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gliasini

Al tempo dei Quaderni Rossi

di Giovanni Mottura

Il 3 ottobre è morto a Bologna, Giovanni Mottura, nato a Torino nel 1937, importante meridionalista, sociologo e membro del movimento evangelico valdese. Negli anni Sessanta a Torino si unì al gruppo di giovani intellettuali marxisti intorno a Renato Panzieri, partecipando alla redazione della rivista “Quaderni rossi” dando avvio alla nuova sinistra non stalinista e critica contro l’autoritarismo e il dogmatismo. Lo ricordiamo con questo suo ricordo di Vittorio Rieser, compagno degli anni torinesi, pubblicato sul n. 169 dello “Straniero” del luglio 2014

La voce del compagno che la mattina di giovedì 22 maggio mi ha telefonato “questa notte è morto Rieser” ha evocato, come in un déjà vu, la stessa situazione improvvisa e profonda di vuoto, di assenza non reparabile, provata la notte del 9 ottobre del 1964 a Torino, quando, verso le tre uno squillo di telefono mi ha svegliato e la voce di Vittorio mi ha detto: “Raniero sta morendo, vieni presto in via Sei ville”. Ero consapevole del tempo trascorso da allora, che ero lontano da Torino, che non ero in quella città notturna che la vespa aveva attraversato veloce, senza neanche che avessi la percezione di guidarla, verso quella casa che nei pochi anni di presenza torinese di Panzieri era stata un luogo intenso di amicizia, scambi, progetti, apprendimento e reciproco ascolto per un gruppo di giovani, un fratello maggiore e la sua compagna.

Per Vittorio e me, in particolare, uno dei luoghi di maturazione di quella che lui stesso, in un convegno di mezzo secolo dopo, ha ricordato come la “simbiosi dell’esperienza di formazione politica mia e di Mottura”. In quella notte di cinquant’anni fa, in effetti, ci siamo detti che tutto ciò che insieme ci eravamo trovati a fare, imparare, pensare, vedere, vivere nel corso del decennio precedente era arrivato a conclusione. L’incontro e la collaborazione con Raniero ci aveva aiutato in modo decisivo a capirne e definirne il senso e la direzione verso la quale ci indirizzava: era – per usare parole di Vittorio – “Il metodo dell’inchiesta come riferimento politico permanente per noi (ovvero..) il rifiuto di trarre dall’analisi del livello del capitale l’analisi del livello della classe operaia (..). Il metodo dell’inchiesta cioè il metodo che dovrebbe permettere di sfuggire ogni forma di visione mistica del movimento operaio, che dovrebbe assumere sempre un’osservazione scientifica del grado di consape volezza che ha la classe operaia, e quindi essere anche la via per portare questa consapevolezza a gradi più alti.” (“L’inchiesta nella fabbrica e nella società”, in: E.Pugliese, a cura di, L’inchiesta sociale in italia, Carocci 2008) Ma da quel momento sviluppare quella linea appunto – come riferimento politico permanente, cercando di renderne al contempo chiare le implicazioni teoriche (relative al marxismo e ai suoi sviluppi storici concreti) e pratiche (relative ai rapporti tra organizzazioni e classe e ai modelli relazionali concreti che li caratterizzano) ci appariva come compito affidato a noi e ai nostri compagni. L’intenso e per molti versi gratificante periodo di “apprendistato” era concluso. Il come e dove continuare era terreno di responsabilità nostra.

Nell’intervento del 2007 che ho citato, Vittorio Rieser indica esplicitamente il “metodo dell’inchiesta” come elemento che ha caratterizzato già il periodo della nostra formazione politica, differenziandola da quella di altri giovani di origine sociale simile approdati a posizioni di sinistra attraverso esperienze di partecipazione a organizzazioni studentesche. Così Vittorio introduceva in quell’occasione l’argomento: “Racconterò come il metodo dell’inchiesta si è sviluppato in un gruppo di compagni di Torino (…) tra la seconda metà degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, quindi da prima dei ‘Quaderni Rossi’, che posero l’inchiesta operaia come strumento fondamentale dell’azione del movimento operaio”. Penso proprio che nell’aver pienamente condiviso con Vittorio, in un rapporto personale particolarmente intenso, le esperienze di quel periodo (pure ricco di incontri e amicizie anch’esse perdurate nel tempo e nella memoria) giustifichi pienamente il termine “simbiotico” con il quale ha definito la nostra formazione politica. Non intendo addentrarmi in ricordi autobiografici, ma forse è utile dire che il nostro è stato un incontro tra due persone molto diverse, circostanza che avrebbe potuto generare un rapporto assai squilibrato. Vittorio era uno studente liceale assolutamente non “primo della classe” formalmente, ma spesso sospettabile di essere in varie materie più colto dei professori. Aveva conoscenze di storia, storia sociale e del pensiero dei classici, impensabili per la media di noi studenti; era per di più pianista diplomato e musicalmente colto e parlava correntemente l’inglese. Aggiungo – per motivi personali era un bravo e resistente nuotatore (a rana). Il tutto assolutamente senza ostentazione, ma che anzi – grazie anche alle sue doti di autoironia e ironia mai aggressiva – si traduceva in arricchimento di una capacità e voglia comunicativa che ha fatto dire a un amico catalano, negli anni settanta dirigente di Bandiera Roja a Barcellona: “quando parli con Vittorio Rieser, te ne vai sempre sentendoti più intelligente.” Questo aspetto della personalità di Vittorio – ricorrente in molti degli interventi e delle testimonianze nella riunione organizzata in un salone della Camera del lavoro torinese per ricordarlo – sta all’origine anche dell’incontro – al liceo Gioberti di Torino attorno alla metà degli anni cinquanta – con me, coetaneo per molti versi diverso da lui. Ero uno studente mediocre, lettore di romanzi e soprattutto poesia (che pensavo lavoro della mia vita futura); ero orientato a sinistra seguendo le idee antimilitariste e socialiste paterne (e grazie a un’infanzia e a scuole elementari vissute a Oulx, in alta Val di Susa, in piena occupazione tedesca, violenza repubblichina e resistenza partigiana) ma praticamente digiuno di storia del pensiero politico e di letture in quell’ambito. Leggevo la Bibbia per scelta personale, ma (oppure perché) privo di educazione religiosa. Amavo molto risalire il Po a remi da solo, su barche noleggiate ai Murazzi e godermi Torino dall’alto del parco di Villa Genero insieme alla ragazza del momento. Non sapevo nuotare, e dei film ricordavo soltanto gli attori. La prima azione “politica” promossa da noi due fu l’organizzazione di un “pompieraggio” antifascista: impedimmo con successo un’uscita “patriottica” degli studenti dal liceo al passaggio d’un corteo per Trieste italiana. L’incontro con Vittorio in quell’occasione diventò però presto una frequentazione assai intensa, come normalmente è possibile soltanto da adolescenti. Per me fu una miniera; frequentarlo era occasione di arricchimento continuo ma mai percepito come passivo, sempre come interazione e partecipazione reciproca. Scambio intellettuale ma anche sentimentale, giocoso, estetico.

Mi ha colpito che molti compagni in questi giorni abbiano ricordato l’importanza che ha avuto la musica nei loro rapporti con Vittorio Rieser (per lo più politici, sindacali, di lotta o ricerca sociale). Penso che la cosa sia significativa: per me Vittorio significa anche l’incontro con J.S. Bach, il più importante e persistente nella mia vita, insieme a quelli con K. Marx – condiviso – e con K. Barth. (Posso aggiungere che analogamente, il ricordo di Panzieri è per me anche la scoperta di Monteverdi e di Max Roach, e anche questa differenza forse significa qualcosa). Tutto ciò che abbiamo fatto e vissuto insieme del decennio della nostra “simbiotica” formazione politica è stato ricordato in questi giorni in diversi giornali e riviste: ad esempio Enrico Pugliese in una nota su “il manifesto” del 23 maggio ha passato in rassegna le diverse fasi dell’impegno politico e di ricerca di Vittorio; le tappe principali, d’altronde, erano già state ricordate e discusse dallo stesso Rieser sia nel convegno già citato, sia nel suo denso contributo al libro Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera (uscito nel 2005 a cura di Paolo Ferrero per le edizioni Punto Rosso) nonché in diverse interviste ritrovabili su internet. In tutte quelle occasioni Rieser ritorna sulla centralità e la continuità che il lavoro di inchiesta deve avere nella vita di un movimento anticapitalistico organizzato. Come antidoto o reazione a ogni involuzione burocratica e autoritaria della politica come professione e contro ogni forma di dogmatismo e settarismo che condannano a incomprensione della realtà sociale e impotenza comunicativa nei confronti di quella stessa classe che si pretende di rappresentare. Soprattutto fare inchiesta, in questo senso, non significa soltanto produrre conoscenza, ma produrre e riprodurre costantemente, in ogni contesto e livello, rapporti di attenzione, fiducia e reale scambio tra compagni e con i soggetti sociali a cui si fa riferimento.

Nel 1966, dopo la morte di Panzieri e la pubblicazione del quinto Quaderno Rosso, una favorevole coincidenza di opportunità occupazionale e scelta politica mi ha riportato in un Mezzogiorno in cambiamento, rispetto a quello in cui con Vittorio e altri giovani compagni torinesi avevo fatto le prime esperienze di lavoro di inchiesta tra i disoccupati palermitani nella Sicilia di Danilo Dolci, poi proseguite con Goffredo Fofi e Piero Scaramucci tra i braccianti e i contadini di Menfi, prima di rientrare a Torino e avviare il periodo di collaborazione e apprendistato con la Camera del lavoro che sarebbe durato fino alla pubblicazione del primo Quaderno Rosso. Con la morte di Raniero e il mio ritorno verso sud la nostra “simbiosi di formazione” si concluse anche fisicamente. Ma non ha cancellato l’ininterrotto filo rosso della attività politica come inchiesta che molte scelte successive mie e di Vittorio hanno riconfermato, pur nelle differenze connesse agli ambienti in cui abbiamo operato e alle soggettività dei compagni e dei lavoratori con i quali abbiamo lavorato.

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