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contraddizione

L’esproprio a sproposito

Scherzi della storia di una crisi: il caso tedesco

di Alessandro Riccini

Quando gli affari vanno bene sono i capitalisti che debbono beneficiarne;
quando le cose vanno male allora è lo stato che deve accollarsi le perdite.
La perdita della ricchezza è un fatto pubblico:
questa è la logica fascista della “socializzazione delle perdite”.
[Pietro Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, cap.vi]

Càpita, scorrendo i titoli dei giornali durante questa crisi, di imbattersi in titoli che solo qualche mese fa sarebbero stati del tutto inimmaginabili.

Prendiamo il Sole-24 Ore di giovedì 19 febbraio 2009: “A Berlino l’esproprio torna in banca”. Ci sarebbe da saltare sulla sedia, se non fosse che ormai siamo abituati a tutto. Vediamo di che si tratta nel dettaglio: la normativa prevede la possibilità per il governo di “nazionalizzare d’imperio una banca”, possibilità prevista da un provvedimento del Consiglio dei ministri tedesco che permette al governo, quale ultima ratio, la nazionalizzazione coatta di una banca. Si usa il termine “esproprio” forse a sproposito (mi si perdonino le involontarie allitterazioni), ma comunque l’impatto della normativa è evidente: lo stato diventa ultimo acquirente di banche in crisi. È l’ultimo atto dello psicodramma in corso, ma sarebbe semplicistico attribuire tutto allo stato che compra. Ci sono altre ragioni: la prima fa riferimento alla necessità di conoscere effettivamente la quantità di cosiddetti assets “tossici” contenuti all’interno dei bilanci delle banche. C’è inoltre una necessità, velata ma davvero stringente, di trasportare ricchezza, plusvalore già prodotto, dalle tasche della classe lavoratrice ad altre tasche. Ed, infine, c’è la necessità di avere più chances nel governare le conseguenze del leverage eccessivo, ossia, detto in termini molto generici, della sproporzione tra il patrimonio degli istituti e le somme investite. Andremo per ordine a toccare tutti questi temi, ma prima occorre fare un piccolo salto temporale.

 

Passeggiando nella storia, alla fine del 1932, ossia alla vigilia dell’av­vento al potere del nazismo, lo stato era il principale azionista di parte delle grandi banche tedesche: nel 1932, il 53% del capitale azionario delle grandi banche di Berlino era in mano pubblica. L’intervento era stato deciso alfine di salvare le banche dal fallimento. “Il sistema bancario tedesco […] ha sofferto più di qualunque altro l’acutizzarsi della crisi economica del 1931. È noto che il fallimento della Kreditanstaldt di Vienna, i massicci prelievi dei creditori stranieri, il fallimento di un certo numero di grandi imprese industriali, nelle quali le banche tedesche erano interessate, tutto ciò ha portato alla rovina il sistema bancario tedesco.” [cfr. C. Betteleheim, L’economia della Germania nazista, Mazzotta, Milano 1973]. Da quel momento in poi fu uno stillicidio, partendo dalla Darmstadter per arrivare ai veri colossi: “Nel corso della crisi, la Commerzbank era stata duramente colpita, e lo Stato aveva dovuto intervenire per sostenerla; in questo modo, esso aveva acquisito una partecipazione al capitale di questo istituto. […] Anche la Dresdner Bank, più importante della Commerz­bank, si è trovata in difficoltà; essa è stata rimessa a galla dallo Stato nelle stesse condizioni dell’altra e […] anch’essa ha beneficiato dei provvedimenti di riprivatizzazione […]”. Alla fine rimase in piedi solo la Deutsche Bank, anche se paralizzata. I fallimenti a catena del settore bancario tedesco negli anni ‘30 furono rapidissimi, concentrati verso la metà di luglio del 1931. Riprenderanno il mese dopo con l’aiuto e l’appoggio dello Stato. Il fatto più sconcertante, spunto di interessanti parallelismi con il presente: venne creata anche all’epoca una sorta di bad bank (l’Akzeptbank) con oltre la metà di capitale sottoscritto dallo stato, con il compito di accettare “le carte dubbie delle grandi banche private”. Il percorso che venne scelto nel ‘32 nella morente Repubblica di Weimar, fu quello di diventare proprietario dei grandi istituti, ripulirne il bilancio, assumersi l’o­nere dei crediti dubbi (lasciando però la gestione ai privati) e rimetterle sul mercato: ad esempio, Dresdner e Danat furono fuse insieme creando una nuova banca che però era costata 445 milioni di Reichsmark, ossia, per dare un termine di paragone, tre volte la capitalizzazione originaria della Dresdner. Questa fu la situazione che trovò Hitler al momento della sua ascesa al potere: lo stato come principale azionista e principale creditore delle banche stesse. “Cosa avrebbero fatto i nazisti il cui programma prevedeva la nazionalizzazione delle banche e del credito e la lotta contro la schiavitù dell’interesse? Ecco cosa avrebbero fatto: si sarebbero affrettati a riprivatizzare il grosso del sistema bancario” [cfr. Bettelheim, op.cit]. Nel giro di quattro anni venne liquidato tutto il complesso delle partecipazioni statali nelle grandi banche tedesche. La riflessione su questo punto non può dunque esimersi dal constatare come il nazismo,o meglio anche il nazismo, abbia assecondato la tendenza del capitale a privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Il salvataggio del sistema bancario tedesco operato negli anni ‘30 mostra, inoltre, una curiosa continuità nell’opera­to tra quanto fatto dai governi repubblicani e quanto messo in atto dal governo nazista, come un unicum di un processo che permette di far pagare alla classe dominata il salvataggio del capitale finanziario tedesco. Lo strumento che si usa, anche qui, è il debito pubblico. Già, il debito pubblico, come scrive Marx nel suo passaggio: “il debito pubblico, ossia l’alienazione dello stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica” [Marx, Il capitale, i.24,6].

Lo stato aliena sé stesso ricevendo garanzia della sua sopravvivenza dal credito pubblico, ossia, in questo caso, dal capitale finanziario stesso. È luogo comune che durante il periodo prebellico nazista la spesa pubblica avesse contribuito ad un rilevante balzo del reddito nazionale. In realtà il reddito nazionale tedesco dal 1932 al 1938 aumentò grosso modo dello stesso ammontare della spesa pubblica. Un considerevole risultato fu dato dall’evidente calo del numero di disoccupati, che passò da oltre 5.000.000 unità nel 1932 a 38.000 unità nel 1938. Tuttavia a questo grande incremento di lavoratori non seguì un parallelo incremento del reddito nazionale, e questo fu dovuto essenzialmente alla politica dei prezzi e dei redditi seguita dal regime nazista che non considerava i salari come una variabile strategica nell’aumento del reddito nazionale. Insomma, durante il regime nazista si assistette ad un inarrestabile smottamento di ricchezza verso il capitale finanziario da parte delle classi lavoratrici. Le stesse classi subalterne che ora “rischiano” di pagare il conto della crisi da sovrapproduzione che ha investito anche l’attuale sistema economico tedesco. Fioccano in ogni dove paragoni tra questa fase storica e quella degli anni ‘30, sugli errori commessi all’epoca soprattutto dagli Stati Uniti (al presidente Hoover si rimprovera spesso di non aver agito per tempo, a Roosevelt di aver instaurato un sistema protezionistico ed autoreferenziale, accartocciato su se stesso) mentre si parla meno dell’evolu­zione del rapporto tra capitale e lavoro in quel periodo, meno che mai si parla delle analogie tra i provvedimenti assunti dalle “democrazie liberali” piuttosto che dalle “tirannie”. L’aspetto fondamentale è nell’acqui­sto dal parte dello stato e successiva (ri)privatizzazione degli istituti. Questa operazione viene, anche ad oggi, presentata come inevitabile. Ovviamente può sembrare una questione oziosa domandarsi “chi paga” di fronte a tale situazione: il conto delle “nazionalizzazione” sarà pagato dalla classe lavoratrice nei prossimi decenni in termini di salario diretto (stipendi bloccati al fine di “contenere l’infla­zione” in modo tale da tenere basso il tasso d’interesse e controllare il servizio del debito) di salario indiretto (tagli alla spesa sociale, sanità, pensioni al fine di ridurre il deficit e lo stock di debito) di salario differito (per lo stesso motivo si abbatterà la scure su quello che resta della previdenza pubblica, che rischia l’e­stinzione per le nuove generazioni). Questo, a grandi linee, il circolo virtuoso (per il capitale) che si instaura. Andremo di seguito a vedere da quali argomenti è sostenuta la necessità (per il capitale) della “nazionalizzazione” delle banche.

 

I “toxic assets” e trasparenza giustificativa: ecco uno dei neologismi che stanno avendo particolare fortuna in questo periodo. L’altro neologismo di successo è la bad bank (che, tuttavia, come si è visto, non è che sia un’invenzio­ne dell’ultima ora) che sarebbe l’istituto pubblico che dovrebbe “mangiarsi” i toxic assets, ossia, detto molto grossolanamente, quei titoli che gli istituti hanno in bilancio e che avevano un valore al momento dell’acquisto (ingestione del tossico) ma che poi si sono rilevati carta straccia (manifestazione del veleno) rischiando perciò di far fallire (morire) l’istituto erodendo l’attivo patrimoniale. All’inizio tali titoli erano limitati ai mutui subprime e ai titoli cartolarizzati ad essi legati. Poi, con il rovinare dei mercati azionari, la nozione si è estesa, fino a comprendere i crediti concessi alle industrie manifatturiere che diventano insolventi: ormai ogni asset è passibile di intossicazione da un momento all’altro. La spirale che si avvia, a questo punto, include il blocco dell’erogazione del credito da parte delle banche, il conseguente fallimento delle industrie e, di seguito, l’i­nevitabile aumento dei famigerati toxic assets [si veda altrove in questo stesso numero]. Vista sotto quest’ottica, una massiccia presenza dello stato finanziata dall’alienazione del debito pubblico, potrebbe permettere di capire, effettivamente, quali siano i cattivi investimenti e a quanto ammontino le perdite ad essi collegati, primo passo verso il risanamento del sistema bancario: ciò non è più possibile, sembrerebbe, a causa di quello che agli economisti del benessere piacerebbe chiamare come un “fallimento del mercato”. “L’intervento dello Stato nelle banche serve a ricreare un sistema di informazione sul valore degli asset che il meccanismo di domanda ed offerta non è più in grado di offrire”, scrive Carlo Bastasin nel suo articolo Tra Stati e banche matrimoni a tempo [in il Sole-24 ore, 19.2.09]. La tesi sostenuta da tale articolo è che l’opportunità dell’in­tervento dello stato sia legato essenzialmente alla mancanza di informazione, vecchio difetto del comunismo ora estesosi al capitalismo: “Ludwig von Mises, sconcertato dalla mancanza di informazione sul funzionamento delle economie comuniste, si chiedeva "quale miracolo portasse i piccioni a volare arrostiti nelle fauci dei compagni", mentre ora tocca chiedersi come facessero stormi di Bentley ad entrare nei garage dei banchieri di Wall Street. Ma la critica di oggi al sistema finanziario capitalista pone il problema dell’informazione e della trasparenza nell’attività dei banchieri, ancor prima di quello della proprietà”.

Ecco, questo è il piano sul quale va messa a fuoco l’analisi. L’uscita dalla crisi presentata come un problema di “regole”, di “trasparenza”, più che di “pro­prietà”. È invece proprio sulla proprietà che si gioca la partita, non sulle regole. Altrimenti non si capirebbe come mai, al momento di chiudere il terzo trimestre del 2008, sia stata data facoltà agli istituti bancari di “bloccare” al primo luglio il valore degli assets anziché valutarli all’effettivo valore del mercato, ossia a quel mark to market che sembrava un totem non scalfibile fino a qualche mese prima. La manovra, che in Europa tecnicamente si è concretizzata in una sospensione dell’or­todossia dei principi contabili Ias 39, ha permesso a molti tra i principali gruppi bancari italiani ma anche europei (come Hsbc o la stessa Deut­sche Bank) di chiudere una terza trimestrale con bilanci migliori di quelli che si sarebbero avuti nell’altro caso. Degli effetti collaterali siamo informati da un altro articolo, sempre sul Sole-24ore. “In generale, la sospensione dell’applicazione del fair value ha l’effetto di stemperare nei bilanci gli effetti della speculazione. Ma non bisogna dimenticare che anche la trasparenza è stata sospesa. E il mercato resta in attesa di un outing definitivo sulla composizione del portafoglio di titoli e crediti a rischio. Quanti assets tossici sono ancora in circolazione? Chi li ha in portafoglio? Le trimestrali, anche grazie al beneficio della sospensiva degli Ias, non hanno fatto chiarezza. Finché questo nodo non sarà sciolto in via definitiva, difficilmente tornerà la fiducia tra le banche. E, a seguire, quella degli investitori e della clientela” [A. Graziani, Gli Ias, Profumo e gli altri, in Il Sole-24ore, 13.11.08]. Insomma, da una parte la nazionalizzazione è giustificata con le esigenze della trasparenza, dall’altra si vede come non sia la “trasparenza” (con la conseguente categoria emotiva della “fiducia”) lo snodo cruciale del discorso che sta a cuore dello stato compratore, quanto piuttosto la salvezza del sistema di valorizzazione attualmente presente, scaricandone i costi sul lavoro salariato. In questo, fa fede il precedente degli anni ‘30, che presenta analogie con quanto si sta prospettando adesso nel sistema tedesco.

 

Le mani legate dello Stato. Ricapitolando, il problema dell’intervento pubblico nel capitale finanziario non sembra essere legato, in ultima analisi, ad un problema di “trasparenza” e di “informazione”. Osserviamo, ad esempio, il caso della Hypo real estate, banca per la concessione dei mutui fondiari che però aveva in pancia derivati per un valore nominale di 1000 mrd € circa. L’istitu­to ha già ricevuto dallo stato tedesco oltre 100 mrd €, divisi più o meno a metà tra garanzie sul debito e iniezioni di nuovi capitali. Eppure continua a perdere. Si affaccia a questo punto la possibilità di accedere al controllo della banca, esattamente come si fece nel ‘32, al fine di riprivatizzare successivamente, con quello che ormai è noto come “modello svedese” (dalla nazionalizzazione e successiva privatizzazione di alcune banche svedesi durante un acutizzarsi della crisi del capitale finanziario negli anni ‘90) ma che potrebbe anche chiamarsi “modello di Weimar” se questo nome poi non fosse un po’, come dire, cacofonico. Ora, si diceva, lo stato tedesco mira all’acquisto della banca (una quota pari al 25%) in modo tale da bloccare, forse, la spirale di perdite. Tralasciando il discorso della “trasparenza”, non si capisce però bene come potrebbe arginare il fenomeno tale acquisito se non con una ulteriore iniezione di liquidità e garanzie sui crediti deteriorati, se non con il conferimento di essi ad una bad bank, idea che sta facendo capolino anche in questa fase storica oltre l’atlantico. Lo stato ha già speso moltissimo e quindi si trova obbligato ad entrare nella proprietà, complice l’effetto-leva; il patrimonio di un istituto è solo un sottomultiplo dell’insieme degli investimenti: in alcuni casi può essere un decimo, ma può anche arrivare ad essere un cinquantesimo (è il caso di Deutsche Bank) come riporta Walter Riolfi sul Sole 24-ore.

In questa situazione, andare a tappare il singolo “buco” di bilancio rischia di essere una manovra assolutamente inutile: si raggiunge una determinata soglia critica, con la diffusione della “tossicità” negli attivi della banca nella quale è meglio intervenire acquisendo direttamente il controllo delle banche, anche quando gli azionisti sono riottosi (ed è questo il caso della Hypo real estate che ha avuto così vasta eco e che ha fatto ad un certo punto parlare di “legalizzazione dell’esproprio”).

Su Der Spiegel è comparsa una stima del possibile volume dei titoli tossici posseduti dalle banche tedesche: le maggiori 18 banche tedesche stanno inserendo nei bilanci 305 mrd € in asset tossici. Sullo stesso articolo viene inserita una stima del Fmi che valuta le perdite analoghe in scala mondiale nella misura di 1700 mrd €. In questo contesto, l’intervento a semplice “ripiano” delle perdite diventa impensabile, e non per una questione di “trasparenza” ma anche per una questione di volumi insostenibili.

 

La diga, la valle e la frana. Rimettere in circolo il capitale: non essendo disposti a riconoscere l’origine della crisi nella sovrapproduzione e conseguente sottoutilizzazione degli impianti, si è costretti a ritenere il meccanismo inceppato a valle. È pur vero che esiste una diga a metà del fiume, ma comunque la sorgente è secca. Negli anni ‘30 al problema si ovviò con una consistente spesa pubblica e con il coinvolgimento nel sostegno del debito pubblico proprio del sistema bancario. Si obbligò infatti (con la legge bancaria del dicembre 1934) a mantenere una proporzione minima per la liquidità di cassa (10% dei depositi) e per le liquidità di secondo ordine (30% dei depositi) da conservare in titoli del Reich. Insomma, l’utilizzo dei depositi privati come sostegno del debito pubblico, ossia, come visto, del passaggio di ricchezza dallo stato al capitale stesso.

Cosa si prospetta attualmente? Forse l’esisto sarà una riedizione di quanti visto nel 1934. Nazionalizzazione, risanamento e rivendita della banca, il tutto finanziato dal debito pubblico. Per ora siamo ad una fase precedente a quella che si verificò nel 1934: le banche sono ancora in mano privata; attualmente l’obiet­tivo principale è evitare il fallimento. Torniamo al provvedimento del governo tedesco sull’esproprio con il quale si esordiva: l’imperativo è “evitare una Lehman tedesca”. Resta a vedere, e questa è la vera incognita, se dopo il fallimento delle banche, evitato dagli stati sovrani, non vi sia rischio proprio per gli stati stessi di andare in default, dati gli elevatissimi costi: la cosiddetta “bancarotta sovrana”, la frana dell’intero sistema. Non sarebbe un’ipotesi così folle: gli scricchiolii che arrivano dall’est Europa, antica riserva di caccia del capitalismo tedesco, non lasciano sperare nulla di buono.

 

 

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