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sinistra

Dall’aristocrazia operaia al sottoproletariato

di Dino Erba

Per nascondere la propria miseria politica e intellettuale

rabochaya aristokratiyaQuand’ero giovane, negli anni Settanta del Novecento, un tema ricorrente era il ruolo della cosiddetta aristocrazia operaia nel frenare e ostacolare il presunto processo rivoluzionario. A distanza di mezzo secolo, molte cose sono mutate sotto il cielo del capitale, e il ruolo di freno e ostacolo è passato al cosiddetto sottoproletariato. Occorre sempre un capro espiatorio sociale, per giustificare la propria (nostra) miseria politica e intellettuale.

In entrambi i casi, c’era e c’è molta confusione teorica sotto il mutevole cielo del capitale.

E, in entrambi i casi, gioca il peso del passato, nel bene e nel male.

Le due categorie sociali – aristocrazia operaia e sottoproletariato – sono strettamente connesse, sono due facce della medesima medaglia economico-sociale del capitale. Solo per facilitare l’esposizione le separo, per poi ricomporne la contraddittoria unità. Per farla breve, non ci vuol molto a capire che il sottoproletariato rappresenta gli strati bassi dei lavoratori salariati (i più sfigati), mentre l’aristocrazia rappresenta gli strati alti (i più viziati). I rispettivi orientamenti ideologici e politici dipendono dalla fase storica, e non dalle loro caratteristiche congenite (dal loro Dna, si dice oggi...).

Seguendo questo filo conduttore, cercherò di proporre una linea interpretativa.

 

Sottoproletariato

Che cosa sia il sottoproletariato, ce lo spiega Marx, nel capitolo 24, del Primo libro del Capitale: La cosiddetta accumulazione originaria. In breve.

In italiano, il termine è tradotto impropriamente dal tedesco Lumpenproletariat che significa proletariato straccione. La sua comparsa avvenne durante la Rivoluzione industriale, che ebbe il suo epicentro nell’Inghilterra del XVIII secolo, ma ebbe una lunga gestazione nei secoli precedenti: in Italia, Fiandre, Spagna, Francia, Germania.

Era composto soprattutto da quella parte della popolazione rurale che, espropriata (sbattuta sulla strada), non trovava fonte di sostentamento nella nascente industria capitalistica, a causa dell’eccedenza di braccia in vendita a poco prezzo. In poche parole, erano disoccupati cronici o occupati irregolarmente, e si caratterizzava come coloro che sono ai margini del processo produttivo e vivono costantemente al di sotto delle condizioni medie della classe operaia, secondo i discutibili parametri adottati nel periodo considerato, per esempio, per l’Italia del dopoguerra, si potrebbe indicare il paniere della scala mobile.

Per estensione politica, questa definizione è stata disgraziatamente applicata, sia da Marx che da Engels, per indicare spregiatamente i declassati, i rifiuti delle altre classi, i falliti sociali, i bohémiens, la «schiuma della società»...

Il concetto di sottoproletariato è abbastanza fluido e fonte di discutibili illazioni moralistiche, più che politiche: si riferisce, oltre che a un gruppo sociale, anche a una mentalità, secondo Marx rilevabile perfino a livello dell’aristocrazia finanziaria dove le inclinazioni sono la «riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese».

In opposizione al proletariato, si potrebbe dire che il sottoproletariato esiste al di fuori del lavoro sociale, è parassitario e possiede una mentalità antisociale, individualista, debole e pronta a ogni compromesso; esso costituisce uno strato sul quale la borghesia ha potuto contare nei momenti decisivi della lotta di classe.

Secondo questa visione pretesca, si potrebbe affermare che i dieci immigrati italiani massacrati brutalmente a Aigues-Mortes dai proletari francesi, il 16-17 agosto 1893, fossero crumiri sottoproletari. Ecco i fatti, molto attuali!

«Nell'estate del 1893 la Compagnie des Salins du Midi cominciò ad assumere lavoratori per la raccolta stagionale del sale dalle vasche di evaporazione delle saline. Con la disoccupazione in aumento a causa della crisi economica europea, la prospettiva di trovare lavoro stagionale attirò più persone del solito. Gli stagionali furono suddivisi in tre categorie: gl ardéchois (contadini, provenienti in molti casi, anche se non sempre, dal dipartimento rurale dell’Ardeche che lasciavano i campi stagionalmente), i piémontais (italiani, provenienti da tutta l'Italia settentrionale e reclutati sul posto da caporali) e i trimards (vagabondi). In base alle politiche di reclutamento della Compagnie des Salins du Midi, i caporali dovevano a formare squadre miste composte sia da francesi che da italiani. La mattina del 16 agosto una rissa tra lavoratori delle due comunità assunse rapidamente l’aspetto di una «questione d’onore».

Le vittime furono: Carlo Tasso di Alessandria, Vittorio Caffaro di Pinerolo, Bartolomeo Calori di Torino, Giuseppe Merlo di Centallo (Cuneo), Rolando Lorenzo di Altare (Savona), Paolo Zanetti di Nese (Bergamo), Amaddio Caponi di San Miniato (Pisa) e Giovanni Bonetto di Frassino (Cuneo). Il corpo di una nona vittima, Secondo Torchio di Tigliole (Asti) non fu mai trovato. Altri 17 italiani erano feriti troppo gravemente per essere evacuati in treno e rimasero in Francia. Uno di loro morì di tetano dopo un mese.

Il 18 luglio 2018, è stata posta una targa per ricordare l’eccidio del 1893 ad Aigues-Mortes [«Piemonteinforma», 18 luglio 2018, http://www.regione.piemonte.it/pinforma/ cultura/2170-una-targa-per-ricordare-l-eccidio-dei-piemonte si-del-1893-ad-aigues-mortes-in-francia.html]».

La classe dirigente italiana colse l’occasione per alimentare le tensioni con la Francia e per rafforzare l’alleanza con gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria), mal digerita da molti italiani di «sinistra».

Certamente, responsabili dell’eccidio di Aigues-Mortes furono i padroni e i loro faccendieri politici che, allora come ieri, soffiavano sul fuoco per dividere i proletari. Ieri come oggi, i padroni e i loro faccendieri politici trovavano compiacenti intellettuali con molti se e molti ma...

 

Aristocrazia operaia

Negli anni Settanta, era di moda Lenin, e a lui veniva attribuita le «teoria» dell’aristocrazia operaia, è una paternità che non gli nego. In realtà, già Engels nel 1892, nella Prefazione al suo La situazione della classe operaia in Inghilterra, del 1845, distingue tra operai skilled (qualificati) e unskilled (non qualificati). I primi erano gli eredi di una tradizione artigianale che sopravviveva nella manifattura e sarebbe sopravvissuta in parte nella grande industria, almeno fino agli inizi del Novecento, quando si impose la cosiddetta fabbrica fordista, con le catene di montaggio. Ciò non toglie che le distinzioni restarono: con gli operai di mestiere o qualificati (vedi Daniel Mothé, Diario di un operaio 1956-1959, Einaudi, Torino, 1960). Le grandi fabbriche fordiste, spesso, erano isole in un mare di piccole e medie fabbriche, in cui prevalevano sistemi di produzione tradizionali, se non arretrati, come in Italia, in cui comunque gli operai di mestiere rappresentavano una consistente minoranza, che a volte surrogava il padrone.

Sul piano sindacale, questa divisione è ben espressa dalle vicende del movimento operaio americano, con l’American federation of labor (Afl), operai di mestiere, e gli Industrial workers of the world (Iww), operai NON qualificati, per certi versi proletari straccioni. Da questa contrapposizione, e trainato dalla fabbrica fordista, sarebbe nato nel 1935 il Congress of industrial organization (Cio), sindacato industriale che, nel 1955 si unì all’Afl (Afl-Cio, vedi: Daniel Guérin, Il movimento operaio negli Stati Uniti, Editori Riuniti, Roma, 1975).

Lenin, nel suo Imperialismo (1916), allarga la visione considerando la rapina coloniale che assicurava ai capitalisti delle Potenza extraprofitti, grazie ai quali potevano elargire qualche briciola agli operai delle loro fabbriche, e coinvolgerli socialmente e politicamente.

Sono tutti fattori che contribuirono alla formazione dell’aristocrazia operaia nei Paesi occidentali, gli unici che considero VERAMENTE capitalistici. Fatte queste premesse, è bene allargare l’ottica al tempo, considerando più attentamente la fase di sviluppo e affermazione del modo di produzione capitalistico che copre parte dell’Ottocento e parte del Novecento.

Nel corso dell’Ottocento, sull’onda della società borghese trionfante, in Inghilterra e in Francia e via via in altri Paesi capitalistici, veniva a formarsi una società parallela, proletaria, costituita da organizzazioni sindacali, culturali, politiche, i cui interessi contrastanti avrebbero potuto turbare lo sviluppo capitalistico, con scioperi e rivolte, come peraltro avvenne per tutto l’Ottocento, almeno fino alla Comune di Parigi (1871).

Per evitare o limitare quell’eventualità, l’unica via era la conciliazione tra i contrapposti interessi o meglio l’assimilazione e la subordinazione degli interessi proletari al modo di produzione capitalistico, soluzione che fu possibile grazie al grande sviluppo delle forze produttive allora in atto, soprattutto in Inghilterra, dove, in ambito imprenditoriale, si diffusero iniziative assistenziali, il «compromesso vittoriano». In questa direzione, confluivano gli interessi «generali» della borghesia (il «capitale complessivo») e di una parte consistente degli operai, rappresentati dalle Trade Unions e, poi, dal Labour Party.

Nel processo di assimilazione-subordinazione dei proletari al modo di produzione capitalistico, furono coinvolti strati minoritari, che, comunque, ebbero la funzione di specchio per le allodole per la gran massa (non TUTTA), facendogli balenare la possibilità di migliorare la propria condizione esistenziale.

Il ruolo decisivo lo ebbe lo Stato che si fece carico dei crescenti oneri economici. Il passo più importante in questa direzione avvenne in Germania, con Bismarck, che, dal 1881-1898, varò il primo sistema previdenziale al mondo (il Welfare State), preso a modello da molti altri Paesi.

Accanto all’intervento statale (se non alla sua ombra protettiva), crescevano anche gli organismi proletari, economici e politici, in cui prendeva piede un indirizzo riformista, confortato dai risultati ottenuti e dalla possibilità di raggiungerne di nuovi. E con questa prospettiva, sorsero e si svilupparono la Seconda Internazionale (1889) e i partiti socialdemocratici e ... l’aristocrazia operaia.

Accanto, e a volte «dentro», il poderoso sviluppo del modo di produzione capitalistico, in Inghilterra e in Germania e via via in altri Paesi industrializzati, sorsero altrettanto poderose organizzazioni operaie (partiti, sindacati, cooperative ...), i cui apparati tesero ad autonomizzarsi, creando quei centri di potere politico e di interesse economico, descritti da Roberto Michels riguardo alla socialdemocrazia tedesca (Roberto Michels, Sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna, 1966 e, per l’Italia: Roberto Michels, Storia critica del movimento socialista italiano fino al 1911, Il Poligono editore, Roma, 1979 - reprint, Ed. La Voce, Firenze, 1911).

Contemporaneamente, mutava la composizione sociale della classe operaia, con l’emergere di stati privilegiati – l’aristocrazia operaia –, i cui interessi colludevano con quelli del capitalismo nazionale. Di pari passo, le comunità di lotta proletarie si sarebbero trasformate in comunità di interessi corporativi, pur mantenendo, almeno inizialmente, l’originaria patina eversiva, tanto più accentuata quanto più impegnativo era lo scontro con residui precapitalistici, spesso in subalterna collusione con la borghesia imprenditoriale.

Non solo. In realtà, il compromesso comportò per i proletari poche rose e molte spine, come le guerre, in cui furono carne da cannone e vittime sacrificali. Qualche frutto si sarebbe visto dopo la Seconda guerra mondiale, con il trionfo del Welfare State, grazie a trent’anni di sviluppo economico (la Golden Age), ma solo in Occidente, e con molte nubi.

In Italia, il Welfare fu connotato dallo statalismo (fascista prima, stalinista poi), condito dalla sussidiarietà cattolica. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, nonostante i diversi destini politici, tutte le componenti «operaiste» di quegli anni (a partire dai «Quaderni Rossi» di Raniero Panzieri & Co.) avevano in comune una concezione che vedeva nel Welfare State il frutto delle lotte operaie e non una soluzione insita nel processo di sussunzione reale del lavoro al capitale. Certamente, nei singoli Stati, alla connotazione del welfare avevano contribuito le lotte operaie, ma il fattore determinante era stata la forza dei singoli capitalismi nazionali. A livello europeo, confrontando epidermicamente Italia e Svizzera, si potrebbe dire che l’esten-sione del welfare fu inversamente proporzionale all’intensità delle lotte …

Con la fine del ciclo espansivo (fine anni Settanta del Novecento), il Welfare iniziò a rifluire e, con lui, rifluirono gli entusiasmi politici progressisti che cercarono giustificazioni al proprio fallimento, tirando in ballo la benedetta aristocrazia operaia, proprio in un periodo in cui le ristrutturazioni industriali, unitamente allo smantellamento del Welfare, ne ridimensionavano il peso sociale e politico, da cui la crisi dei partiti della sinistra nazional-popolare, come il Pci.

A latere, sarebbero germogliate le teorie sull’ope-raio massa, l’operaio sociale ... che vissero lo spazio di un mattino e si dissolsero non appena sulla scena sociale italiana apparvero, i senza risorse spinti dal dissesto del Sud del Mondo ... Nel milieu politico di sinistra (e di estrema sinistra), prevalsero allora pregiudizi ideologici, conditi dalla senile grettezza sociale italiana, gelosa dei miserabili privilegi ottenuti in tempi di vacche grasse.

E allora, ecco riemergere il famigerato sottoproletariato! Su cui scaricare l’ignavia politica di un ceto intellettual-politico affetto da nostalgie per il bel tempo che fu (anche per incipiente demenza senile). E qui ci starebbe bene un bel PORCO ... Calma e gesso.

Nella società capitalistica, i rapporti sociali sono sempre stati dinamici, mutevoli, fluidi, liquidi... Certamente, la dinamica attuale ha subito una forte accelerazione, in cui il lavoro si può definire a pieno titolo sans phrase, per dirla con Marx (Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Introduzione di Giulio Pietranera, Newton Compton Italiana, Roma, 1972, p. 249). Ovvero, il lavoro non ha più alcuna qualificazione – skilled labour, un’eredità del passato –, se non quella di essere pura erogazione di energia (forza-lavoro). In qualunque campo esso si svolga: legale o illegale, produttivo o improduttivo, utile o nocivo... Solo nelle forme, il conflitto potrebbe sembrare del tutto anomalo e inedito, rispetto al passato. In realtà, muta solo la forma ma la sostanza è la stessa: l’estorsione di plusvalore. Anzi, questa sostanza, oggi, è portata alle sue estreme conseguenze.

Come da tempo vado ripetendo, da ormai mezzo secolo attraversiamo una crisi epocale del modo di produzione capitalistico che, nell'ultimo ventennio, si è caratterizzata per la costante disgregazione dei rapporti economici e sociali e quindi anche politici. Da cui discende la lotta di tutti contro tutti, le cui manifestazioni esplodono dapprima nelle relazioni tra i singoli capitali (concorrenza esasperata) e nelle loro aggregazioni stataliste da cui il sovranismo dilagante.

Altrettanto avviene tra i proletari dove, però, non avendo NULLA DA PERDERE E TUTTO DA GUADAGNARE (almeno in prospettiva) possono (ri)costituirsi aggregazioni (comunità) di lotta.

Tra le condizioni che possono favorire questa prospettiva c’è il superamento delle vecchie suggestioni ideologiche.

Certamente, i venduti ci sono e ci saranno, ma mi sembra sciocco (e dispersivo) andarne a ricercare il virus in particolari strati sociali che hanno fatto il loro tempo, come il sottoproletariato e l’aristocrazia operaia. E resuscitarli oggi contribuisce alla disgregazione politica del fronte proletario.

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