lo splendido concetto elaborato da Marx – e sempre contenuto nel sopracitato capitolo ventiquattresimo – secondo il quale la “violenza” dello stato, la violenza del potere dello stato risulta essere “essa stessa una potenza economica”.

Dunque violenza statale come “potenza economica”.

Dunque azione dei poteri statali intesa come “potenza economica”.

In embrione, dunque, emersione della categoria di “politica-struttura” e di politica-espressione concentrata dell'economia fin dal primo libro del Capitale e fin dal 1867.

Comments

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Luca Benedini
Saturday, 30 November 2019 16:56
Caro sig. Roberto,
suppongo che la tua risposta, iniziata il 28 ottobre col commento n. 12, sia finita il 16 novembre col commento n. 20, visto che da allora hai smesso di postare quella serie di commenti l'uno sèguito dell'altro. A parte il fatto che hai mostrato un grande accumulo enciclopedico di informazioni storiche sul mondo antico, in tre settimane non hai espresso una sola parola sulle tre domande cruciali che ti ho posto e che riguardavano tutte gli ultimi due secoli. Credo che la questione a questo punto sia chiarissima... Auguri! L.
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Roberto Sidoli
Saturday, 16 November 2019 20:33
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
Anche in Egitto il periodo badariano e amraziano (5500-4000 a.C.) e la prima fase del Gerzeano/Nagada II (3900-3500 a.C.) furono contraddistinti dalla riproduzione di ben articolate strutture economico-sociali collettivistiche, in presenza e grazie alle quali si avviarono e svilupparono l’agricoltura e l’irrigazione artificiale, l’estrazione e lavorazione su larga scala della selce, la lavorazione artigianale dell’oro e l’arte ceramica.
Nell’Africa subsahariana, accanto e simultaneamente ai regni classisti via via comparsi in tale area a partire dal 300 d.C., si crearono alcune civiltà evolute prevalentemente collettivistiche, pacifiche e relativamente avanzate sul piano tecnologico-produttivo: la più progredita tra esse fu quella di Jenne-Jeno, che si sviluppò per più di un millennio tra il 500 a.C. ed il 1100 d.C. nella regione del Niger (Africa occidentale), in una fase di transizione dall’epoca neolitica a quella del ferro.
In questa area geoeconomica «un caso piuttosto singolare è rappresentato da alcune società, vissute intorno al delta interno del Niger, che, pur essendo straordinariamente complesse sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della concentrazione abitativa, non avevano né una struttura statale, né forme di potere centralizzato, i cui resti archeologici sono stati studiati per la prima volta negli anni settanta.
Le prime popolazioni a noi note dovettero insediarsi in queste regioni a partire dal 500 a.C. Esse conoscevano l’uso del ferro e dovettero costruire quel sistema integrato di agricoltura, pastorizia e pesca, che poi è sempre rimasto caratteristico di questa regione. Anche le attività artigianali erano progredite: la ceramica era raffinata, per gli insediamenti si usavano mattoni crudi, mentre esistevano elaborate tecniche di lavorazione del ferro e di altri metalli preziosi. (…) Il periodo più florido di queste società dovette verificarsi intorno all’800 d.C.: tre secoli dopo il sistema collassò rapidamente e la popolazione si ridusse a un decimo, non sappiamo se in relazione a cambiamenti climatici o a eventi esterni. In una località del delta, Jenne-Jeno, i resti archeologici hanno dimostrato l’esistenza di un agglomerato abitativo di circa 33 ettari. Le case, costruite in mattoni di argilla, erano poste una accanto all’altra, all’interno di un reticolo di strade piuttosto strette, con un mercato al centro, mentre l’intera area era racchiusa da un grosso muro di mattoni cilindrici. Jenne-Jeno non era isolata, ma circondata da altre 25 località dello stesso tipo, con una popolazione che è stata valutata intorno ai 27.000 abitanti. Gli archeologi che hanno studiato questi siti hanno ipotizzato una forte specializzazione economica della regione, con popolazioni diverse che si occupavano della pesca, dell’agricoltura e dell’allevamento. I modelli abitativi avrebbero rispecchiato questa differenziazione di compiti: pescatori, agricoltori, pastori, fabbri, vasai, tessitori avrebbero occupato siti distinti. Nel complesso, l’intero sistema, fondandosi sullo scambio, avrebbe funzionato come una città, ma in assenza di un’autorità centralizzata; questo è il motivo per cui si è parlato di “città senza cittadelle”.
Non abbiamo dati sufficienti per approfondire la natura di questo grande agglomerato di popolazione, con un’organizzazione sociale probabilmente molto più egualitaria che nelle società centralizzate. Certamente la presenza di Jenne-Jeno e di altri siti analoghi è la testimonianza della coesistenza in una regione geografica di sistemi sociali diversi e del fatto che non necessariamente le compagini statali sono in grado di inglobare in sé tutte le realtà circostanti.»
9sgck
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Roberto Sidoli
Thursday, 14 November 2019 10:20
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
Secondo alcuni storici, risulta chiara anche la matrice semicollettivistica dei rapporti di produzione e politici che contraddistinsero l’estesa rete di antiche civiltà sorte nelle pianure alluvionali dell’Indo e dei suoi cinque principali affluenti, nell’odierno Punjab, alias la cultura di Harappa e Mohenio-daro, dal nome delle due principali città dell’India neolitica che si riprodussero tra il 3500 ed il 1900 a.C., anche se va notato che fin dal 7000 a.C. si sviluppò nell’area in oggetto la città di Mehrgath (ora sommersa) nel golfo di Cambaye, sede di una sofisticata comunità di agricoltori le cui abitazioni erano già fatte in mattoni.
La civiltà di Harappa era formata da una pleiade di estese città (ne sono state ritrovate circa ottanta) che coesistettero pacificamente per oltre un millennio su un’area geografica estesa quasi come l’Europa occidentale raggiungendo livelli “ubaidici” di sviluppo delle forze produttive, visto che l’agricoltura basata su un sistema idrico artificiale produceva surplus notevoli di cereali e favoriva la crescita di grandi città con decine di migliaia di persone quali la stessa Harappa, con un perimetro di quattro chilometri, vie ben progettate e un magnifico sistema di fognature; la tecnica delle civiltà indiane preariane e delle sue corporazioni inoltre conosceva la ruota e la scrittura, la costruzione di carri e battelli, la tessitura del cotone, la ceramica e la tecnica della verniciatura.
Sul piano sociale, in ogni caso, le poche tombe ritrovate ad Harappa si mostravano senza eccezione disadorne e prive di una dotazione di oggetti di valore, mentre secondo G. Childe «né templi monumentali né palazzi né tombe attestano senza equivoci una concentrazione centralizzata di ricchezza, né suggeriscono la dominazione economica di una città dell’Indo da parte di una “grande casa”: sempre ad Harappa il più grande edificio era significativamente un granaio che misurava 150 piedi per 50, mentre a Mohenjo-daro una costruzione che occupava un intero isolato conteneva una vasca da bagno asfaltata e viene considerata un bagno pubblico.
Comode case a due piani in cotto, provviste di stanze da bagno e di un alloggio per il portinaio, che coprivano ben 97 piedi per 83, possono venir messe in contrasto con monotone file di casette in mattoni di fango, composte ciascuna di due sole stanze e di un cortile, e che non superavano la superficie di 56 piedi per 30. Senza dubbio il contrasto riflette una divisione della società in classi, ma, a quanto pare, soltanto fra mercanti o “uomini d’affari”, e lavoratori o artigiani. Una sorprendente ricchezza di ornamenti d’oro, d’argento, pietre preziose e porcellana, di vasellame di rame battuto e di utensili e di armi di metallo, è stata raccolta dalle rovine. La maggior parte pare proviene dalle case attribuite ai “ricchi mercanti”. Ma una quantità di arnesi di rame e di braccialetti d’oro è venuta fuori a Harappa nei “quartieri degli operai”. Nulla fa pensare a tesori regi.»

Non è casuale che la civiltà semicollettivistica di Harappa sia stata caratterizzata a livello religioso dalla presenza di divinità femminili e dal culto della fertilità, generalmente segno distintivo delle società gilaniche, egualitarie e pacifiche, tanto che secondo lo storico C. K. Maisels la civiltà dravidica della valle dell’Indo era organizzata come una federazione, un “commonwealth” in cui le varie comunità locali avevano uno status identico e il surplus restava nelle mani di coloro che lo producevano: «l’élite al comando aveva autorità non in virtù del suo potere economico sugli altri cittadini, bensì in virtù del consenso sociale di cui godeva presso i membri della comunità.»

Si trattò di una civiltà complessa ma con un basso livello di stratificazione sociale, a cui dopo molto tempo succedette la cultura ariana, ferocemente militarista e classista ma incapace di replicare le opere di canalizzazione urbana (a disposizione di tutti gli abitanti) create in precedenza dalle antiche città egualitarie dell’area geopolitica indiana.
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Roberto Sidoli
Tuesday, 12 November 2019 10:21
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
Nell’area dell’Europa centro-orientale si svilupparono tra il 6000 ed il 3000 a.C. avanzate culture collettivistiche (della civiltà di Vinca) che si estesero dai Balcani fino al Baltico: esse crearono la prima forma storica di protoscrittura, coltivarono cereali, produssero splendide ceramiche e gioielli in oro ed arrivarono nell’ultima fase della loro esistenza ad impadronirsi della tecnica della metallurgia del rame: secondo l’opinione di M. Gimbutas, C. Renfrew e Gordon Childe, questa civiltà era composta da una serie di città e villaggi locali autonomi riprodottisi all’interno di una sorta di federazione neolitica con forti componenti paritarie tra i sessi, abitata da agricoltori egualitari le cui società non possedevano alcun ordine gerarchico stabile e rigido.
Sempre in Europa apparvero anche delle civiltà megalitiche matriarcali, diffusesi tra il 4000 ed il 1000 a.C. in un’area posta tra il Portogallo, la Sardegna, l’isola di Malta e la Gran Bretagna. Le grandi opere in pietra realizzate da queste civiltà richiesero sia la presenza di un surplus agricolo costante che un alto grado di coesione sociale tra le donne e gli uomini impegnati nella creazione di monoliti giganteschi e cerchi di pietra, sempre in assenza di strutture statali o di elevati livelli di differenziazione socioeconomica al loro interno: tali strutture socioproduttive, come quelle di Vinca soprammen-zionate, vennero in larga parte travolte e deformate dalle invasioni di popoli nomadi più arretrati sul piano economico-sociale.
Proprio la costruzione di megaliti, vere e proprie tombe collettive gigantesche, costituì un’attività cooperativa che serviva anche, se non soprattutto, a rafforzare la solidarietà interna delle comunità che via via realizzarono tali gigantesche opere: secondo Colin Renfrew, «è lecito immaginare che le comunità più strettamente collegate, in pace tra di loro e in grado di resistere alle pressioni dei vicini, si trovassero in una posizione di notevole vantaggio. Ora, è proprio la partecipazione comune a eventi sociali e cerimonie religiose, simboleggiate dai megaliti, che spesso serve a rafforzare una comunità, soprattutto quando essa è dispersa in fattorie che possono trovarsi a diversi chilometri l’una dall’altra. La popolazione mesolitica di Téviec e Hoëdic con le sue ben organizzate sepolture familiari, già segnate e rese evidenti da un tumulo di pietra, può aver riconosciuto il valore reale di tale solidarietà, allorché entrò in contatto con i nuovi vicini. In tali circostanze, con una popolazione in aumento e una crescente pressione sul territorio, si sarebbero dovuti rinforzare gli elementi che favorivano la solidarietà nella comunità, così che si sarebbe accresciuto il significato sociale dato alla sepoltura vera e propria e l’importanza del memoriale fisico. Questi fattori, uniti alla consueta competizione pacifica tra gruppi vicini, espressa in termini sociali da un generoso scambio di doni o dalla costruzione di monumenti sempre più belli, avrebbero favorito la rapida evoluzione di monumenti unificanti e apportatori di prestigio: in altri termini, dell’architettura megalitica»
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Roberto Sidoli
Sunday, 10 November 2019 11:26
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
A migliaia di chilometri di distanza, nel centro-nord dell’attuale Perù, si affermò tra il 900 a.C. ed il 200 d.C. la civiltà di Chavin. Essa coltivò il mais, il tubero della manioca, le arachidi e le zucche; scoprì ed applicò i metodi necessari per l’irrigazione artificiale e la costruzione di grandi serbatoi d’acqua; addomesticò il lama, conobbe la tessitura di lana e cotone e seppe lavorare l’oro ed il rame, mentre la sua produzione di ceramica monocromatica raggiunse livelli artistici molto elevati anche grazie a una forte ispirazione magica-religiosa, ben evidente nei templi della “capitale” della cultura in esame.
Con la sola esclusione degli edifici religiosi di Chavin de Huantar, nell’enorme area geografica in esame e nei numerosi piccoli centri urbani della cultura Chavin sono stati trovati solo modesti santuari fatti di mattoni d’argilla, costruiti da piccole comunità agricole: secondo lo storico F. Katz nella zona in oggetto non sono state scoperte tracce di mura ed armi, neanche nella “capitale”, mentre la relativa uniformità delle sepolture nella civiltà precolombiana in esame rivela il carattere almeno semicollettivistico della cultura Chavin. Nella visione dello storico H. D. Disselhoff, a Chavin «né il potere né la ricchezza erano concentrate nelle mani di pochi, che ne avrebbero potuto abusare. Ci si può immaginare, piuttosto, un benessere abbastanza equamente distribuito…»
Le culture dell’era post-Chavin vennero travolte dopo alcuni secoli da uno dei rappresentanti sudamericani della “linea nera”, i Mochica, abili guerrieri capaci di costruire il primo impero andino: essi introdussero la cattura su larga scala di prigionieri, l’espansione territoriale nel centro-nord del Perù e la parallela costruzione delle piramidi e di grandi tombe riservate all’élite politico-religiosa, anche se il livello di sviluppo qualitativo delle forze produttive rimase sostanzialmente uguale a quello del periodo Chavin.
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Roberto Sidoli
Thursday, 07 November 2019 10:41
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
La “linea rossa” trovò un altro sbocco nel Nord America, zona geografica staccata per millenni dall’evoluzione parallela avvenuta nelle altre aree del globo: in quest’area le civiltà di cacciatori-raccoglitori paleolitici furono affiancate nella zona sud-occidentale degli Stati Uniti dalle splendide civiltà dei pueblos, gli Hohokam (“coloro che scomparvero senza tracce”) e gli Anasazi.
Preparata da un plurisecolare processo di sviluppo economico e culturale, la civiltà degli Hohokam fiorì nella zona del deserto del Sonora tra il 500 ed il 1250 d.C. e venne formata da gruppi di agricoltori che vivevano nei pueblos, agglomerati a più piani costruiti con mattoni di argilla essiccati, di dimensioni variabili e in cui si ritrovava sempre un Kiva, una sala di riunione e luogo di preghiera allo stesso tempo.[35]
Non solo tra gli Hohokam la produzione di ceste e di vasellame di argilla aveva raggiunto un livello artistico straordina-riamente alto, ma essi raggiunsero un’eccezionale competenza nel processo di costruzione (e manutenzione) plurisecolare di un avanzatissimo sistema di irrigazione per la cultura del mais, avviato attorno al I secolo a.C. e sviluppatosi gradualmente fino alla fine del XI secolo.
«Questo popolo, così abile nei piccoli oggetti artistici, fu gigantesco nelle grandi opere. Alludiamo al sistema di canali che consentì loro l’agricoltura intensiva e soprattutto l’irrigazione costante del mais, che è la base di quasi tutte le culture nordamericane.
Questo sistema di canali lunghi miglia e miglia sorse a poco a poco, col lavoro di parecchie generazioni. Un canale di cinque chilometri, scavato con le mani e con primitivi strumenti di legno e pietra, poté essere datato a prima di Cristo, allorché gli Hohokam non avevano ancora sviluppato le loro “capacità artistiche”. I canali dovevano essere adeguatamente adattati al terreno (e come potevano farlo privi com’erano di qualsiasi strumento ottico di misurazione?) costantemente sorvegliati, modificati, migliorati; si dovettero costruire dispositivi per la regolazione delle acque, e ciò durò secoli.
E la natura era contro di essi. Giammai la portata d’acqua del Gila era costante, giammai si poteva calcolare in precedenza la quantità di pioggia che sarebbe caduta, neppure disponendo dei migliori uomini di medicina.»[36]
Anche la tecnica della costruzione urbana raggiunse presso gli Hohokam vertici notevoli, dato che ad esempio la grande costruzione (Kiva) di Casa Grande, a sud di Phoenix nell’odierno Nuovo Mexico, costituì una specie di “vetero-grattacielo” nordamericano a cinque piani e con centinaia di stanze affiancate.[37]
Fino al 1300 d.C., quando venne messa in crisi da disastrosi cambiamenti climatici (siccità e “piccola glaciazione” del 1200) e dalle invasioni di popoli nomadi, nel sud-ovest degli attuali Stati Uniti apparve un’altra millenaria concretizzazione della “linea rossa” neolitica, la grande civiltà agricola americana degli anasazi (“gli antichi”) che cominciò ad emergere nella Mesa Verde attorno al 300 a.C. e si sviluppò fino al 1200 d.C. Anche gli Anasazi costruirono spettacolari sistemi di canali di irrigazione e di bacini di riserva, incrementando enormemente la produzione agricola e la densità demografica in un’area semidesertica, mentre allo stesso tempo essi crearono una stupefacente produzione nel campo della tessitura, della ceramica e della gioielleria edificando anche enormi “condomini” a più piani (talvolta anche cinque) che arrivarono a contenere fino a 800 stanze, come nel caso di Pueblo Bonito nel Chaco Canyon
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Roberto Sidoli
Monday, 04 November 2019 13:41
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
Di fronte agli eccezionali risultati raggiunti dai punti avanzati della “linea rossa” nell’area mediterranea e mediorientale, impallidiscono le modeste conquiste tecnico-produttive ottenute dai popoli nomadi e pastori dell’Europa ed Ucraina, al cui interno stavano di regola prevalendo le tendenze all’appropriazione privata del surplus e dei mezzi di produzione, e limitate quasi solo al processo di domesticazione del cavallo.
La “linea rossa” neolitica si concretizzò anche in altri contesti geoeconomici e geopolitici, con modalità e tempi storici del tutto indipendenti da quelli vissuti nell’area del Mediterraneo orientale e del Golfo Persico.
Attorno all’8000/6000 a.C. iniziò a svilupparsi il neolitico cinese con le prime ed arcaiche culture di Jiahu, di Yixian e di Peiligang. Queste società protoneolitiche sapevano produrre la ceramica e oggetti musicali (flauti) intarsiati, mentre le pietre da macina ed i resti di miglio carbonizzato attestano che esse conoscevano l’agricoltura, oltre ad aver già addomesticato il maiale ed il cane.
Nel villaggio neolitico di Dadiwan (5500-3000 a.C.) sono venuti alla luce i più antichi dipinti, ceramiche ed edifici in terra della Cina, che risalgono a più di settemila anni fa, e fin da allora Dadiwan era composta sia da 240 case parzialmente diverse tra loro che da una grande area centrale per le cerimonie religiose; invece nel sito di Xinglonggou, posto nella Cina nordoccidentale e risalente al 6000 a.C., sono state trovate decine e decine di abitazioni utilizzate da una popolazione di cacciatori-raccoglitori che sapeva produrre la preziosa giada, creare statue di donna e commerciare con le tribù delle coste della Cina e del Giappone, in una cultura in cui erano già presenti alcune significative forme di differenziazioni sociale e politica.
La manifestazione più avanzata del collettivismo neolitico in Cina venne rappresentata dalla cultura di Yangshao, di cui sono stati ritrovati oltre mille siti nel bacino del Fiume Giallo e nel Gansu e che si sviluppò tra il 4800 ed il 2000 a.C., ereditando direttamente le precedenti conquiste della civiltà di Peiligang.
Le diverse collettività appartenenti alla matriarcale cultura Yangshao coltivarono per tre millenni il miglio attraverso forme produttive cooperative e comunitarie, iniziando allo stesso tempo su microscala quei lavori di irrigazione che avrebbero contraddistinto la storia cinese, mentre parallelamente esse integrarono l’attività agricola con l’allevamento di cani e maiali e con la caccia/pesca, costruendo delle grandi abitazioni collettive fuori da terra.
Inoltre le comunità Yangshao riuscirono ad acquisire le tecniche della filatura e della tessitura, attestate dalle impressioni di tessuto presenti sulla base di alcune ciotole e dal rinvenimento di aghi in osso, costruendo delle fornaci per la cottura delle terrecotte e le loro ceramiche, ancora modellate a mano, presentarono una grande varietà tipologica in cui gli oggetti più caratteristici furono dei bacili, con decorazioni dipinte in nero su sfondo rosso, e bottiglie a base appuntita con una decorazione impressa.
«Tra i numerosi siti Yahgshao il più significativo è senza dubbio quello di Banpo, nei pressi di Xi’an, in cui sono stati rinvenuti i resti di un villaggio distribuiti su un’area di oltre 10.000 mq. Situato a circa 300 m. dal fiume Chan, un affluente del fiume Wei, il villaggio, di pianta grosso modo ovale, presenta la zona abitativa al centro, divisa in due aree da un piccolo fossato; tutt’intorno è scavato un fossato più grande profondo sei metri, e ad est di esso si trovavano le fornaci per la cottura delle terrecotte, mentre a nord era situato il cimitero comune. Le abitazioni, a pianta circolare o quadrangolare, erano capanne seminterrate, cui si accedeva attraverso uno stretto cunicolo; al centro della zona abitativa era posta una capanna di grandi dimensioni (20 m. per 12,5 m.), probabilmente un edificio comunitario. All’interno del villaggio sono stati trovati un gran numero di manufatti in pietra, in osso e in terracotta.
Si ritiene che la comunità di Banpo – come le altre della cultura Yangshao – fosse caratterizzata da un sistema sociale di tipo egualitario, anche se la vita della comunità doveva essere regolata probabilmente da una complessa ritualità. Le tombe, le dimensioni delle abitazioni, e le fosse per l’immagazzinamento delle derrate presentano infatti dimensioni simili, ed anche i corredi delle sepolture non appaiono contrassegnati da differenze rilevanti riguardo alla loro quantità. La ritualità appare d’altro canto attestata, oltre che dalla composizione dei singoli corredi, anche dai motivi decorativi di alcune ceramiche, fra i quali si distingue una maschera circolare con quattro pesci, due attaccati all’altezza delle orecchie, e gli altri due congiunti all’altezza della bocca: l’immagine suggerisce l’esistenza di riti sciamanici. Di particolare interesse appaiono inoltre alcuni marchi incisi su terracotta, che sembrano ricollegarsi ad alcuni caratteri della scrittura Shang.»
Verso il 2400 a.c. la civiltà Yangshao, nella sua ultima fase di sviluppo (Machang), riuscì a produrre sia il bronzo che la seta, ma queste conquiste tecnico-produttive furono seguite da una profonda trasformazione di una parte delle comunità in esame: infatti a poco a poco i riti sciamanici ed i loro protagonisti, i sacerdoti, assunsero un ruolo diverso in una sezione delle comunità Yangshao svolgendo la funzione di apripista per il processo di introduzione al loro interno di rapporti di produzione protoclassisti, fondati sull’egemonia di un’élite politico-religiosa (culture di Longhshan dello Shaanxi e dello Henan).
Sempre in Cina, ma nel bacino dello Yangzi (Fiume Azzurro), sorsero nel 6000/5000 a.C. le civiltà di Pengtoushan e di Hemudu, alle cui strutture socioproduttive collettivistiche (forse di origine africana) il genere umano è debitore della prima coltivazione su larga scala del riso: i semi di riso venivano coltivati in campi inondati in modo artificiale e controllato con l’aiuto di zappe di osso.
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Roberto Sidoli
Saturday, 02 November 2019 09:09
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
La terza “stazione” è formata dalla civiltà Al-Ubaid, sviluppatasi in Mesopotamia tra il 4900 ed il 3900 a.C. e protagonista di un nuovo grande salto di qualità produttivo nella storia del genere umano; essa precedette ed interagì direttamente con la prima fase di sviluppo della società classista dei sumeri, i quali molto probabilmente vissero a stretto contatto con le popolazioni ubaidiche per un lungo periodo incorporandone via via le conquiste produttive e culturali, a partire dal 3900-3800 a.C.
La civiltà Ubaid non si limitò a produrre statuette dal corpo umano con il volto di serpente, probabilmente collegati al culto della Dea Madre, ma riuscì ad ottenere nell’ultima fase della sua esistenza (periodo tardo Ubaid, 4200/3900 a.C.) una serie impressionante di successi in campo agricolo e tecnologico, che in seguito vennero imitati su larga scala ed affinati dalla civiltà sumera (periodo antico Uruk) nella stessa area geopolitica, tra il 3800 ed il 3400 a.C.: non a caso quest’ultima ereditò dai suoi predecessori collettivistici tutta una serie di termini tecnico produttivi, quali engar (agricoltore) ed apin (aratro), simug (fabbro) e udur (pastore).[26]
Alcuni storici, tra cui M. Liverani, hanno definito giustamente la brusca accelerazione impressa dagli Ubaid allo sviluppo delle forze produttive sociali come la “rivoluzione secondaria” del Neolitico, composta in campo agricolo da tutta una serie di innovazioni strettamente connesse tra loro e capaci di sfruttare al meglio alcune condizioni geonaturali potenzial-mente molto favorevoli.
Per facilitare il processo di mietitura di grandi estensioni cerealicole, la civiltà Ubaid introdusse infatti un attrezzo quale il falcetto di terracotta, a forma di mezzaluna e con il bordo interno affilato, il cui costo di produzione era estremamente basso in confronto a qualunque altro tipo di lama, in selce o rame.
Inoltre gli Ubaid seppero sfruttare con estrema efficacia l’intreccio di fiumi e acquitrini naturali che contraddistingueva la parte finale del corso del Tigri e dell’Eufrate, realizzando nel corso dei secoli un’estesa rete di canali e un’ottima sistemazione idraulica del terreno basso-mesopotamico. Nella loro ultima fase di esistenza essi crearono il campo lungo, nel quale il processo di irrigazione a solco veniva praticato su sottili strisce parallele tra di loro e che si estendevano in lunghezza per molte centinaia di metri, in leggera pendenza: si aveva pertanto una “testa alta” adiacente al canale da cui ricavavano l’acqua e una “testata bassa”, verso gli acquitrini o i bacini di drenaggio, in modo tale che l’acqua inondasse solo i solchi. Ovviamente il campo lungo, data la sua dimensione e il suo posizionamento rispetto al canale d’irrigazione, richiedeva un lavoro collettivo coordinato e una pianificazione centrale, ma consentiva d’altro canto un enorme innalzamento del livello medio di produttività.[27]
Sempre in epoca tardo-Ubaid venne infine introdotto l’aratro a trazione animale, strettamente collegato alla lavorazione del campo: l’aratro permise di scavare solchi rettilinei della lunghezza di molte centinaia di metri e al momento della semina lo strumento a trazione animale si trasformava in aratro-seminatore, mediante l’installazione di un imbuto a cannello che consentiva di collocare i semi uno per uno ed in profondità dentro nel solco.
La connessione strettissima creatasi tra campo lungo, irrigazione a solco ed aratro a trazione animale permette di attribuire loro una collocazione temporale approssimativa nel periodo tardo-Ubaid, quasi due secoli prima del sorgere dell’egemonia dei Sumeri e intorno al 4000 a.C.
«I falcetti di argilla, che per la loro materia sono l’unico elemento dell’intero complesso che sia archeologicamente ben visibile, si distribuiscono attraverso il periodo tardo-Ubaid e antico-Uruk, per essere poi evidentemente soppiantati da altro tipo di attrezzo – a differenza delle altre innovazioni che permarranno per millenni. Se esaminate tutte assieme, queste innovazioni si situano dunque a ridosso della grande esplosione demografica e organizzativa del periodo tardo-Uruk: non possono risalire più indietro della fase matura di Ubaid, e devono aver raggiunto la pienezza organizzativa con la fase antico-Uruk.
Si può anzi proporre che mentre l’uso del falcetto d’argilla (che implica un’intensificazione della cereali-coltura, ma non è necessariamente legato alle altre innovazioni) sembra introdotto in uso abbastanza presto durante il periodo Ubaid, invece le innovazioni più significative e strettamente interconnesse possono collocarsi a immediato ridosso del periodo Uruk, intorno al 4000 a.C.»[28]
La seconda grande rivoluzione neolitica produsse un enorme aumento della produttività del lavoro sociale, non molto lontano da quello raggiunto in precedenza nell’area palestinese-siriano attorno al 9000-8000 a.C.
«Questo complesso di innovazioni, impostato su un’organica sistemazione idraulica del territorio e sull’impiego della trazione animale, deve aver avuto un impatto sulla produttività agricola della bassa Mesopotamia che è senz’altro paragonabile all’introduzione della meccanizzazione nell’agricoltura moderna. Si potrebbero forse tentare dei calcoli più specifici: si è già detto che la messa a dimora dei semi produce un aumento della produttività valutato del 50% rispetto alla semina per dispersione; l’uso dell’aratro comporta rispetto all’uso della zappa un risparmio di tempo quantificabile; e così via. In complesso, non è certo azzardato ritenere che i passaggio dal sistema tradizionale (dissodamento a zappa, semina a getto, irrigazione per inondazione) di dimensione familiare, ad un complesso tecnico-organizzativo come quello ora descritto deve aver comportato un aumento di produttività (a parità di risorse umane impegnate) in un ordine di grandezza stimabile tra il cinque a uno e il dieci a uno.
Questo che possiamo ben chiamare una rivoluzione delle tecniche agricole, e che si sviluppò nell’arco di alcuni secoli a ridosso della rivoluzione urbana e delle formazioni proto-statali, è un evento storico di enorme rilievo, ed è in vario modo archeologicamente documentato. È stupefacente constatare quanto poco se ne parli nella corrente letteratura storico-archeologica sull’argomento, prevalentemente accentrata sugli sviluppi della struttura sociale e dell’élite dirigenti, sviluppi spesso estraniati da quelli relativi al modo di produzione.»[29]
La risposta alla questione posto dall’autorevole storico M. Liverani viene probabilmente dal fatto che la struttura sociopolitica degli Ubaid era incentrata su un “clan conico” in cui le disuguaglianze socioeconomiche tra gli abitanti erano ridotte al minimo, fatto evidentemente poco apprezzato da larga parte degli storici, ma resta il fatto innegabile che un aumento di produttività pari ad almeno cinque volte rappresentò indubbiamente un’accelerazione eccezionale nel processo di sviluppo qualitativo delle forze produttive, che si unì tra l’altro ad altre innovazioni introdotte o adottate su larga scala dalla cultura Ubaid.[30]
Attorno al 4500-4200 a.C. alcune zone del Vicino Oriente (e gli Ubaid) conoscevano infatti da tempo la tecnica della metallurgia per la fusione del rame ed i primi elementi del processo di creazione di strumenti di lavoro e di armi prodotti con tale minerale, visto che le fornaci dell’epoca Calcolitica permettevano di mantenere il fuoco alla temperatura di 1084°C necessaria per la riduzione allo stato liquido del rame puro.
Inoltre tra gli Ubaid non solo si sviluppò la produzione su larga scala di contenitori in ceramica, di vasellame da tavola (brocche, tazze e bicchieri) e da cucina (pentole), ma tale lavorazione si poté avvalere delle forme primordiali di torni con piattaforme girevoli; del resto anche la tessitura del lino, ed in subordine della lana, si realizzò concretamente mediante l’utilizzo di telai di tessitura a pesi nel processo produttivo degli Ubaid i quali, nel loro ultimo periodo di esistenza, seppero creare anche alcuni tra i primi oggetti vetrificati in superficie all’interno dell’area del Medio Oriente. [31]
Il processo di urbanizzazione della civiltà Ubaid, nelle sue ultime fasi di esistenza storica, era già abbastanza avanzato e si esprimeva con l’esistenza di una serie di cittadine quali Eridu, Tell’Uqair, Tell’Abada e Tell Ubaid, nelle quali emersero degli edifici di culto sempre più estesi che «possono avere assunto e ridefinito vecchie pratiche di “magazzino comune”» (Liverani); infine è molto probabile che i sorprendenti Ubaid avessero riprodotto la ruota e i primi veicoli a ruota, dato che già da un vaso dell’età halafiana (la civiltà che precede storicamente Ubaid) sembra sia stata dipinta “la più antica rappresentazione di un veicolo a ruote” finora scoperta.[32]
Ma il dato storico che più sorprende consiste nel carattere sostanzialmente egualitario assunto dalla chefferiedegli Ubaid, che si riprodusse anche in presenza della “seconda rivoluzione” neolitica e di quella quintuplicazione del rendimento produttivo medio (decuplicazione nelle stime più ottimistiche) sopra citata.
M. Liverani notò che «innanzi tutto si tratta di una cultura piuttosto egualitaria e piuttosto severa: priva di vistosi dislivelli, di fenomeni di accentramento, di tesaurizzazione e di ostentazione, o altro. Si pensi alla ceramica, che la produzione in serie, alla “ruota lenta”, depriva di quelle vivaci caratterizzazioni e decorazioni delle culture precedenti. Si pensi all’assenza di vistose differenze nella dimensione e la struttura degli abitati, che ove scavati su estensioni sufficienti (nel caso di Tell es-Sawwan e di Tell’Abada) colpiscono assai più per il loro aspetto omogeneo che non per la presenza di ovvie gradazioni dimensionali (sulle quali comunque torneremo più avanti). Si pensi all’omogeneità e povertà delle sepolture (ogni inumato è accompagnato da un paio di vasi di tipo standard e da un modesto ornamento personale), senza quella concentrazione diversificata di ricchezza che normalmente fornisce l’indicatore privilegiato per l’emergenza di élite. Si pensi più in generale all’estrema rarità, per non dire assenza (sia in contesti funerari sia di abitato), di materiali e oggetti di pregio e di importazione, come metalli o pietre semi-pregiate.
Questo carattere severo e sostanzialmente egualitario della cultura Ubaid può non stupire di per sé, ma deve certamente stupire se rapportato al fatto che proprio allora s’innescava quella decuplicazione dei rendimenti agricoli, quella possibilità di eccedenze sostanziose, di cui abbiamo detto sopra. La crescita demografica complessiva, nonché la floridezza generalizzata deducibile dalla dimensione e dalla fattura tecnica delle abitazioni, non hanno adeguato parallelo in una crescita di dislivelli interni – o almeno nella loro sottolineatura mediante pratiche ostentatorie.»[33]
In sintesi la florida civiltà Ubaid realizzò la seconda grande rivoluzione tecnologica e produttiva del periodo neolitico-calcolitico. Una crescita demografica molto consistente e un’urbanizzazione diffusa. Il tornio. La metallurgia del rame. Probabilmente la ruota. La tessitura con telaio. Una rete di canali d’irrigazione molto avanzata.
Tutto questo, in modo “stupefacente” (Liverani), in presenza e grazie allo stimolo di rapporti di produzione collettivistici: la presenza di capi e di chefferie ben organizzate per la redistribuzione del surplus, per la costruzione e manutenzione di canali e per la gestione delle città Ubaid si accompagnò costantemente alla parallela assenza di sfruttamento della forza lavoro e al possesso collettivo dei mezzi di produzione, visto che i nuclei dirigenti statali della civiltà Ubaid usufruirono fino alla fine solo di limitati privilegi durante la loro azione politico-sociale di coordinamento e di redistribuzione del surplus, a dispetto della forte crescita urbana e demografica e della crescente complessità delle strutture Ubaid (specializzazione artigianale, edilizia, agricola, ecc.).
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Roberto Sidoli
Wednesday, 30 October 2019 08:21
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioporoduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
L’esperienza di Gerico non rimase sicuramente isolata, visto che nella regione palestinese-siriana essa era circondata da tutta una serie di villaggi “minori” del periodo natufiano quali Ain Mallaha, Nureybet, Ramad, Munhata e Beidha, mentre la rivoluzione produttiva ed urbana si estese progressivamente nell’8000-6000 a.C. a tutto il Vicino Oriente, dall’attuale Turchia (sito di Asili, 8000 a.C.) fino a Cipro (sito di Khirokitya, VI millennio a.C.), in presenza quasi ovunque dell’egemonia dei rapporti di produzione collettivistici.[23]
Saltano infatti subito all’occhio la sostanziale uniformità delle abitazioni di Gerico, la costruzione di silos collettivi per il deposito di grano ed orzo e i metodi di sepoltura egualitaria, limitati al solo cranio: la capacità ormai acquisita dalle tribù siropalestinesi di organizzare grandi lavori collettivi, quali la stessa produzione agricola e la costruzione di alte mura e di gigantesche torri per difendersi dagli attacchi predatori delle tribù di cacciatori-raccoglitori, permisero senza problemi la riproduzione plurimillenaria (seppur con qualche lunga interruzione storica) del primo e splendido modello di chefferie collettivistica.
La seconda concretizzazione della “linea rossa” neolitica è costituita dalla città anatolica di Catal Hüyük, sviluppatasi tra il 6600 ed il 5600 a.C.
Otto millenni or sono, la civiltà neolitica di Catal Hüyük (odierna Turchia) contava circa 6000 abitanti distribuiti in modo egualitario su un complesso abitativo che si estendeva con circa mille case su uno spazio di 1,5 Km2. Le omogenee case di mattoni e legno erano di forma rettangolare e consistevano in una o due stanze, mentre gli interni venivano decorati con cornici di legno rosso, rivestiti di creta e dipinti: visto che le case erano tutte contigue, oltre che uniformi esternamente, la “circolazione” avveniva sui tetti dove si apriva l’ingresso della casa, mentre una parte delle case era adibito a microcappelle per onorare la Dea Madre.
Gli abitanti neolitici di Catal Hüyük non solo erano abili artigiani nel campo dei monili, dell’ossidiana e della produzione dei tessuti, ma nel 6000 a.C. conoscevano già l’arte della ceramica ed i suoi segreti; sul piano agricolo essi utilizzavano su larga scala degli efficienti microimpianti di irrigazione artificiale, mentre il ritrovamento di numerosi piccoli santuari adorni di dipinti parietali e di offerte votive destinate alla Dea Madre (e altre divinità-totem) attestano il notevole livello di sviluppo artistico raggiunto dalla civiltà anatolica in esame.
Inoltre, come è stato mostrato dall’archeologo britannico James Mellaart, la civiltà di Catal Hüyük conosceva a metà del VI millennio a.C. la metallurgia: lo studioso inglese ha infatti scoperto nel sito anatolico delle scorie che indicavano l’estrazione del rame dal minerale attraverso un processo di fusione, mentre tecniche analoghe vennero in seguito impiegate nell’area siropalestinese tra il 4500 ed il 4200 a.C. con l’utilizzo di fornaci che mantenevano il fuoco alla temperatura di 1084° necessaria per la fusione. Sempre a Catal Hüyük si è trovate una serie di stampi di argilla cotta, utilizzati per fare tatuaggi e (probabilmente) disegni per abiti in quella che diventò la prima protoforma di tecnologia di stampa, scoperta circa sette millenni prima dei cinesi e di Gutenberg.
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Roberto Sidoli
Monday, 28 October 2019 09:01
Risposta a Luca Benedini:
Prove concrete e “fatti testardi” (Lenin) relativi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, al processo di riproduzione plurimillenaria di una “linea rossa” e di una forte tendenza socioproduttiva collettivistica, partendo dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare ai nostri giorni (brani tratti dal capitolo sei del libro “I rapporti di forza”, in www.robertosidoli.net)
La più avanzata e dinamica tendenza socioproduttiva, la “linea rossa” del periodo Neolitico-Calcolitico, si è basata su rapporti di produzione collettivistici, sulla gilania (uguaglianza tra i sessi) e su una determinata forma politica di chefferies, il clan conico, finalizzata alla tutela delle relazioni produttive cooperative mediante il controllo di una distribuzione sostanzialmente ugualitaria del surplus, spesso indirizzata verso lavori di comune utilità: si trattò di società che spesso si riprodussero ininterrottamente per molti secoli (o addirittura millenni), superando a volte gravi problemi geoclimatici (alluvioni, processi di desertificazione, ecc.) e coinvolgendo nel loro sviluppo milioni e milioni di esseri umani... Il punto di partenza del segmento collettivistico delle società neolitiche venne costituito da Gerico, una delle più grandi meraviglie della storia, dato che proprio nel centro palestinese a partire dall’8500 a.C. venne progressivamente creata la prima civiltà urbana del genere umano in quella che diventò la capitale del mondo per più di duemila anni: i clan neolitici della città e della limitrofa area siro-palestinese non solo riuscirono a domesticare il grano, l’orzo, il farro e i maiali poco dopo il 9000 a.C., “inventando” l’agricoltura e l’allevamento nell’area mediterranea, ma effettuarono anche un’altra grande scoperta storica, la costruzione di piccole città.
Gerico nacque come piccolo villaggio attorno al 9000 a.C. in una fertile oasi nel deserto, diventando con il tempo un importante centro commerciale del periodo protoneolitico in un’area in cui vennero coltivati orzo e grano, innescando un lento processo di selezione delle sementi più produttive attraverso una lunga pratica cooperativa.
In pochi secoli, tra l’8900 ed il 8400 a.C., i clan collettivistici del luogo edificarono una piccola città con una caratteristica serie di abitazioni ovali, composte da mattoni di fango essiccato con un intonaco levigato dipinto di rosso; nella fase immediatamente successiva dello sviluppo di Gerico apparvero delle case rettangolari con molte stanze e dei microsantuari per la Dea, mentre la popolazione aumentò progressivamente fino a superare le duemila unità in una data anteriore al 7000 a.C., uomini e donne che vivevano in un’area calcolata in oltre quattro ettari e che superava per dimensioni quella di buona parte dei centri urbani formatisi nell’Europa occidentale durante il XV secolo della nostra era.
Non solo: gli abitanti di Gerico erano circondati e difesi da una cinta muraria, munita di torri difensive alte fino a dieci (10!) metri dimostrando che già dieci millenni or sono l’arte edilizia aveva raggiunto livelli di sviluppo impressionanti, confermati del resto anche dalle costruzioni realizzate nel 9000 a.C. dai cacciatori-raccoglitori di Gobekli Tepe.
Non solo. Fin dall’8300 a.C. Gerico commerciò con altre tribù e villaggi dell’Asia Minore da cui importava principalmente l’ossidiana, un vetro naturale di colore nero, mentre il processo di sepoltura egualitaria dei teschi era accompagnata dal modellamento in argilla dei lineamenti dei viventi sui crani che venivano sepolti: si trattò della più antica forma di ritrattistica del singolo individuo, accompagnata anche dai primi segni di sviluppo di un’arte statuaria in grado di utilizzare l’argilla.
Non era un fenomeno casuale: attorno al 6500 a.C., nell’area del Vicino Oriente e a Gerico si era diffusa l’arte della ceramica con la produzione stabile di oggetti e utensili di argilla, cotta col fuoco e variamente decorata, mentre già molto prima le case avevano porte munite di stipiti in legno e veri e propri lavandini emergevano dai pavimenti, molto spesso decorati.
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LucaBenedini
Saturday, 26 October 2019 17:56
Caro Roberto,
prima ancora di vedere la tua risposta, avevo intuito che l'insistere su un registro comunicativo essenzialista e un po' polemico - come avevo fatto finora - poteva non servire proprio a niente in questo caso. Avevo quindi già preparato un discorso completamente diverso: discorsivo, argomentato, esplicativo. Eccolo nelle righe seguenti (e mi spiace se il registro precedente l'hai vissuto soltanto come provocazione).
Ho cercato di rileggere il tuo intervento nella maniera più favorevole possibile al fatto che alla fin fine tu non stessi semplicemente sostenendo - con la scusa della lotta al perfido capitalismo - i regimi novecenteschi del cosiddetto "socialismo reale" in tutto quello che essi hanno fatto CONTRO le classi lavoratrici dopo il primissimo periodo rivoluzionario pieno di promesse, slogan liberatori, sogni, ecc.. Allora però bisogna ammettere che il tuo testo è scritto in una maniera estremamente ambigua e genera di fatto una estrema confusione tra diversi piani del discorso.
Punto primo: tu fai un esplicito riferimento a un approccio sociale e culturale gilanico e cooperativo in sostanziale contrapposizione con uno classista, militarista e patriarcale. È evidente qui che un approccio ha valori sostanzialmente positivi dal punto di vista umano e sociale mentre l'altro ha da tale punto di vista valori sostanzialmente negativi. Tu aggiungi però ai termini "gilanico" e "cooperativo" anche il termine "collettivistico", che in sé e per sé ovviamente può andare benissimo, ma che tu utilizzi poi per innescare uno stretto collegamento con economie appunto collettivistiche che però non hanno praticamente nulla in comune con un vivere gilanico e cooperativo. Così nella serie delle società associate a quei valori umanamente e socialmente positivi infili anche l'Unione Sovietica dal 1945 al 1990, la Corea del Nord dal 1945 ad oggi, la Cuba socialista e il Venezuela di Maduro. Cosa cavolo hanno di gilanico e di cooperativo queste società, tutte molto verticistiche, dominate da maschi e da una mentalità repressiva, violenta e appunto decisamente patriarcale...? Certo, sono (o erano) collettivistiche, ma solo quello.... Sei stato tu a creare questa serie e la serie parallela e contrapposta (che include Usa, Corea del Sud, Guantanamo e il Venezuela corrotto di Guaidó) e ad associarle a due categorie di fondo di cui una chiaramente positiva e l'altra chiaramente negativa. Ora, o tu non volevi considerare gilanici e cooperativi questi Stati (ma allora hai generato una colossale confusione e hai creato schemi storici decisamente malfatti) o invece volevi considerarli così (e allora hai preso una cantonata colossale che Riane Eisler, inventrice del termine "gilanico" a intendere una società basata su una profonda partnership tra uomini e donne, considererebbe una assurda demenzialità).... Scegli tu quale delle due alternative preferisci....
Punto secondo: tu esalti il "particolare processo politico-sociale, allo stesso tempo efficace e antidogmatico", che nacque col bolscevismo in Russia e "che venne riprodotto in seguito su scala planetaria, seppur con alcune significative varianti, nella Corea del Nord del 1945 come nella Cina del 1925-49, a Cuba nel 1957-59, in Angola e Mozambico dal 1957 al 1975". Ma non dici pressoché nulla di quello che è successo dopo in questi paesi (a parte il fatto che li hai inseriti di fatto nella lista dei "paesi positivi") e che invece mi pare indiscutibilmente segnato dal dogmatismo e da una notevole inefficacia socio-economica. E, in effetti, segnali di una tendenza al pensiero intrinsecamente dogmatico c'erano già p.es. sia tra i bolscevichi russi che tra i rivoluzionari cinesi anche ben prima della rivoluzione. A un certo punto citi anche una frase di Stalin del 1917 e ti dichiari d'accordo. E sullo Stalin dei decenni successivi, che - tra le altre cose - dopo il decesso di Lenin mandò a morte tutti gli altri principali rivoluzionari bolscevichi del 1917, che cosa dici? Perché questo assordante silenzio? Che cosa devi proteggere? Che cosa vuoi lasciare nel limbo del non detto, su queste questioni cruciali per la vita dei popoli di tutti questi paesi...? Oppure ti pare che i decenni postrivoluzionari di questi paesi siano qualcosa di talmente normale e "scontato" che non vale la pena di farci sopra neanche una parola (eppure p.es. i vertici politici dell'Urss e della Cina hanno litigato molto profondamente, oltre a prendere col tempo strade completamente diverse: cosa ci può essere dunque di normale e scontato, visto che invece abbiamo direzioni diversissime tra loro...). Hai risposte...?
Ci potrebbero essere anche degli altri punti, come l'estrema ambiguità del definire geniale Marx (che per l'eventuale prospettiva socialista considerava fondamentale l'evoluzione delle forze produttive) e del sottolineare ripetutamente la grandiosità di coloro che all'opposto hanno preso la strada del tentare il socialismo senza quell'evoluzione (nei cosiddetti paesi arretrati, cioè) e che sono poi sistematicamente incappati proprio nei problemi insolubili che Marx ed Engels avevano ampiamente previsto.... Allora, era geniale Marx o sono grandiosi quelli che hanno fatto il contrario di quanto pensava lui e che però alla fine hanno mostrato che lui aveva ragione (e però hanno continuato ad andare avanti lo stesso fino al totale dissolvimento o del potere del partito o dell'ideologia sostenuta per numerosi decenni prima e dopo la rivoluzione...)? Forse pensi che erano tutti geniali, ma la storia sembra proprio dire il contrario. A livello personale, mi pare evidente che Lenin, Mao, Fidel, Ho Chi-Minh e forse altri erano dei tattici straordinari (infatti hanno saputo condurre la lotta rivoluzionaria in maniera estremamente acuta, lucida e precisa), ma - lasciando da parte Lenin, deceduto troppo presto, sulle cui prospettive strategiche ho fatto qualche commento in questo sito soprattutto in "Dopo gli errori di Seattle" - dal punto di vista delle strategie di lungo termine hanno tutti commesso colossali e tragici errori uno dopo l'altro, come mostra l'evolversi dei loro paesi (e soprattutto la scarsissima qualità della vita delle loro classi lavoratrici, a confronto con lo stile di vita dei burocrati di Stato) dopo le rispettive rivoluzioni.
Mi pare che per ora si possa finire qui. Come ti ho accennato, non ce l'ho affatto con te; è solo che quello che hai scritto è da molti punti di vista indifendibile.... L.
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Roberto Sidoli
Friday, 25 October 2019 21:24
Signor Luca Benedini, non ho intenzione di continuare a discutere con temi e contenuti di così basso livello.

Passiamo oltre (D. A.)

Grazie.
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Luca Benedini
Friday, 25 October 2019 18:42
Caro Roberto,
accidenti, che perbenismo...! Credevo che specialmente dopo Jack Kerouac e Allen Ginsberg l'uso di qualche cosiddetta parolaccia non diretta all'interlocutore fosse stata ormai ampiamente sdoganata nella cultura dei movimenti alternativi.... Evidentemente mi sbagliavo (o forse ti fa comodo appigliarti alla supposta parolaccia per evitare di confrontarti concretamente con la dialettica del "geniale Marx").... Comunque non preoccuparti, ché quella ripetuta parolaccia non era minimanre riferita a te (se avessi voluto riferirla a te l'avrei fatto senza tante ipocrisie, ma appunto non ti riguardava): era riferita p.es. ai neoliberisti e ai vari regimi che nelle diverse parti del mondo imprigionano gli oppositori politici, i sindacalisti combattivi, ecc......
Dopo questa menata formalistico-lessicale che non pensavo proprio necessaria una volta usciti tutti dalle scuole elementari, rimane comunque il fatto che con questa scusa ti sei "elegantemente" defilato da qualunque discorso serio. E le critiche che io e altri ti abbiamo fatto proprio basandoci soprattutto sui geniali Marx, Engels e Riane Eisler e sulle loro lucidisssime considerazioni sulla storia, sulla dialettica, ecc. rimangono lì ancora tutte sul tavolo....
Come già detto, ad maiora...! L.
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Roberto Sidoli
Thursday, 24 October 2019 13:45
Il signor Luca Benedini è sceso purtroppo a un livello troppo basso e infimo di “elaborazione” – si fa per dire, certo – di natura teorica e dialettica, riuscendo fra l’altro a usare la parola stronzo diverse volte in poche e misere righe.
Di fronte a insulti neanche tanto velati, vale solo la pena di usare il detto di Dante Alighieri utilizzato in modo creativo anche dal geniale Karl Marx alla fine della sua prefazione alla prima edizione del primo libro del Capitale, e cioè: “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti”.

Roberto Sidoli.
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Luca Benedini
Wednesday, 23 October 2019 18:45
Caro Roberto,
con mio grande stupore per una volta concordo essenzialmente con Eros Barone, nel senso che - come altri prima di te -. hai fatto diventare la "teoria dello sdoppiamento" una griglia interpretativa imposta a forza sulla realtà e trasformata pure in una sorta di lotta tra bene e male in cui, se l'orripilante capitalismo neoliberista degli ultimi decenni non può che essere il male, allora gli anticapitalisti devono essere il bene.... Una lettura così semplicistica e comoda della realtà sarà pure affascinante per tutti coloro che cercano conferme a qualche loro approccio politico di tipo essenzialmente ideologico (basta trovare qualche proprio avversario decisamente "cattivo", per potersi così collocare dal lato dei "buoni" con grande gratificazione personale...), ma per chi cerca di leggere davvero la realtà - come tra l'altro dici di voler fare tu - si tratta di una "palla al piede" enormemente pesante e controproducente. Gli studi storici di Marx ed Engels, della Eisler e di chi percorre la sua stessa strada sono una cosa molto più seria di quello che alla fin fine li hai fatti diventare....
Scusa la ruvidità, ma non se ne può più di persone che dicono che siccome il loro avversario è stronzo allora loro devono avere ragione (così oltre tutto si può finire col giustificare praticamente tutto, basta avere qualche avversario particolarmente stronzo...; ed è così infatti che si sono comportati innumerevoli cosiddetti marxisti durante il '900, poggiandosi su una qualsiasi teoria dualista secondo cui se da una parte c'è il male dall'altra parte dev'esserci il bene...). Hai mai sentito parlare di estremi contrapposti, tutt'e due stronzi pur essendo contrapposti tra loro? Ecco, il mondo è pieno di queste cose... Quindi una tale applicazione storica della "teoria dello sdoppiamento" è proprio un esercizio narcisistico, autocelebrativo e autoreferenziale.... Tra l'altro, rispetto a questo modo di pensare la "teoria dello sdoppiamento", la dialettica marx-engelsiana (che intride tutta l'opera dei due fondatori del "socialismo scientifico" ottocentesco e che si trova esposta più ampiamente nell'"Antiduhring" e in maniera meno sistematica nei "Manoscritti economico-filosofici del 1844" e in "Dialettica della natura") è talmente più complessa, profonda e connessa alla realtà che non c'è proprio paragone...! Mah.... Ad maiora!
Con affetto comunque, giacché la strada delle liberazioni è irta e molto più complessa di quello che possiamo pensare quando ci accostiamo ad essa. L.
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Paolo Selmi
Monday, 23 September 2019 23:26
Grazie a te Roberto per questo sguardo su un passato remoto, e remoto è dir poco, di cui ignoravo l'esistenza!
In bocca al lupo per i tuoi studi e... a presto con il tuo prossimo lavoro!
Ciao
Paolo
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Roberto Sidoli
Monday, 23 September 2019 08:44
Ringrazio innanzitutto il compagno Paolo Selmi per le sue interessanti osservazioni relative all’effetto di sdoppiamento, che mi hanno dato alcuni spunti su cui riflettere e studiare in futuro.
Per quanto riguarda invece la notevole analisi elaborata dal compagno Mario Galati, sottolineo ancora una volta che l’effetto di sdoppiamento costituisce il concreto frutto e il materialissimo sottoprodotto di quello sviluppo delle forze produttive (agricoltura, allevamento e protourbanesimo: Gerico 8500 a.C.) che ha generato e cristallizzato da un lato l’era storica del surplus costante e accumulabile sconosciuto nel paleolitico, ma dall’altro lato con un plusprodotto non ancora giunto e arrivato a quel livello di crescita (automazione, Intelligenza Artificiale, robotica, genetica, ecc.) che renderà tra qualche decennio possibile il comunismo sviluppato dell’abbondanza, della gratuità, del tempo libero e della regola “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, guerre nucleari mondiali permettendo.
Sintetizzo al massimo grado possibile.

Fase 1 del genere umano = basso sviluppo delle forze produttive, nessun surplus e quindi inevitabile comunismo primitivo.

Fase 3 dell’umanità = formidabile livello di sviluppo delle forze produttive, gigantesco surplus disponibile e quasi totale automazione, con derivato comunismo sviluppato del “a ciascuno secondo i suoi bisogni” e finalmente inizio “della vera storia” (Marx) della nostra specie.

Fase 2 (9000 a.C.-2019 e oltre): livello di sviluppo delle forze produttive capace di produrre surplus costante, ma non quella massa di plusprodotto indispensabile per il processo di riproduzione del comunismo sviluppato, e quindi … effetto di sdoppiamento plurimillenario.

Lo sviluppo delle forze produttive risulta quindi determinante, ma solo in ultima analisi e con modalità diversa a seconda delle tre megafasi storiche in oggetto e sopracitate.

Roberto Sidoli.
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Paolo Selmi
Sunday, 22 September 2019 01:26
Caro Roberto,
la tua spiegazione dell'effetto di sdoppiamento è molto affascinante, tanto quanto il tuo commento sulle civiltà arcaiche. Del resto, il "chi vincerà?" (кто победит?) proprio di Lenin, assume nuova luce in questo senso. Tuttavia mi piacerebbe, per un attimo, guardare un attimo al passato di ciascuna cultura che ha provato, in modi e tempi diversi, a "tradurre" il marxismo. Nella mia tesi di dottorato, incentrata sul substrato confuciano e tradizionale del "marxismo" di Mao, questo esercizio si è rivelato estremamente fecondo non solo per la realtà estremorientale, ma anche per casa nostra. Il linguaggio è indicativo di ciò che siamo e, attraverso l'etimologia e lo studio delle fonti, di ciò che eravamo.

Prendiamo la parola "compagno", che a noi dovrebbe dire qualcosa, e qualcosa di estremamente importante. Andiamo a vedere ogni cultura come l'ha declinata.

Partiamo da noi: "compagno", com'è noto, latino "cum panis", spezzare insieme, condividere il pane... qualche retroterra dovrebbe farcelo venire in mente. Tra l'altro, secondo il dizionario storico della Svizzera (DSS https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/016415/2005-08-25/) "va ricondotto al franc. compagnon."

Calco linguistico da un francese, che però a un certo punto si distacca per "camarade", da cui l'anglofono "comrade": che divide la stessa camerata. Esercito moderno, caserme in muratura, camerate (e non tende come, per esempio, negli accampamenti antichi).

I tedeschi, "Genosse", protogermanico ganautaz, "condividere insieme" (senza specificare il cristologico pane), si richiamano, come ci informa sempre la voce sul dizionario svizzero, al loro medioevo: " Nel ME e nell'età moderna, Genosse designava genericamente persone della medesima condizione giur. che esercitavano diritti d'uso in comune (Comunità). L'espressione aveva quindi una connotazione sia egualitaria, sia democratica." (ibidem)

Torniamo, tuttavia, ai "camerati". Ai samurai giapponesi mandati ex abrupto in Europa, quasi due secoli fa, a "recuperare il tempo perduto", non sarà sicuramente passata in secondo piano la tensione morale, lo spirito di abnegazione e sacrificio, la forza di volontà dei primi militanti del movimento operaio: ecco nascere dōshi (同志(どうし)), "colui che ha la stessa volontà", in un gruppo denotato da una fermissima unità di intenti, sulla scia delle società, più o meno segrete, più o meno di ispirazione laica o religiosa, di cui la millenaria storia giapponese è particolarmente ricca, con intenti rivoluzionari, riformatori, millenaristici. I segni cinesi con cui fu scritto furono poi accettati paro paro dai cinesi stessi, quando qualche decennio più tardi si trovarono a imparare il marxismo tradotto dai giapponesi: tóngzhì altro non è che la pronuncia in mandarino degli stessi segni. Stesso tragitto per il Đồng chí vietnamita, mentre il 동료 (dongnyo) coreano è la traslitterazione nel loro alfabeto dei segni 同僚, dove il primo è sempre tóng di "stesso", ma il secondo è liáo cinese di "lavorare insieme nello stesso ufficio" (旧指同在一起做官的 "anticamente indica stare insieme nello stesso ufficio" https://www.zdic.net/hans/%E5%83%9A ... la burocrazia più antica del mondo!), insomma "collega"!

Arriviamo quindi al russo Товарищ (Tovarišč), domanda da studente di primissimo pelo... ma se merce in russo si dice "tovar", c'è qualche attinenza? Ebbene si... Torniamo alle antiche carovane che percorrevano in lungo e in largo le steppe. I primi tovarišči erano proprio i carovanieri che, come gli autisti russi di oggi che girano in lungo e in largo il suolo italico per caricare mobili e materiale illuminazione, sviluppano fra loro un rapporto particolare di solidarietà, passandone insieme di cotte e di crude. Un po' il senso della "Canzone del fronte meridionale", più nota come Davaj zakurim («Давай закурим» dai fumiamocene una https://tekst-pesni.info/davai-zakurim-tovarishh/) o altre ancora, fra cui la stessa Товарищ (Tovarišč) nella versione di Lev Leščenko o Aida Vediščeva.

Le stesse vie carovaniere ci portano anche in Turchia, dove Yoldaş viene proprio da "yol" strada, quindi "compagno di strada", da intendersi in quel passato. Stesso termine per il turcofono Azərbaycan.

Il resto delle lingue esaminate in questa breve carrellata, ci portando direttamente allа "amicizia"
serbo e croato drug (друг), bulgaro drugar другар
ma anche ebraico haver חָבֵר
e arabo rafi رفيق
oltre che hindi sāthī साथी (sinonimo di dost दोस्त che è la parola più usata per amico)
I compagni sono "amici"... rapporto amicale, comunitarismo, solidarietà, ecc. Mi convince, ma fino a un certo punto. Come ho provato a dimostrare brevissimamente, con qualche cenno, dietro ogni parola c'è un vissuto. Chi era veramente il "drug" fra gli Slavi del sud e fra gli antichi popoli slavi? E haver nelle comunità Yiddish, per esempio? o rafi nel mondo islamico? E perché sāthī e non dost? Magari, seguendo qualcuna di queste piste... arriveremmo fino a Gerico! Perché no?

Grazie per le suggestioni che mi ha offerto il tuo lavoro e che ho voluto condividere.

Paolo Selmi
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Mario Galati
Saturday, 21 September 2019 18:16
Osservo che la teoria rivoluzionaria leninista prevedeva la possibilità di rivoluzione e di costruzione del socialismo nell’anello debole della catena imperialistica. Pertanto, presupponeva lo sviluppo capitalistico, seppure a livello mondiale (credo che vi sia qualcosa dell’hegeliana storia universale in ciò. Ma c’era anche qualcos’altro: lo studio molto concreto e “strutturale” sullo sviluppo del capitalismo in Russia). Non si trattava di una teoria puramente volontaristica delle possibilità e delle alternative sganciate da una base materiale, strutturale, e, soprattutto, di classe. Non era una teoria indeterministica, ma, in perfetta linea con Marx, determinista dialettica. Ovvero, possibilità del mutamento attraverso l’azione (l’interazione) entro un quadro oggettivo determinato che contiene in sé i germi della sua dissoluzione. Non una dissoluzione meccanica, ma un superamento come risultato della lotta delle forze che vi agiscono, in un rapporto soggetto (le forze sociali in campo, le classi)-oggetto (la totalità sociale, il modo di produzione storicamente determinato nel suo complesso). In fondo, ogni rivoluzione non è altro che un’attività maieutica, che trae alla luce le possibilità insite nella situazione storica oggettiva (anche la morale rivoluzionaria, la vera morale storicamente legittima, secondo Gramsci sulla scia di Hegel e Marx, non è altro che questo).
Ora, nella riflessione di Marx il socialismo moderno non è la ripetizione di qualsiasi collettivismo o comunitarismo, ma presuppone un alto sviluppo delle forze produttive (V. il Manifesto dei comunisti di Marx ed Engels. E questo non perché non conoscessero l’esperienza storica di Gerico, ma perché al socialismo scientifico è sottesa una concezione storica e una visione del mondo e dell’uomo specifica). Non necessariamente questo sviluppo deve sussistere direttamente nel paese in cui si fa la rivoluzione, perchè, come fa giustamente notare Lenin, in un paese sottosviluppato, con la rivoluzione si prende il potere statale e si determina questa crescita delle forze produttive. Ma questa crescita deve essere possibile, allo stato e allo stadio in cui si trova la storia universale, alla quale attingere e i cui germi sono presenti anche nelle realtà arretrate (ecco perché l’anello debole può fare la rivoluzione e crearsi le condizioni materiali necessarie alla costruzione del socialismo: perché queste condizioni esistono nella realtà mondiale e, in germe, nella propria realtà specifica).
Nella lettera di Marx a Vera Zasulic vi è la conferma di ciò, non la smentita:
"È precisamente grazie alla sua contemporaneità con la produzione capitalistica, che essa potrebbe appropriarsene tutte le acquisizioni positive senza passare da quelle terribili peripezie. La Russia non vive isolata dal mondo moderno; e nemmeno è preda della conquista straniera alla stessa maniera delle Indie Orientali". E' questo il senso del possibilismo di Marx circa la costruzione del socialismo in Russia senza passare necessariamente per lo sviluppo russo del capitalismo.
Alla base ci troviamo il concetto hegeliano della storia universale e dell'esperienza storica universale, della sua acquisizione per via culturale senza necessariamente passare dalla loro esperienza materiale. C'è il concetto della totalità e dei necessari rapporti tra i vari elementi che si instaurano al suo interno. Lo sviluppo capitalistico è comunque necessario per il passaggio al socialismo, solo che non deve necessariamente coincidere con la realtà nazionale in cui si fa la rivoluzione. Come si vede, il determinismo nel passaggio tra modi di produzione non scompare, ma perde quell'immediatezza meccanica che è propria di tanti loro interpreti, non di Marx e di Engels.
Dice bene Sidoli quando rimarca che per Marx l’attività violenta è attività economica (solo l’ideologia borghese ritiene propriamente economico soltanto il “libero” scambio mercantile). Certo, anche l’attività predatoria tribale è un’attività economica (“Guerra, commercio e pirateria sono un’inseparabile trinità”, diceva Goethe nel suo Faust, con riferimento alla realtà moderna borghese).
Però, io andrei oltre questa semplice constatazione, tentando di sottrarre la rivoluzione proletaria dalla sfera puramente volontaristica (dalla quale il concetto di politica-struttura suggerito da Sidoli non mi sembra tenti di uscire) e di mantenerla nell’ambito dello schema marxiano che prevede la necessità di una modificazione strutturale come base della modificazione della sovrastruttura e dell’intero modo di produzione nel suo complesso.
Quando il proletariato fa la rivoluzione e usa la violenza statale come strumento della sua riorganizzazione sociale, si tratta semplicemente di riconoscere che siamo in presenza di una attività di politica-struttura (ossia, si tratta soltanto di riconoscere il ruolo attivo della politica, della sovrastruttura organizzativa istituzionale, di non ridurla a semplice riflesso e registrazione di rapporti esistenti in una sfera “economica” indipendente? Oppure, detto in altri termini, si tratta solo di riconoscere che l’organizzazione politica determina l’organizzazione sociale produttiva e sia, per questo, in se stessa “strutturale”?) o si tratta di riconoscere, invece, che siamo in presenza di una modificazione strutturale delle forze produttive, della quale la rivoluzione è l’espressione, non il puro atto volontaristico che sceglie tra due possibilità?
La risposta prende forma già nelle Tesi su Feuerbach. La conoscenza è forza materiale in quanto la stessa teoria è prassi. L’attività intellettuale, teorica, è attività materiale sul piano pratico-sociale.
L'attività mentale, il lavoro intellettuale, la teoria, la conoscenza, l'ideologia, plasmano e modificano il modo di essere del soggetto e lo predispongono all'ulteriore attività. Il modo di essere sociale è una forza materiale, lavorativa, pratica, concreta. Perciò, l'ideologia marxista, per es., che si diffonde nel proletariato, modifica e forgia una forza produttiva (il proletariato) in modo nuovo. Provoca quella modificazione del livello delle forze produttive che è condizione della rivoluzione, poiché il proletariato è una forza produttiva. Tutto ciò non è compreso da coloro che rinvengono una contraddizione tra la teoria della rivoluzione e il materialismo storico in Marx. Essi affermano che in Marx il passaggio dal capitalismo al socialismo per via rivoluzionaria sarebbe un atto volontaristico, non una conseguenza della modificazione del livello delle forze produttive, come sostenuto nella concezione del materialismo storico. Una interpretazione economicista di Marx, che non tiene conto del fatto che la teoria è prassi e che la modificazione ideologica, del modo di essere, del proletariato è modificazione di una forza produttiva che modifica il livello delle forze produttive.
Orbene, questa maturazione rivoluzionaria, però, per Marx non avviene arbitrariamente, in virtù dello sviluppo di un pensiero astratto. Essa avviene come presa di coscienza indotta dalla posizione occupata dal proletariato nel sistema produttivo. E’ la concentrazione di fabbrica, nello specifico, che determina questa presa di coscienza (“Non è la coscienza che determina l’essere, ma l’essere sociale che determina la coscienza”); è la crescente socializzazione e concentrazione del processo produttivo che consente di acquisire una coscienza generale e organizzativa complessiva anche ai ceti subalterni. In Lenin tutto ciò non è assente: i contadini sono un pilastro della rivoluzione, ma la guida è operaia.
Mi sembra che tutto ciò non sia valutato adeguatamente nella teorizzazione dello sdoppiamento e nel giudizio sull’alternativa storicamente inveratasi nel collettivismo/comunitarismo della città di Gerico.
Non nego che nella storia ci siano state queste realtà opposte a quelle dominanti. Ma è un normale effetto della lotta delle forze contrapposte (è normale che vi sia stata una resistenza, ma la linea storicamente prevalente è stata un’altra. Gerico è caduta. Non si può sottovalutare questo dato tacciandolo semplicemente di giustificazionismo storico). Ciò che bisogna provare è: quali erano queste forze contrapposte in campo? Quali le forze sociali che hanno dato vita all’organizzazione collettivistica di Gerico? Quali, invece, quelle che hanno generato il corso classista che ha prevalso? Quali erano i ceti e le classi sociali, seppure in germe e in formazione, in lotta? Altrimenti la teoria dello sdoppiamento si riduce alla teorizzazione astratta delle astratte possibilità di scelta nelle biforcazioni della storia (o, addirittura, non solo in questi periodi cruciali). Cioè, si riduce a pura teoria astratta volontaristica e soggettivistica.
A meno che essi non si ritenga che, approssimativamente, il livello tecnologico raggiunto in una certa epoca rappresenti in toto il suo livello delle forze produttive e che, perciò, non vi erano differenze sociali e la scelta alla biforcazione della storia sia stata determinata dalla pura volontà soggettiva. Ciò si può fare solo se si prescinde dalle forze produttive “umane” in campo, dalla loro differente collocazione nella struttura sociale produttiva e dal loro conseguente modo di essere. Ci sono studi abbastanza precisi sulla differenziazione sociale di queste società antiche? Ci sono studi sulle peculiarità che potevano generare differenza di ceto o di classe dietro la facciata comune dello sviluppo generale dell’epoca? Si tratta di trovare non solo il tratto comune di un’epoca, ma le differenze al suo interno. E’ fondamentale un’analisi concreta della situazione concreta, la quale deve preservare da una generalizzazione astratta fuorviante.
E se storicamente ha prevalso un determinato modello che non ha retto l’urto con la “politica-struttura” violenta avversa (Gerico è caduta), non è il segno che non esistevano le condizioni sufficientemente mature per la sua affermazione e il suo mantenimento? Condizioni da ricercare non soltanto nella sua struttura interna ma anche, per così dire, nei rapporti internazionali, ovvero, nel’urto con altri popoli predatori.
Da notare che io non muovo la critica di Eros Barone che in questa teorizzazione non trovano spazio la rivoluzione e la dittatura del proletariato. Il fatto è che forse, per quanto riguarda la rivoluzione, indirettamente ne trova anche troppo e in modo distorto, poiché, forse (confesso di non aver ancora letto i lavori sull’effetto di sdoppiamento), ne allarga fortemente gli ambiti e le possibilità, sulla base di una interpretazione volontaristica e indeterministica (non semplicemente antimeccanicistica. Il determinismo dialettico non è meccanicismo). Quanto alla dittatura del proletariato, invece, forse ha ragione Eros Barone, se si accetta la sua critica sulla indeterminatezza storica di uno schema interpretativo generalissimo, mentre la rivoluzione proletaria e la dittatura del proletariato hanno una connotazione storica ben determinata, come ho cercato anch’io di evidenziare sopra.
In definitiva, se la teoria dello sdoppiamento si limita a criticare il determinismo e l’economismo meccanicista e la teoria della passività, se si limita a valorizzare l’attività e l’organizzazione politica, nulla aggiunge o arricchisce rispetto alla teoria e alla concezione di Marx. Se, invece, intende sganciare la teoria del socialismo dallo sviluppo delle forze produttive, opera una distorsione del marxismo. E mi sembra che colga nel segno Eros Barone quando nota un’assonanza con il comunitarismo previano o, aggiungerei, con i socialismi no global o di pura (anche se sacrosanta, spesso) resistenza localistica che, a volte, guardano indietro.
Queste mie osservazioni nulla tolgono alla stima e al rispetto per Sidoli, Burgio e Leoni e per l’utilità delle loro ricerche (una lode particolare per “Il volo di Pjatakov”).
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Daniele Burgio
Saturday, 21 September 2019 11:19
Risposta di Roberto Sidoli:

Eros Barone ha parlato di "centone metafisico" a proposito dell'effetto di sdoppiamento, ma è viceversa proprio la sua valutazione e il suo atteggiamento a dimostrarsi metafisico e tipico di quel marxismo dogmatico denunciato giustamente con forza da Stalin, ancora nel luglio 1917: valutazioni metafisiche e dogmatiche soprattutto perché assolutamente incapaci di confrontarsi con i fatti concreti.
Assolutamente incapaci di relazionarsi almeno in parte, con la praxis collettiva plurimillenaria del genere umano, a partire dal periodo neolitico-calcolitico fino ad arrivare all'inizio del terzo millennio.
Assolutamente incapaci di confrontarsi, almeno in parte, con le novità e con le sorprese offerte proprio dalla pratica storica e dalla moderna ricerca storica (in quest'ultimo caso, specialmente rispetto all'epoca neolitico-calcolitica): a partire dalla protocittà collettivistica di Gerico dell'8500 a.C.
Visto che al marxismo creativo risulta totalmente estranea la famigerata categoria del "tanto peggio per i fatti, se non si accordano con la teoria", invito pertanto Eros Barone a scendere dalle nuvole del suo marxismo dogmatico e a confrontarsi finalmente con la concreta dialettica materialistica dei "fatti testardi" (Lenin), delle novità e delle sorprese che ci ha offerto e mostrato la storia concreta dopo il marzo 1883 e dopo la morte del geniale Karl Marx.
Prima sorpresa. In un lungo periodo, dal 9000 a.C. e fino al 3900 a.C. (epoca neolitica e calcolitica), sono spesso coesistite nello stesso periodo, nella medesima area geopolitica e a parità di sviluppo qualitativo delle forze produttive, due diverse forme di rapporti sociali di produzione/distribuzione e di potere: quella protoclassista, fondata sull’appropriazione da parte di una minoranza di uomini del surplus e dei mezzi di produzione, e quella collettivistica, basata invece sull’appropriazione collettiva ed egualitaria delle forze produttive e della ricchezza prodotta in molte culture e civiltà del periodo neolitico/calcolitico.
Due opposte tendenze e “linee” socioproduttive, la “linea rossa” collettivistica e la “linea nera” protoclassista, sono convissute negli stessi archi temporali e nelle medesime zone geopolitiche per circa cinque millenni all’interno dell’area eurasiatica, ma anche in Africa, America, Corea, Giappone, ecc.
Ne deriva che lo sviluppo dell’agricoltura, allevamento ed artigianato, tipico del periodo neolitico, e la conseguente produzione di un surplus costante ed accumulabile non hanno portato inevitabilmente al sorgere di società con al loro interno delle classi sfruttatrici e degli apparati statali, come pensava Engels nel 1878-1884 (in modo corretto, visto l’insieme di dati empirici allora a sua disposizione), mentre hanno determinato l’emergere sia di un campo di potenzialità/alternative, a disposizione della pratica complessiva del genere umano, che di una sorta di “effetto di sdoppiamento” nei rapporti sociali di produzione e di distribuzione, via via riprodottisi in quel lungo e plurimillenario periodo, per cui poterono esistere e coesistere fianco a fianco sia rapporti di produzione collettivistici che classisti durante il periodo in esame.
Seconda sorpresa. Nella fase neolitica e calcolitica, le civiltà più avanzate dal punto di vista tecnologico e dello sviluppo qualitativo delle forze produttive e sociali appartenevano alla “linea rossa”, dalla città di Gerico (8400 a.C.) fino agli Ubaid (5000-3900 a.C.): eppure spesso esse vennero soppiantate da invasori nomadi molto più arretrati dal punto di vista economico, ma più potenti invece sul piano militare e tecnologico-militare.
La pratica politica, la sfera politica ed i rapporti di forza politici (e politico-militari) tra società diverse svolsero frequentemente un ruolo decisivo nel determinare il successo/insuccesso nella riproduzione delle due “linee” socioproduttive, sempre in base all’effetto di sdoppiamento, formatosi in conseguenza del processo di produzione di un surplus costante ed accumulabile da parte del lavoro collettivo impiegato nelle attività agricole.
Terza sorpresa. Più volte Marx rilevò che sia nel modo di produzione asiatico che in quello feudale assunse costantemente un ruolo importante la proprietà collettiva del suolo, oltre che il lavoro sociale nella riproduzione delle condizioni della produzione (irrigazione, strade, ecc.) ed il lavoro collettivo nella stessa attività agricola, seppure in proporzioni diverse secondo le situazioni storiche concrete.
Quindi, anche dopo il 3900 a.C. e dopo la fine del periodo neolitico/calcolitico, la “linea rossa” dei rapporti di produzione collettivistici ha giocato una funzione rilevante (seppur subordinata) all’interno di molte formazioni economico-sociali classiste, dimostrando nei fatti la riproduzione e resistenza di quell’effetto di sdoppiamento sopra citato.
Non a caso. Anche dopo il 3900 a.C., la “linea rossa” trovò dei punti d’appoggio materiali e concreti su cui appoggiare per riprodursi sia realmente, anche se molto spesso in modo deformato e parziale, che a livello potenziale poiché:
• il livello di sviluppo delle forze produttive sociali, all’interno delle società classiste, non cadde mai sotto la soglia già raggiunta durante il periodo neolitico-calcolitico e non si deteriorò fino al punto di creare un recupero generalizzato della raccolta di cibo-caccia tipica dell’era paleolitica, con la sua correlata assenza di processi di produzione-accumulazione continua del surplus.
• la produzione ininterrotta di surplus rimaneva utilizzabile anche per scopi collettivi, almeno a livello potenziale.
• poteva essere utilizzato sia per fini cooperativi che per scopi di profitto privato il lavoro universale, termine con cui s’intende «qualunque lavoro scientifico, qualunque scoperta o invenzione. Esso dipende in parte dalla cooperazione tra i vivi e in parte dall’impiego del lavoro dei morti» (K. Marx, Il Capitale, Libro III, Cap. V, par. 4).
• il ”bene immateriale della conoscenza” (E. Grazzini, 2008), anche in campo scientifico e tecnologico, può essere sempre utilizzato dagli esseri umani per fini cooperativi e senza brevetti di sorta, può essere riprodotto e replicato con relativa facilità dai non-inventori in seguito all’uso, è un bene facilmente (anche se non inevitabilmente) condivisibile: può diventare un bene privato, ma anche e più facilmente un bene pubblico.
• la terra continuò ad essere il “grande laboratorio” (Marx, Grundrisse) che forniva al genere umano sia “i mezzi di lavoro” che il “materiale di lavoro”; arsenale sempre suscettibile, almeno a livello potenziale, di essere destinato a processi di appropriazione collettiva da parte del genere umano, mentre considerazioni analoghe possono essere effettuate anche per l’acqua e le opere d’irrigazione, partendo dai sumeri e dai famosi giardini pensili di Babilonia.
• una parte del suolo e dell’acqua continuò ad essere realmente proprietà collettiva, “proprietà tribale o comunitaria” (Marx, Grundrisse), anche dopo il 3700 a.C. e in larghe sezioni del pianeta.
• anche altri oggetti del lavoro umano, come i metalli preziosi, le materie prime (rame, ferro, ecc.) e le diverse fonti energetiche (legname, carbone, idrocarburi, uranio, ecc.) hanno potuto essere appropriati realmente dal processo lavorativo umano sotto modalità di lavoro cooperativo e con una proprietà collettiva, spesso statale, sempre durante il periodo postcalcolitico.
• anche dopo il 3900 a.C., si riprodusse una “comunanza del lavoro” (Marx, Grundrisse) e una cooperazione lavorativa nei processi di riproduzione delle “condizioni comuni della produzione” (sempre Marx, Grundrisse): “sistemi di irrigazione”, “mezzi di comunicazione” (Marx, Grundrisse) ed opere di dissodamento del suolo.
• anche dopo il 3900 a.C., almeno una parte variabile del suolo venne molto spesso coltivata in modo cooperativo dai produttori rurali, in una concreta “comunanza lavorativa” che divenne un “vero e proprio sistema” (ancora Marx, sempre nei Grundrisse) in larga parte del pianeta, ivi compresa l’Europa.
• la manifattura prima, la grande industria molto in seguito divennero delle esperienze diffuse di stretta cooperazione nel processo produttivo proprio dopo il 3900 a.C., partendo dalla prima fase della società sumera: mezzi di produzione sociali suscettibili, sia potenzialmente che realmente, di processi di appropriazione collettiva in grado di assorbire il loro prodotto e surplus sociale.
• alcune sezioni e frazioni dei produttori diretti sfruttati continuarono ad essere dei convinti sostenitori della “linea rossa”: uomini/donne in lotta più o meno aperta contro il sistema di sfruttamento classista, le disuguaglianze socioeconomiche e la miseria, anche se spesso utilizzando ideologie e relazioni organizzative di matrice religiosa.
Quarta sorpresa. In una lettera del 1881 a Vera Zasulich, Marx notò la coesistenza conflittuale tra “linea rossa” e “linea nera” nella formazione economico-sociale feudale russa e nella comune rurale russa, sottolineando tra l’altro come all’interno di quest’ultima vi fosse una sorta di “dualismo intrinseco” che ammetteva e consentiva la riproduzione di un variegato campo di potenzialità storiche e di due soluzioni (Marx, 1881): “o il suo elemento” (della comune rurale russa) “di proprietà privata prevale il suo elemento collettivo o questo si impone su quello. Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale essa si trova… Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili”.
In altri termini, Marx aveva notato già nell’inverno del 1881 una dualità all’interno di una determinata formazione economico-sociale, la Russia del tempo; l’emergere sincronico di due “linee” e tendenze socioproduttive alternative tra loro, ma che coesistevano in modo conflittuale, ed il non-determinismo nell’esito finale della loro coesistenza (poco) pacifica.
Si tratta della prima formulazione dell’effetto di sdoppiamento, effettuata tra l’altro senza poter conoscere i dati empirici emersi nell’ultimo secolo rispetto al periodo neolitico/calcolitico, a partire dalla sua grande estensione temporale.
Quinta sorpresa. Dopo il 1770-1810 si è affermato progressivamente il capitalismo (prima industriale, poi monopolistico-finanziario) su scala mondiale e fino ai nostri giorni: ma allo stesso tempo, oltre ai fenomeni della cooperazione produttiva e del capitalismo di stato, dopo il 1917 e l’Ottobre Rosso il mondo inaspettatamente si “sdoppiò” e si divise essenzialmente tra due sistemi socioproduttivi e politici alternativi, capitalismo (monopolistico di Stato) e socialismo (più o meno deformato).
Addirittura si possono trovare alcune nazioni che si sono “sdoppiate” concretamente in campo socioproduttivo e politico, nelle relazioni sociali di produzione e distribuzione:
• Germania, dal 1945 al 1989.
• Corea, dal 1945 fino ai nostri giorni
• Vietnam, dal 1954 al 1975
• Cina, dal 1949 fino ai nostri giorni (si pensi alla dinamica socioproduttiva assunta dalle aree cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan, dal 1949 fino ad oggi).
Ancora una volta si è assistito ad una riproduzione specifica di quell’effetto di sdoppiamento sorto dopo il 9000 a.C., con la produzione continua di un surplus produttivo accumulabile (grazie all’agricoltura/allevamento/artigianato in una prima fase, ed alla manifattura/grande industria in seguito) per la prima volta nel processo di sviluppo del genere umano; ancora una volta il controllo della sfera politica e degli apparati statali è stato ed è tuttora decisivo nel determinare l’esito del confronto/scontro tra le due “linee”, volta per volta (si pensi solo all’URSS/Russia nel periodo 1989-1992).
In estrema sintesi, dopo il 9000 a.C. e l’effetto di sdoppiamento, non sussiste alcuna forma di determinismo storico nel processo di sviluppo del genere umano, ma viceversa un campo di potenzialità socioproduttive alternative tra loro.

Roberto Sidoli.
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Eros Barone
Saturday, 21 September 2019 00:14
A me non sembra affatto che la cosiddetta "teoria dello sdoppiamento" sia compatibile con il marxismo, e il fatto che sia condivisa da Giorgio Galli non credo, pur con tutto il rispetto per questo politologo quasi centenario, che ne confermi il valore storico e filosofico. Per quanto concerne, ad esempio, il secondo aspetto, l'autore si è segnalato per il suo sforzo di revisionare il marxismo elaborando un centone metafisico di carattere evoluzionistico del tutto estraneo alla dialettica materialistica e in sintonia con gli esiti antimarxisti delle teorizzazioni elaborate dai vari Preve e La Grassa. E in effetti si tratta di un'impostazione definibile come un curioso esempio, da un lato, di
neo-lorianesimo e, dall'altro, di neo-bucharinismo. Nonostante il riferimento retorico al primato leniniano della prassi politica e perfino a Stalin, il cui richiamo al "marxismo creativo" viene spacciato come istanza revisionista, il carattere ancipite di questa teorizzazione è, peraltro, il prezzo pagato alla mancata comprensione del carattere dirimente, sul piano teorico, ideologico, storico e politico, della categoria di revisionismo e, nella fattispecie, di "moderno revisionismo". Insomma, questo biribissi accade quando ci si ingegna a mettere le brache alla storia del mondo, procedendo nella disàmina dei diversi periodi storici a forza di schemi generalissimi e di astrazioni indeterminate (le famose "leggi storiche universali"). In tal modo, l'enfasi sul primato leniniano della politica rischia di sfociare in un politicismo 'bon marché', la critica dell'economia politica rischia di ridursi a politica economica e la pianificazione a programmazione, mentre il socialismo scientifico viene fatto regredire al socialismo utopistico. In queste caramellose teorizzazioni manca però un "trascurabile dettaglio": la necessità della rivoluzione socialista e della dittatura proletaria per abbattere il capitalismo e spezzare lo Stato borghese. Non è certo una novità: oggi come nel passato, i revisionisti e gli opportunisti si caratterizzano per il loro disinteresse alla questione della rivoluzione, per la sua negazione.
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