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manifesto

Il codice della continuità

La crisi tra passato e presente

Ugo Mattei

L'altalena delle borse non coincide con la fine del capitalismo, ma con un suo assestamento per riportare ordine e integrare così le periferie dell'impero. La crisi letta attraverso le tesi di Guy Debord sulle «società dello spettacolo»

Provare ad utilizzare le categorie di Guy Debord per riflettere sulle grandi trasformazioni in corso apre percorsi di ricerca che possono essere solo accennati in un articolo, ma sui quali occorrerà tornare in futuro. È noto come il «dottore in nulla» nella sua Società dello Spettacolo avesse introdotto due modelli contrapposti, lo «spettacolo concentrato» proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo «spettacolo diffuso» proprio delle democrazie occidentali, dominate dal consumismo. Successivamente nei Commentari, scritti nel bel mezzo del terremoto che fece crollare la più spettacolare epifania dello spettacolo concentrato (l'Urss), Debord tracciò il percorso che avrebbe portato alla nascita di ciò che definì «spetacolo integrato». Il crollo del modello sovietico e l'apparente discioglimento dell'equilibrio del terrore avrebbero necessariamente trasformato le «democrazie occidentali», togliendo loro ogni incentivo alla virtù (o alla «moralità» per dirla con Laura Pennacchi). Il sistema si sarebbe così trasformato in una combinazione fra i due modelli precedenti, uno spettacolo integrato caratterizzato da cinque punti: «Il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente».

Difficile negare che il modello statunitense dominante dopo la caduta del Muro di Berlino e poi ancor più marcatamente a partire dall'elezione di George W.Bush abbia prodotto un ventennio di «spettacolo integrato». Nel capitalismo finanziario della ricchezza «inventata» per valori superiori decine di volte a quelli del prodotto interno lordo globale (12 volte considerando i soli derivati) «la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica», come già stava scritto proprio in quella parte del Capitale che maggiormente infuenzò Debord (e anche Jean Beaudrillard).

 

Tra Cina e Europa

Oggi potremmo essere di fronte ad un crollo sistemico tanto violento quanto quello dell'impero sovietico o per lo meno possiamo ragionevolmente interpretare così diversi segnali. Il capitalismo finanziario, noto con tanti altri nomi da «turbo-capitalismo» a «super-capitalismo» a «modello neo-americano» o «neo-liberista», si sta effettivamente schiantando? Possiamo goderci in modo un po' meschino quel senso di giustizia inutile (o assai crudele se coinvolge inocenti) che magari abbiamo provato incontrando schiantata sull'orlo della strada due curve più avanti la vettura sportiva di un cretino che poco prima ci ha superato in curva a velocità folle? Come crolla uno «spettacolo» e che rimane dopo il crollo? Stiamo davvero assistendo al crollo dello «spettacolo integrato» effettivamente realizzatosi nell'ultimo ventennio, o semplicemente si tratta di una scossa di assestamento di un'«integrazione spettacolare» che ancora deve completarsi cancellando le specificità delle periferie? Se il capitalismo finanziario contemporaneo (corporate capitalism) corrisponde in modo impressionante ai sette punti debordiani, a che cosa corrispondono il capitalismo di stato cinese che attende sornione che le acque del fiume facciano transitare il cadavere del nemico americano? A che cosa corrisponde il modello europeo, che tavolta si sente invocare come alternativa anche sociale al modello anglosassone? Esiste un pensiero (o una prassi) alternativa desiderabile che non sia l'insopportabile riproposizione del keynesismo allegramente assolto dalle sue responsabilità belliche? Sono quello cinese ed europeo davvero modelli diversi o semplici differenze di stadio «evolutivo-involutivo», semiperiferie a volte riottose ma dominate in fondo dalla stessa logica accumulatrice del centro? È quella tecnocratica europea l'alternativa «sociale» che dovremmo desiderare? E l'alterità vera, quella di mondi che l'arroganza eurocentrica anche di sinistra considera «senza storia», «senza tecnologia», «senza diritto e diritti», «senza democrazia», «senza parità ed emancipazione dei sessi»? Lì vivono, certo non senza cultura, la maggiora parte degli umani che maggiormente stanno in equilibrio con la natura. Dobbiamo necessariamente «inventare» questa alterità come un residuo arcaico, o potremmo finalmente cercare di conoscerla per una ragione diversa dal desiderio di depredarla?

In sintesi: ha senso utilizzare un modello interpretativo che si fonda su radicali discontinuità temporali (prima e dopo «il crollo») e spaziali (modello statunitense, cinese, europeo) oppure ancora una volta a prevalere sono gli elementi di continuità nell'espansione capitalistica, che hanno superato guerre, rivoluzioni, carneficine, decolonizzazioni, nazionalismi, e perfino qualche emancipazione e rara isola felice? E cosa sta dietro questa continuità destinata a finire forse solo con l'esaurirsi (prossimo) della pazienza della natura rispetto all'antropizzazione?

 

Nel regno del breve periodo

L'attività predatoria di questo modello economico legittimata dal diritto e dalla scienza non mostra significative soluzioni di continuità negli ultimi cinquecento anni in occidente dove, accoppiandosi con la tecnologia, crea un modello proprietario per cui la natura «appartiene» all'uomo mentre l'uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, «non appartiene» alla natura ma ne sta al di sopra e la domina tramite le sue leggi. Così facendo le leggi umane, sovraordinate a quelle di natura, producono un'antropomorfizzazione e poi singolarizzazione delle comunità e delle organizzazioni sociali, che reduce la prospettiva istituzionale ad una distanza sempre più corta e a tempi sempre più brevi. Si sviluppa in un mondo conquistato dall'ideologia dell'efficienza economica un parossismo di fiducia collettiva nell'eternità delle risorse naturali da sfruttare dalla quale potrebbe svegliarci soltanto uno schianto apocalittico.

Di fronte alle attuali avvisaglie di crollo, (certo non solo la finanza, ma anche lo scioglimento dei ghiacci il riscaldamento globale, la distruzione delle risorse ittiche e l'esaurimento dell' acqua) un'umanità sotto l' effetto dell'oppio spettacolare (in tutte le sue impressionanti manifestazioni ideologiche e culturali) crede in formulette di breve periodo quali quelle di cui parlano i leader politici del G7.

E così facciamo pure il tifo affinché il bailout si trasformi in una nazionalizzazione di banche ed assicurazioni e perché magari si cominci a riparlare di socialismo. Ma non facciamoci troppe illusioni, perché strutturalmente siamo di fronte ad un'ennesima scorreria in colletto bianco travestita da legalità «democratica». Grandi risorse pubbliche vere o inventate sono trasferite a privati; la creazione di uno stato di emergenza «costruisce» la necessità del capitalismo finanziario e fa preoccupare perfino un comunista senza un soldo in borsa per le sorti di Wall Street! Sulle prime pagine dei giornali, gli stessi che l'anno scorso straparlavano sostenendo che il liberismo è di sinistra, al posto di vergognarsi oggi berciano che si tratta di una crisi della «regolamentazione» o di un crollo dell'«etica» della grande impresa (Anthony Giddens), concezione anche questa al limite dell'ossimoro, ma accettabile nella società dello spettacolo così come accettabile è chiamare la guerra operazione di pace. In più si continauano a tessere gli elogi e la necessità dell'«innovazione» anche finanziaria (l'economista e docente di Yale Robert Shiller).

Ma non è un problema di etica, né di regolamentazione. È un problema profondamente radicato nell'arroganza storica dell'occidente dominante con la sua tecnologia e la sua concezione proprietaria della legalità e del potere. Intorno a noi prendiamo coscienza delle vere continuità storiche: i pirati, gli schiavi, la tortura, l'esecuzione. Le fondamenta profonde del diritto occidentale sono complici se non direttamente protagoniste di quest' ergersi dell' uomo a domino della natura e a creatore di disordine cosmico.
 

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