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Verso una unione sempre più stretta?

di Perry Anderson

ever closer unionPerry Anderson, storico accademico e saggista britannico, sulla London Review of Books propone una distaccata e lucida analisi delle istituzioni europee sin dalle loro origini, molto distante dal dilagante e superficiale conformismo del politicamente corretto, dalla quale emerge che tra i principali protagonisti dell'integrazione europea furono accolti con tutti gli onori importanti esponenti del partito nazionalsocialista tedesco o personalità ad esso vicine. All'interno delle diverse istituzioni europee essi continuarono a perseguire, pur in forme nuove e diverse, quel disegno di unificazione dell'Europa sotto l'egemonia tedesca già tentato durante il terzo Reich

 

I. La Corte di Giustizia europea

Quantitivamente parlando, lo spostamento del centro di gravità del lavoro sull'UE dall'America alla stessa Europa è stato il prodotto di un'industria accademica ormai vasta: circa cinquecento cattedre Jean Monnet sono attualmente presenti in tutta l'Unione. In mezzo a un mare di conformismo, è emerso un gruppo di pensatori le cui opere rappresentano un progresso qualitativo nella comprensione critica dell'Unione. Animati da un'indipendenza di spirito più vicina ad intellettuali "tradizionali" come Gramsci, che non alla variante "organica" rappresentata da Luuk van Middelaar, costoro non si trovano a coprire incarichi nelle posizioni ufficiali; non formano una scuola di pensiero collettiva; e sono di diversa estrazione nazionale e generazionale.

Un breve elenco includerebbe Giandomenico Majone (Italia), teorico della amministrazione pubblica; i giuristi Dieter Grimm (Germania) e Thomas Horsley (Gran Bretagna); i sociologi Claus Offe e Wolfgang Streeck (Germania); gli scienziati politici Christopher Bickerton (Gran Bretagna), Morten Rasmussen (Danimarca) e Antoine Vauchez (Francia); gli storici Kiran Klaus Patel (Germania) e Vera Fritz (Lussemburgo). Nel lavoro di questi e altri studiosi, le dinamiche dell'integrazione europea emergono in una luce più fredda e più indagatrice rispetto ai panegirici di van Middelaar, rivelando ciò che questi omettono e scrutandone i contenuti con una lente più precisa.

L'Unione, come la conosciamo oggi, è una organizzazione complessa composta da cinque istituzioni principali: la Commissione europea, la Corte di giustizia europea, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo e la Banca centrale europea. Si può iniziare l’analisi prendendo in considerazione l’espressione che convenzionalmente definisce la storia del suo sviluppo, "integrazione europea". Questa espressione, come ha mostrato Patel, proviene dall’America ed è stata adottata per evitare un altro termine troppo caratterizzato dagli scopi tattici della politica degli anni '50.  La parola che ha sostituito era "federazione", termine rifiutato dai governi e dai centri di interessi esistenti allora, anche se sostenuto con ardore da una piccola ma impegnata minoranza di attivisti. Per i governi e per i loro simpatizzanti accademici, "integrazione" era un termine più neutro per indicare il progresso verso un ideale, per il momento, mantenuto in pectore. In nessun campo è stato più utile che nel lavoro della Corte di giustizia, che è stata, come sottolinea van Middelaar, la prima promotrice del "passaggio all'Europa" dopo il Trattato di Roma.

Oggi la Corte resta, tra tutte le istituzioni dell'Unione, la più nascosta al pubblico. Situata con discrezione in Lussemburgo, non esattamente un crocevia europeo, e composta da giudici nominati - uno per paese - dagli Stati membri, i suoi procedimenti sono nascosti agli occhi del pubblico; le sue decisioni non consentono la menzione dell’opinione dissenziente; i suoi archivi garantiscono un accesso minimo ai ricercatori. Nel suo modus operandi, la Corte di giustizia europea è l'antitesi della Corte Suprema degli Stati Uniti, i cui emolumenti supera largamente - il suo presidente riceve uno stipendio di 400.000 dollari, oltre a molte indennità; il presidente della Corte suprema a Washington un misero stipendio di $ 277.000. Le sue origini risalgono alla prima fase dell’integrazione: la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) nata dal Piano Schuman era stata dotata di una Corte di Giustizia, poi estesa alla Comunità Economica Europea istituita dal Trattato di Roma cinque anni dopo, e poi all'Unione europea creata a Maastricht.

Grazie al lavoro pionieristico di una giovane storica lussemburghese, Vera Fritz, abbiamo ora uno studio accademico dettagliato sulla composizione della Corte nei primi vent'anni della sua esistenza. Le sue scoperte sono illuminanti. C'erano sette giudici fondatori e due avvocati generali. Chi erano? Il presidente del tribunale, l’italiano Massimo Pilotti, era stato vice segretario generale della Società delle Nazioni negli anni '30. Lì aveva operato come longa manus del regime fascista di Roma, consigliando a Mussolini quali contromisure adottare per proteggere l'Italia dalla condanna della Società delle Nazioni per i suoi interventi in Etiopia. Dimessosi dal suo incarico nel 1937, Pilotti prese parte ai festeggiamenti a Genova per la conquista dell'Etiopia; e durante la seconda guerra mondiale diresse l'Alta corte di Lubiana occupata dopo l'annessione della Slovenia all'Italia, dove la resistenza fu debellata con deportazioni di massa, campi di concentramento e repressione militare e poliziesca. Il giudice tedesco della corte, Otto Riese, era un nazista così devoto che senza alcuna costrizione - trascorse la guerra come accademico in Svizzera - mantenne la sua appartenenza al Partito nazionalsocialista fino al 1945. Il suo connazionale Karl Roemer, avvocato generale della corte, trascorse la guerra nella Parigi occupata gestendo società e banche francesi per il Terzo Reich; dopo la guerra, sposò la nipote di Adenauer, e agì come avvocato difensore delle Waffen SS imputate del massacro degli occupanti del villaggio francese di Oradour. L'altro avvocato generale, Maurice Lagrange, era stato un alto funzionario del governo di Vichy, pienamente impegnato nell'ideologia di una "rivoluzione nazionale" al fine di spazzare via l'eredità della Terza Repubblica. Agendo come uomo di collegamento tra l'apparato giudiziario del Conseil d'Etat e l'apparato politico del Consiglio dei ministri, Lagrange fu incaricato di coordinare la prima ondata di persecuzioni degli ebrei francesi. Quando Laval prese le redini di Vichy nel 1942, trasferendo Lagrange al Conseil d'État, Pétain lo ringraziò per la sua "rara abnegazione'' verso la funzione legislativa e amministrativa del regime, e Lagrange rispose "per me è stato un grande privilegio essere così strettamente coinvolto nell’opera di rinnovamento nazionale da lei intrapresa per la salvezza del nostro paese. Sono convinto che ogni francese possa e debba prendere parte a quest’opera." Dopo la guerra fu scelto dagli americani per aiutare a democratizzare la pubblica amministrazione in Germania e da Monnet per contribuire alla stesura del trattato che istituisce la Comunità del carbone e dell'acciaio.

Il fatto che personaggi come questi diventassero figure di spicco della prima Corte di giustizia europea rifletteva, naturalmente, la serrata dei ranghi della politica dopo l'inizio della Guerra Fredda, quando ciò che contava non erano i misfatti del passato fascista quanto la minaccia del presente comunista. Erano tempi in cui l'ultimo comandante della divisione Charlemagne delle SS, che aveva combattuto fino all'ultimo per difendere Hitler nel suo bunker, è potuto emergere come scelta migliore per il Premio Robert Schuman per i servizi all'unità europea.  Perché non avrebbe dovuto, anche la giustizia europea, dimenticare il passato e metterci una pietra sopra? Più in generale, le nomine al tribunale avevano poco o nulla a che fare con i titoli in campo giuridico. Quasi tutti erano politici. Il giudice belga era una figura di spicco del partito cattolico del suo paese; uno dei giudici olandesi era il fratello di un ministro degli esteri prebellico; il giudice francese, Jacques Rueff, ex vicegovernatore della Banque de France, era stato uno dei fondatori del Centre National des Indépendants et Paysans; un sindacalista cattolico dei Paesi Bassi e un magistrato socialista del Lussemburgo completavano l’organico.

Tra gli altri componenti della Corte vi erano uno dei fondatore dell'Unione Democratica Cristiana (CDU) a Berlino, in seguito deputato del partito al Bundestag; il figlio di un leader del Partito Anti-Rivoluzionario (Calvinista) nei Paesi Bassi; un ex assistente di Dino Grandi, ministro della giustizia del Duce e fratello dell'allora ministro delle finanze italiano; un co-fondatore del Partito sociale cristiano in Belgio; un ex nazista e sostenitore delle SA (annata 1933), poi entrato nel partito socialdemocratico tedesco; un funzionario di lunga data nella colonizzazione italiana di Rodi; un ex capo di gabinetto del governatore civile e militare dell'Algeria. La "giustizia all'europea" non è mai stata bendata: aveva gli occhi ben aperti, con una benda colorata sul capo, coi colori dei partiti dell'establishment dell'epoca.

La seconda ondata di nominati includeva anche un personaggio che, nelle parole di un ammiratore, era l'equivalente europeo di John Marshall, il patriarca della Corte suprema degli Stati Uniti, responsabile di garantire la autorità della corte in tutto il paese. Robert Lecourt era un politico di spicco della versione francese dei partiti cristiano-democratici di Italia e Germania, il Mouvement Républicain Populaire (MRP), che ha fatto parte di ogni governo della Quarta Repubblica, nel secondo e nel penultimo dei quali Lecourt occupava anche la poltrona di primo ministro. La differenza più significativa tra il MRP e i suoi equivalenti a Roma e Bonn era che la Francia possedeva un grande impero coloniale, di cui il partito era zelante difensore, molto risoluto nel portare avanti le guerre del paese in Indocina e Algeria. Entrando a far parte nel 1958 del governo De Gaulle, durante la Quinta Repubblica,  il MRP uscì dalla coalizione in seguito all'annuncio di un referendum sull'autodeterminazione dell’Algeria. Il leader di lunga data del partito, Georges Bidault, fece parte dell'OAS paramilitare che promosse la resistenza armata contro de Gaulle in nome dell'Algérie française e per poco non riuscì ad assassinarlo, mentre i suoi colleghi del partito si piegavano a De Gaulle. Lecourt, che come Bidault e altri membri del partito erano stati attivi nella Resistenza, aveva un dottorato in legge ed era stato ministro della giustizia nel 1948, 1949 e 1957. Sotto de Gaulle, aveva avuto l’incarico per le colonie francesi in Africa e altrove. Nel maggio 1962 fu nominato alla Corte di giustizia europea.

Lecourt arrivò in Lussemburgo con un particolare insieme di appartenenze e convinzioni. Oltre al suo ruolo di deputato e ministro per l'MRP, era stato attivista dalla fine degli anni Quaranta nelle Nouvelles Équipes Internationales (NEI), l'internazionale non dichiarata della Democrazia Cristiana in Europa, partecipando a congressi annuali dedicati a temi come la ``fermezza della Democrazia cristiana di fronte alla crisi del comunismo”, e diventando in seguito capo della sezione francese. Continuò senza remore a dirigerla durante il congresso NEI del 1962 a Vienna, già dopo la sua nomina alla Corte di giustizia. Il NEI era a favore dell'unità europea, e Lecourt era egli stesso un membro del Comitato di azione di Monnet per gli Stati Uniti d'Europa, costituito nel 1955. Era un ardente federalista.

Con queste premesse, l'arrivo di Lecourt in Lussemburgo non avrebbe potuto essere più felicemente programmato. Perché sui registri della Corte giaceva il caso che avrebbe prodotto la sua prima decisione storica, Van Gend en Loos, una causa intentata da una piccola azienda di trasporti contro il governo olandese per aver imposto un dazio doganale sulla sua importazione di una vernice collante dalla Germania occidentale. In apparenza, una controversia di minore importanza. Nell'ombra, tuttavia, potenti forze si erano raccolte intorno ad essa. Una era la Commissione europea a Bruxelles. Là, a capo del suo servizio giuridico, c'era il francese Michel Gaudet. Già quando lavorava nella stessa veste per la CECA, prima del Trattato di Roma, era determinato a garantire che la futura Corte di giustizia europea non fosse un tribunale internazionale secondo linee convenzionali, ma una corte suprema federale sul modello americano. Nel 1957,  in una sua corrispondenza con Donald Swatland, un avvocato di Wall Street che era stato collaboratore di Monnet in tempo di guerra, Gaudet spiegava che "le idee federali sono ancora molto nuove nell'Europa continentale" e cercava una guida per promuoverle. Sviluppò anche uno stretto rapporto con lo studioso di diritto americano Eric Stein, la prima persona al mondo a salutarlo come promettente futuro giudice della corte lussemburghese. Nel 1959 Stein invitò Gaudet per un viaggio di sei settimane negli Stati Uniti per conoscere in prima persona il federalismo. In cambio, mentre nel 1962 Stein era in anno sabbatico, Gaudet lo inserì negli uffici del Servizio giuridico con una scrivania tutta sua, invitandolo a partecipare a riunioni informative con gli avvocati che preparavano per la Commissione il caso Van Gend en Loos presso la Corte di giustizia delle Comunità europee. Stein, fautore di una serie di assiomi fondamentali per un ordine costituzionale in Europa, potrebbe essere considerato un fanatico transatlantico del federalismo per il Vecchio Mondo.

Nel frattempo, in ciascuno dei paesi dei Sei erano sorte associazioni di giuristi impegnati a promuovere il diritto europeo, di cui la tedesca Wissenschaftliche Gesellschaft für Europarecht (WGE) era la più grande e importante, seguita dall'Association Française des Juristes Européens. In stretto contatto con queste organizzazioni, la Commissione fornì sostegno finanziario alle loro riunioni e nel 1961 Gaudet creò un gruppo di coordinamento, la Fédération Internationale pour le Droit Européen (FIDE), con l'obiettivo esplicito di facilitare gli scambi oltre confine tra politici, burocratici e accademici. Nelle parole del suo primo presidente, la FIDE agiva come "un esercito privato delle comunità europee". "In Europa intorno al 1950", ha ricordato un membro della sua filiale tedesca, "l'idea dell'unificazione europea era capace di suscitare un entusiasmo quasi religioso tra i giovani avvocati. Noi credevamo negli Stati Uniti d'Europa." La sezione olandese della FIDE era particolarmente attiva. Uno dei suoi membri agì come consulente legale per il caso Van Gend en Loos e si può supporre con una certa sicurezza che il caso sia stato avviato da questa lobby. Comunque sia, sostenuta dalla Commissione, ha trovato il relatore giusto in Lussemburgo, dove Lecourt, giunto in fretta e furia da Parigi, scrisse lo storico verdetto di ribaltamento di una legge nazionale.

Un anno dopo, nel 1964, arrivò il secondo atto decisivo. In Italia, due avvocati ritenutisi offesi per la nazionalizzazione dell'industria elettrica, sollevarono una questione di costituzionalità sull’emissione di una bolletta di 1925 lire. Quando la Corte costituzionale italiana stabilì che la nazionalizzazione non era costituzionalmente illegittima e non poteva essere impugnata con riferimento al Trattato di Roma, in quanto approvata successivamente ad esso, essi fecero ricorso alla Corte europea. Due settimane dopo che il suo avvocato generale aveva sostenuto che il tribunale italiano non poteva essere ignorato, sebbene dovesse essere incoraggiato a trovare le modalità per integrare il diritto europeo nel diritto nazionale, la WGE tenne una riunione in Assia alla quale erano presenti tre giudici della Corte di giustizia. Lì, ha ricordato un partecipante, si sedettero con grande imbarazzo ad ascoltare una delle principali autorità del WGE, Hans Peter Ipsen, che li istruiva sulla supremazia del diritto europeo sul diritto nazionale di qualsiasi stato membro. L'opinione di Ipsen avrebbe prevalso: cinque giorni dopo Lecourt emise la sentenza della Corte di giustizia europea sul caso Costa contro Enel. La pietra angolare della giustizia europea era stata posta.

Chi era Ipsen? Un giurista di Amburgo entrato a far parte della SA nel 1933 e del Partito Nazionalsocialista Tedesco nel 1937, diventando professore ordinario all'età di 32 anni sulla base di un dottorato da cui scaturì un libro successivamente pubblicato dal titolo Politik und Justiz, che trattava di "atti sovrani" dallo Stato che in quanto tali non dovevano essere sottoposti a considerazioni di giustizia. Esaltandone la versione tedesca, basata sul 'Führergewalt' del potere nazista - che aveva trovato espressione dal 1933 con arresti, epurazioni, espropri, e la abolizione dei sindacati - in quanto superiore alla precedente legislazione meramente 'governativa' in Francia, e alla variante fascista italiana, che si basava sull'autorità legislativa in un sistema di divisione dei poteri, il libro aveva comprensibilmente attirato l'interesse della Cancelleria centrale del partito nazista. Durante la guerra, Ipsen prestò servizio come commissario di Hitler, occupandosi delle università del Belgio occupato. Lì nel 1943 esaltava "l'amministrazione esterna" del Terzo Reich, che ora copriva Norvegia, Belgio, Paesi Bassi, Francia, Ucraina, Stati baltici, governo generale della Polonia, aree occupate di Serbia e Grecia, per non parlare dell'Alsazia, della Lorena, del Lussemburgo, della Stiria meridionale e dei protettorati di Boemia e Moravia - un'area che comprende circa 2.865.000 chilometri quadrati e 154 milioni di abitanti, oltre ai quasi 700.000 chilometri quadrati e 90 milioni di abitanti dell'ampliato 'Reich interno', e ammontava in tutto al 46 per cento della popolazione del continente. Queste terre costituivano la promessa di una futura Grossraumordnung dell'Europa sotto il comando nazista. Prima che la guerra finisse, Ipsen divenne preside della facoltà di giurisprudenza presso l'Università di Amburgo e consigliere del Ministero della giustizia a Berlino. Nel 1945 fu privato per breve tempo dell’incarico, ma presto lo recuperò. Con una carriera nazista superiore alla media, nel dopoguerra fu ricoperto di onori divenendo il decano del diritto europeo, autore nel 1972 di una monumentale summa sull’argomento.  

Nel 1967 Lecourt divenne presidente della Corte. In questa posizione, corteggiava i giudici nazionali con regolari inviti a imparare dal Lussemburgo: una sistematica "campagna di seduzione" assortita con champagne brunch, volta a disarmare la resistenza alla supremazia rivendicata dalla Corte. Alla fine del suo mandato, circa 2500 magistrati di tutti gli Stati membri avevano goduto della sua ospitalità. Nella direzione opposta, i giudici della corte erano incoraggiati a fare visite cerimoniali ai governi della Comunità, dove solitamente venivano ricevuti, con le parole di un assistente, "come imperatori". Poiché molti di loro provenivano da ambienti politici, o erano rampolli di dinastie familiari ben posizionate, potevano prendere queste visite come opportunità per scambi di notizie e opinioni di tipo informale, oliando gli ingranaggi della presenza e dell'influenza della Corte di giustizia. Lecourt, con una lunga esperienza di giornalismo e politica, incoraggiò anche i suoi colleghi a tenere conferenze e scrivere articoli per diffondere la lieta parola della corte, cosa di cui dava egli stesso un energico esempio.

Dal 1967 in poi gli succedette nell’incarico Pierre Pescatore, altra nomina familista, cognato del primo ministro del Lussemburgo e schietto e prolifico campione del federalismo, anche più di Lecourt - le sue opinioni legali, nelle parole di un testimone, funzionavano come "truppe d'assalto" dell'avanzata sovranazionale. Insieme hanno spinto in avanti la giustizia europea in quella che in seguito sarebbe stata considerata la sua epoca eroica: un audace giudizio dopo l'altro che suggellavano l'autorità della corte su sempre nuovi aspetti della vita della Comunità. Il bilancio di Lecourt come presidente, ha dichiarato Pescatore dopo che il suo capo si era ritirato, è stato nientemeno che "un miracolo giurisprudenziale". Il  contributo di Pescatore è stato quello di sostenere ancora più saldamente una lettura "teleologica", piuttosto che semplicemente letterale, del Trattato di Roma. Qualunque cosa dicessero o meno le sue clausole, esso era ispirato dagli ideali insiti nelle "tradizioni liberali e democratiche comuni dei popoli dell'Europa occidentale", e questi avrebbero acquisito forza giuridica. Dopo che Lecourt se ne fu andato, fu Pescatore a emettere l'ultima cruciale sentenza della corte come motore dell'unità europea, il verdetto di livellamento del mercato di Cassis de Dijon nel 1979, stabilendo che qualsiasi prodotto legalmente in vendita in un paese della Comunità era vendibile in qualsiasi altro. La strategia di Lecourt era sempre stata quella di muoversi gradualmente, evitando qualsiasi sfacciata provocazione dei governi nazionali, distogliendo la loro attenzione da importanti dichiarazioni giuridiche collegandole a questioni di importanza commerciale apparentemente minima. In questo caso, la merce era un liquore al ribes nero.

Dopo Cassis de Dijon, l'iniziativa strategica passò al Consiglio europeo, che aveva gradualmente preso forma dopo la sua creazione da parte di Giscard d'Estaing, a metà degli anni '70, e alla Commissione, passata sotto la direzione di Jacques Delors, a metà degli anni '80. La Corte gestiva un numero crescente di casi e il suo attivismo giudiziario non diminuiva. Ma ora rafforzava, piuttosto che guidare, la svolta hayekiana della Comunità, che si era già concretizzata nell'Atto unico europeo, entrato in vigore nel 1987.  Nel nuovo secolo, con l'arrivo in Lussemburgo dall'Europa orientale di nuovi membri convertiti ai principi del libero mercato, ha poi goduto di una dose extra di adrenalina neoliberista, che portò a due sentenze - Viking e Laval del 2007, che contrapponevano i corsari baltici ai sindacati nordici - che minarono i diritti dei lavoratori. Si trattava di un allontanamento dai precetti tattici di Lecourt, in quanto si suscitava un'attenzione sfavorevole da parte dell’opione pubblica del tipo che la corte aveva sempre cercato di evitare, ma non seguirono ulteriori passi evidenti. Dopo Maastricht un compito importante sarebbe ancora spettato alla corte, ma di carattere diverso. La sua opera pionieristica - celebrata da van Middelaar come il colpo di stato su cui si fonda essenzialmente l'Unione di oggi - era stata compiuta.

Di quale compito si trattava? I due giuristi che l'hanno enunciato con la massima chiarezza sono Dieter Grimm, per dodici anni giudice della corte costituzionale tedesca, e Thomas Horsley, di due generazioni più giovane, docente senior all'Università di Liverpool. Le decisioni della Corte negli anni '60, ha osservato Grimm, erano "rivoluzionarie, perché i principi che annunciavano non erano concordati nei trattati'' che avevano creato la CECA e la CEE, e  "quasi certamente non sarebbero stati concordati se le questioni fossero state sollevate"'. La Corte era un tribunale con un'agenda che non corrispondeva alle intenzioni dei suoi fondatori, non considerandosi "né come il guardiano dei diritti degli Stati firmatari, né come un arbitro neutrale tra gli Stati e la Comunità, ma piuttosto comela forza trainante dell'integrazione". La sua affermazione della supremazia della Comunità sulle leggi nazionali, per non parlare delle leggi costituzionali, osserva Horsley, non aveva alcun fondamento nel Trattato di Roma, che le concedeva solo diritti di controllo giurisdizionale "rispetto agli atti delle istituzioni dell'Unione, non rispetto agli atti degli stati membri". "Eppure, in effetti, questo è esattamente quello che ora la corte intraprende regolarmente", procedendo come se "il quadro del trattato, pietra miliare della costituzionalità interna di tutta l'attività istituzionale dell'UE, non abbia mai effettivamente significato ciò invece vi è chiaramente affermato" .

Ma c'è qualcosa di particolarmente insolito in questo? L'interpretazione creativa delle leggi da parte dei giudici non è abituale quasi quanto l’interpretazione creativa delle cifre da parte dei contabili? Da un punto di vista alternativo e meno cinico, non è il risultato ciò che conta? Ankersmit o van Middelaar lo vedrebbero come un esempio del carattere sublime dell’opera giuridica. Senza andare così lontano, è ragionevole chiedersi cosa c'è che non va nel risultato. La risposta sta a livello sia dei principi che delle conseguenze. Per quanto riguarda i principi, Horsley apre il suo studio con la seguente grave affermazione: “Tra le istituzioni dell'UE, la Corte resta un attore unico nel processo di integrazione. È l'unica istituzione dell'Unione le cui attività non sono regolarmente sottoposte a controllo (dalla stessa istituzione o da altri) sul rispetto dei trattati dell'UE.  Tuttavia il quadro del trattato non fornisce alcuna base per giustificare la differenziazione tra la Corte e le altre istituzioni riguardo al rispetto delle regole. La Corte è formalmente designata come istituzione dell'Unione ai sensi dell'articolo 13 TUE. In quanto tale, insieme alle istituzioni politiche dell'Unione, è irrefutabilmente soggetta al rispetto dei trattati dell'UE.'' Ma una volta che la Corte, dal momento del colpo di stato, si era autorizzata da sé stessa ad essere custode di una costituzione, cosa che non aveva alcun fondamento nei trattati, ma presumibilmente corrispondeva al loro "scopo ultimo", quale altra istituzione avrebbe potuto richiamarla all’ordine? La sua auto-convalida circolare escludeva qualsiasi sfida del genere.

La Corte divenne così non solo un'istituzione unica all'interno della Comunità, ma unica tra le corti supreme o costituzionali, dotata di poteri che non hanno mai avuto pari in nessuna democrazia. In tutti gli altri casi, le sentenze di tali tribunali sono soggette a modifica o abrogazione da parte di legislatori eletti. Quelle della Corte di giustizia non lo sono. Sono irreversibili. A parte la modifica dei trattati stessi, che richiede l'accordo unanime di tutti gli Stati membri, "che, come tutti sanno, è del tutto fuori questione", come scrive Grimm, non si può ricorrere contro le sentenze della CGUE. Non sono scolpite nella pietra, ma nel granito, e hanno un effetto tutt'altro che neutro. Scritte in "un linguaggio tecnico spesso opaco", le decisioni della corte spesso mascherano questioni altamente politiche in modo apolitico; cadono “al di sotto della soglia dell'attenzione pubblica”, rendendo i loro effetti difficili da percepire ex ante; ma se successivamente dovessero essere contestate, vengono considerate come fatti compiuti per i quali ai cittadini viene detto che è troppo tardi per fare qualcosa - "ora non c'è alternativa". Poiché queste sentenze hanno forza costituzionale, gran parte di quella che sarebbe la legislazione ordinaria a livello nazionale è stata integrata nelle versioni successive del Trattato di Roma originale – Maastricht, Amsterdam, Nizza, Lisbona - risultando in documenti di tale "epica lunghezza'' che il commissario irlandese dell'UE ha dichiarato, a proposito dell'ultima versione, che “nessuna persona sana e ragionevole'' poteva leggerla, e il suo stesso primo ministro ha ammesso, dopo averlo firmato, di non averlo fatto: si tratta, in effetti, di enormi crittogrammi al di là della pazienza o della comprensione di qualsiasi pubblico democratico.

L'effetto di 'costituzionalizzare' (le virgolette sono necessarie, perché i trattati rimangono patti internazionali, non carte federali) questioni come l'ammissibilità degli aiuti di Stato alle industrie, o dei sussidi ai servizi pubblici, è di immunizzare gli ukase giudiziari contro qualsiasi esercizio ordinario della volontà popolare. Come scrive Grimm, "più forte è il contenuto sostanziale della costituzione, più stretto è il margine di manovra per la politica". Generalmente, "tutto ciò che è regolamentato nella costituzione viene rimosso dal regno del processo decisionale politico". Non è più un oggetto, ma una premessa della politica. Nell'UE  non può essere influenzato nemmeno dal risultato di un'elezione. "Il fatto che i giudici che emettono le decisioni della Corte di giustizia europea siano essi stessi non eletti è, ovviamente, pratica comune anche se non invariabile delle corti costituzionali. Ciò che non lo è, è "l'insaziabile appetito giurisdizionale" della Corte europea. Il suo attuale presidente, il belga Koen Lenaerts, ha spiegato la portata di quella fame. Nelle sue parole: "Non c'è semplicemente nessun nucleo fondamentale di sovranità che gli Stati membri possano invocare, in quanto tale, contro la Comunità". La Corte mira a "lo stesso risultato pratico che si otterrebbe attraverso una diretta invalidazione della legge dello Stato membro'.

A tale presunzione autoesaltante non corrisponde nessuna competenza, né giudiziaria, né politica. Anche mettendo da parte il suo sistematico disprezzo per i limiti al suo campo di applicazione nei trattati, scrive Horsley, "la corte se la cava male, rispetto alle sue controparti, sulle misure classiche dell'analisi istituzionale comparativa: legittimità democratica e competenza tecnica. I suoi giudici non sono eletti, le sue deliberazioni sono segrete e, in quanto tribunale di giurisdizione generale, non gode di alcuna competenza speciale nella vasta gamma di settori politici sui quali interviene per giudicare. "Ma se non ha competenze speciali, ha avuto sin dall'inizio un particolare orientamento, una politica costante e coerente di promozione del federalismo europeo", e dopo la fine degli anni Ottanta, una decisa inclinazione sociale, che ha perseguito, secondo Grimm, con "zelo missionario". Interpretando i "divieti di discriminazione nei confronti delle società straniere in modo così ampio" che "quasi ogni normativa nazionale potrebbe essere intesa come un ostacolo all'accesso al mercato" e spingendo la "privatizzazione a prescindere dalle ragioni di affidare determinati compiti ai servizi pubblici", la Corte ha effettivamente privato gli Stati membri del "potere di determinare il confine tra settore pubblico e privato, Stato e mercato".

Tali giudizi non derivano da un punto di vista euroscettico, ma da autorità fedeli a ciò che vedono essere i risultati dell'integrazione europea. Per Grimm, ciò che è necessario per ripristinare la legittimità del processo è essenzialmente la decostituzionalizzazione delle decisioni politiche, per consentire la loro discussione da parte degli elettori e la revisione da parte dei legislatori. Horsley, dopo aver spiegato quelli che a suo avviso sono stati i benefici dell'intervento giudiziario insieme ai suoi costi, rassicura i lettori di non voler minare la Corte di giustizia, tanto meno aggiungersi alla 'denigrazione dell'Unione', ma al contrario accrescere la legittimità della sua legislazione. Eppure, se i loro resoconti sulla Corte di giustizia sono resoconti da amici della corte, non è chiaro cosa resterebbe da dire ai suoi nemici. La verità è che, secondo ogni ragionevole stima, sarebbe difficile concepire un'istituzione giudiziaria occidentale che, sin dalle sue tenebrose origini, sia stata altrettanto priva di una qualsiasi traccia di responsabilità democratica.

 

II. La Commissione europea

La seconda parte prende in esame un altro fondamentale organo della Ue, la Commissione europea, sin dai primi anni partner fondamentale della Corte di giustizia nel percorso di affermazione della supremazia del diritto comunitario rispetto ai Parlamenti nazionali, in quanto contesto più funzionale ai principi dell'ordoliberismo promosso dai suoi dirigenti e funzionari, pur se in modo diverso durante le tre principali fasi della sua storia. Dopo Maastricht la Commissione ha perso parte del suo potere in favore del Consiglio europeo, e tuttavia Anderson descrive come essa mantenga una grande importanza, sia per le enormi dimensioni del suo apparato burocratico, che per lo strumento di allineamento degli stati rappresentato dal formidabile monumento dell'acquis comunitario, che infine per il suo potere di dispensare premi o punizioni attraverso i flessibili fondi di coesione

La Commissione europea, la cui evoluzione è stata più tortuosa, è stata nei suoi primi anni il partner fondamentale della Corte. La sua storia può essere divisa approssimativamente in tre fasi, corrispondenti alle tre figure che terranno la sua presidenza per un intero decennio, ciascuna con due mandati: Walter Hallstein (1958-67), Jacques Delors (1985-95) e José Manuel Barroso (2004- 14). Hallstein, un avvocato e diplomatico tedesco - un democristiano noto soprattutto per la dottrina della Guerra Fredda a cui diede il suo nome, secondo la quale il riconoscimento della Germania occidentale da parte di qualsiasi stato era condizionata al rifiuto di riconoscere la Germania orientale - era un federalista dichiarato, che concepiva la Commissione come un proto-governo della Comunità e la sovranità nazionale una "dottrina del passato", assegnandosi lo status di "primo ministro d'Europa". Nel 1965 De Gaulle mise bruscamente fine alle sue pretese e l’immagine di Bruxelles perse ogni autorità e vigore. Tuttavia, nel suo periodo di massimo splendore, tra il 1958 e il 1964, Hallstein presiedette una Commissione che era un vulcano di energia indirizzata a trovare modi e mezzi per aggirare il Trattato di Roma nell'interesse superiore dell'unità europea.

Come ha dimostrato lo studioso francese Antoine Vauchez, Bruxelles divenne rapidamente una calamita che attirava dall’America avvocati aziendali e investitori alla ricerca di opportunità di mercato, i quali agivano con le aspettative e i modi di fare tipici di una potente federazione. Ben presto strinsero stretti rapporti con un numero considerevole di giuristi belgi esperti in diritto commerciale di alto livello, e questo ambiente comune offriva una facile intermediazione tra le multinazionali che arrivavano e la Commissione, e un ambiente propizio per lo scambio di idee con i dipartimenti chiave, come la Concorrenza e il Servizio giuridico. La Comunità economica europea creata dal Trattato di Roma non era stata concepita come un mercato da far west, e aveva dato vita a una politica agricola comune fortemente sovvenzionata e regolamentata, un anatema per gli economisti liberali, tanto da spingere l’intellettuale collega di Hayek, Wilhelm Röpke, a denunciarla come come nient'altro che un miserabile "Spaakistan", prendendo di mira il fondatore belga della politica agricola. Fin dall'inizio, tuttavia, la Direzione generale per la concorrenza della Commissione era una fortezza popolata da ordo-liberali tedeschi, la cui devozione ai principi di mercato e determinazione dei prezzi, che non dovevano essere ostacolati da ingerenze improprie da parte di alcuno Stato, li rendeva naturali fautori del federalismo, come lo era stato Hayek prima della guerra. In questo campo, il servizio giuridico ha aperto la strada, fornendo alla Corte di giustizia la stragrande maggioranza dei casi su cui le sue sentenze avrebbero potuto edificare una sempre più ampia costruzione del diritto europeo al di sopra dei parlamenti nazionali. Tra il 1954 e il 1978 i dieci più frequenti ricorrenti dinanzi alla Corte hanno proposto un totale di 1381 casi: di questi, 1082 provenivano dalla Commissione o da suoi collaboratori - poco meno dell'80%. Il circuito della collusione era intessuto strettamente. Nel 1964, Hallstein poté annunciare trionfante che l'Europa aveva raggiunto "l'inizio di una vera e piena’unione politica’".

Un anno dopo egli venne neutralizzato e la Commissione ha impiegato altri vent'anni per ritrovare il suo dinamismo. Quando l’ha fatto, è accaduto sotto altri colori. Delors, dal passato giovanile nella confederazione sindacale cattolica francese, a tempo debito si unì al Partito socialista, e lì sostenne una "Europa sociale". Ma se c'era un conflitto tra l'aggettivo e il nome, il nome veniva prima. Come ministro delle finanze sotto Mitterrand, fu Delors che si assicurò che il programma socialista su cui Mitterrand era stato eletto e a cui aveva inizialmente dato attuazione, fosse abbandonato con la famosa inversione a U del 1983 verso l'austerità, al fine di mantenere il franco nel Sistema monetario europeo. A capo della Commissione, Delors si profondeva in dichiarazioni sulla necessità di solidarietà sociale e verso la fine assicurò i fondi di coesione per aiutare le regioni più svantagiate della Comunità. I suoi principali risultati, tuttavia, furono l'approvazione dell'Atto unico europeo - elaborato durante il suo incarico da un emissario della Thatcher – che unificava e deregolamentava i mercati in tutta la Comunità e preparava l'Unione monetaria che sarebbe divenuta il fulcro del Trattato di Maastricht. Nella sua mente, queste erano le necessarie premesse per una solidarietà sociale a livello europeo. Non solo erano economicamente efficienti di per sé, capaci di promuovere una crescita che alla fine sarebbe stata di vantaggio per tutti; senza di esse, i governi non si sarebbero persuasi della necessità di redistribuire la ricchezza tra classi e regioni, aspetto essenziale per un'Europa che volesse ottenere la piena adesione dei suoi cittadini. Figura molto più carismatica e autorevole di Hallstein, uomo politico che trattava alla pari con tutti i leader nazionali dell'epoca, Delors li condusse alla moneta unica, ma non riuscì a raggiungere quegli obiettivi sociali che con essa pensava di poter conquistare. Tutti i governi, tranne Gran Bretagna e Danimarca, aderirono al primo, l'Atto unico. Pochi erano convinti del secondo. Delors fece inserire nel Trattato di Maastricht i fondi di coesione - aiuti per regioni svantaggiate, non per classi - ma queste erano solo le briciole della solidarietà, non il piatto forte: rispetto all'impatto successivo della moneta unica, poco più che l'elemosina di un ente di beneficenza.

Barroso, insediatosi quattro anni prima della crisi finanziaria globale del 2008 ed uscito alla fine del 2014, poco prima che Syriza andasse al governo, è stato il secondo primo ministro in carica di uno stato membro a diventare presidente della Commissione. Un politico della destra portoghese, noto in precedenza soprattutto per aver ospitato il vertice delle Azzorre, cui parteciparono Bush, Blair e Aznar, durante il quale fu lanciata la guerra in Iraq. La sua nomina a Bruxelles l'anno successivo dimostrò quanto fosse vuota l'opposizione nominale di Francia e Germania all'Operazione Iraqi Freedom. Messaggero dell'austerità nel suo stesso paese, il suo mandato ha segnato l'apogeo della spinta neoliberista che seguì l'introduzione della moneta unica, con la promulgazione della direttiva Bolkestein sui servizi del 2004 e la firma del trattato di Lisbona nel 2010. Benché personalmente fosse ambizioso e tenesse al suo ruolo come Hallstein o Delors, le idee che egli rappresentava erano saggezza convenzionale nel nuovo secolo, dato che sin da Maastricht il potere del Consiglio europeo era cresciuto in modo significativo a spese della Commissione, e durante il secondo mandato di Barroso il Consiglio europeo ebbe come suo presidente Van Rompuy, suo rivale davanti alle luci della ribalta con cui i suoi rapporti non furono mai buoni. Il suo mandato è stato meno significativo di quello dei suoi predecessori.

Oggi, 27 commissari, uno per Stato membro, con un portafoglio per ciascuno - naturalmente, di importanza molto diversa, dove la Concorrenza da tempo rappresenta il primo premio - formalmente godono dello stesso status del presidente, attualmente il politico della CDU Ursula von der Leyen. In realtà, come ha sottolineato nel 2012 l'ex direttore generale del Servizio giuridico, il tuttofare di Bruxelles Jean-Claude Piris (22 anni in sella), poiché ciò significherebbe che i quattordici commissari dei paesi più piccoli dell'Unione, che rappresentano solo il 12,65% della popolazione complessiva, potrebbero facilmente battere coi voti i sei commissari dei paesi più grandi, che rappresentano il 70% della sua popolazione, le decisioni sono sempre prese per  “consenso'', ovvero dietro una facciata di unanimità, sotto l'impulso o il veto dei sei stati principali. Allo stesso modo, il presidente della Commissione, responsabile dei rapporti con i capi di governo degli Stati membri, normalmente conferisce soltanto con quelli di quel gruppo selezionato, o forse solo col vertice di Berlino e Parigi: fare altrimenti ‘richiederebbe troppo tempo'. Così composta, la Commissione è formalmente investita del monopolio dell'iniziativa legislativa per l'Unione, ma qui la realtà è diversa: più di due terzi delle sue proposte sono ora elaborate insieme ai rappresentanti degli Stati membri nel fitto sottobosco di Bruxelles - in cui il COREPER,  che riunisce i rappresentanti permanenti degli Stati nell'UE, occupa un posto d'onore - e poi sono automaticamente approvate dal competente Consiglio dei ministri quando gli vengono trasmesse.

Sotto i commissari, nominati per cinque anni, si trova la burocrazia permanente dell'UE, composta da circa 33.000 persone: gli “eurocrati'', come definiti dall'Economist nel 1961, espressione poi divulgata senza intenti peggiorativi da un libro di Altiero Spinelli nel 1966. Nelle sue alte sfere, dove si trovano i capi e gli assistenti delle 32 direzioni generali della Commissione, fino alla metà degli anni '80 le assunzioni sono state fortemente orientate verso funzionari con un background giuridico; sotto di loro, nel corpo dell'amministrazione, era incoraggiato un orientamento umanistico generale, con un Master in studi europei, preferibilmente del Collegio d'Europa a Bruges. Successivamente, e con il successivo allargamento dell'Unione a est, il modello è cambiato. Sotto Romano Prodi (presidenza 1999-2004), il compito di modernizzare il sistema di retribuzione e reclutamento è stato affidato a Neil Kinnock, portando a Bruxelles la lieta novella del New Labour, con esiti prevedibili. Nel 2014, i due terzi dei direttori generali erano formati in economia, con stipendi proporzionalmente più alti per competere con il settore privato; più in basso, in nome della democratizzazione delle future assunzioni, la conoscenza delle lingue straniere o di qualsiasi cultura generale come requisito si è persa, lasciando il posto ai Master in Business Administration.

Per gli osservatori del percorso dell'UE a partire da Maastricht, tali cambiamenti potrebbero essere abbastanza logici - i neoliberisti venivano neoliberalizzati - ma non furono apprezzati da molti di coloro che li subirono, la loro origine anglosassone gettava sale sulle ferite post-Brexit. "Dopo aver spezzato l'Europa dall'interno per anni, la stanno spezzando dall'esterno distruggendone la legittimità politica", dice uno di loro citando Didier Georgakakis. Un altro, con meno rabbia: 'È folle se ci pensi. Se ne escono dopo averci imposto il loro modello amministrativo?" Ancora un altro:"Il nuovo modello è quello di Procter & Gamble". L'ascesa di Barroso, dalla presidenza della Commissione a presidente della divisione internazionale di Goldman Sachs, è stata una naturale conseguenza di queste riforme. Ma il cambiamento delle prospettive e dei costumi nella Commissione deve essere compresa anche nel suo contesto. Ci sono ora circa 30.000 lobbisti registrati a Bruxelles. Più del doppio del numero di lobbisti che infesta Washington, stimato a soli 12.000. A Bruxelles, il 63% sono lobbisti aziendali e consulenti, il 26% provengono da ONG, il 7% da think tank e il 5% da municipalità. Che l'esecutivo europeo possa resistere al contagio dei vapori di questa palude non è plausibile.

Dopo Delors, la Commissione ha dovuto fare il secondo violino rispetto al Consiglio europeo, che difficilmente nominerà di nuovo alla sua guida una figura di tale statura politica. Il sospetto popolare contemporaneo che considera la Commissione il demiurgo burocratico dell'Unione è in questo senso fuori luogo. Ma rimane un potere considerevole all'interno del complesso meccanismo dell'UE, in ragione di tre attributi ad esso peculiari. Il primo è semplicemente la sua dimensione, come corpo di funzionari permanenti, in confronto a quella di qualsiasi altra istituzione dell'Unione, e la roccaforte inespugnabile del suo funzionamento: 34 diverse "procedure" che nessun laico è in grado di comprendere. Il secondo sta nella incredibile vastità del regolamento, che brandisce come uno strumento di potere all'interno dell'Unione: l'acquis comunitario, impenetrabile per i suoi cittadini, ma inevitabile per i suoi stati, che costituisce il mezzo principale della Gleichschaltung dell'Europa orientale alle norme dell'UE, su cui presiedevano i commissari come proconsoli di Bruxelles. Originariamente messo insieme come una codificazione dei regolamenti CEE a cui il Regno Unito, la Danimarca e l'Irlanda avrebbero dovuto adeguarsi all'ingresso nella Comunità nel 1973, quando era già arrivato a 2800 pagine, l'acquis ora arriva a 90.000 pagine, il più lungo e il più formidabile monumento scritto dell'espansione burocratica nella storia umana (il famigerato codice fiscale degli Stati Uniti è un mero documento di 6500 pagine). L'identificazione eccessiva della conoscenza con il potere di Foucault qui trova la sua incarnazione letterale.

"Questa attrezzatura tecnica e cognitiva", scrive Vauchez, citando Joseph Weiler, non è solo lo strumento che ufficialmente definisce e autentica quell '"Europa" a cui i candidati chiedono di aderire nelle fasi di allargamento; essa si inserisce anche nelle operazioni più ordinarie dell'UE, trasformandosi nel “sistema operativo costituzionale dell'Europa ... assiomatico, fuori discussione, aldilà di ogni dibattito, come le regole del discorso democratico, o anche le stesse regole della razionalità, che sembrano condizionare il dibattito ma non farne parte”.

Né, ovviamente, è istituzionalmente neutro.

Poiché formalizza una figura stabile dell'Europa (le sue fondamenta, le sue missioni) e dei suoi oggetti di valore (il suo corpo legislativo), l'acquis individua implicitamente la capacità e la responsabilità di una “guida razionale'' degli affari europei in particolari istituzioni (qui: la Commissione e la Corte) e gruppi professionali (legali e funzionari dell'UE), espropriandone altri (qui: Stati membri, corti costituzionali, diplomatici nazionali, burocrati, ecc.).

Allo stesso tempo, insieme all'acquis come strumento disciplinare, la Commissione possiede uno strumento di potere capace di ammorbidire le posizioni, che consiste nella ripartizione e nell'erogazione dei suoi fondi di coesione, l'annona della strategia romana di van Middelaar per assicurarsi i clienti. Questi costituiscono una fonte significativa di clientela, un mezzo per indurre all’obbedienza o premiare la lealtà, la cui promessa potrebbe essere fondamentale per conquistare le élite locali alla volontà dell'Unione, dato che le condizioni possono anche essere mitigate laddove la politica richieda di trascurare la corruzione nell'interesse dell’inclusione ideologica, come in Romania e altri paesi candidati all'adesione. Poco notato all'epoca, l'allargamento geografico dell'Unione ad est ha prodotto anche il più grande allargamento operativo della Commissione dai tempi di Hallstein, che si è fatto carico del compito. Che alcuni dei suoi frutti siano diventati da allora delle spine nel fianco, poiché gli stati più avanzati dell'Europa orientale, una volta che le loro élite si sono sentite al sicuro all'interno dell'Unione, sono diventati meno sottomessi, è un'altra delle conseguenze non intenzionali, o contro-finalità, che sono state tante nella storia dell'integrazione.

 

III: Banca centrale e Consiglio europeo

Nella terza parte si prendono in esame il Parlamento europeo, la Banca centrale e il Consiglio europeo. Mentre il primo è un organo poco importante e privo dei poteri tipici del legislativo, la cui la vera funzione è quella di simulare quella legittimazione democratica che i federalisti ancora sognano in un imprecisato futuro, gli altri due sono i veri depositari del potere. La Banca centrale si può considerare l'istituzione più potente, perché gode di un'assoluta indipendenza ed è capace di prendere decisioni rapide e fortemente impattanti senza dover seguire i tipici procedimenti complicati e macchinosi degli altri organi europei. L'importanza dell'ultima cruciale istiutuzione, il Consiglio europeo, è legata alla transizione da Stato-nazione a Stato-membro, in seguito alla quale i governi nazionali, invece di esprimersi in quanto rappresentanti della sovranità popolare, privilegiano il coordinamento con gli altri governi dell'Unione, che dagli anni '80 convergono tutti verso le prescrizioni del neoliberismo, e riescono ad indurre il consenso verso le nuove politiche antisociali presentandole come un vincolo esterno e una necessità derivante da questo nuovo modello di comunità. A questo fine giocano un ruolo importante altri due fattori. Il primo è il codice operativo rigorosamente basato sul segreto e sul presunto consenso unanime dei 27, dove in realtà le decisioni sono prese dai paesi dominanti. Il secondo è tutto il repertorio della pubblicità di immagine basato sui valori dei diritti umani, della pace e della solidarietà, che a ben vedere confligge con la realtà e ha anche poca presa sulle popolazioni a cui è rivolta. Questa la conclusione della ricca e dettagliata disamina di Anderson: "la paura dell'ignoto è il tessuto connettivo più importante" di questa Unione

E il Parlamento europeo? Composto ora da 705 deputati, ripartiti tra i 27 stati dell'Unione per ridurre un po' il peso dei paesi più grandi (Germania in particolare), e che fa la spola mensilmente tra Bruxelles e Strasburgo, con le sue aspirazioni a un futuro federalista per l'Europa è stato uno storico alleato della Commissione e della Corte. La Commissione avrebbe voluto diventare ciò che Hallstein si aspettava che fosse, l'esecutivo di governo dell'Europa, e l'Assemblea - è stata ufficialmente designata Parlamento solo negli anni '80 - ha cercato di diventare l’organo legislativo dell'Europa, verso cui questo esecutivo sarebbe stato responsabile: speranze che non si sono concretizzate. Tuttavia, nel tempo il Parlamento ha acquisito una propria infrastruttura burocratica sostanziale – composta attualmente di circa settemila funzionari - e un numero limitato di poteri, di cui i tre più significativi sono il diritto alla "codecisione" con il Consiglio sulla legislazione proposta dalla Commissione; la possibilità di respingere - ma non modificare - il bilancio proposto dalla Commissione; e di rifiutare - ma non eleggere - i commissari scelti dal presidente della Commissione. Non ha il diritto di eleggere un governo, di iniziativa legislativa, di imporre tributi, di decidere il welfare o di determinare una politica estera. In breve, è una parvenza molto riduttiva di parlamento, come comunemente inteso.

Gli elettori ne sono consapevoli e hanno mostrato scarso interesse nel Parlamento. L'affluenza alle elezioni europee è notoriamente scarsa, in calo costante per quattro decenni fino a un punto in cui la sua ripresa a poco più del 50% nel 2018 potrebbe essere salutata come il segno, finalmente, di una solida democrazia europea, se non si stesse ancora dieci punti al di sotto dell’affluenza del 1979, quando si tennero le prime elezioni del genere. E la maggior parte dei cittadini che si prendono la briga di andare alle urne, nemmeno votano sulle questioni europee. Piuttosto, nel votare a favore o contro i partiti in lista, esprimono le loro opinioni sull'operato dei loro governi nazionali. Il risultato è un'assemblea composta da circa duecento partiti eterocliti, che poi si riuniscono in sei o sette gruppi, la cui unità non è profonda - i legami tra i deputati nelle delegazioni nazionali sono spesso più stretti che con i loro affiliati paneuropei. Non può emergere alcuna divisione tra governo e opposizione, perché non c'è un governo da formare o contro il quale opporsi. Lo schema piuttosto è per le grandi coalizioni, come in Germania, che riuniscono unioni di centrodestra e centrosinistra per controllare i procedimenti, ed eleggono tra i loro ranghi i principali responsabili e i presidenti delle commissioni più importanti dell'assemblea, con un apporto variabile da parte dei liberali e dei verdi.  La differenza politica tra le due principali coalizioni, in generale abbastanza sbiadita a livello nazionale, diventa quasi del tutto invisibile nelle successive ricombinazioni che avvengono a Bruxelles e Strasburgo.

Come ci si potrebbe aspettare, in questo organismo enorme, eterogeneo, in gran parte cerimoniale, i deputati hanno poco interesse a partecipare realmente a ciò che accade. La presenza media è di circa il 45 per cento. Praticamente tutto il lavoro è distaccato nelle commissioni, dove a porte chiuse si svolgono i misteri del 'trilogo': cioè i rappresentanti del Parlamento si consultano con i rappresentanti del Consiglio dei ministri e della Commissione su quali proposte legislative di iniziativa della Commissione, di solito autorizzate dagli Stati membri e dai loro rappresentanti permanenti a Bruxelles, possono essere accettate per la trasmissione al voto in aula - le discussioni ruotano principalmente attorno a questioni di procedura piuttosto che di sostanza. Come osserva Christopher Bickerton, "tra il 2009 e il 2013, l'81% delle proposte è stata approvata in prima lettura tramite il metodo del trilogo. Solo il 3 per cento ha raggiunto la terza lettura, che è il luogo in cui i testi vengono discussi nelle sessioni plenarie del Parlamento”. Questa è l'alchimia della codecisione.

Nel 2014, quando l'affluenza alle urne era appena del 42,5 per cento, il Parlamento ha lanciato una campagna con ampio sostegno mediatico per trasformare le elezioni in un esercizio paneuropeo di volontà democratica: ciascuno dei gruppi politici avrebbe nominato un candidato alla presidenza della Commissione - dal punto di vista legale per concessione del Consiglio - e il gruppo che avesse ottenuto il maggior numero di seggi, dotato del sostegno del Parlamento, avrebbe elevato quindi il suo Spitzenkandidat alla presidenza della Commissione, come qualsiasi altra assemblea legislativa avrebbe potuto votare un governo in carica. Il centro-destra ha ottenuto la maggior parte dei voti; il suo candidato era Jean-Claude Juncker. Dopo un certo tergiversare, la Merkel ha convinto il Consiglio ad accettarlo e Juncker è diventato presidente della Commissione, forte di circa il 10 per cento dell'elettorato europeo. Se non ci fosse riuscita, ha dichiarato Habermas alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, sarebbe stato "un proiettile al cuore del progetto europeo". Cinque anni dopo Macron ha puntato i piedi e il prossimo presidente è stato scelto secondo le regole dal Consiglio, ignorando lo sfortunato Spitzenkandidat. Indignato per questo rifiuto alle sue pretese, si è parlato di ribellione in Parlamento, che pur non avendo il diritto di selezionare, può respingere un presidente della Commissione. Ma questo non avrebbe provocato una crisi del progetto europeo? La terrificante prospettiva di un aperto disaccordo tra le sue istituzioni ha placato abbastanza gli spiriti da consentire a Ursula von der Leyen di entrare in carica.

La funzione del Parlamento europeo, che non aggrega né canalizza i desideri degli elettori, dai quali una volta chiuse le urne si distacca completamente, è, come ha affermato lo studioso italiano Stefano Bartolini, "un consolidamento delle élite". Cioè, un processo in cui le parti colludono tra loro per offrire l'apparenza di un'assemblea democratica, dietro la quale si sono comodamente trincerate le consorterie oligarchiche. Le quali sarebbero ben felici di ottenere più poteri, ma non hanno alcun interesse a cederne alcuno a coloro che, solo nominalmente, rappresentano. L'ampiezza del divario tra l'istituzione e le popolazioni sottostanti si può giudicare dalle rare occasioni in cui queste ultime hanno potuto far sentire direttamente la propria voce. Nei Paesi Bassi, l'affluenza alle elezioni europee del 2004 è stata solo del 39%. Un anno dopo l’affluenza ha raggiunto il 63% in occasione del referendum sul progetto di Trattato costituzionale - che, sebbene sostenuto dall'80% della delegazione olandese a Strasburgo / Bruxelles, è stato respinto dal 62% degli elettori olandesi. Il Parlamento non è quello che sembra, ed è la componente meno significativa dell'Unione. Vuol dire che è poco più di una decantata foglia di fico? Non proprio. Le apparenze contano e, a suo modo, il Parlamento svolge un ruolo costruttivo per l'Unione in quanto offre una sorta di legittimazione, come richiesto da qualsiasi ordine liberale che si rispetti. Per quanto limitato possa essere il coinvolgimento dei cittadini, i sondaggi paneuropei sincronizzati sono meglio di niente, e i loro beneficiari possono continuare a sperare che un giorno nascerà un vero e vitale sistema politico federale.

Di tutt'altro ordine politico è la Banca centrale europea, creata per gestire la moneta unica entrata in vigore nel 1999. Oggi è una delle più potenti istituzioni dell'UE, qualcuno direbbe la più potente. Con sede a Francoforte, il suo consiglio direttivo è composto dai capi delle banche centrali dei paesi della zona euro e dai sei membri del consiglio esecutivo, che si riuniscono ogni due settimane. I suoi procedimenti, a differenza di quelli della Fed o della Banca d'Inghilterra, ma in linea con quelli della Corte di giustizia europea, sono segreti. Occasionalmente, a differenza della Corte di giustizia, un membro può dimettersi, ma le sue decisioni sono formalmente unanimi. Nessun dissenso viene mai reso pubblico. Il Trattato di Maastricht ha conferito l'indipendenza assoluta alla banca, che opera senza nessuno dei contrappesi - Congresso, Casa Bianca, Tesoro - che circondano la Fed, inserendola in un contesto politico in cui è pubblicamente responsabile. A differenza di qualsiasi altra banca centrale, l'indipendenza della BCE non è solo statutaria, non ha regole o finalità che possono essere modificate con decisione parlamentare: è soggetta solo alla revisione dei trattati. A differenza della Commissione, del Parlamento, della Corte di giustizia o persino del Consiglio, i suoi procedimenti non sono complicati e macchinosi. Può agire con una velocità e un impatto che nessun'altra istituzione dell'UE può eguagliare.

Maastricht ha dato alla BCE un unico obiettivo. Laddove la Fed è incaricata dal Congresso di garantire la massima occupazione e la stabilità dei prezzi, l'unica responsabilità della BCE era quella di garantire la stabilità monetaria in quella che sarebbe diventata l'Eurozona. Fin dall'inizio, come gli economisti sapevano e non pochi avevano sottolineato, le economie che avrebbero dovuto adottare l'euro, molto diverse per dimensioni, composizione e livello di sviluppo, non soddisfacevano in alcun modo i criteri di un’ ''area valutaria ottimale" come definita dall'economista Robert Mundell e altri. Anzi il contrario. Ma questo non ha scoraggiato la Commissione Delors che ha guidato il progetto, poiché i suoi obiettivi erano politici piuttosto che economici: in parte vincolare una Germania riunificata all'interno della Comunità, ma più in generale creare una moneta che legasse gli stati che l’avessero adottata così strettamente insieme, che sarebbero poi stati obbligati a far seguire all'unione monetaria l'unione politica. Come obiettivo esplicito, era troppo per Maastricht, dove le speranze federaliste erano state deluse dalla contrattazione intergovernativa di tipo tradizionale. Tuttavia, il trattato creò un'Unione economica e monetaria europea, e i politici lì riuniti che hanno firmato il documento generalmente hanno dato poca attenzione a quali avrebbero potuto essere le sue conseguenze, una volta che non sarebbero più stati in carica. La porta di un'unione politica non venne aperta; né fu preclusa.

La separazione tra mezzi e fini si fece presto sentire. Wim Duisenberg, il rude banchiere olandese che divenne il primo presidente della BCE, si vantava di essere un deciso campione dell'ortodossia finanziaria, secondo le migliori idee anglosassoni. Eppure era felicissimo quando la Grecia, dopo aver adeguatamente preparato i suoi libri, prontamente adottò l'euro. Le sue ragioni non erano economiche, ma politiche. Sebbene la moneta unica non fosse, per chi la amministrava, una semplice scorciatoia per il federalismo, essa era - come avrebbe detto Giandomenico Majone, pensatore più fedele ai principi classici - un "progetto di prestigio" volto a elevare il profilo dell’UE nel mondo. Un decennio dopo, l'Eurozona avrebbe pagato per questa vanità. Jean-Claude Trichet, il francese che successivamente prese il timone di Francoforte, era una figura più morbida, ma altrettanto cieca. La sua risposta alla crisi finanziaria globale è stata prociclica: aumentare i tassi di interesse per costringere i governi a tagliare la spesa pubblica, imponendo l'austerità come cura per il crollo. Il suo successore, Mario Draghi, è stato ampiamente celebrato per aver invertito la rotta, iniettando denaro nelle economie della zona euro con l'acquisto di titoli di stato e una generosa dose di altre forme di liquidità. In effetti, tra i due c'era molto più in comune di quanto generalmente si creda. Draghi, responsabile di un vasto programma di privatizzazioni in Italia, era più apertamente neoliberista, e dalle pagine del Wall Street Journal aveva dichiarato obsoleto il contratto sociale europeo. Ma nell'agosto 2011, i due scrissero insieme una lettera segreta a Berlusconi, allora primo ministro italiano, chiedendo che ricorresse a un meccanismo di emergenza da Guerra Fredda per tagliare le pensioni e altre spese pubbliche - una violazione senza precedenti del mandato della banca. Tre mesi dopo Berlusconi non c'era più. Da parte sua, Trichet, alla fine del suo mandato, era arrivato a ricorrere a meccanismi di elusione del divieto, posto dal Trattato di Maastricht, di acquisto di titoli del debito pubblico da parte della banca. Lodando il suo capo, l'ex direttore generale alla Ricerca della BCE, Lucrezia Reichlin, ha detto al Financial Times nel febbraio 2012: "L'intero concetto di aggirare le regole europee e fare QE senza chiamarlo QE, è stato estremamente intelligente".

Cinque mesi dopo, Draghi annunciava al pubblico della City: "Nell'ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto il necessario (what ever it takes) per preservare l'euro" Dopo essersi vantato della superiorità della performance economica della zona euro rispetto a quella di Stati Uniti e Giappone (quest'ultimo ritenuto meno "socialmente coeso" rispetto all'Unione, dove metà dei giovani di Italia, Spagna e Grecia erano disoccupati), concludeva chiarendo quale fosse in definitiva la posta in gioco della crisi. Nessuno dovrebbe "sottovalutare la quantità di capitale politico investito nell'euro". Ed era per salvaguardarlo che sarebbe stata necessaria l'ultima ratio regis del momento: "operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine", "transazioni monetarie definitive" e tutto il resto, ovvero modi intelligenti per aggirare le regole europee, restando "nell'ambito del mandato" della banca, e ciò in palese violazione degli articoli 123 e 125 del Trattato di Lisbona. A tempo debito, la legalità di questi interventi sarebbe stata contestata dinanzi alla Corte di giustizia. Ma così come non ha avuto alcun problema nel reinterpretare il Trattato di Roma per arrogarsi dei poteri di cui non si trova traccia nel documento firmato dai Sei, così la Corte di giustizia non ne ha avuto nessuno nel decidere che Lisbona intendeva il contrario di ciò che era scritto. Poiché ora non si trattava di leggere in un trattato ciò che non conteneva, ma di eliminare da un trattato ciò che conteneva; le contorsioni richieste erano, nelle parole di Horsley, "erculee". La commedia dei giudici che spiegano solennemente che l'assistenza finanziaria nell'ambito del meccanismo europeo di stabilità costituiva un atto di politica economica, non monetaria, ed era quindi perfettamente in regola, mentre le transazioni monetarie definitive erano uno strumento di politica monetaria, non economica, e quindi erano anch’esse perfettamente in regola, richiede la penna mordace di un Jonathan Swift.   Che cosa significava effettivamente la "clausola di non salvataggio" dell'articolo 125? Quei salvataggi andavano bene, fintanto che servivano "l'obiettivo più alto" di preservare l'euro. O, con le parole di van Middelaar, infrangere le regole significava essere fedeli al contratto.

In Germania i tentativi successivi, nel 1974, 1986, 1993 e 2009, di contestare la validità delle normative o dei trattati della Comunità dinanzi alla Corte costituzionale del paese hanno tutti prodotto lo stesso risultato. I giudici di Karlsruhe hanno dichiarato che la Grundgesetz tedesca - la Legge fondamentale - non può essere ignorata dalla Corte europea, ma poiché nessuna violazione del genere si è "finora" o "ancora" verificata, il caso non sussiste. L'anno scorso è stata chiamata ancora una volta, questa volta a pronunciarsi sulla legalità della benedizione data dalla Corte di giustizia europea al programma di acquisto di obbligazioni della BCE. Ancora una volta ha rifiutato di affermarne l’illegalità, pur osservando che la proporzionalità dei suoi effetti non era stata adeguatamente valutata e incaricando il governo tedesco e la Bundesbank di condurre tale valutazione e garantire un'adeguata proporzionalità. Negli Euromedia c’è stata la rivolta. Il Financial Times era furioso. "Il tribunale tedesco ha piazzato una bomba sotto l'ordinamento giuridico dell'UE", ha gridato Martin Sandbu. La corte ha "lanciato un missile legale al cuore dell'UE. Il suo giudizio è straordinario. È un attacco alle basi dell’economia, all'integrità della banca centrale, alla sua indipendenza e all'ordinamento giuridico dell'UE ", ha tuonato Martin Wolf. "Gli storici del futuro potrebbero segnare questo come il punto di svolta decisivo nella storia dell'Europa, verso la disintegrazione". La Bundesverfassungsgericht, la Corte federale tedesca, è un corpo per lo più sdentato, come indicano le sue sentenze diligentemente sospese. Meglio conosciuto per aver ribaltato docilmente la Legge fondamentale tedesca per consentire a Schröder e Merkel nel 2005 di organizzare un'elezione incostituzionale prima che fossero fissate le elezioni, si prende cura di evitare gravi offese ai detentori del potere. È improbabile che Berlino e Francoforte abbiano molte difficoltà a rimettere a dormire Karlsruhe.

Fatta la legge, trovato l'inganno” è un proverbio italiano di saggezza popolare. L'adagio implica che coloro che fanno la legge e quelli che la ingannano non siano gli stessi. Ciò che distingue l'Unione è che le due parti coincidono. Nelle mani della Corte europea e del coro dei suoi ammiratori, il termine stato di diritto è giunto a significare, più o meno, un malgoverno di avvocati che non si fermeranno davanti a nulla per piegare i testi a loro piacimento, a scapito delle normali interpretazioni secondo un principio di giustizia. Ma che importa, se si soddisfano bisogni più elevati - la sopravvivenza di un'unione monetaria da cui dipendono mercato del lavoro, tasse, trasferimenti e prosperità per tutti? Ma, come più di uno scrittore ha risposto, banchieri e giudici sono le autorità più competenti per determinare quali dovrebbero essere le pensioni o gli stipendi? Certamente, in queste faccende fanno abbastanza bene, per quanto li riguarda. Ma la loro è la qualifica più appropriata? Il motto di Fritz Scharpf è valido: nell'UE sono proprio quelle istituzioni che hanno il maggiore impatto sulla vita quotidiana della maggior parte delle persone che sono tenute più lontane dalla responsabilità democratica - la Corte di giustizia europea, la Banca centrale europea, la Commissione europea.

La meno lontana è l'ultima delle istituzioni dell'Unione, il Consiglio europeo, poiché comprende capi di governo che godono di maggioranze in parlamenti autentici, frutto di elezioni significative. In quanto tale, è diventata la massima autorità dell'Unione. Il “Passaggio all’Europa” di Van Middelaar è in gran parte la storia dell’ascesa del Consiglio a questa posizione, e la sua affermazione secondo cui il Consiglio è ora il principale motore dell'integrazione europea è giustificata. Quello che non fa è guardare oltre le apparenze. Che tipo di veicolo sta avanzando? Questo è l'argomento del più fondamentale di tutti i lavori sull'UE dell'ultimo decennio, “L'integrazione europea” di Christopher Bickerton, il cui titolo anodino, condiviso con dozzine di altri libri, nasconde la sua particolarità, che si manifesta nel sottotitolo: “Dagli Stati nazionali agli Stati membri”. Tutti hanno un'idea di cosa sia uno Stato-nazione e molti sanno che 27 paesi (con l'uscita del Regno Unito) sono Stati membri dell'Unione europea. Qual è la differenza concettuale tra i due? La definizione di Bickerton è succinta. "Il concetto di Stato membro esprime un cambiamento fondamentale nella struttura politica dello Stato, con legami orizzontali tra gli esecutivi nazionali che hanno la precedenza sui legami verticali tra i governi e le loro società." Questo sviluppo lo ha colpito per la prima volta, spiega, al momento del referendum irlandese sul trattato di Lisbona. “Quando è stato annunciato il risultato del No, i membri del governo irlandese hanno espresso un misto di sorpresa e imbarazzo: sorpresa perché non avevano familiarità con i sentimenti prevalenti all'interno della propria popolazione e imbarazzo perché il voto comprometteva molte delle promesse che avevano fatto ai loro pari nelle precedenti riunioni a Bruxelles"(La descrizione è un eufemismo. Avvistato quella sera fuori da un pub a Dublino, Brian Lenihan, all'epoca ministro delle finanze, era bianco come un lenzuolo).

Come è avvenuta la transizione da Stato-nazione a Stato membro? Dopo la seconda guerra mondiale - qui Bickerton segue Alan Milward e John Ruggie - in Europa occidentale è stato raggiunto un compromesso di classe tra capitale e lavoro, che ha assunto la forma organizzativa di uno stato corporativo impegnato per la piena occupazione, una serie di servizi di welfare e di trasferimenti. Basato su una crescita economica costante, il consenso ideologico di questo periodo presumeva un forte coinvolgimento del governo nella vita economica e assicurava un tenore di vita popolare in aumento. Eppure, allo stesso tempo, "un contratto sociale più egualitario e redistributivo" rispetto agli anni prebellici "ha coinciso con un restringimento dello spettro politico": l’abbandono delle posizioni radicali da parte della sinistra presagiva una più ampia depoliticizzazione e una mancanza di sperimentazione politica che hanno portato al predominio dei partiti di centro. La generale crisi economica degli anni '70 ha visto il dissolvimento di questo compromesso di classe, con una crescita rallentata, l’aumento delle agitazioni sindacali e le idee Keynesiane soppiantate dalle dottrine Hayekiane e dalla Scuola delle scelte pubbliche, indifferenti al contratto sociale. Per un certo periodo, i governi hanno continuato a provare le solite ricette, ma all'inizio degli anni '80 era arrivato il neoliberismo, introdotto dalla Thatcher, seguita dall'inversione di marcia di Mitterrand e dalla repressione degli scioperi danesi, belgi e britannici. Liberati dalle pressioni del lavoro organizzato, i governi iniziarono a convergere verso la deregolamentazione e le privatizzazioni, per aprire i mercati all'innovazione e alla concorrenza, secondo le prescrizioni del nuovo periodo. L'Atto Unico Europeo del 1985 ne ha segnato il recepimento a livello comunitario.

Il rilancio della dinamica dell'integrazione sotto Delors fu quindi il risultato di un modello di cambiamento politico interno in cui le priorità politiche erano diventate le riduzioni fiscali, la repressione salariale e il ritorno alle ortodossie finanziarie di stampo classico. Continuare a ottenere il consenso degli elettori a questa linea non è mai stato facile, ma con l'approfondirsi dei processi di integrazione, che comportano un coordinamento ministeriale sempre più stretto oltre frontiera, i governi avrebbero potuto presentare le misure impopolari come necessità derivanti dalla costituzione della Comunità. Dai tempi di Montesquieu e Madison in poi, il costituzionalismo implicava l'idea di un'autolimitazione della volontà politica allo scopo di salvaguardare le libertà individuali: un insieme di vincoli interni - divisione dei poteri, pesi e contrappesi – volti ad assicurare la nazione contro la tirannia, sia da parte dei monarchi che da parte della massa. Il formato liberale standard dello Stato-nazione si era così consolidato nel corso del tempo. Con l'avvento della Comunità europea, una volta che la Corte di giustizia è riuscita a darle, praticamente se non formalmente, un valore costituzionale, gli stati membri hanno accettato una serie di vincoli esterni di forma radicalmente diversa. "Il soggetto attivo, vale a dire i popoli, non gestiscono il potere normativo", scrive Bickerton:

Piuttosto, i governi nazionali si impegnano a limitare i loro propri poteri al fine di contenere il potere politico delle popolazioni nazionali. Invece di esprimere sé stessi in quanto potere costituente attraverso questa architettura costituzionale, i governi nazionali cercano di limitare il potere popolare vincolandosi ad un insieme esterno di regole, procedure e norme. L’esercizio della sovranità popolare all’interno del paese, che serve a unire stato e società, è sostituito da vincoli esterni al potere nazionale intesi come un modo per separare la volontà popolare dal processo di decisione politica.”

Quando la Guerra Fredda finì, nel 1990, i dirigenti europei avevano consolidato la transizione da stato-nazione a stato-membro. Con Maastricht e la proclamazione dell'unione monetaria, i vincoli che ciò comportava aumentarono naturalmente, così come la loro convenienza per i governi che cercavano di imporre normative neoliberiste di un tipo o dell'altro ai loro cittadini. Nel 1992-93 Giuliano Amato ha attuato una "correzione fiscale" - cioè un pacchetto di austerità - pari a non meno del 6 per cento del PIL italiano in nome del vincolo esterno imposto dall'Unione. Quando la moneta unica, lungi dal portare una rinnovata crescita e prosperità, ha fatto precipitare l'Italia in una prolungata stagnazione e recessione e l'intera zona euro in crisi, la risposta non è stata quella di allentare le regole di appartenenza, ma di irrigidirle ulteriormente, con la spettacolare costrizione della sovranità popolare sancita nel Fiscal Compact del 2012. In questo trattato, i vincoli esterni dell'Unione furono scritti per la prima volta, per volere tedesco, all’interno delle Costituzioni degli Stati membri e i loro bilanci annuali, considerati tradizionalmente il cuore della politica interna, divennero oggetto di sorveglianza e direzione da parte di inviati di Bruxelles.

Sebbene l'attrito sia raramente assente da tali visite, la disciplina che esse rappresentano è stata per la maggior parte accettata come parte dell'ordine naturale delle cose. 'Per gli Stati membri', scrive Bickerton, 'l'Eurozona non è solo un'unione monetaria, ma anche un sistema collettivo per l'elaborazione di politiche macroeconomiche coordinate a cui appartengono tutti e che per molti versi è alle fondamenta delle loro identità e interessi come Stati membri." Non da ultimo proteggendo gli inviati di Bruxelles dall'intrusione di potenziali proteste, poiché le conclusioni dei comitati di esperti - ratificate in conclavi ministeriali, annunciate dai capi di governo e presentate ai cittadini in patria come fatto compiuto - diventano la norma. In questo processo, ciò che contraddistingue l'UE come struttura politica a sé, diversa dalle altre, è la presunzione di consenso e i protocolli che ne derivano, che formano il suo codice operativo. A Bruxelles, gli emissari delle diverse nazioni si confrontano su questioni riguardanti i loro settori specialistici, sviluppando uno spirito di corpo e un'identificazione professionale con il lato tecnico delle loro discussioni, in un sistema progettato per escludere l'imprevedibilità del dibattito pubblico o del disaccordo politico. Lo stesso schema vale più in alto, poiché le decisioni vengono passate al Consiglio dei ministri nella sezione di competenza e, ove richiesto, fino allo stesso Consiglio europeo, dove il risultato è consacrato con fotografie di circostanza e comunicati all’unanimità. L'imperativo del consenso è tutto. "Questo spiega perché il processo decisionale dell'UE è così riservato e manca di ciò che è considerato elementare nella vita politica a livello nazionale", dove il conflitto è aperto e normale, osserva Bickerton.

Strutturalmente, egli giudica lo Stato-membro una forma sociale 'fragile e contraddittoria', allo stesso tempo potente nell'immunizzare i governi nazionali contro le pressioni sociali interne, e debole perché priva di radici lontanamente paragonabili ai legami verticali tra governi e popolazioni dello Stato-nazione classico. La forma di politica nazionale a cui dà origine, spesso mantenuta per contrapporre una tecnocrazia dominante a un populismo di opposizione, tende piuttosto a una combinazione maligna dei due, con i leader che mescolano una posizione populista sull'immigrazione con un approccio tecnocratico all'economia, come Sarkozy, o atteggiamenti come quello di Blair, manager pragmatico vicino ai sentimenti della gente comune; Macron offre l'ultima versione della miscela. La superficialità dell'attaccamento delle élite ai cittadini che rappresentano rafforza inevitabilmente il loro senso di solidarietà reciproca nel club dei leader dell’Unione, dove si riuniscono ogni due mesi circa. Ma la appartenenza offerta dal club non è, come dice Bickerton, un rifugio stabile. Visto storicamente, lo Stato-membro è una "forma di stato solida ma vuota".

Istituzionalmente, tuttavia, si è andata riempiendo. Dal 2017, il Consiglio europeo possiede per le sue sessioni bimestrali una nuova sede a Bruxelles, satura di simboli - la forma di lanterna per il bagliore caldo irradiato dalle sue deliberazioni, la policroma degli allestimenti per la diversità dei popoli da esse illuminati - dove si riuniscono i capi di stato e di governo, più i presidenti della Commissione e del Consiglio stesso. A turno sono affiancati dall'Eurogruppo dei ministri delle finanze dell'Eurozona, che si riunisce mensilmente, e il cui presidente può anche partecipare al Consiglio su invito, come anche dall'Alto Rappresentante degli Affari esteri e della sicurezza (notevolmente meno importante) dell'Unione. Sebbene sia la suprema autorità politica dell'Unione, il Consiglio europeo in sé non legifera: le leggi sono questioni di ordine inferiore che si svolgono nelle trattative dei triloghi sottostanti. La competenza del Consiglio europeo sono le grandi decisioni dell'Unione: essenzialmente, la gestione delle crisi, la revisione dei trattati e la politica estera. Cioè, problemi economici urgenti e di "sicurezza" (cioè rifugiati); questioni costituzionali (la parola è bandita dal Trattato di Lisbona, ma il fatto resta); rapporti con le altre potenze (e la periferia dell'UE, dove pende l'allargamento nei Balcani). È qui che sorgono gli "allarmi" che invitano alle coraggiose "decisioni" dei racconti dell'Unione di van Middelaar. Esempi notevoli: gestione della delinquenza greca; utilizzare la venalità turca; replicare al rigetto del progetto di Costituzione con una revisione dello stesso a Lisbona; punire la Russia per l'annessione; e la Gran Bretagna per la diserzione.

In linea di principio, l'anello debole nella competenza del Consiglio è l’economia, poiché non ha autorità sulla BCE, la cui indipendenza è assoluta e il cui potere sulle economie dell'Unione è senza rivali. In pratica, l'Eurogruppo fornisce un collegamento informale, in quanto un rappresentante della banca è presente alle sue riunioni, ancora più riservate di quelle del Consiglio stesso, anche perché la presenza alle stesse della banca, in deroga alla sua indipendenza, richiede un velo di discrezione. Per formazione e visione, i ministri delle finanze tendono ad avere idee simili, come ha scoperto Varoufakis nel suo breve periodo con l'Eurogruppo. I disaccordi sono più frequenti in seno al Consiglio. Prima delle sue riunioni, i partecipanti possono manifestare posizioni controverse, mentre durante e dopo di esse, le fughe di notizie - solitamente voci confuse a uso e consumo dei media - riporteranno scontri di opinione, vincitori e vinti nelle discussioni, a piacere dei leaker. Ma i procedimenti stessi rimangono nascosti al pubblico e si risolvono in decisioni che sono praticamente sempre annunciate all’unanimità, in linea con la prassi comune a tutte le istituzioni dell'UE.

Nel caso del Consiglio, la posta in gioco in tali dimostrazioni di unanimità è molto di più che non la generica omertà della classe politica europea. Perché la verità che ci sta dietro è scomodamente in contrasto con la formalità della sua composizione, in cui tutti gli Stati membri sono tecnicamente uguali e possono bloccare decisioni in conflitto con quelli che ritengono essere interessi nazionali vitali. La realtà, ovviamente, è che con le grandi disparità tra i paesi, che variano nella popolazione da ottanta milioni a mezzo milione, sono due stati - Germania e Francia - quelli che guidano de facto il procedimento, in ragione delle loro dimensioni e del loro potere. Nella coppia, erede del trattato che De Gaulle firmò con Adenauer, la Germania è ora la più forte e la più grande economicamente. Ma sebbene questo vantaggio la renda primus inter pares, il suo margine di superiorità e il suo peso relativo all'interno della zona euro nel suo insieme sono troppo limitati per conferirgli l'egemonia che i suoi teorici più audaci le rivendicano. La Francia resta militarmente più forte e diplomaticamente più esperta, e nel rapporto ciascuno dipende dall'altro in egual misura. Dal momento che non sono sempre d'accordo, e in tanti casi non sempre possono insistere, non tutte le decisioni del Consiglio sono una traduzione della loro volontà. Semplicemente, senza bisogno di alcun accenno di veto, nessuna proposta che non sia di loro gradimento ha la minima possibilità di passare, mentre qualsiasi proposta dietro la quale si uniscono con forza congiunta può essere diversamente modulata, ma non sarà contrastata dalle altre due dozzine di paesi del Consiglio. Il Trattato di Maastricht è stato il frutto di un patto tra Mitterrand e Kohl; il Trattato di Lisbona, tra Merkel e Sarkozy; l'attuale Pacchetto Covid, tra Macron e Merkel. In tutti i casi l'iniziativa è arrivata, inarrestabile, da Berlino e Parigi. In tutti i casi, dei dettagli sono stati modificati per adattarsi agli stati minori, senza che l’orientamento venisse alterato.

L'unica occasione in cui una proposta importante su cui Germania e Francia insistevano ha incontrato un'opposizione intransigente, il Fiscal Compact su cui la Gran Bretagna ha posto il veto  nel 2011, ha messo in luce la realtà della struttura del potere in Europa. Senza indugio, Berlino e Parigi hanno semplicemente aggirato il Consiglio con uno strumento internazionale al di fuori del quadro giuridico dell'UE, il Trattato di stabilità, coordinamento e governance, a cui tutti gli altri Stati membri hanno debitamente aderito. L'effetto è stato esattamente lo stesso. Cameron è stato lasciato a lamentarsi del fatto che Merkel e Hollande non si erano nemmeno preoccupati di rispettare le apparenze, mettendo insieme questo accordo nei locali dell'Unione a Bruxelles. La lezione è chiara. Se i due egemoni europei dovessero incontrare - post-Brexit - un'ostinazione simile in una questione a cui attribuiscono importanza, possono rispondere con un trattato internazionale bilaterale (o multilaterale), aggirando l'ostacolo allo stesso modo. Non è una coincidenza che Jean-Claude Piris abbia concluso il suo libro del 2012, Il futuro dell'Europa, sottolineando quanto possa essere conveniente e fruttuoso il ricorso a tali trattati "aggiuntivi". Allo stato attuale, tuttavia, con la Gran Bretagna fuori gioco, non c'è molto bisogno del dispositivo. Un fatto particolare da solo è sufficiente per chiarire le prospettive e il potere del duo franco-tedesco. Ci sono stati tre presidenti del Consiglio europeo da quando l'ufficio è stato creato nel 2010. Di questi, due sono stati belgi, un paese con poco più del 2% della popolazione dell'Unione. Perché? Perché si può fare affidamento sui politici poco appariscenti di uno stato debole, opportunamente situato tra Francia e Germania, per non ostacolare nessuno dei due, ma per facilitare le buone intenzioni di entrambi.

È stato spesso osservato che l'organizzazione istituzionale dell'UE è un sistema politico sui generis, una costruzione che è più facile definire negativamente che positivamente. Non è, come è abbastanza ovvio, una democrazia parlamentare, per la mancanza di divisione tra governo e opposizione, di competizione tra i partiti per le cariche o responsabilità nei confronti degli elettori. Non c'è nemmeno separazione tra potere esecutivo e legislativo, sulla falsariga americana; né un collegamento tra loro, secondo il modello britannico o continentale, in cui l’esecutivo è investito da un organo legislativo eletto verso cui rimane responsabile. Piuttosto è il contrario: un esecutivo non eletto detiene il monopolio dell'iniziativa legislativa, mentre il potere giudiziario, investito di un'indipendenza non soggetta ad alcuna verifica o controllo costituzionale, emette decisioni che sono effettivamente insindacabili, che siano conformi o meno ai trattati su cui nominalmente si basano. La regola dei procedimenti dell'Unione - che siano presieduti da giudici, banchieri, burocrati, deputati o primi ministri – è, ove possibile, il segreto, e il loro esito, l'unanimità.

Nelle parole di Majone, il suo critico liberale più perspicace, il mondo in cui vive l'Unione è un mondo in cui "il linguaggio della politica democratica è in gran parte incomprensibile". Unico nella storia costituzionale moderna, egli osserva, "il modello non è Atene, ma Sparta, dove l'assemblea popolare votava sì o no alle proposte avanzate dal Consiglio degli anziani, ma non aveva il diritto di proporre misure per conto proprio". La cultura politica delle élite dell’Unione assomiglia a quella della Restaurazione europea e degli eventi successivi, prima delle riforme sul diritto di voto del XIX secolo, "quando la politica era considerata un monopolio virtuale di gabinetti, diplomatici e alti burocrati". L'habitus mentale e istituzionale dell'Europa del vecchio regime è ancora vivo nel "sistema di governo presunto postmoderno dell'UE". In sostanza, l'ordine dell'Unione è quello di un'oligarchia.

Da un orizzonte storico si potrebbe rispondere, sì, ma la Restaurazione ha portato in Europa la pace, che è durata per quarant'anni, se non un secolo se la si vede in maniera più ampia. L'integrazione europea, per quanto antidemocratica nella struttura, non ha ottenuto lo stesso risultato per tre quarti di secolo, dopo le terribili guerre intestine del 1914 e del 1939? Nel credo ufficiale dell'UE, probabilmente nessun'altra affermazione viene ripetuta con tanta insistenza, e i movimenti che mettono in discussione l'Unione sono spesso attaccati come portatori del bacillo di guerre future. La verità, naturalmente, è che dopo il 1945 non c'è mai stato alcun rischio di un altro scoppio di ostilità tra Germania e Francia, o qualsiasi altro dei paesi dell'Europa occidentale, perché la Guerra Fredda ha reso l'intera regione un protettorato americano. La NATO, non la CEE, ha posto fine ai conflitti militari del passato. Come una volta disse causticamente Albert Hirschman: "la Comunità europea è arrivata un po' in ritardo nella storia per la sua missione solennemente proclamata, di evitare ulteriori guerre tra le principali nazioni dell'Europa occidentale." Beneficiaria della Pax Americana piuttosto che sua progenitrice, l'Unione ha affrontato la sua prima vera prova come custode della pace in Europa dopo la guerra fredda. Ed è fallita miseramente, non prevenendo, ma alimentando, la guerra nei Balcani, poiché la Germania appoggiava la secessione slovena dalla Jugoslavia, miccia che ha innescato i successivi conflitti omicidi che l'UE, trascinata sulla scia di Helmut Kohl, si è dimostrata incapace di moderare o far cessare. Ancora una volta non è stata Bruxelles, ma Washington a decidere definitivamente il destino della regione. Anche l'allargamento dell'Unione agli ex paesi del Patto di Varsavia, suo principale traguardo storico, ha seguito le orme degli Stati Uniti, con la loro inclusione nella Nato prima del loro ingresso nell'UE.

I diritti umani sono un altro punto d'onore nel repertorio delle pubbliche relazioni dell'Unione. Il Consiglio d'Europa, che comprende venti Stati non membri dell'UE, tra cui Russia, Turchia, Georgia e Azerbaigian, ha istituito una Convenzione sui diritti umani e un tribunale per proteggerli già nel 1953, le cui disposizioni sono state sostanzialmente riprodotte nel 2000 nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, col tentativo dell'UE di rubare la bandiera del Consiglio facendola propria. Come accade anche altrove, la proclamazione e l'osservazione di tali diritti non sono la stessa cosa. La brutalità ordinaria della polizia è certamente minore che negli Stati Uniti, dove anche le condizioni carcerarie sono peggiori e i reclusi sono molto più numerosi. Ma in questo l'UE non si distingue dal Canada o dai paesi dell'Europa occidentale che non appartengono all'Unione. Per essere più espliciti, quando l'America ha richiesto la cooperazione europea nelle renditions, i membri dell'UE hanno ottemperato all'assistenza nei rapimenti e nella fornitura di camere di tortura sul suolo dell'Unione, documentata e denunciata da un procuratore svizzero al Consiglio d'Europa, senza che un dito fosse alzato dall'UE per denunciare i responsabili. Laddove le infrazioni alla sua carta provengano da governi non graditi, come attualmente in Ungheria e Polonia, l'Unione minaccerà sanzioni. Laddove provengano da governi con i quali desidera mantenere buoni rapporti, chiuderà un occhio o cercherà di renderle accettabili, anche se le infrazioni sono molto più estreme - come nell'occupazione militare di lunga data e nella pulizia etnica di un territorio dell'Unione nella parte settentrionale di Cipro; per non parlare della terra di Israele, sin dall'inizio della storia della Comunità invitata a prendere in considerazione l'adesione, e più recentemente definita membro onorario dall’Alto Rappresentante dell'Unione per gli Affari Esteri. Per quanto riguarda i rifugiati, il record di disumanità europea nell'Egeo e in Libia parla da sé. La migrazione è diventata in gran parte una questione di sicurezza.

La solidarietà, un altro termine importante nel lessico dell'UE, si riferisce a due caratteristiche della sua immagine di sé. La prima sottolinea i fondi strutturali e di coesione, il 30 per cento del bilancio della Commissione erogato ai paesi e alle regioni più poveri dell'Unione per i trasporti, l'ambiente e altri progetti. Sebbene non siano sempre ben spesi, sono veramente redistributivi e storicamente hanno avuto un impatto significativo sui maggiori beneficiari: Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Di maggiori dimensioni è la politica agricola comune, che eroga oltre il 40 per cento del bilancio ed è regressiva, con la maggior parte del denaro che va agli agricoltori più ricchi, soprattutto in Francia, anche se i milionari che avevano i requisiti per beneficiarne in Gran Bretagna hanno raccolto la più grande bonanza in assoluto. Combinati insieme, l'effetto patrimoniale dei due tipi di spesa è probabilmente neutro, forse negativo. In secondo luogo la solidarietà si riferisce alla "politica sociale" europea, definita in senso lato come misure per ridurre la vulnerabilità dei lavoratori salariati e delle loro famiglie, e dei cittadini meno abbienti in generale, ai capricci del mercato. Wolfgang Streeck ne ha tracciato l'evoluzione dagli anni Sessanta ad oggi. In origine, queste misure consistevano in tentativi di alterare le relazioni capitale-lavoro promuovendo la co-determinazione industriale, che avrebbe dato ai lavoratori diritti di rappresentanza nei consigli di amministrazione, a cui si opponeva il mondo degli affari. La direttiva Vredeling che dà forma a queste speranze è stata abbandonata dopo l'approvazione dell'Atto unico europeo e l'attenzione si è spostata sulle questioni di salute, sicurezza e pari opportunità.

Su insistenza di Delors, che proclamava la necessità di un'Europa sociale, l'Unione monetaria creata a Maastricht fu accompagnata, nel folto delle clausole aggiunte e sussidiarie al trattato, da un Capitolo sociale che prometteva il rafforzamento dei diritti dei lavoratori, dal quale la Gran Bretagna effettuò l’opt-out. Da questo pezzo simbolico è derivato così poco, osserva Streeck, che la sua successiva adozione da parte del New Labour "non ha fatto nulla per prevenire l'aumento della disuguaglianza, il declino della contrattazione collettiva e il deterioramento delle condizioni di lavoro nel Regno Unito negli anni che seguirono". In tutta l'UE, sono stati anni in cui le imprese hanno attaccato con successo la fornitura di servizi pubblici da parte dello stato in nome del diritto alla concorrenza, mentre la Corte di giustizia ha inferto duri colpi ai diritti sindacali. L'attuale Pilastro europeo dei diritti sociali, annunciato nel 2017, non inverte la tendenza: in quanto serie uniforme di ingiunzioni indirizzate a  Stati membri con enormi differenze tra loro, è in gran parte rimasto lettera morta. Nelle arene pubbliche e accademiche, commenta Streeck, i discorsi su un'Europa sociale sono svaniti man mano che l'UE viene identificata principalmente come un veicolo di "pace universale, diritti umani e progressismo, piuttosto che come alternativa al capitalismo sfrenato". La sua conclusione: "Ciò che sembra chiaro è che il progetto, risalente agli anni '70, di uno Stato sociale europeo sovranazionale che dia una definizione politica a un ‘modello sociale europeo’ è giunto al termine".

E che dire della crescita economica europea, in queste circostanze? Mentre tra il 1900 e il 1950 il PIL dell'Europa occidentale è cresciuto di circa il 2% all'anno, dal 1950 al 1973 correva al 5% all'anno, una velocità senza precedenti nella sua storia. Ma quanto di questa crescita era dovuto all'integrazione? In quegli anni la Germania occidentale e l'Italia crescevano del 5% all'anno, la Francia del 4%, il Belgio del 3,5% e i Paesi Bassi del 3,4%. Ma al di fuori della CECA e della CEE, l'Austria registrava un tasso di crescita medio annuo del 4,9%, la Spagna del 5,8%, il Portogallo del 5,9% e la Grecia del 6,2%. La domanda prebellica repressa, l'intervento statale e la cooperazione internazionale hanno giocato un ruolo. Dato che il boom è iniziato un decennio prima della CEE, l'integrazione da sola non può spiegare questi rapidi tassi di crescita. L'impatto della CEE sul boom non è mai stato oggetto di una ricerca condotta con reale accuratezza. Ma se c’è stato, è stato ridotto e potrebbe anche essere stato negativo. Nella visione di Patel di questo periodo, non vi è stata "praticamente nessuna pressione pubblica per presentare un resoconto chiaro dei risultati economici del processo di integrazione". La Comunità non era in questa fase particolarmente neoliberista, come avvenuto qualche tempo dopo. Sebbene la politica della concorrenza possa essere stata modellata dagli ordo-liberali tedeschi negli anni '60, il loro impatto era ancora altamente selettivo, senza incidenza sulla maggior parte del bilancio, che era dominato dalle concessioni agli agricoltori francesi, che essi detestavano. Strutturalmente, l'integrazione europea è "nata tecnocratica", ed è rimasta tale. Per i suoi cittadini, la Comunità era ciò che Patel definisce un "adiaphoron": cioè, secondo la filosofia stoica, "una questione che non ha alcun merito morale né demerito". Tale era l'indifferenza popolare nei suoi confronti che alla fine degli anni '60 solo il 36 per cento dei suoi abitanti poteva individuare correttamente tutti e sei i membri della CEE.

Come è andata l'Eurozona dal 1973? Nel 2000 l'Agenda di Lisbona del Consiglio europeo prometteva aumenti di produttività del 4% all'anno, circa il doppio del tasso statunitense. In realtà, l’aumento è stato tra lo 0,5 e l'1% all'anno. Per quanto riguarda la crescita complessiva, ecco i dati.

Crescita del PIL nella zona euro

Anni -  crescita media del PIL

1973-79        2.7

1984-94        2.5

1994-1998    2.3

1999-2003    2.1

2004-08        1.8

2012-19        1.2

In altre parole, un calo costante dal 1973, anche prima del crollo del 2020, quando nei primi sei mesi dell'anno il PIL è sceso del 15,7 per cento. Per quanto riguarda il contributo dell'integrazione al record, Barry Eichengreen e Andreas Boltho - due economisti impegnati a dimostrare i benefici dell'unità europea - hanno calcolato, in un documento del 2008, che nel lungo periodo, dai tempi della CECA a quelli dell'UEM, 'i redditi europei oggi sarebbero stati inferiori di circa il 5% in assenza dell'UE.” Non è un risultato epocale. Nemmeno il commercio intra-UE è aumentato notevolmente dall'Unione, poiché la sopravvalutazione dell'euro ha favorito le importazioni da Stati Uniti, Cina e altri paesi, sviando il commercio interno all'UE. Più in generale, l'eterogeneità socio-economica e geopolitica dei quindici membri dell'Unione (nel 1995), poi ulteriormente ampliata dall'arrivo di altri dodici nel successivo decennio, ha reso sempre meno possibile arrivare a decisioni comuni efficienti in senso paretiano. In pratica, l'allargamento ad Est ha reso impossibile l'"Europa sociale" concepita da Delors, poiché il reddito medio dei nuovi membri dell'Unione era solo il 40 per cento della media dei quindici membri dell'Europa occidentale. Le risorse dell'UE erano insufficienti per colmare il divario.

Il contrasto tra Occidente e Oriente non è stata l'unica frattura nell'Unione. Per Bolkestein, da destra, la moneta unica era affetta da un difetto congenito. La sua fatale debolezza, ha detto in un discorso pubblico nel 2012, risiedeva:

nel tentativo di servire due gruppi di paesi dalla cultura economica molto diversa, le terre del Nord che rispettavano regole e disciplina e le terre del Mediterraneo che cercavano soluzioni politiche ai problemi economici. Il primo gruppo - Germania, Paesi Bassi, Finlandia e altri - voleva solidità; il secondo voleva la solidarietà, il che significa i soldi di altre persone. [Risate nell'auditorium. Bolkestein non rise.] Non poteva andare bene, e non è andata bene. Herman Van Rompuy aveva ragione a definire l'euro un sonnifero: i paesi del Mediterraneo potevano godere di tassi di interesse artificialmente bassi, cosa che facevano in abbondanza, sognando un ‘dolce far niente ‘(in italiano)”.

Per Claus Offe, da sinistra, è chiaro che “l'euro ha reso il capitalismo democratico europeo più capitalistico e meno democratico'', svincolando i mercati finanziari dagli stati ed esponendo gli stati alle loro vicissitudini, in un sistema che Offe non giudica più favorevolmente, anche se per ragioni opposte, di Bolkestein. "L'euro sotto il regime della BCE generalizza eccessivamente la politica monetaria tra economie ampiamente divergenti e in differenti fasi del ciclo economico. Invece di "una taglia unica che veste tutti", ci troviamo di fronte a una "taglia unica che non va bene a nessuno", a causa dell'incapacità istituzionale della politica monetaria di rispondere alle specificità dei paesi e delle loro situazioni.”  Non appena fatta disinvoltamente questa affermazione, tuttavia, Offe l’ha solennemente ritirata. Perché c'è un paese su cui questo giudizio non è valido: è il suo. Dati gli enormi vantaggi che la Germania trae dall'euro, Offe scrive:

Qualsiasi governo tedesco immaginabile farà tutto quanto in suo potere per mantenere intatta la moneta comune evitando il default di qualsiasi stato membro dell'Euroclub. Perché questa moneta consente al governo tedesco di vivere in un mondo ideale, in cui il piacere non è seguito dal dolore, il che significa che un surplus di esportazioni non è seguito dall'apprezzamento della valuta del paese, che ne limiterebbe le dimensioni.

Le cose stanno diversamente, come è ovvio, dalla parte di chi riceve tale surplus. La cintura degli stati meridionali e dell’est sta pagando il prezzo di un'unione monetaria mal concepita che ora non è più reversibile. Anche se “l'introduzione dell'euro in una zona valutaria fondamentalmente difettosa è stato un errore enorme, ormai sarebbe un enorme errore semplicemente annullare quell'errore'', poiché lo scioglimento dell'Eurozona sarebbe “equivalente a uno tsunami di natura economica oltre che ad una regressione politica”. Da qui la "trappola" in cui si trova l'Europa: non può andare né avanti né indietro.

Fritz Scharpf, da cui Offe ha cercato consiglio, è meno categorico. Nel 2015 egli ha concluso che la decisione dell'UE di salvare la moneta unica anziché smantellarla stava creando un regime dell'euro economicamente repressivo e politicamente autoritario, che era enormemente controproducente. Costringendo gli Stati membri in difficoltà ad adottare l'austerità fiscale e la svalutazione interna, riducendo i costi del lavoro con gli effetti del beggar-thy-neighbour mercantilista, di una permanente pressione al ribasso sui redditi da lavoro, sui trasferimenti sociali e sui trasferimenti pubblici, la politica ufficiale era “completamente priva di legittimità democratica”. In futuro, ha sostenuto Scharpf, gran parte dell'acquis comunitario dovrebbe essere de-costituzionalizzato, riportandolo alle condizioni ordinarie di riesame e revisione legislativa. Per il momento, nessun politico responsabile lo considera fattibile. Ma se un secondo grande shock, paragonabile all'impatto della crisi finanziaria globale, colpisse il sistema, la democrazia europea dovrebbe essere ricostruita dal basso verso l'alto, ripristinando le necessarie barriere all'interferenza del mercato, sia a livello sovranazionale che nazionale.

L'ultima parola, e la più cupa, viene da Dani Rodrik. L'analogia storica più vicina all'euro, come lo conosciamo oggi, potrebbe essere il Gold Standard antecedente alla prima guerra mondiale, prima che ci fosse uno stato assistenziale sviluppato o politiche anticicliche. Ma entrambi ora esistono e complicano i compiti che l'Unione si trova davanti. La democrazia, la sovranità e la globalizzazione possono essere felicemente combinate? Purtroppo, non esiste una democrazia su scala europea e le riforme adottate dalla crisi del 2008 - unione bancaria, controllo fiscale più rigoroso - hanno reso l'Unione ancora più tecnocratica, meno responsabile e più distante dagli elettorati europei. Ciò che l’esempio americano dimostra è che le élite europee devono fare una scelta: optare per l'unione politica a costo della sovranità nazionale, o per la sovranità nazionale a costo dell'unione politica. Le soluzioni intermedie - un po' di democrazia a livello nazionale, un po' a livello dell'UE - non funzioneranno. La realtà, conclude Rodrik, è che potrebbe essere troppo tardi per intraprendere la prima strada, sperando che infine emerga un demos europeo corrispondente a una federazione europea. Se è così, è difficile vedere come una moneta unica possa essere riconciliata con politiche più democratiche. Potrebbe essere meglio abbandonare la speranza che un giorno l'unione economica possa dimostrarsi compatibile con una ricostituita democrazia, e chiedersi invece quale grado di integrazione economica può essere compatibile con la democrazia delle istituzioni attualmente esistenti.

Quindi, se cerchiamo risultati positivi nella performance complessiva dell'UE da Maastricht in poi, non è facile trovarli. Pace internazionale, diritti umani, solidarietà sociale, crescita economica: la dispensa è piuttosto vuota. Tuttavia, come i difensori possono sottolineare, non è completamente vuota. Sono evidenti due caratteristiche dell'UE che fanno una reale differenza nella vita di molti dei suoi cittadini. La prima è la comodità di viaggiare senza passaporto nella zona Schengen, che esclude ancora Bulgaria, Romania, Croazia, Cipro e Irlanda dell'UE, ma include Islanda, Norvegia, Liechtenstein e Svizzera all'esterno dell'UE. Più in generale, in seguito al mercato unico c'è una varietà di prodotti sugli scaffali dei supermercati, con l'Unione che considera i suoi cittadini come consumatori piuttosto che come soggetti politici. La perdita di relativamente modeste possibilità come queste non passerebbe senza proteste; l'abitudine è una forza potente negli affari umani. Inoltre in questo secolo le aspettative politiche nelle società avanzate sono diminuite quasi ovunque. Se la pubblicità dell'Unione per la propria immagine, pubblicità per la quale spende una fortuna ogni anno, non incontra altro che una svogliata acquiescenza, e non certo un attivo sostegno da parte delle popolazioni a cui è rivolta, questo è comunque sufficiente per i suoi scopi. La paura dell'ignoto è il tessuto connettivo più importante.


Alcuni dei libri consultati nella stesura di questo saggio:
Project Europe: A History by Kirin Klaus Patel (Cambridge, 2020)
Juges et avocats généraux de la Cour de Justice de l’Union européenne (1952-1972): Une approche biographique de l’histoire d’une révolution juridique by Vera Fritz (Vittorio Klostermann, 2018)
Vichy dans la ‘solution finale’: Histoire du commissariat général aux questions juives (1941-44) by Laurent Joly (Grasset, 2006)
Servir l’état français: L’administration en France de 1940 à 1944 by Marc Olivier Baruch (Fayard, 1997)
‘Michel Gaudet, a Law Entrepreneur: The Role of the Legal Service of the European Executives in the Invention of EC Law and the Birth of the Common Market Law Review’ by Julie Bailleux (Common Market Law Review, Vol. 50, 2013)
The European Court’s Political Power: Selected Essays by Karen Alter (Oxford, 2009)
‘Establishing a Constitutional Practice of European Law: The History of the Legal Service of the European Executive, 1952-65’ by Morten Rasmussen (Contemporary European History, Vol. 21, 2012)
Politik und Justiz by Hans Peter Ipsen (Hanseatische Verlagsanstalt, 1937)
Europa und das 3. Reich: Einigungsbestrebungen im deutschen Machtbereich 1939-45 by Hans Werner Neulen (Universitas, 1987)
Great Judgments of the European Court of Justice: Rethinking the Landmark Decisions of the Foundational Period by William Phelan (Cambridge, 2019)
The Constitution of European Democracy by Dieter Grimm (Oxford, 2017)
The Court of Justice of the European Union as an Institutional Actor: Judicial Lawmaking and Its Limits by Thomas Horsley (Cambridge, 2018)
‘Constitutionalism and the Many Faces of Federalism’ by Koen Lenaerts (American Journal of Comparative Law, Vol. 38, 1990)
Brokering Europe: Euro-Lawyers and the Making of a Transnational Polity by Antoine Vauchez (Cambridge, 2015)
The Future of Europe: Towards a Two-Speed EU? by Jean-Claude Piris (Cambridge, 2012)
European Civil Service in (Times of) Crisis: A Political Sociology of the Changing Power of Eurocrats by Didier Georgakakis (Palgrave Macmillan, 2017)
Restructuring Europe: Centre Formation, System Building and Political Structuring between the Nation-State and the European Union by Stefano Bartolini (Oxford, 2005)
Europe as the Would-be World Power: The EU at Fifty by Giandomenico Majone (Cambridge, 2009)
Rethinking the Union of Europe Post-Crisis: Has Integration Gone Too Far? by Giandomenico Majone (Cambridge, 2014)
European Integration: From Nation-States to Member States by Christopher Bickerton (Oxford, 2012)
Europe Entrapped by Claus Offe (Polity, 2015)

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