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manifesto

Altro che Bretton Woods

Comunque vada, il «G20» sarà un fallimento

Walden Bello*

g20leadersSe mai una conferenza internazionale è stata destinata al fallimento, questo è il caso del prossimo meeting G20 di Londra, presentato come «una nuova Bretton Woods» da cui dovrebbe scaturire una risposta coordinata e globale alla depressione in atto, e creare un nuovo ordine di governance economica globale, proprio come la prima Conferenza di Bretton Woods diede vita all'ordine multilaterale mondiale del secondo dopoguerra.

In primo luogo, la sede appropriata per una impresa così ambiziosa è l'Onu, e non un raggruppamento informale dei paesi più ricchi del mondo con una rappresentanza simbolica del Sud del mondo con scarsa legittimità. Il G20 è un club esclusivo, mentre gli architetti dell'ordine di Bretton Woods cercarono di essere il più possibile inclusivi, intitolando il meeting «Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni unite» e chiamando a raccolta i rappresentanti di 44 paesi sia pure nel bel mezzo della guerra mondiale, nel luglio 1944.

In secondo luogo, questo meeting si è attribuito il compito di realizzare in un giorno solo quello che gli architetti di Bretton Woods fecero in 21 giorni. Possiamo già scorgere i contorni del comunicato finale: un'intesa ampia su poche questioni, nascondendo le differenze sui dettagli chiave.

Per contro, gli architetti di Bretton Woods, tra i quali vi era l'economista britannico John Maynard Keynes, sapevano che il diavolo è nei dettagli e impiegarono tre settimane a elaborare l'accordo finale. A Londra conterà l'immagine, non la sostanza.


Guasti dell'«autoregolamentazione»


In terzo luogo, per dare una risposta al crollo economico globale a Londra si tenterà di utilizzare una serie di istituzioni fallimentari invece di crearne di nuove, come avvenne invece a Bretton Woods. Il G20, il Financial Stability Forum e Basilea II sono le istituzioni attivate per gestire la creazione di una nuova architettura finanziaria globale; eppure, tutte e tre erano state create o avviate dopo la crisi finanziaria asiatica per proporre una struttura di regolamentazione globale, ma non hanno fatto niente per regolare i derivati, la vendita allo scoperto, gli hedge funds, e gli altri meccanismi e comportamenti finanziari che hanno contribuito alla débâcle finanziaria asiatica o comunque hanno rischiato di produrre nuove crisi.

In realtà queste istituzioni, invece di regolare il capitale finanziario, hanno fatto propria la strategia del settore privato della «autoregolamentazione». Tra i mantra che esse hanno ripetuto, e così facendo legittimato, c'erano: l'idea che il controllo sui capitali fosse negativo per le economie in via di sviluppo; l'idea che la vendita allo scoperto, o speculazione sulla movimentazione di titoli prestati, fosse un'operazione di mercato legittima; e l'idea che i derivati - o titoli che permettono di scommettere sui movimenti di un determinato asset - «perfezionassero» il mercato. Il loro messaggio implicito era che il modo migliore di regolare il mercato fosse lasciare questo compito agli stessi operatori del mercato, che avevano sviluppato modelli sofisticati ma affidabili di «valutazione del rischio».

Dunque oggi si chiede a istituzioni che sono state una parte del problema di diventare una parte centrale della soluzione.
Comunque l'aspetto più problematico della soluzione G20 è costituito dal Fondo monetario internazionale (Fmi). Gli Usa e l'Unione europea stanno cercando di incrementare il capitale dell'Fmi portandolo da 50 a 500 miliardi di dollari. Poi l'Fmi presterebbe questi soldi ai paesi in via di sviluppo per stimolare le loro economie, e il segretario Usa al Tesoro Tim Geithner ha proposto che sia proprio il Fondo a supervisionare questo esercizio globale.


Il diritto feudale europeo


In primo luogo, c'è la questione della rappresentanza, che continua a preoccupare molta parte del Sud del mondo. Per quanto riguarda il diritto di voto all'Fmi, finora sono stati apportati solo cambiamenti marginali. Nonostante la richiesta di un maggior potere di voto per i membri del Sud del mondo, i paesi ricchi sono ancora ampiamente sovrarappresentati nel consiglio di amministrazione, mentre i paesi in via di sviluppo - specialmente l'Asia e l'Africa - sono largamente sottorappresentati. L'Europa ha un terzo delle poltrone e pretende il diritto feudale di nominare sempre un europeo come managing director. Gli Usa hanno quasi il 17% delle poltrone, cosa questa che dà loro il potere di veto.

In secondo luogo, c'è la performance del Fondo monetario internazionale durante la crisi finanziaria asiatica del 1997, che ha fatto naufragare la sua credibilità. Il Fondo ha contribuito a determinare la crisi, spingendo i paesi asiatici a eliminare i controlli sui capitali e a liberalizzare i loro settori finanziari, e promuovendo sia l'entrata massiccia di capitale speculativo, sia la sua uscita destabilizzante al primo segno di crisi. Esso ha poi spinto i governi a tagliare le spese, pensando che il problema fosse l'inflazione, quando invece avrebbe dovuto chiedere una maggiore spesa pubblica per contrastare il crollo del settore privato. Questa misura prociclica ha finito per accelerare il crollo che ha portato alla recessione a livello regionale. Infine, i miliardi di dollari dei fondi di salvataggio non sono andati a salvare le economie che stavano crollando, ma a compensare le istituzioni finanziarie straniere per le loro perdite, un esempio da manuale di «azzardo morale» o l'incoraggiamento a comportamenti irresponsabili per quanto riguarda la concessione di prestiti.

La Thailandia ha saldato il suo conto con l'Fmi nel 2003 e ha dichiarato la sua «indipendenza finanziaria». Il Brasile, il Venezuela e l'Argentina hanno fatto lo stesso, e l'Indonesia ha dichiarato la sua intenzione di imitarli. Altri paesi hanno fatto altrettanto, preferendo rafforzare le loro riserve di valuta estera per difendersi dagli eventi esterni, piuttosto che contrarre nuovi prestiti con l'Fmi. Questo fenomeno ha portato alla crisi finanziaria dell'Fmi, perché la maggior parte dei suoi introiti proveniva dai pagamenti dei maggiori paesi in via di sviluppo indebitati.

I fautori dell'Fmi dicono che oggi esso vede il vantaggio di una massiccia spesa in disavanzo e che, con Richard Nixon, può dire: «Ora siamo tutti keynesiani». In molti però non sono d'accordo. Eurodad, una Ong che monitora i prestiti erogati dall'Fmi, segnala che i prestiti concessi ai paesi in via di sviluppo sono ancora accompagnati da condizioni onerose. Inoltre alcuni prestiti erogati molto recentemente dall'Fmi incoraggiano ancora la liberalizzazione finanziaria e bancaria. E nonostante l'attuale orientamento a puntare sullo stimolo finanziario - per cui alcuni paesi, come gli Usa, invitano i governi a portare la propria azione di stimolo almeno al 2% del Pil - l'Fmi chiede ancora ai paesi che contraggono un prestito ma dispongono di poche entrate, di fissare come tetto per la spesa in disavanzo l'1% del Pil.

Infine c'è la questione se il Fondo sappia davvero ciò che sta facendo. La sua quasi totale incapacità di previsione della crisi finanziaria che si andava profilando mina gravemente la sua credibilità. Nella consultazione articolo IV del 2007 con gli Usa, il suo board ha affermato: «Il sistema finanziario ha mostrato una capacità di recupero impressionante, anche rispetto alle recenti difficoltà nel mercato dei mutui subprime». In breve, non solo il Fondo ha fallito miseramente con le sue prescrizioni ma, nonostante una scuderia di economisti che dovrebbero essere tutti di prim'ordine, ha mancato completamente anche per quanto riguarda le sue responsabilità di sorveglianza.

Per quanto ampie siano le risorse che il G20 metterà a disposizione dell'Fmi, è del tutto evidente che ci sarà scarso interesse internazionale a un programma di stimolo globale gestito dal Fondo.


Nello spirito di Keynes


La risposta del Nord del mondo alla crisi attuale, che consiste nel riesumare istituzioni fossilizzate, ricorda il famoso detto di Keynes: «La difficoltà non sta tanto nello sviluppare nuove idee, quanto nello sfuggire a quelle vecchie».

Così, nello spirito di Keynes, proviamo a rispondere alla domanda su cosa bisognerebbe fare per dare una risposta globale alla crisi.
In primo luogo, invece del G20, il Segretario generale dell'Onu e l'Assemblea generale dovrebbero convocare una sessione speciale dell'Onu per disegnare il nuovo ordine multilaterale globale. Come per la Conferenza di Bretton Woods, anche questo dovrebbe essere un processo inclusivo, e la sessione di lavoro dovrebbe durare svariate settimane. Un risultato chiave potrebbe essere la creazione di una struttura finanziaria mondiale transitoria - con una rappresentanza universale nei suoi livelli decisionali - cui affidare il compito di coordinare l'attuale impresa globale.

In secondo luogo, bisognerebbe aiutare immediatamente i paesi ad affrontare la crisi; i debiti dei paesi in via di sviluppo nei confronti delle istituzioni del Nord dovrebbero essere cancellati. Ciò permetterebbe ai paesi in via di sviluppo di accedere a maggiori risorse e avrebbe un effetto di stimolo maggiore dei soldi dell'Fmi.

In terzo luogo, l'elemento principale dell'architettura della nuova governance globale dovrebbe essere costituito da strutture regionali per trattare le questioni finanziarie, compresa la finanza per lo sviluppo, e non da un altro sistema finanziario in cui le risorse e il potere siano monopolizzati dai paesi del Nord del mondo mediante istituzioni - come appunto l'Fmi - centralizzate e dominate da loro. In Asia orientale, il raggruppamento «Asean Plus Three» (l'acronimo Asean sta per Association of South-East Asian Nations - Associazione delle Nazioni dell'Asia Sud-Orientale, ndt) o «Iniziativa di Chiang Mai» è un'esperienza promettente che va estesa, ma che ha anche bisogno di essere ridisegnata in modo che possa dare maggiormente conto del suo operato ai popoli della regione. In America Latina sono già in corso molte iniziative regionali promettenti, come l'Alternativa bolivariana per le Americhe e la Banca del Sud. Qualunque nuovo ordine globale deve avere come pilastri istituzioni regionali che rispondano del proprio operato.

Naturalmente ci sono degli interventi da fare immediatamente, nel contesto di una trasformazione più a lungo termine, fondamentale e strategica, di un sistema capitalistico globale che è andato in pezzi.

In breve, la crisi attuale va vista come una grande opportunità di creare un nuovo sistema, un sistema che ponga fine non solo alla fallimentare governance globale neoliberista, ma anche alla dominazione euro-americana dell'economia mondiale mettendo al suo posto un ordine più decentrato, deglobalizzato e democratico.

* Walden Bello è professore di sociologia presso l'Università delle Filippine a Diliman. È inoltre presidente della Freedom from Debt Coalition e analista presso Focus on the Global South, un istituto di ricerca e advocacy con sede a Bangkok.
Traduzione Marina Impallomeni

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