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Euro: dopo vent’anni, riforma cercasi disperatamente

Intervista a Riccardo Bellofiore*

eurp 702x459Lo scorso primo gennaio sono trascorsi vent’anni dall’introduzione dell’euro come valuta: un anniversario che arriva in un anno cruciale per l’Unione europea, con le elezioni del prossimo maggio, e impone un bilancio complessivo di un processo di integrazione monetaria europea, delle sue contraddizioni e del suo futuro possibile. Punto di arrivo di un tortuoso processo di integrazione dei mercati nel Continente e, secondo i suoi fautori, primo passo di una sempre maggiore integrazione politica, la moneta unica dell’Europa dopo la crisi dei debiti sovrani si pone oggi come problema primario per la tenuta e legittimità dell’intero progetto europeo e degli stessi Stati membri. Le ferite ancora parte della crisi e l’erosione di una solidarietà europea sotto la scure dell’austerità e dei vincoli fiscali legano sempre di più il destino dell’euro a quello delle democrazie e dei diritti sociali, rendendo urgente e necessario interrogarsi sulle promesse tradite della moneta unica e su quelle irrealizzabili. Quali sono state le ragioni che hanno portato all’introduzione della moneta unica? Quali i suoi limiti e le prospettive di una riforma dell’eurozona? Ne abbiamo parlato con Riccardo Bellofiore, Professore di Economia Politica all’Università di Bergamo.

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A vent’anni dall’adozione dell’euro come valuta, quale l’origine e le ragioni storiche dell’adozione dell’euro?

Innanzitutto credo che si debba capire che unificazione monetaria ed euro non sono essenzialmente la stessa cosa. Noi ormai siamo abituati a chiamare l’euro “moneta unica” in opposizione alle monete nazionali dei Paesi che poi hanno fatto parte dell’eurozona. In realtà questa è a mio avviso una falsa alternativa.

La spinta ad una unificazione monetaria europea nasce subito dopo il crollo di Bretton Woods fra il ’71 e il ’72, con il passaggio ai cambi flessibili. Già da allora si inizia a parlare in varie forme di unificazione monetaria. Unificazione che decollò però soltanto alla fine degli anni ’80 con una commissione che fu diretta non a caso dal francese Jacques Delors, che fece da premessa al trattato di Maastricht, firmato nel febbraio del 1992, con l’avvio delle tre fasi che avrebbero portato all’Unione economica e monetaria. Ora, la leggenda vuole che l’unione monetaria fosse un progetto essenzialmente tedesco: in realtà non è affatto così. Si è trattato invece di un progetto a dominanza francese. La ragione è che proprio negli anni ’70 e ’80 in Europa il problema della Germania occidentale era sicuramente di difendersi dalle svalutazioni competitive di altri Paesi: questo portò negli anni ’70 all’istituzione del serpente monetario (il primo accordo di fissazione dei tassi di cambio fra i Paesi membri della Comunità Europea, entrato in vigore nel 1972) e negli anni ’80 l’istituzione del sistema monetario europeo, come sistema di cambi fissi tra i Paesi aderenti. Il sistema monetario europeo però rese evidente il dominio della Germania occidentale. In realtà quindi i Paesi membri avevano — già perso la loro sovranità monetaria: e l’avevano persa in favore di una banca centrale nazionale, quella tedesca, la Bundesbank. Il progetto francese era quello di condividere questo comando in Europa, sostituendo alla Bundesbank una Banca centrale europea. L’idea dei francesi era che esistesse un centro manifatturiero nell’Europea centrale e comprendente principalmente Francia e Germania occidentale – noi potremmo ovviamente includere una parte dell’apparato industriale italiano – da integrare economicamente, insieme al polo finanziario rappresentato dalla Gran Bretagna. Il paradosso fu che il sistema monetario europeo saltò proprio nel momento in cui venne firmato il trattato di Maastricht e per diversi anni il progetto di integrazione monetaria perse la sua spinta. Quale la ragione? Il progetto di unione economica e monetaria era stato pensato per un’Europa divisa in due. Quando crolla il muro di Berlino e l’Unione sovietica si dissolve, la Germania vorrebbe indirizzarsi ad Est, ma non ci riesce perché ha il problema di gestire la riunificazione. In questo quadro la Germania negli anni ’90 è stata in qualche modo costretta ad accettare il processo di integrazione monetaria: una volta nel 1991/92 con il trattato di Maastricht; una seconda volta con il trattato di Amsterdam, cioè quando il progetto dell’euro riparte a metà degli anni ’90. Riparte perché l’Europa in quel periodo è economicamente debole, trainata dagli Stati Uniti e la Germania non appare in quel momento un modello di successo. In entrambi i casi, nel ’92 e nel ’97, il gioco della Germania fu quello di far pagare care in termini di regole l’adesione alla moneta unica: e da qui i famosi parametri di Maastricht, con la convergenza a disavanzi più bassi, i tagli al debito pubblico e così via. Tutte regole che, come sappiamo, sono poi state infrante sistematicamente dalla stessa Germania e dalla Francia in particolare. In tale quadro diventa rilevante ricordare un punto: l’euro come moneta unica non è l’unico modello possibile di unificazione monetaria. Nel corso degli anni ’90 era possibile una via alternativa che, pur riconoscendo i limiti di sovranità monetarie nazionali su scala europea che andavano superate, non conduceva a una moneta come l’euro. L’euro è una moneta circolante fra il pubblico e non soltanto fra le banche centrali dell’area europea. Invece una moneta comune, come era quella ad esempio che Keynes immaginò nel 1944, il bancor, era tutta un’altra cosa: una moneta di regolazione dei pagamenti tra banche centrali, che può consentire una certa flessibilità del tasso di cambio in caso di squilibri particolarmente significativi e che evidentemente assume una qualità o un’altra insieme al tipo di modello istituzionale dell’area europea di cui fa parte. Un simile progetto, non di moneta unica ma di moneta comune europea, fu presentato da economisti della sinistra francese, fra cui il keynesiano Jacques Mazier e la marxista Suzanne de Brunhoff, ma non venne essenzialmente preso in considerazione dalla sinistra europea. Quando l’euro fa la sua comparsa fra il 1999 e il 2002 esso appare già debole come progetto, perché i Paesi che vi partecipavano erano troppo diversi fra loro e perché non era prevista non solo una Unione politica dietro la moneta, ma neanche una unione fiscale e bancaria: tutti limiti ancora presenti peraltro. Ma la previsione che allora molti fecero, incluso il sottoscritto, era che immediatamente dopo l’unificazione monetaria i mercati finanziari avrebbero riconosciuto la differenza fra i titoli del debito greco dai titoli del debito tedesco, conducendo a squilibri immediatamente insostenibili. Paradossalmente non fu così. E benché negli anni ’90, così negli anni 2000, la crescita in Europa non fosse particolarmente vivace, quello che avvenne fu che esso risultò comunque più sostenuto alla periferia che non al centro: era più sostenuto in Grecia e in Spagna che non in Germania e Francia. Questo è tanto vero che quasi a dieci anni dall’istituzione dell’euro, ormai scoppiata nell’estate del 2007 la crisi dei subprime negli Stati Uniti, in giro per il mondo si facevano convegni in cui l’euro era ritenuto un modello per altre aree, come quella asiatica e quella latino-americana. La povertà di questo punto di vista si è rivelata nella sua interezza proprio negli anni successivi alla crisi finanziaria globale…

 

Il principale argomento usato dai protagonisti del trattato di Maastricht, ribadito proprio recentemente da uno di essi – Romano Prodi – in un’intervista al Sole 24 Ore, vuole che il progetto di unione monetaria avrebbe dovuto prevedere un processo di progressiva integrazione fiscale e politica cui non è stato mai dato un effettivo corso a causa degli interessi particolaristici degli Stati membri. A suo avviso il progetto di una compiuta unione monetaria si può definire quindi una ‘promessa tradita’ o piuttosto una promessa fin dall’inizio non realizzabile proprio per le condizioni che essa avrebbe richiesto?

Sia la struttura istituzionale della moneta unica, sia la teoria e la concettualizzazione che l’hanno sostenuta, sono fallimentari. In quanto tali erano destinate alla dura smentita della storia. Il vero problema è spiegare come mai tale smentita non sia arrivata prima e come mai ancora adesso ‘il calabrone voli’, per usare una metafora che è stata usata varie volte a proposito dell’euro. La logica iniziale fu la seguente: imporre ai vari Paesi una convergenza monetaria accelerata avrebbe condotto ad una convergenza reale in assenza di una effettiva unificazione fiscale con uno Stato dietro una moneta. Primo: non si è mai vista una moneta senza una testa politica. Credo che in una certa misura ciò non implichi necessariamente più la presenza di uno Stato in senso classico: quindi credo che non smentisca necessariamente che l’euro sia una moneta in senso proprio. Chiaramente la testa politica che sta dietro l’euro è però una testa ‘nascosta’ e che non si riconosce neanche essa stessa in modo adeguato. In secondo luogo: l’assenza di una unificazione fiscale significa assenza di uno Stato in grado di intervenire in modo significativo con il proprio bilancio. Parliamo di un bilancio europeo che rispetto al PIL dell’area sta più o meno all’1%. Una proposta recente molto sensata avanzata da Fitoussi, Stiglitz e altri, chiede di riformare il bilancio europeo in modo che arrivi almeno al 4 o 5%. Credo addirittura che si tratti di una stima troppo prudente, anche se sarebbe già qualcosa: come sosteneva Vittorio Valli già quasi 15 anni fa, l’area euro dovrebbe avere un bilancio pubblico pari almeno all’ 8-10% del PIL dell’area: tutti sanno che il bilancio pubblico degli Stati Uniti è almeno tre volte tanto, e negli Stati europei ancora di più. Questa è stata una mancanza istituzionale seria. Come lo è stata la pretesa che la Banca Centrale Europea non dovesse fungere da prestatore di ultima istanza. Un terzo limite è stata l’assenza di misure redistributive fra aree forti e deboli. La quarta è stata l’assenza, almeno nominale, di politiche industriali di sviluppo attive, in particolare nelle o a favore delle aree arretrate: si è preteso, almeno nominalmente, l’esatto contrario. Insisto sulla precisazione ‘almeno nominalmente’, perché se poi andiamo a vedere quello che è effettivamente successo, vediamo che la BCE durante la crisi un po’ senza dirlo, un po’ riconoscendolo ex post, ha cambiato significativamente il proprio modo di operare, e non è vero che non abbia svolto una funzione di lender of last resort, ma l’ha svolta in maniera indiretta e deviata, operando attraverso il sistema delle banche commerciali oppure attraverso politiche monetarie dette non convenzionali e così via. A politiche industriali attive non hanno mai rinunciato Paesi centrali, come Germania e Francia: ciò però ha aggravato e non ridotto le distanze fra aree ricche e povere nell’area euro. Dopo i 10 anni iniziali in cui l’euro sembrava funzionare, i movimenti spontanei di capitale che andavano dal centro al sud dell’Europa hanno svolto le funzioni – in maniera cieca e anche perversa – di una politica redistributiva che non esisteva, di una politica di sviluppo delle aree meno avanzate che veniva negata. Di tutto ciò ho parlato nel dettaglio nel mio ‘La crisi globale. L’Europa, l’euro, la sinistra’ (edizioni Asterios, 2012).

 

In che senso la crisi finanziaria globale e la crisi dei debiti sovrani hanno messo a nudo le debolezze strutturali e le contraddizioni dell’unione monetaria?

Sono stati eventi rivelatori da molti punti di vista. Con una semplificazione, potremmo dire che l’interpretazione che alla fine è diventata la più convenzionale della crisi europea, quella tipica del mainstream, è che sono in difficoltà i Paesi con disavanzi pubblici più elevati; mentre una interpretazione diffusa tra i critici dell’euro e dell’Unione europea è che il problema sarebbe da rintracciare nello stesso progetto di integrazione monetaria come fattore che avrebbe prodotta uno squilibrio delle bilance dei pagamenti (più precisamente, delle partite correnti) dei vari paesi. Secondo questo ultimo punto di vista l’unione monetaria ha comportato una divisione fra un’Europa che esporta più di quanto importa, con al centro al Germania, e un’altra Europa che invece è importatrice netta. Entrambe le interpretazioni colgono una parte di verità, ma francamente molto ridotta. In primo luogo perché la frattura nei termini delle bilance commerciali in Europa esisteva anche prima dell’euro, così come esistevano i disavanzi del bilancio pubblico e del debito pubblico. In secondo luogo perché, di nuovo, se si guarda fino al 2008 (l’anno in cui la crisi scoppia in Europa come crisi anche reale), sia dal punto di vista dei teorici più affermati, sia dal punto di vista delle politiche pratiche, nessuno veramente si preoccupava del fatto che alcuni Paesi importassero di più o di meno; anzi credo si possa sostenere che siano stati i movimenti di capitale verso il Sud dell’Europa ad avere determinato l’eccesso di importazioni commerciali del Sud e non viceversa. Sono in larga misura i movimenti della finanza e della moneta a “dominare” e produrre le dinamiche reali. Per quanto riguarda i bilanci pubblici: disavanzi e debito sono stati, come sono, uno strumento di ricatto, diciamo così, più della ragione politica che della ragione economica. Il cambio netto è avvenuto, almeno in Europa, con il 2010: ciò induce a una doppia linea di riflessione. La crisi globale è iniziata nell’estate del 2007: va in crisi un segmento del mercato finanziario statunitense che ebbe subito ripercussioni reali e finì per coinvolgere la Cina e il Giappone. Si sarebbe potuto dire allora, e in qualche misura lo avevo detto io stesso all’epoca, che si trattasse di una crisi made in USA: ma si trattava più profondamente di una crisi della finanza transnazionale, essenzialmente nord-atlantica, dell’asse Stati Uniti-Europa. C’è un bel libro di Adam Tooze, ora tradotto in italiano, Lo schianto, che ricorda a ragione che all’epoca tutti si aspettavano una crisi, ma sull’asse Stati Uniti-Cina, appunto per le cosiddette global imbalances. Anche qui, come in Europa, un grave errore di prospettiva. La crisi è scoppiata non per il problema della bilancia dei pagamenti fra Stati Uniti e Cina, ma è scoppiata invece nel cuore della finanza transatlantica, includendo come attori centrali le banche europee e la finanza europea, che sono state protagoniste dell’ondata speculativa. E la crisi si è presentata non a caso come crisi finanziaria, perché lo era in modo essenziale: perché è stata determinata non tanto, come direbbero i marxisti, dalla caduta del saggio di profitto, almeno immediatamente; non tanto da un’insufficienza di domanda effettiva causa i bassi consumi (al contrario da un certo punto di vista, vi era un eccesso di consumi in certe aree). La crisi è stata determinata dall’esaurirsi delle fonti di finanziamento. Le fonti di finanziamento, benché in ultima istanza ovviamente nelle crisi debbano far capo alle banche centrali, nella normalità erano ormai divenute largamente autonome, e indipendenti dallo stesso sistema bancario tradizionale. La crisi è arrivata in Europa soltanto a metà del 2008 e per un paio di anni vi è stata una reazione keynesiana, in primis nella stessa Germania. La crisi in Europa è esplosa, come seconda fase della crisi specificamente europea, a partire dal caso greco, e poi come effetto domino, in altri Paesi dell’euro-periferia. Qui il problema che si è rivelato fondamentale è stata la non volontà di risolvere queste crisi con un immediato intervento della BCE quale finanziatrice dei governi. La stessa crisi si sarebbe verificata, nello stesso modo, se noi non avessimo avuto una area dell’euro grande, ma piccola, persino limitata ai primi Paesi fondatori, fra cui vi sarebbe stato il Belgio, che però aveva un debito pubblico vicino al 100%. Gli stessi comportamenti avrebbero condotto allo stesso tipo di crisi. Il secondo asse di ragionamento, che ormai mi sembra ogni giorno più importante, è che negli ultimi dieci anni in Europa – e qui l’unione monetaria ha costituito un fondamentale fattore di accelerazione – sono avvenuti due fatti completamente inediti. Il primo è consistito nella costruzione di catene produttive del valore transnazionali. Il secondo è stata l’integrazione dei bilanci delle banche e degli operatori finanziari europei, in parte per la necessità di essere presenti nei circuiti di una finanza ormai globalizzata, il che ha evidentemente a che vedere con quanto ho detto prima. Le catene transnazionali del valore si sono sviluppate perché nella nuova Europa, caduta l’Unione sovietica, superato il decennio della ricostruzione, la Germania occidentale che aveva una matrice di produzione molto compatta e sostanzialmente tutta interna, l’ha progressivamente diffusa nei Paesi vicini, muovendosi ad est e non a sud. Di questa catena di produzione fa parte un pezzo della piccola e media impresa italiana di certe aree geografiche (ed è la ragione per cui è sopravvssuta: lo ricorda, del tutto a ragione, anche Draghi). Questo è un quadro che rende futile, sbagliato, controproducente e miope il ragionare in termini nazionali avendo di fronte una realtà di profonda integrazione fra aspetti reali e finanziari nell’area europea. La moneta unica ha favorito e accelerato la costruzione e integrazione di queste catene di valore reali e dei flussi finanziari.

 

Da una parte un’integrazione crescente a livello economico e finanziario, dall’altra una competizione fra Stati membri e aree economiche dell’Europa che dopo la crisi si è espressa in termini di interessi sempre più conflittuali e inconciliabili?

Credo che la contraddizione centrale dell’Europa sia esattamente questa. Non penso che la contraddizione sia dovuta agli alti bilanci pubblici e neanche che sia dovuta alla presenza di squilibri commerciali significativi. Il problema è un’unificazione monetaria e istituzionale parziale e su linee sbagliate. A questo si è accoppiato un altro fenomeno: quello di una realtà che non è più quella di nazioni separate e distinte, ma una realtà in cui i modelli della teoria macroeconomica standard richiedono di essere radicalmente rivisti, perché effettivamente sono stati costruiti in un mondo molto diverso da quello attuale. Questo ha conseguenze immediate non solo per chi deve fare e attuare politiche economiche, ma anche per la politica tout court e per i soggetti sociali in senso ampio. Un sindacato che si barrichi dentro una dimensione esclusivamente nazionale è destinato alla sconfitta, come allo stesso modo quei movimenti che rivendicano una pura e semplice sovranità nazionale, arrivando fino alla diffidenza e lotta all’immigrazione, di cui vi sono espressioni non solo di destra, ma anche di sinistra – si pensi alla Wagenknecht in Germania o Mélénchon in Francia: queste opzioni sono portatrici di brutti ricordi, ma vogliono anche tamponare il buco in una diga mettendoci il dito, come si suol dire. Purtroppo anche molte figure politiche di peso a sinistra in Europa, alcune delle poche speranze attuali, come Corbyn, non paiono avere le idee troppo chiare in merito, ritenendo che oggi si possa fare lo stesso discorso che forse si poteva fare 50 anni fa, quando la nazione poteva avere ancora una funzione emancipatrice. In questo momento e in questa Europa ogni tentativo di chiusura entro i confini nazionali diventa subito esclusione verso l’esterno che è anche esclusione verso l’interno.

 

Arriviamo così alla grande questione: di fronte alla crisi dell’eurozona come giudica le due grandi alternative nel dibattito, cioè l’uscita dall’euro o la riforma interna dell’unione monetaria? Quali i limiti di entrambe le opzioni e come porre correttamente il problema?

Qualche anno fa, con il sociologo economico Francesco Garibaldo e con una economista, adesso politica, della sinistra portoghese, Mariana Mortágua, abbiamo scritto un saggio che adesso uscirà in forma estesa e aggiornata in italiano con il titolo ‘Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea’ (Rosenberg & Sellier, 2019). Io avrei preferito la traduzione del titolo originale, che era – tradotto in italiano ‘Perché l’uscita dall’euro è la risposta alla domanda sbagliata’. Non ho detto la risposta sbagliata: è la domanda che è sbagliata, bisogna proprio cambiare prospettiva, modo di ragionare. Questo si collega a ciò che ho detto prima. E’ possibile che per un Paese, anzi è la norma in Europa, il tasso di cambio utile per il bilancio finanziario e magari per il debito pubblico, per fare un esempio, debba essere quello di una valuta forte, ma magari dal punto di vista industriale debba essere quello di una valuta più debole. Ma è proprio del tutto vera anche questa seconda cosa? Perché quando si hanno delle catene produttive transnazionali e il contenuto di importazione aumenta, gli effetti positivi di una svalutazione si possono ridurre di molto. Quando si è una piccola nazione che però non può competere sull’alta tecnologia (magari si investe in modo significativo, ma senza autonomia tecnologica) o non ha materie prime, o tutte e due le cose, una svalutazione può essere assolutamente negativa e si può procedere così con simili esempi. L’idea che l’uscita dall’euro, che sia da destra o da sinistra, sia in quanto tale una panacea è da contestare alla radice. Dall’altro lato la parola d’ordine della riforma dell’euro incontra anch’essa degli evidenti limiti, perché l’euro è stato costruito in questo modo e più che essere riformato, dovrebbe essere rivoluzionato. Non è possibile secondo me immaginarsi di riprendere adesso, in questa situazione, il progetto di moneta comune di cui dicevo prima, per la semplice ragione che la fase di transizione avverrebbe in un contesto sociale e politico di estrema frammentazione e che lo renderebbe impossibile. Il problema principale dietro la riforma dell’euro è questo: alla domanda se l’euro sia compatibile con la democrazia la risposta è no. L’euro non è compatibile con la democrazia. Il funzionamento della Commissione, la sostanziale irrilevanza del Parlamento europeo (che fra l’altro alle prossime elezioni avrà uno spostamento ancora più a destra), sono testimonianza di un’Europa che come istituzione si limita alle parole d’ordine di riforme strutturali e austerità, passando anche talora sopra le forme di garanzia democratica. Dico questo perfettamente cosciente del fatto che nel progetto europeo originario vi sarebbero diversi elementi di democrazia da recuperare, ma il segno che l’euro dà in questo momento è negativo. La vera domanda è se sia immaginabile un’inversione: se cioè la democrazia, una spinta democratica, possa condurre ad una trasformazione radicale dell’euro, perché se no non c’è speranza. Ci troviamo in una situazione storica non invidiabile. Sul terreno globale noi abbiamo una realtà sociale che è stata ricacciata alla fine del Settecento e inizi dell’Ottocento. Frammentazione estrema del lavoro. Dal punto di vista della finanza e della moneta siamo oltre gli anni 2000, cioè una quasi perfetta globalizzazione, almeno dei capitali a breve. Sul terreno della produzione assistiamo a una forte integrazione oltre i confini nazionali che ci conduce a un mondo che forse non era troppo lontano da quello dell’Inghilterra fra il 1840 e il 1860. Dal punto di vista politico, non solo in Europa, noi siamo agli inizi degli anni ’30. Questo non solo da destra ma anche da parte di una certa sinistra, la quale si attende forse che il fascismo e il nazismo ricompaiano nella stessa identica forma di una volta, e non ne ha più paura, ha perso il baricentro e le categorie. In una situazione di questo genere una possibilità di riforma politica esiste soltanto nella misura in cui vi sia una capacità di costruzione dal basso, una spinta dal basso, verso un’Europa federale che assuma come proprie delle parole d’ordine che sembrano dell’avversario, come ‘riforma strutturale’ e ‘austerità’: ma le riforme strutturali di cui c’è bisogno sono di tipo completamente diverso, e l’austerità deve essere delle classi dominanti. Il cosiddetto neoliberismo, con tutta la sua perversione e la finanziarizzazione, è stato in grado di accelerare la crescita in una parte del mondo significativa, dalla fine degli anni ’80 fino al 2007. La crisi non ha segnato la fine della finanza speculativa: ha però segnato la fine della possibilità che gli eccessi speculativi si trasformassero in crescita reale. Quel neoliberismo è morto. Questo non avviene più: siamo in una nuovo sistema, con crescita molto più bassa, laddove ve ne sia, e che conduce al risorgere del protezionismo. Il neoliberismo aveva cambiato la struttura dell’economia, perché le aveva rese dipendenti in certe aree del mondo dalle esportazioni, in altre da un consumo opulento di una parte della società. Di fronte ad un mondo di questo genere quello di cui c’è bisogno è un cambio drastico della struttura dell’economia: in questo senso serve una riforma strutturale. Quindi una diversa struttura della domanda e una diversa struttura della produzione e dell’occupazione. Quello che un economista non marxista come Minsky chiamava ‘socializzazione dell’investimento’, radicalizzando l’idea di Keynes, ‘socializzazione del sistema finanziario e dell’occupazione’, con al centro un forte protagonismo dell’operatore pubblico. Minsky aveva in mente il New Deal, di cui dava una versione più coerente e a sinistra. Oggi avremmo bisogno di qualcosa che vada in quella direzione: qualcosa che non c’è mai stata nella storia e che però è anche al centro di quelli che chiamo gli anni dell’alta teoria della tradizione italiana nell’economia politica. Se si leggono economisti come Graziani, Caffè, Sylos Labini, alcuni scritti di Napoleoni, si vede che la direzione tracciata era quella di un keynesismo strutturale, per così dire. Una nuova teoria però non può esistere se non prende forza da una base sociale. Come diceva appunto Napoleoni: piedi a terra, testa ben alta. Questo per un verso mi rende forse un po’ utopista, ma dall’altro estremamente pessimista. Credo però che o partiamo a ragionare da queste premesse, o altrimenti non possiamo stupirci di ritrovarci con una sinistra che vuole ‘contaminarsi’ con le destre: in questi casi meglio essere scomunicati, che contaminati, come mi ha detto proprio ieri il mio amico e collega Joseph Halevi.

 

Come giudica le proposte avanzate lo scorso settembre dal Ministro Savona in merito a una riforma dell’eurozona e che guardano ad una compiuta integrazione fiscale e al conferimento di un effettivo potere di ‘lender of last resort’ alla BCE? Possono offrire una prospettiva in grado di garantire la sostenibilità dell’euro?

Il documento di Savona non ha praticamente nulla a che vedere con la politica del governo giallo-verde, né ha molto a che vedere con il modo in cui Savona si è presentato o si è fatto usare. Quel documento ha dietro una serie di studiosi ed economisti non banali, come Jan Kregel, che hanno collaborato con lo stesso Savona al centro studi della Confindustria negli anni ’70, quando lo stesso Savona fece venire Minsky. Savona è persona intelligente e il documento è pieno di analisi e proposte rispetto alle quali non mi sentirei di dissentire. Trovo però molto discutibile che qualcuno si sia fatto presentare come possibile ministro dell’economia avendo sul web un documento in cui si dettagliava un ‘Piano B’ di uscita dall’euro. Io sono convinto che qualsiasi governo degno di questo nome dovrebbe avere un piano B, ma non lo debba esporre: perché in questo caso diventa immediatamente il piano A. Ora, purtroppo la pratica del governo giallo-verde non si è ispirata tanto al documento di Savona di settembre, Una Politeia per una Europa diversa, ma certamente ha un qualche rapporto in peggio addirittura il documento sul piano B. Sono chiaramente l’ultimo che pensa che non si debba andare a discutere con l’Europa, però lo devi fare costruendo innanzitutto un asse dal punto di vista politico, anche transnazionale. La Lega un asse lo ha costruito, ma non funziona per quello che vuole lei, perché i sovranisti di altre aree per esempio sono legati alla Germania e non a loro, e comunque ognuno sta per sé. Tu poi non fai una manovra in cui l’espansione è relegata a pochissimi investimenti, ad un reddito di cittadinanza che è solo una politica di workfare, cioè di imposizione del lavoro con qualche misero sussidio, non giochi sui decimali e facendo in modo – in maniera più o meno consapevole – che i mercati finanziari facciano aumentare lo spread, con degli effetti prima o poi sull’economia e sulle stesse famiglie. Un giusto tentativo di cambiare le regole in Europa è stato fatto nella maniera più debole possibile, con una manovra poverissima di contenuto e a breve termine: stiamo dunque peggio, non meglio di prima.


* Professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Bergamo

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Nico
Saturday, 19 January 2019 15:04
Non si può uscire dall'euro e dall'Ue, non si può riformare la Ue e l'euro. Quindi?
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