Ricordando Franco Piperno
di Eros Barone
Così anche Franco Piperno, quel signore ironico e sorridente con un cappello a larghe falde e una sciarpa rossa, ebreo calabrese e rivoluzionario comunista, ci ha lasciati. Per me, che ho sempre seguito con vivo interesse le sue lezioni politiche, intellettuali e umane, forse non è stato un maestro, ma un fratello maggiore degno del massimo rispetto e della massima attenzione, sì.
Vorrei ricordarlo con due miei scritti del 2008, entrambi pubblicati dal quotidiano «La Prealpina», che documentano lo scambio polemico che ebbi con un esponente politico del Pd a partire da un articolo in cui, prendendo spunto da un significativo episodio che Piperno racconta nel suo libro "'68. L'anno che ritorna", ponevo in luce la natura, la politica e lo stile non proletari di un famoso dirigente della Cgil.
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“Ma Trentin, quale mestiere fa?”
Nel bel libro di Franco Piperno sul “’68. L’anno che ritorna”,1 di cui consiglio vivamente la lettura a chi intenda comprendere “l’eredità di una stagione di protesta nelle parole di un protagonista” (come sta scritto nella quarta di copertina), è raccontato un incontro tra la “Commissione Fabbriche” del movimento studentesco romano e i dirigenti della Fiom nazionale.
Si tratta di un episodio che getta una luce particolarmente vivida su almeno due questioni: la diversa tradizione degli operai del mondo anglosassone rispetto a quelli del mondo latino e il progressivo costituirsi, nell’àmbito del movimento sindacale (e dello stesso movimento operaio italiano), di una burocrazia sindacale e politica di origine piccolo-borghese, lontana dalle condizioni di lavoro e di vita della classe dei salariati, di cui pure ha rappresentato, in qualche misura, gli interessi materiali e morali. Se è vero che, come ebbe a osservare il filosofo Herbert Marcuse, personalità intellettuale di spicco del movimento del ’68, negli Usa la classe operaia ha dei comportamenti di radicale autonomia nello scontro sociale e di passivo conformismo nella lotta politica, è altrettanto vero che, al contrario, in Italia gli operai sono formalmente sovrarrappresentati nel mondo della politica (almeno questa era la situazione prima delle ultime elezioni politiche), con almeno quattro partiti che si richiamano al movimento operaio, mentre la fragilità dell’autonomia sociale è impietosamente mostrata da livelli salariali che sono tra i più bassi dell’Europa occidentale.
Bene, racconta Piperno, a quell’incontro romano ebbe a partecipare, del tutto per caso, anche un giovane sindacalista, un operaio metalmeccanico di una fabbrica di Belfast, nell’Irlanda del Nord, “turista sovversivo attirato a Roma da Valle Giulia più che dalla messa in San Pietro”. Henry, che conosceva male l’italiano, prestava un’attenzione particolare, fra gli interventi dei partecipanti, alle parole di Bruno Trentin, che alcuni militanti del movimento romano cercavano di tradurre, o almeno di riassumere. L’irlandese era rimasto colpito dalla personalità del sindacalista italiano e più volte nel corso di quella serata aveva chiesto: “Ma Trentin, quale mestiere fa?”. Piperno e i suoi compagni, sulle prime, avevano evitato di rispondere all’insolita domanda; poi, messi alle strette da quel suo insistere, gli avevano detto che era il segretario nazionale della Fiom. Al che Henry aveva replicato che questo lo aveva capito, ma desiderava sapere quale lavoro facesse Trentin ‘prima’ di svolgere la sua funzione di segretario generale, e Piperno e i suoi compagni avevano risposto che prima Trentin era stato il vice-segretario di quella organizzazione. Sennonché l’irlandese, implacabile, insisteva nel chiedere quale fosse stata l’occupazione del sindacalista italiano ‘prima’ di divenire vice-segretario. I suoi interlocutori italiani avevano risposto che era stato membro della segreteria nazionale, ed Henry aveva reiterato la sua domanda: “Ma ‘prima’?”. Al che Piperno e i suoi compagni avevano replicato che Trentin stava nel comitato centrale della Fiom. A quel punto, conclude Piperno, il giovane operaio irlandese aveva cessato di riproporre la sua domanda: guardando a lungo il maglione di cachemire beige che indossava Trentin, s’era reso conto che in Italia il capo di un sindacato operaio può essere tale pur senza mai aver vissuto la condizione di fabbrica.
Varese, 15 giugno 2008.
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Sindacalismo, proletariato e piccola borghesia
Egregio direttore,
nel riferire la domanda pervicacemente ripetuta da Henry, l’operaio metalmeccanico di Belfast: “Ma Trentin, che mestiere fa?” (cfr. il mio articolo sul “’68 di Piperno” del 19 giugno scorso), non immaginavo che quel simpatico Socrate irlandese, descritto da Franco Piperno nel suo libro sul ’68, avrebbe suscitato una reazione così virtuistica da parte di Fabrizio Mirabelli (cfr. la sua lettera del 20 giugno), quasi che, riportando quell’episodio di quarant’anni fa, io avessi inteso porre in cattiva luce una figura di spicco del movimento sindacale italiano come Bruno Trentin e contrapporla a un esponente di primo piano del movimento degli studenti, quale fu in quella mirabile stagione di lotte emancipatrici Franco Piperno.
D’altra parte, è vero che io ho sottolineato l’origine piccolo-borghese di una parte della burocrazia sindacale (constatazione sociologica ineccepibile: ah, quei maglioni di cachemire abbinati alla pipa o al sigaro da personalità come Trentin o da personaggi come Bertinotti!); ed è vero che io, in quanto comunista, ho una forte preferenza per i quadri politici e sindacali di estrazione proletaria (sicché, se rispetto un Lama o un Trentin, ammiro ‘toto corde’ Giuseppe Di Vittorio, di cui resta memorabile la risposta che dètte ai proprietari terrieri che lo avevano definito un ‘povero cafone’: “Sono un cafone e me ne vando”, laddove il grande sindacalista della Cgil scrisse intenzionalmente tale verbo con la ‘di’); ma è anche vero che ho riconosciuto che quella “burocrazia sindacale e politica di origine piccolo-borghese, lontana dalle condizioni di lavoro e di vita della classe dei salariati”, ne ha “pure rappresentato, in qualche misura, gli interessi materiali e morali”. Non si può infatti ignorare che un’importante conquista delle lotte studentesche e operaie della fine degli anni ’60 e dell’inizio degli anni ’70 fu costituita dalle 150 ore, ossia dall’attuazione del diritto allo studio e alla formazione culturale per la classe operaia, diritto poi esteso a tutti gli strati subalterni fino ad allora esclusi dalla scuola o privi della licenza media. Né si può dimenticare che tale conquista fu il frutto del confronto politico e dello scambio culturale che si sviluppò tra il movimento operaio, rappresentato da dirigenti come Trentin, e il movimento studentesco, che aveva trovato i suoi portavoce in ‘leader’ come Oreste Scalzone e Franco Piperno: gli stessi che si incontrarono nel 1968, attraverso la mediazione del settimanale “L’Espresso”, con Luigi Longo, segretario del Pci, il quale, con felice intuizione politica e teorica, arrivò a definire il movimento degli studenti come “una delle forze motrici della rivoluzione socialista in Italia”.
Naturalmente, questo non significa che io ritenga Trentin un ‘mostro sacro’, e mi riservo perciò il diritto di criticarlo anche duramente per il ruolo che svolse e per le responsabilità che assunse rispetto al progressivo slittamento su posizioni sempre più lontane dagli interessi materiali e morali della classe dei salariati, che avvenne all’inizio degli anni Novanta quando egli era segretario generale della Cgil: uno slittamento le cui tappe furono il protocollo del 10 dicembre 1991 sul “costo del lavoro” e il successivo “patto sociale” neocorporativo del 31 luglio 1992, sottoscritto dalle tre confederazioni con il governo Amato sulla “riforma” del salario e della contrattazione, che portò alla cancellazione della scala mobile e al blocco dei salari, nonché alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti. Sennonché questo diritto di critica che io rivendico nasce da un presupposto teorico e, pur configurandosi come una polemica ‘ad hominem’, si fonda sulla consapevolezza che la crescente influenza di classi e di frazioni non proletarie, cioè borghesi e piccolo-borghesi, e la stessa formazione di un’aristocrazia operaia nelle organizzazioni politiche e sindacali del movimento dei lavoratori sono un portato oggettivo degli sviluppi imperialistici del capitalismo, sono, per dirla con Lenin, “economicamente motivate” e trovano la loro espressione soggettiva nelle tendenze opportunistiche sia di tipo revisionista che di tipo riformista.
Quanto a Piperno, tengo a rassicurare chi teme che io possa inserirlo nel ‘pantheon’ dei maestri (‘buoni’ o ‘cattivi’ che siano), poiché, pur apprezzando il ‘logos’ eracliteo di questo brillante, acuto e coraggioso intellettuale marxista (per chi non lo sapesse Piperno è docente ordinario di fisica all’università della Calabria), i miei maestri sono, e restano, Marx, Engels, Lenin e Gramsci.
Varese, 20 giugno 2008.