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Francesco Pecoraro – Lo Stradone

recensione di Giorgio Patrizi

Francesco Pecoraro: Lo stradone, pp. 448, € 18, Ponte alle Grazie, Milano 2019

Ricordava Franco Moretti che la letteratura è “ortgebunden”, legata al luogo in cui nasce, perché “ogni spazio determina, o quanto meno incoraggia, un diverso tipo di storia (…) nel romanzo moderno quello che accade dipende strettamente da dove esso accada”. Francesco Fiorentino sottolinea come “lo spazio che consideriamo reale si produce sempre da questa dialettica tra l’esperienza dei luoghi del mondo e le loro rappresentazioni. Lo studio delle topografie letterarie è in buona parte studio di questo scambio incessante tra la scrittura letteraria e lo spazio”. C’è una dimensione pensata, uno spazio pensato che è alla base della creazione di uno spazio fisico, secondo un geniale geografo quale Franco Farinelli: le forme dello spazio percepito elaborano una complessa omologia tra sé, le forme dello spazio pensato e quelle dello spazio misurato. Quando Aby Warburg costruisce il proprio “Atlante” (che è poi il gigante che porta il mondo sulle spalle, non dimentichiamolo!), raccolta di immagini di ogni tipo, dall’antichità alla contemporaneità, realizza una galleria in cui si annulla ogni dimensione temporale primaria, per enfatizzare la logica della contiguità, l’asse sintagmatico su cui si fonda il significato più profondo dell’insieme.

Ripenso a questa vertiginosa prospettiva conoscitiva, che pone in primo piano una quasi inedita dimensione dello spazio come chiave di interpretazione e tassonomia della vita, del singolo ma anche della comunità e dell’epoca, attraversando il mondo babelico dello Stradone (2019) di Francesco Pecoraro: libro-testimonianza di un’epoca, da cui trae un senso che poi restituisce come omaggio (condanna) all’epoca stessa e alla sua storia. Dopo La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013), racconto di tanti frammenti inemendabili, flash ambigui di esistenze rovinose (“ogni frammento, leggiamo nel romanzo, invece di comporsi con gli altri pezzi a formare un quadro leggibile, coerente, ne richiama di più profondi incongrui misteriosi, capaci di toccarmi in luoghi dimenticati della memoria”), ora la narrazione fluviale di Pecoraro si ricompone in un diario insieme allucinato e ragionante: da uno spazio, che, come ci dicono teorici e analisti, produce narrazioni, esperienze, visioni. Dalla geografia composita dei viaggi del Brandani, protagonista della Vita in tempo di pace, al mondo ossessivamente chiuso attorno al luogo simbolo di una strada che attraversa una fetta di un mondo degradato, dalla incerta fisionomia sociale (proletario, sotto-proletario, piccolo borghese, borghese decaduto?) collocato in una anonima zona sud della Capitale, a pochi passi dal centro, dal Vaticano, ma anche dalle nuove prospettive direzionali degli uffici della burocrazia. Un luogo peraltro – accostamento non casuale – dove Scola ambientò la baraccopoli di Brutti, sporchi e cattivi; non in periferia, appunto, ma un’enclave, grottesca e violenta, incistata nel mezzo di un quartiere di uffici, commercio, linee di comunicazione.

Lo stradone è un romanzo ben calibrato sui tempi ma, come si diceva, soprattutto sui luoghi di una narrazione estremamente composita, in cui si alternano, davanti ad uno spettatore apocalittico, personaggi e voci di un universo complesso. Nasce dal progetto ambizioso di un racconto-mondo, in cui si squadernano vite alla ricerca di una serenità fittizia, dilaniate da frustrazioni colossali e passioni minimali. L’incipit ricorda un altro incipit, topico del romanzo europeo del Novecento, quello dell’Uomo senza qualità di Musil, con lo sguardo che, dalle altezze dei fenomeni atmosferici, plana via via sul mondo degli uomini, gremito dei segni di un’umanità massificata, gremito di storie e di voci. Qui è un telescopio spaziale a restituirci le immagini di un universo già stato: “una proiezione nel presente di oggetti celesti esistiti nel passato… Ma nell’immagine sono ancora lì, presenze luminose di entità esistite in tempi lontani”. Siamo nello spazio di un presente metastorico, dove regna una Stagnazione epocale, in cui le esistenze sono bloccate in una ritualità di alienante conforto. Tutte le vicende che inanella il racconto – raccontate da un soggetto “ironico” (nell’accezione classica) che scruta e giudica – appartengono alla realtà dello stradone, per poi essere amplificate nella più ampia dimensione dello spazio di vita della comunità. Lo Stradone attraversa il Quadrante, nella Città di Dio, per esibire le figure di un Ristagno in cui si brucia ogni attesa e speranza: dove il passato ritorna sotto le vicende di miti e leggende, ma il presente è fissato nella ritualità delle voci e dei gesti dei frequentatori del Bar Porcacci, centro di scambi in cui precipitano umori, dinamiche, dialoghi e racconti. Lo spazio – di cui si diceva – è quello in cui si alternano le visioni dei grandi mutamenti (a partire dalla trasformazione dello spazio urbano, con le trasformazioni economico-antropologiche che ne hanno segnato la nuova attuale fisionomia post-proletaria degli abitanti) e la constatazione della fissità di esistenze che sopravvivono nell’indistinto: “C’è stato un tempo in cui il corpo della società era attraversato da gagliarde fratture e tensioni tra le classi, oggi invece mi appare come un Grande Ripieno, in cui tutti si mescolano con tutti”.

Il ritmo della narrazione è scandito dal ritmo dei due registri: la riflessione sul passato dinamico, talora eroico, e l’inserto di un quotidiano dialettale e micro-conversativo, in cui si propongono battute, sentenze, esclamazioni delle “chiacchiere da bar”. Queste ora divengono il sonoro del presente, la voce più aggiornata in cui si esprime lo Zeitgeist: il romanesco che affiora da battute irrelate, citate. A questa voce si oppone – come dimensione epica – ad esempio il racconto immaginifico di una visita di Lenin agli operai delle cave e delle fornaci: le fornaci per forgiare i mattoni, che costituivano, alle origini, l’universo di riferimento della comunità di lavoratori. Vi si aggira un Lenin perfino turbato dall’attesa messianica tanto viva in quei rivoluzionari in pectore.

Circolano, nella nostra narrativa contemporanea, queste narrazioni fluviali, in cui si raccolgono i detriti di mondi in frantumi. Ad esempio, in La scuola cattolica, di Edoardo Albinati, i delitti efferati di criminali fascisti vengono letti all’interno della storia, non tanto dei singoli, ma della comunità della scuola frequentata da loro e dallo scrittore. Né si rinuncia a cogliere i caratteri epocali della perdita di umanità che questi rigurgiti di violenza testimoniano, come esito di una cultura di quartiere, pure un quartiere “bene”. Qui lo Stradone si fa collettore di frammenti di una Italia stravolta dall’ignoranza e dal consumismo. In entrambi i casi l’universo di riferimento è uno spazio che crea storie, che mette in scena vite al limite della sopravvivenza, uscendo dal secolo complesso per approdare alla semplificazione brutale del contemporaneo. Scrive Pecoraro: “Finora protetti, ma anche segnati, anzi proprio marchiati dal Novecento, finora vissuti nella sua pace piena di tensioni, esterne e interne… ma protetti: ora che le nostre vite, salvaguardate e quasi affogate in decenni di doppiezza e falsa coscienza, volgono al termine, vediamo arrivare queste ondate distruttive, segno di gravi turbamenti planetari, a sconvolgere e modificare quello che ci sembrava di avere imparato del mondo”.

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