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ospite ingrato

Guerra alla guerra: Brecht e Fortini

di Donatello Santarone

9788804534730 guerra alla guerraI saw the charred Iraqi lean
towards me from bomb-blasted screen,

his windscreen wiper like a pen
ready to write down thoughts for men,

his wind screen wiper like a quill
he’s reaching for to make his will.1

Sono le prime tre strofe di 92 del poemetto di 184 versi in tetrapodie giambiche2 a rima baciata A Cold Coming – Un freddo venire, del poeta britannico Tony Harrison. Nato nel 1937 a Leeds, città industriale dello Yorkshire, da una famiglia della working class (il padre era fornaio), studia i classici greci e latini presso l’Università di Leeds e si immerge nella grande tradizione letteraria inglese (da Blake a Shelley, da Keats a Yeats). Dopo aver molto viaggiato (insegna per un periodo in Nigeria e in Cecoslovacchia, visita Cuba, Mozambico, Leningrado, passa diversi periodi di lavoro negli Stati Uniti), oggi vive a Newcastle. Con Ted Hughes e Seamus Heaney, Harrison è uno dei massimi poeti britannici del secondo dopoguerra (una selezione di sue poesie edite nel 1984 dalla Penguin vendette più di mezzo milione di copie, un record per un libro di poesie).

Come ha scritto il traduttore italiano di Harrison, il poeta e critico Massimo Bacigalupo, siamo in presenza di una «poesia dantescamente “petrosa”, fatta di materia sonora esplosiva: i versi di Harrison possono essere politici, sociali, storici, familiari, autobiografici, metapoetici, ma tendono sempre alla deflagrazione. Insieme alle consonanti e alle rime, spesso ardite, a esplodere è l’apparenza tranquilla della realtà, che viene aperta come una ferita e di cui vengono mostrati i conflitti che stanno al suo interno».3

A Cold Coming, sferzante monologo di un soldato iracheno carbonizzato dal fuoco delle armi statunitensi e alleate, fu composto da Tony Harrison in occasione della Prima Guerra del Golfo del 1991, dopo la pubblicazione sul settimanale inglese «The Observer» di una fotografia di Kenneth Jarecke accompagnata da questa didascalia: «La testa carbonizzata di un soldato iracheno si affaccia dal finestrino del suo veicolo bruciato, 28 febbraio. Il soldato morì quando un convoglio di veicoli iracheni in ritirata da Kuwait City fu attaccato dalle Forze Alleate».4

Kenneth Jarecke 1 web

K. Janecke, La testa carbonizzata di un soldato iracheno si affaccia dal finestrino del suo veicolo bruciato, 28 febbraio. Il soldato morì quando un convoglio di veicoli iracheni in ritirata da Kuwait City fu attaccato dalle Forze Alleate (1992).

Si tratta di una foto che ne richiama un’altra, altrettanto crudele, della Seconda Guerra Mondiale. La foto fu pubblicata dal settimanale statunitense Life il 1 febbraio del 1943 e inserita da Bertolt Brecht nel libro di fotoepigrammi L’Abicì della guerra (composto di foto riprese da giornali e commentati da fulminanti quartine di interpretazioni e giudizi politici e storici sul nesso nazifascismo-capitalismo-guerra). La foto mostra, come recita la didascalia, «il cranio di un soldato giapponese, infilato da truppe Usa su un carro armato giapponese incendiato. Il fuoco ha distrutto il resto del cadavere».

Life 1943

«Life», 1 febbraio del 1943.

E Brecht così commenta: 

O povero Yorick del carro armato nella giungla! Sei
infilato per la testa su un pezzo di timone.
Eri morto nel fuoco per la banca Domei.
Ma i tuoi le devono ancora molti soldi.5

Mentre la didascalia esalta il valore documentario dell’immagine, Brecht è più propenso a credere che il cadavere sia stato mutilato e la testa infilzata sul carro armato in fiamme per pura crudeltà. I primi due versi, ricalcando l’Amleto, mettono in evidenza il carattere artefatto dell’immagine, mentre gli altri due versi gettano luce sui legami politico-economici che la stampa ufficiale tenta di occultare. Affinché una simile immagine non desti vendetta – scopo della propaganda -, Brecht, lungi dall’accusare un uomo che per i suoi errori ha già pagato con una morte atroce, invita i vivi a impegnarsi a cambiare i rapporti di potere nella società capitalistica e a punire coloro che vivono sulle spalle altrui.6

* * *

Il 1991 è stato un anno drammatico nella storia del mondo.

A gennaio una coalizione di paesi prevalentemente occidentali a guida USA inizia una guerra neocoloniale contro l’Iraq poi denominata Prima Guerra del Golfo.

Nel gennaio-febbraio 1991 gli Stati Uniti e i suoi alleati inviano nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70% statunitensi, agli ordine del generale Norman Schwarzkopf […] Il 17 gennaio 1991 inizia l’operazione “Tempesta del deserto”. In 43 giorni l’aviazione statunitense e alleata effettua, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciano complessivamente oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendente oltre mezzo milione di soldati, lanciano l’offensiva terrestre, che termina il 28 febbraio.7

Ad agosto una parte della classe dirigente sovietica guidata da Michail Gorbaciov decreta la fine dell’Unione Sovietica, nonostante un referendum popolare tenuto a marzo avesse espresso il consenso del 76% dei sovietici alla conservazione dell’Unione. Termina così il più importante tentativo di costruzione del socialismo, iniziato nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre, e viene meno, oltre al paese che è stato storicamente il maggiore avversario del nazifascismo con i suoi 27 milioni di morti negli anni 1941-1945, un potente argine al dominio americano sul pianeta.

Si tratta di due eventi storici che suggellano l’egemonia mondiale del grande capitale, egemonia già in parte affermatasi a partire dagli anni Ottanta con le politiche neoliberiste e imperialiste del presidente repubblicano statunitense Ronald Reagan e del primo ministro conservatore britannico Margareth Thatcher.

Da allora, e per almeno un quindicennio, si afferma sul pianeta l’unilateralismo occidentale, in cui gli interessi economico-politici e militari degli Stati Uniti d’America (e di alcuni colossi istituzionali e non dell’industria e della finanza) giocano un ruolo preponderante al punto da svuotare quasi totalmente di potere i parlamenti nazionali, vanificando anche il voto popolare. Il linguista e socialista libertario statunitense Noam Chomsky cita in un suo libro, a questo proposito, la frase di una anarchica e femminista statunitense di origine russo-lituana, Emma Goldman (1869-1940), la quale sosteneva che «se il voto cambiasse qualcosa, sarebbe illegale».8 Questo perché, argomenta Chomsky, a decidere i destini del mondo in ultima analisi sono le forze del capitale mondiale: «avendo piena libertà di movimento, il capitale sarà sempre un’arma di ricatto contro le riforme. Persino nei manuali di economia si parla del “doppio elettorato” dei governi: da un lato la cittadinanza, dall’altro la comunità di investitori interni e internazionali. Quest’ultima indice “referendum” su ogni singola misura del governo, e se qualcuna non le è gradita la blocca con vari stratagemmi, ad esempio speculando sulla valuta o portando via i capitali. Peraltro in genere questo secondo elettorato vince sulla cittadinanza».9

Solo nel recente passato si è cominciato a mettere in discussione questo mondo unipolare partorito dopo il 1991 dalla sconfitta dell’Unione Sovietica e dalle guerre senza fine euro-americane. Si è disegnato, infatti, un nuovo scenario multipolare caratterizzato da alcuni importanti processi: lo sviluppo in America Latina di un forte movimento popolare e statuale di emancipazione nei confronti degli Stati Uniti d’America dopo 500 anni di conquista europea e americana, con la conseguente sperimentazione di forme sociali, nate anche sull’esempio della Rivoluzione Cubana, definite del “socialismo del XXI secolo” (che il grande capitale americano e di altri paesi costantemente boicotta, tentando di ripristinare gli antichi privilegi delle classi proprietarie); la nascita nel 2011 dei BRICS (Brasile Russia India Cina Sudafrica), cioè di grandi e importanti paesi alleatisi per contrastare il dominio politico, economico e militare di USA, Unione Europea e Giappone (ma anche qui i governi reazionari e neoliberali di Brasile e India, con le loro attuali politiche neoliberali e filooccidentali, mettono in discussione l’efficacia dei questo cartello); la ripresa di autonomia nazionale e di rilevanza internazionale della Russia (dopo l’umiliazione neocoloniale degli anni di Eltsin); l’affermazione globale della Repubblica Popolare Cinese, a sua volta principale competitore economico e politico degli USA e portare di un modello socialista con caratteristiche cinesi; la grande crisi del capitalismo mondiale iniziata nel 2007-2008, e tuttora irrisolta, che alcuni ritengono ancora peggiore di quella del 1929; la perdita della centralità del dollaro come valuta di riferimento mondiale, perdita connessa ai fattori prima descritti. A tutto ciò, purtroppo, corrisponde una rinnovata aggressività militare degli Stati Uniti e della Nato (insieme ai paesi dell’Unione europea, di Israele, del Giappone), che reagiscono al loro ineluttabile declino e allo spostamento dell’asse geo-politico-economico dall’Atlantico al Pacifico, con una “politica del caos” che destabilizza interi paesi (anche con il sostegno a gruppi terroristici di varia provenienza), provoca continue guerre e conflitti (Iraq, Afghanistan, Somalia, Jugoslavia, Yemen, Libia, Siria, Ucraina…), sostiene le forze politiche e sociali più reazionarie in tutto il mondo, preparando pericolosi scenari di guerra in particolare contro importanti potenze nucleari quali Russia e Cina.

Sembrerebbe che la percezione di tutto questo in Europa e in Italia sia ancora molto tenue. Non vi è ancora presso i popoli europei una coscienza di massa sui pericoli che comportano l’ininterrotta espansione ad est della Nato, la dipendenza dalla politica estera degli Stati Uniti (con le conseguenti servitù militari), l’ostilità verso la Russia e la Cina, la chiusura razzista nei confronti di immigrati, rifugiati, profughi prodotti dalle guerre occidentali. Non vi è sufficiente consapevolezza del nesso che lega, ad esempio, la lotta per il disarmo e contro il nucleare, con la lotta per finanziare lo stato sociale. Così come non vi è sufficiente consapevolezza storica che ognuna di queste questioni chiama in causa la secolare responsabilità degli europei nei confronti di paesi e popoli extraeuropei. «Gli europei hanno coscienza della loro storia coloniale?», si chiede ancora Chomsky.10

Ognuno di questi temi, qui brevemente e schematicamente accennati, avrebbe bisogno di studi e specifici approfondimenti, in particolare di carattere storico. Perché, come ha ricordato lo storico britannico Eric J. Hobsbawm, «la distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancora più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi».11

Nelle scuole e nelle università sarebbe urgente dotare le giovani generazioni di un corredo storico-critico necessario a comprendere i nessi che intercorrono tra le loro vite e le guerre, l’imperialismo, il capitalismo, il socialismo, le migrazioni, il terrorismo. In questa prospettiva, educazione alla pace è educazione alla conoscenza delle cause che nella società capitalistica generano le guerre. E’ pertanto, in primo luogo, un’educazione storica, che individua nei concreti processi storici della modernità le radici, ad esempio, delle guerre del Novecento e di quelle odierne. Conquista delle Americhe, guerre di religione e di dominio in Europa, tratta atlantica degli schiavi africani e commercio triangolare, colonialismo europeo in Asia, in Africa, in America Latina, nazionalismi, imperialismo e ascesa della potenza egemonica degli Stati Uniti d’America, fascismo e nazismo, militarismo, nuovo ordine mondiale fondato sulla supremazia militare di Usa, Nato, Unione Europea, Israele, Giappone: sono questi i concreti eventi storici e i campi di analisi necessari a comprendere i nessi tra guerre e capitalismo nel mondo contemporaneo. Il tutto all’interno di una storia mondiale che ha visto e vede tuttora il conflitto tra le forze della pace e le forze della guerra. Conflitto che ha avuto storicamente uno dei suoi momenti insieme più drammatici e più epici – è bene ricordarlo – nella vittoria sul nazifascismo da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss), che ha comportato, vogliamo ripeterlo, la perdita di circa ventisette milioni di persone. Con tale approccio conoscitivo, né ecumenico né generico, si vuole fornire al docente e allo studente la cassetta degli attrezzi adeguata a comprendere da dove provengono i pericoli di guerra e quali sono gli interessi che muovono i responsabili dei conflitti in corso. Per questo, tra i tanti argomenti da studiare, è centrale quello relativo al ruolo degli Stati Uniti e della Nato nelle odierne crisi mondiali, nella politica del caos, nella proliferazione dei fondamentalismi e dei nazionalismi.

Tra i diversi sentieri di approfondimento di tali questioni, abbiamo pensato di percorrerne uno attraverso due poeti del Novecento europeo, Bertolt Brecht e Franco Fortini.

Fuggito sotto il tetto di paglia danese, amici,
seguo la vostra lotta. Di qui vi mando,
come già ogni tanto, i miei versi, incalzati
da sanguinose visioni oltre il Sund e il fogliame.
Fate uso, di quel che ve ne giunga, con prudenza!
Libri ingialliti, consunti rapporti
mi sono scrittoio. Se ci vedremo ancora,
volentieri ancora ritornerò apprendista.12

Questi sono i versi posti in epigrafe delle Poesie di Svendborg del poeta e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, nato nel 1898 ad Augsburg, città della Baviera, e morto nel 1956 a Berlino Est, allora capitale della Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Nel sessantesimo della morte (1956-2016), in Italia nessun intellettuale, nessun giornale o televisione lo hanno ricordato. Forse perché Brecht è stato lo scrittore che più di altri nel Novecento ha dato voce, nella grande lingua dei classici, alle speranze e alle contraddizioni delle classi subalterne. Un intellettuale che ha saputo trasformare le verità del marxismo in autentica poesia, attraverso, come disse Fortini, un «magico congiungimento di avanguardia e di umanesimo».13

Le Poesie di Svendborg, pubblicate per la prima volta a Copenaghen nell’aprile 1939 e composte tra il 1926 e il 1938, traggono il nome della cittadina danese nelle cui vicinanze Brecht visse dal 1933 al 1939 per sfuggire al nazismo in seguito all’incendio del Reichstag del 27 febbraio del 1933 e al conseguente avvento di Adolf Hitler al potere che ordinò di bruciare tutte le opere dello scrittore. Da allora Brecht sarà perennemente braccato dalle orde rosso-brune del nazismo.

Le ottantacinque poesie di Svendborg, seguite da altri sette componimenti della Raccolta Steffin (dal nome di Margarethe Steffin, operaia antifascista e collaboratrice tra le più amate dal poeta), sono state magistralmente introdotte e tradotte per Einaudi nel 1976 dal poeta e saggista Franco Fortini, il quale dagli anni Cinquanta del ‘900 iniziò un prezioso lavoro di mediatore culturale tra la Germania e l’Italia attraverso la traduzione di poesie, canzoni e testi teatrali, i primi dei quali furono, nel 1951, in collaborazione con la moglie Ruth Leiser Fortini, Santa Giovanna dei macelli e Madre courage e i suoi figli, entrambi pubblicati da Einaudi. Si trattò per Fortini di creare una lingua letteraria antismbolista, asseverativa, icastica, oggettivante, estranea alla dominanza petrarchesca della nostra tradizione letteraria. Come ha scritto il critico Luca Lenzini, «il tentativo di Fortini di acclimatare Brecht in un terreno ostile o poco ricettivo faceva tutt’uno con la fondazione di un alveo per la ricezione di se stesso».14 E un altro importante critico fortiniano aggiungeva: «Brecht è l’autore che permette [a Fortini] di spiazzare la tradizione del moderno, dal simbolismo al surrealismo alle neoavanguardie, favorendo il recupero straniato di forme classiche della tradizione italiana (per esempio della lirica dantesca o di quella manzoniana)».15

L’orizzonte storico-politico di Brecht come di Fortini è rappresentato dall’esperienza del comunismo novecentesco inaugurato da Lenin e dalla Rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 e dalla reazione violenta che questa esperienza di restituzione, per dirla con Brecht, “dell’uomo all’uomo”, determina da parte del capitalismo mondiale che non esita a partorire le forme estreme del fascismo e del nazismo per difendere i propri privilegi di classe e impedire che il contagio rivoluzionario si propagasse sul pianeta. Del nesso capitalismo-nazismo Brecht era consapevole quando ad esempio commenta con questa quartina una fotografia di un comizio di Hitler al termine de L’Abicì della guerra:

Per poco costui non dominava il mondo.
I popoli lo hanno fatto fuori. Ma intanto
non vorrei che voi celebraste il trionfo:
è ancora fecondo il grembo da cui è strisciato.16

Per Brecht il regime di Hitler è la quintessenza di questa ferocia di classe, con i suoi deliri razzisti, con il suo militarismo aggressivo, con i suoi sogni imperiali che prevedevano la sottomissione dei popoli della Terra, con la sua borghesia reazionaria, con il suo antisemitismo criminale. Un regime che tenterà di annientare l’unica società a lui antitetica, quella del socialismo sovietico, invadendo l’Urss il 22 giugno 1941 e portando definitivamente il mondo verso una nuova guerra devastante.

Brecht comprese lucidamente nelle poesie di Svendborg a cosa avrebbe portato il riarmo tedesco, che aveva alla spalle i giganti dell’acciaio, della chimica, della finanza germanica: «Dalle ciminiere delle fabbriche di munizioni / sale fumo» (p. 6); «Le mani che erano ferme tornano a muoversi: / torniscono granate» (p. 9). 

Chi sta in alto dice: pace e guerra
sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
sono come il vento e la tempesta.17

La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto. (p. 11)

* * *

Quando chi sta in alto parla di pace
la gente comune sa
che ci sarà la guerra.

Quando chi sta in alto maledice la guerra
le cartoline precetto sono già compilate. (p. 13)

* * *

Quelli che stanno in alto
si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.

I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento. (p. 14)

* * *

Chi sta in alto dice:
si va alla gloria.
Chi sta in basso dice:
si va alla fossa. (p. 17)

* * *

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente. (p. 18)

* * *

Chi sta in alto dice: nell’esercito
si esercita il potere popolare.
Se è vero, lo proverete
in cucina.
Nei cuori dev’essere eguale
il coraggio. Ma
nei recipienti ci sono
due qualità di rancio. (p. 19)

* * *

Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico. (p. 20)

 

In tutte queste poesie – fulminanti epigrammi scritti tra il 1936 e il 1937 – emerge anzitutto la lucida previsione della strategia guerrafondaia del Reich nazista e poi il nesso dialettico tra chi sta in basso e chi sta in alto, il conflitto di classe come motore della storia. Nella prospettiva di un pacifismo rivoluzionario che vede nella guerra sempre un vantaggio per i ricchi e una fregatura per i poveri: la “gloria” degli uni è la “fossa” degli altri. La guerra serve ai profitti dell’industria capitalistica, della finanza, del complesso militare-industriale. Brecht insiste, inoltre, sulla contraddizione tra le menzogne delle classi dominanti che proclamano a parole la pace ma che continuamente preparano la guerra. Nel mentre si costruisce un servile apparato mediatico fatto di discorsi ecumenici sulla cooperazione tra le nazioni, si aumentano le spese per gli armamenti, si rafforzano gli eserciti che inevitabilmente dovranno prima o poi essere impiegati. Avvenne così alla vigilia della Prima Guerra Mondiale poi nella Seconda e oggi, ancora, avviene con le cosiddette “guerre umanitarie e preventive”, su cui si esercita il massimo dell’ipocrisia, che così ha lucidamente sintetizzato un ex generale della Nato: «in un mondo pervaso dal mantra della pace, l’ipocrisia permette di credere che le operazioni di guerra siano “operazioni di pace” o di supporto alla pace e gli interventi militari diventano più accettabili se vengono declinati il tutte le salse inglesi usando il prefisso peace: keeping, making, enforcing, building, enhancing, support operations, ecc.».18

La prospettiva di Brecht è quella classica dell’internazionalismo di matrice marxiana che ha denunciato, ad esempio, i massacri dei fanti nelle trincee della Prima Guerra Mondiale come – per usare le parole del pontefice di allora, Benedetto XV – «una inutile strage», in cui venivano messi gli uni contro gli altri contadini, braccianti, operai italiani e austriaci, russi e francesi. All’odio nazionalista che serve a legittimare le ambizioni imperiali di questa o quella nazione e delle rispettive borghesie, l’internazionalismo marxista oppone l’unità degli oppressi di tutti i paesi contro le guerre e contro lo sfruttamento. Un obiettivo difficile che storicamente dividerà la sinistra e che sarà rivendicato nella sua radicalità – «pace, pane, terra» – da Lenin e dalla Rivoluzione d’Ottobre nel 1917.

La dimensione economica e quella politica della teoria della guerra come inevitabile conseguenza del capitalismo verrà evidenziata con forza alla vigilia e nel corso del primo conflitto mondiale da due eminenti personalità del marxismo rivoluzionario quali Rosa Luxemburg e Vladimir Ilic Lenin. […] Il dibattito su militarismo e guerra si andrà sviluppando nel primo decennio del Ventesimo [secolo] a causa della pressione nazionalista e bellicista dei governi e dei partiti conservatori e grazie alle posizioni della sinistra della Seconda Internazionale (Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht in Germania, Lenin in Russia). […] Per quanto riguarda l’artefice della Rivoluzione d’Ottobre, fin dall’inizio del conflitto mondiale il suo programma politico è chiaro: “la trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile”. Queste posizioni – destinate ad essere continuamente ribadite nel corso del conflitto – riguarderanno il carattere imperialista di quest’ultimo, la “capitolazione” di fronte ad esso da parte della Seconda Internazionale e, di conseguenza, gli obiettivi politici dei rivoluzionari.19

Gli anni di composizione di queste poesie sono anche gli anni della Guerra civile spagnola durante la quale si assistette ad una sorta di anticipazione della Seconda Guerra Mondiale. Si affrontarono negli anni 1936-1939 i repubblicani antifascisti (in prevalenza socialisti, comunisti e anarchici), i quali avevano democraticamente conquistato il governo della Spagna con le elezioni del 16 febbraio del 1936 che avevano registrato la vittoria del Fronte Popolare, e i fascisti di Francisco Franco, sostenuti da Hitler e da Mussolini, che attraverso un colpo di stato attentarono alla vita della repubblica riuscendo alla fine, nonostante l’aiuto sovietico ai repubblicani, a sconfiggerla. Su questa vicenda, che ebbe un’eco mondiale grazie anche alla costituzione delle Brigate internazionali in cui confluirono antifascisti di tutto il mondo che andarono in Spagna per difendere la repubblica, Brecht scrive tre quartine nella sezione intitolata Canzoni per bambini, presentando il punto di vista di un aviatore tedesco mandato a conquistare in Spagna lo “spazio” di cui il nazismo ha bisogno per la sua politica espansionistica, ma che trova “spazio” solo nella fossa in cui sarà seppellito tra i monti della sierra di Guadarrama tra le province di Madrid, Segovia e Avila. La poesia allude al sostegno decisivo che l’aviazione nazista dette a Franco in particolare durante il bombardamento della città di Guernica il 26 aprile 1937, in cui per la prima volta nella storia una popolazione civile fu soggetta ad un attacco aereo. Da questa tragedia il pittore Pablo Picasso dipinse uno dei suoi più famosi quadri, intitolato Guernica, un’enorme tela allegoria del dolore di una popolazione inerme vigliaccamente aggredita dal cielo da uomini senza volto. 

Mio fratello aviatore

Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.

Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.

E lo spazio che s’è conquistato
sta sui monti del Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.20

Vogliamo terminare questa breve rassegna, sottolineando ancora una volta lo straordinario lavoro di mediatore culturale svolto da Fortini nei confronti di Brecht, ma anche la sua produzione poetica in proprio. Moltissime sono le poesie (e le prose) che affrontano questi temi. Da ultimo le Sette canzonette del Golfo, anch’esse, come quelle del poeta britannico Tony Harrison, tristemente ispirate alla Guerra del Golfo del 1991. Le canzonette rappresentano una sezione dell’ultima raccolta di versi di Fortini, Composita solvantur del 1994, da cui vogliamo riportare un sonetto, Gli imperatori…, che sembra evocare proprio il bombardamento di Baghdad e che si caratterizza per il ricorso ad un sarcasmo crudele che ricorda le ottave della Gerusalemme Liberata del Tasso. 

Gli imperatori dei sanguigni regni
guardali come varcano le nubi
cinte di lampi, sui notturni lumi
dell’orbe assorti in empi o rei disegni!

Già fulminanti tra fetori e fumi
irte scagliano schiere di congegni:
vedi femori e cerebri e nei segni
impressi umani arsi rappresi grumi.

A noi gli dèi porsero pace. Ai nostri
giorni occidui si avvivano i vigneti
e i seminati e di fortuna un riso.

Noi bea, lieti di poco, un breve riso,
un’aperta veduta e i chiusi inchiostri
che gloria certa serbano ai poeti.


Note
1 Ho visto piegarsi un iracheno carbonizzato
verso me attraverso il parabrezza schiantato,
col tergicristallo che pare una penna
pronta a scrivere pensieri per la Terra,
col tergicristallo che pare uno strumento
che egli afferra per fare testamento. (T. Harrison, V. e altre poesie, trad. it. a cura di M. Bacigalupo, Torino, Einaudi, 1996, p. 151).
2 Nella metrica classica greco-latina, la tetrapodia è la successione di quattro piedi (il piede è la serie di due o più sillabe riunite in cadenza ritmica). Il giambo è un piede di tre tempi con ritmo ascendente, formato da una sillaba breve e una lunga, secondo la metrica quantitativa classica (cfr. M. Ramous, La metrica, Milano, Garzanti, 1984).
3 In Casa della poesia, consultato il 25 agosto 2016. Una vibrante lettura del poemetto A Cold Coming da parte Harrison si può ascoltare su YouTube.
4 Harrison, V. e altre poesie, cit., p. 187.
5 B. Brecht, L’Abicì della guerra, trad. it. di R. Fertonani, Torino, Einaudi, 1972, pp. 44-45. Yorick è il buffone di corte dell’infanzia di Amleto il cui cranio il principe riconosce per caso tra gli ossari. La scena si trova all’inizio del quinto atto dell’Amleto di Shakespeare. La “Domei” era la banca statale del Giappone.
6 S. Ulrich, Note a L’Abicì della guerra, in B. Brecht, Poesie II (1934-1956), a cura di L. Forte, Biblioteca della Pléiade, Torino, Einaudi, 2005, p. 1543.
7 M. Dinucci, Geopolitica di una “guerra globale”, in A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Roma, DeriveApprodi, 2005, p. 15.
8 N. Chomsky con A. Vltchek, Terrorismo occidentale. Da Hiroshima ai droni, Milano, Ponte alle Grazie, 2015, p. 205.
9 Ivi, p. 174. Di Noam Chomsky, cfr. anche il recente Chi sono i padroni del mondo, Milano, Ponte alle Grazie, 2016.
10 Ivi, p. 34.
11 E.J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 14-15.
12 B. Brecht, Poesie di Svendborg seguite dalla Raccolta Steffin, introduzione e traduzione di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1976, p. 1.
13 F. Fortini – P. Jachia, Fortini leggere e scrivere, Firenze, Marco Nardi Editore, 1993, p. 56.
14 L. Lenzini, Introduzione, in F. Fortini, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 2014, p. XVI.
15 A. Berardinelli, Poesia italiana. Il Novecento, Milano, Garzanti, 1980, p. 765.
16 Brecht, L’Abicì della guerra, cit., p. 70.
17 Espressione forse ripresa dal socialista francese Jean Jaurès: «il capitalismo porta con sé la guerra come la nube porta l’uragano», citato in F. Battistelli, L’interpretazione dei marxisti, in La grande sociologia di fronte alla Grande guerra, a cura di C. Cipolla, Milano, FrancoAngeli, 2015, p. 151.
18 F. Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, Milano, Chiarelettere, 2012, p. 27. Ecco la traduzione delle “salse inglesi”: mantenimento, pacificazione, far rispettare, costruire, accrescendo, operazioni di sostegno.
19 Battistelli, L’interpretazione dei marxisti, cit., pp. 146, 148, 157.
20 Brecht, Poesie di Svendborg, cit., p.

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