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Il bilancio 2018: un quiz senza risposte
Roberto Romano
La “programmazione di corto respiro” della Legge di Bilancio presentata dal governo finisce per inficiare la trasparenza dei conti pubblici e anche gli obiettivi di riduzione del debito. Una analisi della manovra
La cornice della Legge di Bilancio per il 2018
Il Bilancio dello Stato per il 2018, presentato al Senato il 29 ottobre, ricalca le indicazioni generali della nota di aggiornamento del DEF1. I provvedimenti indicati nel DEF – aggiornato – hanno trovato una coerente applicazione nella Legge di Bilancio, ancorché non manchino delle sorprese relativamente ad alcune misure che non erano state preventivate. Per esempio lo stanziamento di 250 mln – a valere sul 2019 -per la formazione Industria 4.02, le misure per la famiglia (100 mln per il 2018-19-20), oppure gli interventi relativi al SUD (200 mln per il 2018) che, in realtà, appare più che altro una partita di giro.3
La cornice macroeconomica nazionale rimane inalterata. In particolare è confermata la crescita del PIL per il 2018 all’1,5% rispetto al quadro tendenziale indicato all’1,2%. La maggiore crescita di 0,3 punti percentuali è, sostanzialmente, imputabile alla parziale sterilizzazione delle clausole di salvaguardia – mancato aumento di IVA e accise – per quasi 15 mld per il 2018 e poco più di 6 mld di euro per il 2019.
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Caffè, la costituzione del lavoro, l'efficienza del mercato e la fabbrica di formaggio di Keynes
di Quarantotto
1. Come sappiamo, per via della interpretazione "autentica" di Caffè e Ruini (il cui contributo al modello economico accolto in Costituzione è fondamentale) la Costituzione italiana, del 1948, è coscientemente keynesiana: questa scelta non è senza conseguenze, poiché il modello economico, e dunque l'assetto socio-politico, conformato in Costituzione ha valore normativo supremo, cioè intangibile (il che, in termini, normativi significa "non suscettibile di revisione neppure costituzionale"), e quindi ineludibilmente vincolante per il plesso Governo-Parlamento.
Per questo ci pare interessante richiamare il pensiero di Caffè (maestro dai troppi allievi che "prendono le distanze", con pensieri, parole opere ed...omissioni), in questi tempi oscuri, in cui le elites "cosmopolite" (finanziarie e grande-industriali) che dominano il mercato (internazionalizzato), e che sotto la sua facciata nominalistica, "governano" (qui, p.8.1.), cioè decidono per tutta la comunità nazionale, sostituendosi alla sovranità popolare, con il fine inevitabile e strutturale di proteggere e massimizzare le rendite oligopolistiche di cui sono beneficiarie.
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Bankitalia, la svolta necessaria
di Enrico Grazzini
L'indipendenza delle banche centrali è sempre più oggetto di dibattito e di contrasti accesi in tutto il mondo, sia in ambito accademico che nella sfera politica1 . Fino a qualche anno fa, l'ideologia dell'indipendenza assoluta della Banca Centrale dalla sfera politica, dai governi e dal parlamento, era un tabù indiscutibile, nel senso che non se ne poteva neppure discutere senza commettere il reato di lesa maestà ed essere accusati di chissà quali intenti eversivi. Ma da quando è scoppiata la crisi globale, da quando le banche centrali sono intervenute massicciamente nell'economia per salvare le banche commerciali private, comprando decine di miliardi di titoli tossici e organizzando il salvataggio delle banche fallite; da quando le banche centrali hanno avviato iniziative di espansione monetaria per comprare i debiti di stato – come è stato fatto ovunque, in USA, in Giappone e da ultimo anche nell'eurozona -; da quando le banche centrali sono intervenute sui mercati finanziari per comprare titoli pubblici e privati, gonfiando i valori dei mercati e favorendo così oggettivamente gli investitori finanziari che detengono questi valori, allora la loro indipendenza e neutralità e le loro politiche sono state messe in discussione, a destra come a sinistra2.
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Le cronache del nostro scontento III
2014: Il “fenomeno Renzi” mentre arriva la deflazione (ma tra i due fatti non c’è relazione)
di Giorgio Gattei
Qui e qui le cronache precedenti
1. Come narrato nella Cronaca precedente, alla fine del 2013 il governo Letta compie il “miracolo” di conquistare una crescita zero e c’è chi ne gioisce perché l’ISTAT, nel confermare i dati a marzo 2014, potrebbe anche metterci «un segno più di fronte al numero del PIL. Il dato positivo non si riferirà a un anno intero, ma solo a un trimestre. E il numero non sarà elevato, ma non dopo una contrazione dell’economia simile a quella prodotta dalla prima guerra mondiale» (“La Repubblica”, d’ora in poi: R., 3.2.2014). Il fatto sarebbe significativo dopo la disastrosa stagione del governo Monti. Però c’è chi si muove per rimuovere Letta, anche perché un altro in pole position è pronto a prendergli il posto.
Si tratta di Matteo Renzi, che scalpita fin da quando nel settembre 2012 aveva sfidato nelle primarie del PD il padrone della “ditta” Pier Luigi Bersani. Allora aveva perso, ma nel 2013 ci riprova e questa volta stravince a mani basse (il “popolo piddino” è abituato a fare sorprese). Lo statuto del PD dice che il suo segretario deve essere il candidato premier alle successive elezioni politiche, ma quelle elezioni non sono alle viste eppure Renzi ha fretta di andare al governo. Così muove all’attacco di Letta e sabato 22 febbraio 2014 ce la fa a salire al Quirinale a giurare da nuovo Presidente del Consiglio nelle mani dell’intramontabile “re Giorgio”. Ma come ha fatto? Per Marco Damilano (La repubblica del selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi, Milano, 2015) «l’outsider arriva al potere non con un voto popolare, ma con una manovra di palazzo: un tradimento, il brutale assassinio politico del capo del governo Enrico Letta, appena rassicurato.
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Ricchi per caso? Un’agenda terapeutica per l’Italia
di Sergio Cesaratto
L’Italia si avvia alle elezioni politiche senza che alcuna formazione politica avanzi un progetto per il Paese, un’idea di dove esso debba dirigersi. Si va dalla continuità del “io speriamo che me la cavo” del PD al governo al vuoto programmatico del M5S, passando per l’incubo del ritorno berlusconiano. La sinistra vaga fra il cosmopolitismo e le trivelle. Lo scarso spessore politico e culturale dei gruppi dirigenti delle varie compagini è palese. Per esplicitare l’ordine di problemi che una politica all’altezza dovrebbe affrontare, torna assai utile la lettura del volume “Ricchi per caso” curato da Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta (il mulino, 2017, 319 pp. 19€), due affermati storici economici. Il volume intraprende una sorta di percorso psicoanalitico delle ragioni profonde del drammatico passaggio storico, fra benessere e declino, che l’Italia sta da anni attraversando. Al centro dell’analisi vi sono infatti le istituzioni socio-politiche che costituiscono l’ossatura del Paese, la sua costituzione reale – spesso vero ostacolo alla realizzazione dei nobili intenti della Costituzione formale. In questo gli autori - sette nel complesso [1] - si rifanno a un importate filone della letteratura economica che vede nella qualità e appropriatezza storica delle istituzioni l’anima dello sviluppo economico.
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Le cronache del nostro scontento II
2013, il bis di “re Giorgio” e quell’austerità “che fa male”
di Giorgio Gattei
Qui la prima parte
1. Le elezioni politiche del 2013 non hanno fatto vincere il PD che, pur risultando il primo partito, per formare un nuovo governo in sostituzione di quello dimissionario di Mario Monti si dovrebbe accordare col PdL oppure col Movimento5Stelle. Ma con quale dei due? E’ una situazione inedita che Jim O’Neill della Goldman Sachs si azzarda ad interpretare a pro’ del “partito” di Grillo, il che potrebbe anche essere «l’inizio di qualcosa di nuovo» (R., 2.3.2013). Però, a gelar subito l’entusiasmo, provvede Mediobanca in un rapporto ai suoi investitori, dal titolo esemplare La tempesta perfetta, invitandoli a non trasformare «la commedia all’italiana in una tragedia greca». Forse è meglio stare alla finestra in attesa che se la sbrogliasse il Capo dello Stato, dando una probabilità del 15% all’accordo PD-M5S, del 10% al ritorno alle urne e del 70% all’alleanza PD-PdL (R., 27.2.2013).
Contemporaneamente va in scadenza il settennato di Giorgio Napolitano e si apre un vuoto di presenza al Quirinale. Si decide che dapprima si sostituisca il Presidente della Repubblica e poi sia lui a indicare il successore di Monti, il cui governo nel frattempo viene congelato. Però non è una cosa facile far salire al Colle il candidato prescelto dal PD se il primo, Franco Marini, viene “impallinato” il 18 aprile al primo scrutinio dal suo stesso partito.
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Controllo sociale e governance della povertà
Note sull’introduzione del Reddito di inclusione in Italia
di Andrea Fumagalli
Il 29 agosto 2017 è stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il Reddito di inclusione (REI). Si tratta di una misura nazionale di contrasto alla povertà, selettiva e condizionata. Si compone di due parti:
- un beneficio economico, erogato attraverso una Carta di pagamento elettronica (Carta REI);
- un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa “volto al superamento della condizione di povertà”, come dichiarato dal ministro Poletti.
In questa scheda presentiamo i requisiti richiesti, così come descritti dallo stesso ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale
Requisiti di residenza e soggiorno
Possono accedere al REI le seguenti categorie di cittadini:
- cittadini italiani
- cittadini comunitari
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Dagli Appennini all'Atlante: propaganda, cambio e autorazzismo
di Alberto Bagnai
Come sapete, uno dei temi portanti della mia ricerca, forse il più rilevante in chiave di riflessione politica, è l'indagine sulle cause dell'autorazzismo: quella porca rogna italiana di autodenigrarsi, autentico cancro che corrode la nostra capacità di elaborare strategie coerenti sia sul piano interno, che su quello internazionale. Ci ho scritto un libro (L'Italia può farcela), ne ho discusso qui con voi, a lungo, senza giungere a conclusioni definite. D'altra parte, un fenomeno così devastante non ci si può aspettare che abbia un'unica causa: più facile che abbia molte concause. Col passare del tempo, visto anche la particolare pervicacia dello schieramento progressista nell'aggredire indiscriminatamente gli italiani tout court (inclusa quindi quella maggioranza di lavoratori che i progressisti pretendono di tutelare), mi ero fatto un'idea su quale potesse essere la causa prevalente. L'Italia, va detto, è uno strano paese: il paese in cui una parte degli abitanti si gloria di aver vinto una guerra che in effetti il paese ha perso (sì, parlo della Seconda Guerra Mondiale). Ora, è chiaro che questa mitologia (oggi si dice "narraFFione") non può sostenersi che sulla asserita superiorità etnica dei vincitori rispetto al resto della popolazione, gli sconfitti. D'altra parte, i pretesi vincitori erano partiti bene, dando dei "mandolinisti" alla compagine nazionale. Come volete che finisse?
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Flat tax, la tassa che piace ai ricchi
di Leonardo Mazzei
Uno studio scientifico con cui Mazzei svela chi ci guadagnerebbe veramente con la "tassa piatta", ovvero le cifre che i liberisti Matteo Salvini, Armando Siri e Nicola Rossi non vi faranno vedere mai
Ci siamo già occupati di flat tax un paio di settimane fa. Lo abbiamo fatto per denunciarne l'effetto di scardinamento che essa avrebbe sull'intero impianto costituzionale. Ci torniamo sopra oggi per dare la parola ai numeri, per dimostrare cioè quale sarebbe l'effetto concreto della "tassa piatta" sia in termini di redistribuzione della ricchezza a favore delle fasce di reddito più alte, sia per quanto riguarda la cancellazione di ogni diritto sociale che ne deriverebbe.
Gli imbroglioni sono infatti all'opera. Per loro con la flat tax tutti ci guadagnerebbero. Un'idea win win quindi, che avrebbe anche il grande pregio di semplificare il sistema fiscale. Come se le complicazioni del fisco dipendessero dal numero delle aliquote
dell'Irpef. Aliquote che dal 1974, quando l'Imposta sul reddito delle persone fisiche entrò in vigore, sono passate da 32 a 5. Chissà com'era complicato il sistema fiscale negli anni '70!
Un po' di storia
La verità è che il principio costituzionale, fissato nell'articolo 53 - «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» - è stato gradatamente attaccato già a partire dal 1983.
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Ripensare la politica fiscale
di Andrea Terzi
- Finanza, economia reale e politica anti-ciclica
Dieci anni fa cominciava a muoversi la colossale frana finanziaria che avrebbe portato, tra l’altro, al tracollo di Bear Stearns e al fallimento di Lehman Brothers, due tra le maggiori banche d’affari del mondo. In un ciclo economico alimentato principalmente dal debito privato, la fragilità finanziaria finì per avere un formidabile impatto sull’economia reale. Dopo Lehman, l’economia mondiale cambiava decisamente passo, entrando in una profonda recessione. A quel punto, si manifestava fatalmente la vulnerabilità della politica economica nell’area euro fino al punto da mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa della moneta unica.
La lunga crisi non è affatto archiviata. Passata la recessione, la crescita negli Stati Uniti è stato troppo modesta per poter riagguantare il sentiero tendenziale (FIGURA 1).
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“Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo”
G. Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
Dopo il salvataggio delle banche venete, per l’economista siamo giunti ad un sistema che privatizza i profitti e socializza le perdite: “L’intervento dello Stato a favore dei capitali privati, tra l'altro, implica aumenti significativi del debito pubblico”. Così boccia la visione dello Stato come semplice “ancella” del capitale privato e non vede in Italia forze politiche capaci di proporre un'alternativa: “A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi”. Difendere la Costituzione? “Non basta”.
«Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite». Con una recente intervista in cui dichiarava che alle presidenziali francesi non avrebbe votato «né per la fascista Le Pen né per il liberista Macron» Emiliano Brancaccio aveva diviso il popolo della sinistra. Ora - a partire dal recente provvedimento del governo che in una notte ha stanziato ben 5 miliardi per il salvataggio di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza - l'economista ragiona sulle contraddizioni del nuovo intervento statale in economia, fatto soprattutto di compravendite a favore del capitale privato. Il mondo intorno a noi si trasforma mentre, secondo lui, in Italia la sinistra si attarda in «una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici e ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo».
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Il salvataggio delle banche? Vuol dire che i soldi ci sono…
Radio Città Aperta intervista Maurizio Donato
Il “salvataggio” delle due banche venete, a beneficio di BancaIntesa, grida vendetta già al primo sguardo (vedi qui ). Per esserne sicuri, però, bisogna far parlare gli economisti. Radio Città Aperta ha intervistato Maurizio Donato, docente all’università di Teramo
Grazie della tua disponibilità. Aiutaci a capire un pochino meglio di cosa si tratta… IntesaSanPaolo ha firmato con i liquidatori della Popolare di Vicenza e Veneto Banca il contratto di acquisto al prezzo simbolico di un euro di alcune attività e passività facenti capo alle due banche venete, con autorizzazione unanime del consiglio di amministrazione. Si parla di operazioni di salvataggio delle due banche… A noi sembra un grande affare a pochissimo prezzo per Intesa San Paolo. Però da profani ci affidiamo a te per capire qualcosa di più.
I profani, come dici tu, ci beccano spesso, perché non c’è dubbio che si tratta di un buon affare in cui sono coinvolti diversi attori, a cominciare dalle banche. E la parola che hai detto – “alcune attività” – è un po’ la parola chiave. Cioè, ci sono attività redditizie e queste Intesa San Paolo ha voluto acquistare, sia pure alla cifra simbolica di un euro, e ci sono attività che sono andate male, crediti irrecuperabili o difficilmente recuperabili. Ed è qui il punto, se vuoi, politico della questione: i debiti irrecuperabili, Intesa San Paolo ha detto: “quelli non li compro, se li accolli la bad bank dello Stato italiano”, cioè i contribuenti, “e noi invece prendiamo solo quello che ci interessa”. E’ interessante perché possano venire fuori questioni che riguardano almeno tre soggetti: il governo italiano, l’Unione europea e la crisi in generale. Se vuoi diciamo qualche parola su ognuna di queste questioni.
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Le cronache del nostro scontento
di Giorgio Gattei
I: 2011, il complotto di “re Giorgio”
1. E dire che ancora a maggio 2011 i conti pubblici dell’Italia apparivano agli occhi degli esperti talmente in ordine che l’agenzia di rating Fitch poteva assicurare che «non c’è nessuna evidenza che la situazione di bilancio dell’Italia si stia deteriorando» ed il Commissario Europeo Olli Rehn riteneva che «l’Italia fa bene il suo lavoro» (“La Repubblica”, d’ora in poi R., 24.5.2011). Di conseguenza lo spread, il differenziale di rendimento dei titoli pubblici decennali rispetto ai Bund tedeschi, veleggiava attorno ai 180 punti. Eppure in meno di un mese succede qualcosa e tutto precipita: la situazione finanziaria si fa insostenibile con lo spread che vola così all’insù che Moody’s, altra agenzia di rating, si dichiara «pronta a declassare l’Italia» (R., 18.6.2011).
Che cosa è successo di così tanto grave nell’arco di quel poco tempo? E’ successo che ha preso il via il complotto della finanza internazionale contro il premier Berlusconi, con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che vi si accoda ubbidiente. Il fatto è che nei nuovi tempi del terzo millennio non c’è più bisogno di minacciare “rumor di sciabole” (come era stato costume nella seconda metà del Novecento in Italia) per cacciar via un governo; adesso basta uno scuotimento di spread, soprattutto se la regia è all’estero.
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Visco: i danni che ci ha fatto l’Europa
di Carlo Clericetti
Potrebbero essere le sue ultime Considerazioni finali quelle che il governatore Ignazio Visco ha letto all’assemblea annuale della Banca d’Italia. Il suo mandato scade infatti tra pochi mesi e una riconferma non è del tutto certa: dipenderà dall’evoluzione della situazione politica, che di certo non appare tranquilla. Un appoggio importante gli è però già venuto da Mario Draghi, che quest’anno ha voluto essere presente: un segnale chiaro da parte del presidente della Bce.
Anche stavolta, come lo scorso anno, la “cifra” più notevole delle Considerazioni è nel nutrito elenco di critiche a vari aspetti della politica europea, che hanno danneggiato non poco il nostro paese. Anche stavolta manca l’indicazione esplicita dei responsabili, che forse non si può pretendere da un organismo tecnico come la Banca d’Italia, ma che per ognuno dei casi ricordati risulta del tutto chiaro a chi abbia seguito le vicende degli ultimi anni: la Germania e i suoi alleati, e la Commissione che alla linea tedesca è del tutto omogenea.
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La precarizzazione del lavoro e la recessione italiana
di Guglielmo Forges Davanzati* e Lucia Mongelli**
La lunga recessione dell’economia italiana – che può datarsi almeno a partire dai primi anni novanta – si manifesta con una rilevante caduta della produttività del lavoro e dunque del tasso di crescita, le cui cause sono molteplici, una delle quali è rintracciabile nell’accelerazione data, nell’ultimo ventennio, alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro – anche definite di flessibilità del lavoro o di precarizzazione[1]. Politiche che sono state attuate in Italia con relativo ritardo rispetto ai principali Paesi OCSE (soprattutto anglosassoni) e, tuttavia, sono state attuate con la massima intensità, rispetto a tali Paesi, nel corso degli ultimi anni, a partire in particolare dalla c.d. Legge Biagi (L.30/2003).
Il dibattito accademico è stato dominato dalla convinzione secondo la quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è uno strumento di policy necessario per accrescere l’occupazione in un contesto dominato da crescente volatilità della domanda che le imprese fronteggiano. Solo in anni più recenti, si è fatta strada la convinzione che le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo sull’andamento del tasso di occupazione e costituire un fattore di freno alla crescita economica. Ciò fondamentalmente per due ragioni.
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