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il rasoio di occam

Guy Debord lettore di Hegel. La nottola di Minerva che scruta lo spettacolo

di Afshin Kaveh

A prescindere dai concetti e dalle categorie hegeliane in sé, la figura di Hegel è citata più volte nelle tesi di La società dello spettacolo tanto che sorprende che, ancora oggi, non si riesca a cogliere l’influenza esercitata su Debord da Hegel

debord hegel 499Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata;
e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere;
la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto

In una lettera del 10 aprile 1969 alla sezione italiana dell’Internazionale Situazionista[1], indirizzata in particolar modo alla figura di Paolo Salvadori, Guy Debord elencava una serie di correzioni da apportare al lavoro di traduzione italiana de La société du spectacle. In un particolare passaggio in conclusione della missiva, Debord, riferendosi al §123 del proprio libro, indicava come erroneo – fraintendendo così la traduzione – il passaggio «que les ouvriers deviennent dialecticiens» e che Salvadori, giustamente, riportava come: «che gli operai diventino dialettici». Secondo Debord si trattava invece «di dire che essi diventino dialecticiens (non dialectiques)» e, per far meglio comprendere la differenza sostanziale tra le due forme, scriveva che «per esempio: la Storia è dialectique; Hegel è un dialecticien»[2]. Compresa la correttezza della traduzione Debord, in una risposta a Salvadori allegata a una lettera per Gianfranco Sanguinetti del 16 aprile 1969, concludeva, scrivendolo direttamente in italiano, con: «ho capito che sono un dialettico!». La lettera in questione è interessante anche per un post scriptum in cui Debord informava Salvadori di aver ritrovato e riletto alcuni suoi appunti che aveva preso direttamente dalla lettura della Fenomenologia dello spirito di Hegel, nell’edizione francese di Aubier-Montaigne (le stesse curate da Jean Hyppolite, uno dei più rinomati conoscitori e promotori di Hegel nella Francia dell’epoca e di cui Debord non solo leggerà gli scritti, ma ne seguirà persino qualche lezione, da non iscritto, al Collège de France, prendendo diverse pagine di appunti), ed è proprio quest’opera a emergere in più occasioni nel confronto epistolare per la traduzione del proprio libro.

Anzi, quando il 6 novembre del 1969 Debord faceva avere a Sanguinetti «una copia annotata» de La société du spectacle, lo informava, così come aveva già fatto precedentemente «per i traduttori scandinavi e spagnoli», che, quando non specificato con precisione, i riferimenti a Marx erano generalmente indirizzati alle opere giovanili mentre quelli a Hegel, appunto, alla sua Fenomenologia.

In una lettera del 12 marzo 1969, inviata in doppia copia sia a Milano alla sezione italiana dell’I.S. nelle persone di Sanguinetti, Salvadori e Pavan, sia a Roma verso Mario Perniola, Debord dibatteva proprio con quest’ultimo non ritenendosi d’accordo con quello che «dice di Marx nei suoi rapporti con la dialettica hegeliana» definendo il suo approccio «uno dei più vecchi errori da anti-marxisti» oltre che «di una folla di cattivi marxisti». Perniola si era inoltre dichiarato vicino alla dialettica di Platone, tanto che Debord gli precisava che «noi siamo sicuramente partigiani del metodo dialettico hegeliano (senza confonderlo con la posizione morale e politica di Hegel) e niente affatto della dialettica di Platone», per poi concludere la missiva con una ammonizione secondo cui «non è con Platone che la storia della rivoluzione moderna avrebbe dovuto “rimettersi in piedi”». Da lì a poco, e per una serie di altre circostanze ben più complesse (come la volontà di Perniola di volersi mantenere come semplice «simpatizzante» senza entrare tra le fila dell’I.S.), e nonostante Debord il 6 aprile 1969 gli scrivesse di dirsi felice e rassicurato dal fatto «che non sei un partigiano di Platone», si sarebbe giunti alla lettera del 24 maggio del 1969 in cui Debord scriveva alla sezione italiana dell’I.S. che «ora Perniola è il nostro nemico numero uno in Italia».

A prescindere dai racconti come questi – che dimostrano certo l’animosità del teppista parigino – compito del presente articolo è quello di far riemergere semplicemente l’importanza della figura di Hegel in Debord, soprattutto nei suoi passaggi sulla coscienza, sull’alienazione (seppur influenzato maggiormente dall’interpretazione che ne daranno Feuerbach prima e Marx poi), sul tempo, la storia, il rapporto soggetto-oggetto e, come il litigio con Perniola ci ha dimostrato, sulla dialettica. È proprio quest’ultima, secondo Debord, ad essere «il pensiero che non si arresta più alla ricerca del senso dell’essere, ma si eleva alla conoscenza della dissoluzione di tutto ciò che esiste» ed è sempre nel suo «movimento» che si «dissolve ogni separazione»[3]. Nella lettura nostrana dell’opera di Debord, anche quando si vuole o pretende attenta, non sempre si riesce a cedere pieno respiro all’importanza che lo studio hegeliano ha avuto nel suo proprio approccio alla comprensione critica del mondo nella teorizzazione dello spettacolo (la separazione per antonomasia, da sé, dagli altri, da ciò che ci circonda), anche perché continua ossessivamente a passare quella linea guida che vuole Debord come semplice interprete sociologico dell’impero mass-mediatico, dalle radio, alle televisioni, sino al mondo virtuale ai giorni nostri che, per quanto si prestino (soprattutto in vista dei concetti di rappresentazione e di immagine fortemente presenti nell’opera debordiana che possono far pensare al mondo dei media quando invece sono un rimando alla concretizzazione dell’alienazione nella vita quotidiana tutta), rimangono comunque la superficie di un ben più complesso comparto teorico che, in Debord, ha una lunga eredità ben delineata e precisa[4] e, come giustamente ha indicato Bunyard, sono l’insieme «delle idee hegeliane che rendono la teoria di Debord pienamente comprensibile»[5].

Salvo il citare ossessivamente il §9 de La società dello spettacolo indicandola, giustamente, come détournement[6] di un passaggio tratto dalla lunga Prefazione alla Fenomenologia, il Debord come lettore di Hegel si ferma troppo spesso qui, senza riuscire ad andarne oltre, direi a torto, o comunque in chiave eccessivamente semplicistica. La tesi citata, ovvero quella che recita che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso»[7], è un plateale richiamo, seppur capovolto, a quel passaggio in cui Hegel spiega che per quanto non sia «corretto affermare che il falso costituisca un momento o, addirittura, una parte essenziale della verità» ma che, anzi, il falso e il vero si presentano «come l’olio e l’acqua che, senza mescolarsi, vengono assemblati insieme solo esteriormente», si può comunque concludere che «nell’unità […] questi termini non vanno intesi nel significato che ciascuno di essi assume allo stato isolato» e, su questo insegnamento Debord, nella tesi poc'anzi citata, ribalta radicalmente la formula di Hegel secondo cui invece «il falso costituisce – appunto, non più come falso – un momento del vero»[8]. Il ribaltamento debordiano gli restituisce dunque nuova linfa e significazione.

Tuttavia, tra queste righe, non si vuole neanche presentare una cronologia dei détournement dell’opera hegeliana che Debord, con mano sapiente, taglia, cuce, fa propri e restituisce, spesso senza citarne la fonte, tra le 221 tesi de La società dello spettacolo, quasi un perdersi per poi ritrovarsi nella realizzazione del metodo dialettico che, per dirla con Lukács, si presenta «come forza motrice di tutti i momenti della coscienza e della realtà oggettiva»[9], realizzandolo nella sua stessa essenza triadica dell’idea in sé, dell’idea fuori di sé e dell’idea che ritorna a sé, compiuta, più ricca, in quello che Hegel definiva «il cammino che produce se stesso, si proietta in avanti e ritorna entro sé»[10]. L’operazione di Debord è una teoria critica che si comunica «nel suo proprio linguaggio» ovvero quello «della contraddizione, che deve essere dialettico nella forma come lo è nel contenuto». Proprio questo linguaggio «è critica della totalità e critica storica» e, per essere tale, non può che passare per «il suo rovesciamento»[11]. In questo modo «l’esposizione della teoria dialettica è uno scandalo e un abominio per le regole del linguaggio dominante»[12] e la «forma d’esposizione della teoria dialettica testimonia dello spirito negativo che è in essa», in linea con gli insegnamenti di Hegel secondo cui la dialettica è un «movimento che nella sua immediatezza è negativo»[13]. Debord, in tutta la composizione del libro, realizza «questa coscienza teorica» manifestandola «attraverso il rovesciamento delle relazioni stabilite fra i concetti e attraverso la riappropriazione (il détournement) di tutte le acquisizioni della critica anteriore»[14]. Ovvio, con Jappe possiamo affermare tranquillamente che «l’essenziale non è certo l’uso di citazioni hegeliane sparse qua e là»[15], come non lo è, allo stesso modo, quello di una lunga lista di altri autori, seppur è sempre da Hegel che questo metodo ha avuto inizio, laddove «il rovesciamento del genitivo è l’espressione stessa delle rivoluzioni storiche, registrata nella forma del pensiero», appunto, «è stata considerata come lo stile epigrammatico di Hegel», per poi trovare «il giovane Marx» pervenire «all’impiego più conseguente di questo stile insurrezionale che, dalla filosofia della miseria, ricava la miseria della filosofia»[16]. A questo proposito, come punto di partenza, si può tenere in conto che a suo tempo «Debord è tra i pochi hegelo-marxisti francesi» tanto da rivendicare «questa discendenza con particolare orgoglio»[17], soprattutto in un momento storico in cui in Francia – nonostante la forte influenza dei corsi che Alexandre Kojève tenne su Hegel a cavallo degli anni trenta – per passare per Marx era divenuta onnipervasiva la lettura nietzschiana[18] oppure quella freudiana[19] piuttosto che quella hegeliana, sempre se si esclude la lettura esistenzialista che pur riconoscendo l’importanza di Hegel rimaneva ancorata all’influenza fenomenologica di Husserl e di Heidegger.

In un frammento della trasposizione ad anti-film de La société du spectacle, Debord fa comparire Hegel definendolo «il pensatore delle rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo» pur ammonendolo per aver comportato quel «paradosso che consiste nel sospendere il senso di ogni realtà al suo compimento storico» rivelando «nello stesso tempo» il proprio senso come «autocostituendosi in compimento della storia»[20]. Nella lettera citata in apertura dell’articolo, in un’altra correzione a Salvadori, Debord scriveva che «è Hegel che si costituisce lui stesso alla fine della storia» e, lo stesso filosofo tedesco, dando al contempo il senso della storia in quanto autore di un sistema, «afferma che questo senso non può essere trovato che quando la storia è archiviata», concludendo che «questo è l’aspetto comico di Hegel, che deriva dalla tragedia generale della rivoluzione borghese». Per dirla con Lefebvre, «l’hegelismo ha voluto risolvere e superare tutte le contraddizioni del mondo» ma questa risoluzione ha trovato in lui termine con «la ben nota e ben poco filosofica figurazione dello Stato prussiano»[21] (per quanto questo punto potrebbe essere discusso approfonditamente soprattutto in chi non crede che Hegel abbia portato avanti questa teorizzazione dello Stato). Così facendo, secondo Debord, «Hegel ha compiuto, per l’ultima volta, il lavoro del filosofo, “la glorificazione di ciò che esiste”» e, cercando di comprendere «un mondo che si fa da sé» Hegel ha formulato un «pensiero storico» che altro non è se non «la coscienza che arriva sempre troppo tardi» e che, in quanto tale, supera «la separazione, ma solo nel pensiero»[22]. Tuttavia è Marx ad avere il pregio, secondo Debord (assieme al Cieszkowski dei Prolegomeni alla storiografia del 1838, così come spiega in una lettera a Gérard Lebovici del 16 aprile 1972, tanto da curarne l’edizione francese per Champ Libre nel 1973), di aver compiuto un «rovesciamento» vero e proprio «del pensiero delle rivoluzioni borghesi» e distruggendo «la posizione separata di Hegel di fronte a ciò che avviene» Marx dimostra che «la storia divenuta reale non ha più fine», proponendo così il progetto «di una storia cosciente»[23]. Forte della rilettura di Korsch, secondo cui «Marx, con il suo capovolgimento materialistico dell’idealismo hegeliano, ha rimesso in piedi questo ordinamento del mondo storico-sociale che Hegel aveva “filosoficamente” messo a testa in giù»[24], per Debord è proprio «il carattere inseparabile della teoria di Marx e del metodo hegeliano» a essere a loro volta inseparabili dal loro proprio carattere rivoluzionario, «cioè dalla sua verità»[25].

Da un lato è ormai innegabile quanto buona parte dell’influenza hegeliana da Debord subita sia passata per le maglie del giovane Karl Marx e dei numerosi autori filo-marxisti come in parte Henri Lefebvre e Kostas Papaioannou, oppure principalmente quelli che guardavano alla rilettura dell’agitatore di Treviri attraverso la lente di Hegel: si veda per esempio l’opera dell’eretico Karl Korsch o del giovane György Lukács di Storia e coscienza di classe (non a caso un passo tratto dal Differenza dei sistemi di Fichte e di Schelling di Hegel, citato alla tesi §180 de La società dello spettacolo[26], come fa ben notare Anselm Jappe[27], potrebbe essere estratto più dall’opera del filosofo ungherese[28] che non direttamente da quella del tedesco). Debord, totalmente estraneo all’ambiente culturale francese (lo stesso che aveva riposto Hegel in un cassetto dimenticandolo chiuso a chiave sino al ’68 e oltre, per cui «tutto ciò che si ritiene “moderno” è rigorosamente anti-hegeliano» e anche la stessa «comprensione di Marx risulta appiattita dalla lunga resistenza della cultura francese a Hegel»[29]) a distanza di anni, in una lettera del 6 agosto 1990 indirizzata a Giorgio Agamben, non poteva che dirsi «contento di avere, nel 1967, e completamente all’opposto di quell’oscuro demente di Althusser, tentato una sorta di “salvataggio per trasferimento” del metodo marxista reinserendovi una grande dose di Hegel». Dal lato opposto invece è ormai indubbio, anche se si fosse distratti o peggio scettici, che Debord conoscesse benissimo le tesi di Hegel. Non superficialmente, non subendole passivamente e neanche esclusivamente come interferenza interna e circoscritta agli scritti degli autori citati, ma lo ha fatto propriamente suo incontrandolo frontalmente in una lettura rigorosa e organica. Del resto, come riconosce lo stesso Debord, «tutte le correnti teoriche del movimento operaio rivoluzionario sono uscite da un confronto critico con il pensiero hegeliano» e così anche lui, come «in Marx come in Stirner e Bakunin»[30].

Per Debord, da buon hegelo-marxista, la questione del tempo è centrale, tanto da scrivere che «l’uomo […] è identico al tempo»[31], partendo da quella lunga tradizione che ha inizio proprio con Hegel: infatti, per dirla con Lukács, «se Aristotele ha formulato la grande verità che l’uomo è un “animale sociale”, Hegel nella Fenomenologia, l’ha concretizzata nel senso che l’uomo è anche un “animale storico”»[32]. Ne La società dello spettacolo Debord riporta due citazioni che ci fanno ben comprendere la centralità della questione nel suo proprio comparto di tesi, ed entrambe sono tratte da Marx. La prima è quella che, da L’ideologia tedesca, recita che «noi non conosciamo che una sola scienza: la scienza della storia»[33], la seconda è – all’interno di quella critica serrata a Proudhon nella Miseria della filosofia – che «il tempo è tutto, e l’uomo non è niente, salvo tutt’al più la carcassa del tempo»[34]. Ma è con gli insegnamenti del maestro di Stoccarda che Debord cede la vera essenza del discorso, scrivendo come «il tempo è l’alienazione necessaria» ovvero, «come mostrava Hegel, l’elemento in cui il soggetto si realizza perdendosi» e in cui «diviene altro per divenire la verità di se stesso»[35]. Il tempo visto come storico decreta la sua irripetibilità e irreversibilità, al cui interno niente è eterno o immutabile, «niente è legge, ma tutto è processo e lotta»[36] attraverso quel lavoro che Hegel definisce come «movimento di produzione della forma del proprio sapere di sé»[37].

Nei due capitoli «Tempo e storia» e «Il tempo spettacolare», rispettivamente il V e il VI del libro (certo, da tutti i meno presi in considerazione ma anche quelli che più ci fanno comprendere in lui l’influenza hegeliana), Debord propone la sua interpretazione del discorso, partendo dall’evoluzione temporale della consapevolezza del tempo stesso: dalle realtà nomadi alle comunità sedentarie di base dedite all’agricoltura, secondo cui il tempo risultava ciclico e perfettamente organico ai cicli stagionali e naturali, sino al tempo del senso sociale con le prime classi dedite al potere politico le quali iniziarono a detenere quella che Debord definisce «la proprietà privata della storia»[38], dall’Egitto sino alla Cina, dall’Oriente alla Grecia antica costituita sulla «democrazia dei padroni»[39], per poi passare per la formazione prima e il crollo poi dello Stato romano, la comparsa delle religioni di eredità giudaica come «religioni semi-storiche»[40] il cui «tempo è orientato in blocco verso un unico avvenimento finale: “Il regno di Dio è vicino”»[41]. Il Medioevo e la società feudale segnano l’ingresso di un tempo irreversibile, in cui il potere terreno divide «il dominio della società fra la Chiesa e il potere statale»[42]. Niente trova progresso fino al Rinascimento, momento in cui subentra il tempo sì irreversibile ma della borghesia, «la prima classe dominante per cui il lavoro sia un valore», tanto che è attorno «al tempo del lavoro» che la borghesia ruota facendo «del progresso del lavoro il proprio progresso»[43]. Ovviamente non il lavoro inteso come attività genericamente necessaria ovvero, come in Marx, lo scambio organico tra uomo e natura nello sviluppo delle proprie capacità, ma bensì come categoria meramente capitalistica e che Debord ha sempre rifiutato. In conclusione «con lo sviluppo del capitalismo, il tempo irreversibile è unificato su scala mondiale»[44] e «il tempo irreversibile della produzione è anzitutto la misura delle merci»[45], un «tempo delle cose»[46] a cui si è sottomessi, estraniando il proprio vissuto e snaturandolo di significazione, perpetuandolo nella sola contemplazione di momenti ripetitivi e uguali tra loro laddove l’unica peculiarità a cambiare è solo il quantitativo. Il tempo spettacolare per Debord è mero tempo-merce e tempo-consumo e l’opposizione che il parigino porta avanti tra la vita e l’economia, come fa notare Jappe, è «ancora più forte che in Marx»[47], così come rispetto ad altre intere generazioni di altri critici (o pseudo-tali) dell’esistente, tanto da scrivere che «là dove c’era l’es economico deve venire l’io»[48] in una riappropriazione totale della propria vita, non più separata o astratta, né alienata né delegata, e che quindi ritrova finalmente in se stessa il proprio senso.

In conclusione, a prescindere dai concetti e dalle categorie hegeliane in sé, la figura di Hegel è citata più volte lungo tutte le tesi de La società dello spettacolo tanto che sorprende che, ancora oggi, non si riesca a cogliere l’influenza esercitata sul teppista parigino; addirittura un passo sull’autocoscienza, tratto dalla Fenomenologia, è riportato come epigrafe in apertura del IX e ultimo capitolo del libro, «L’ideologia materializzata», lo stesso in cui lo spettacolo debordiano è presentato come «l’ideologia per eccellenza» che basa se stesso sull’«impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale» e, per comprendere come lo spettacolo si estenda «a tutta la vita sociale», Debord si avvale per l’ultima volta di un insegnamento del filosofo dello Spirito, attraverso quel principio in cui, secondo lo stesso, poteva essere racchiuso il senso del denaro, del bisogno, del lavoro: «la vita di ciò che è morto, moventesi in se stesso»[49].

Ritornando alla lettera a Salvadori in apertura del presente articolo, non solo Debord si è scoperto dialettico, ma ha anche attraversato tutta la propria vita facendo tesoro di questa consapevolezza ed è in ogni suo gesto o scelta che ha sempre cercato di assumere lo sguardo della nottola di Minerva. Nel programma situazionista i concetti di realizzazione della filosofia o di superamento dell’arte devono essere letti all’interno di quell’ottica hegelo-marxista la quale, se non si coglie pienamente, può palesare in Debord un certo alone di mistero o peggio misticismo che, invece, non ha mai avuto. Lo stesso vale per la lettura de La società dello spettacolo. In una lettera indirizzata ad Annie Le Brun del 26 settembre 1988, Debord scriveva, rispetto al concetto di «dépassement de l’art», dell’importanza «del concetto hegeliano dell’Aufhebung», secondo Hegel designante sia l’annullare che l’elevare e, infine, l’innalzare rendendo di nuovo mobile qualsiasi determinazione fissa per cui questo processo «è, a un tempo, un negare e un conservare»[50] o, secondo Debord, un «superare e un conservare “cessando di essere percepiti contraddittoriamente”».

Se «lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire», Debord ha colto queste contraddizioni limitanti anche grazie all’approccio della lettura hegeliana sul mondo, per poi cederci lui stesso quella famosa cassetta degli attrezzi (da applicare in divenire radicalmente conflittuale) che può esserci utile contro «lo spettacolo» stesso, distruggendolo in quanto «guardiano di questo sonno»[51] tormentato e tormentoso, facendo così di quest’ultimo fine (hegelianamente «l’unità che connette il momento dell’attività con il momento di ciò che viene attuato»[52]) la ragione ricomposta (hegelianamente «l’agire in conformità a un fine»[53]) che si contrappone all’unità frammentata del mondo spettacolare. A noi la scelta, se utilizzarne gli strumenti oppure no. Svegliarsi o meno non è assolutamente un fatto scontato.


NOTE
[1] Per la corrispondenza di Guy Debord faccio sempre riferimento agli otto volumi delle sue lettere, pubblicati da Fayàrd tra il 1999 e il 2010, e ancora mai tradotti o editi in altre lingue. Ogni traduzione riportata è quindi sempre mia.
[2] Il corsivo è mio, e le parole sono volutamente lasciate in francese per far comprendere il fraintendimento tra Debord e Salvadori. Infatti dialectiques è tutto quello che riguarda la dialettica in sé, mentre dialecticiens, questa forma che Debord nella lettera presenta come «volutamente forte», indica colui che pratica la dialettica. Nella forma italiana di operai dialettici o, per esempio al singolare (per meglio farsi capire dal lettore e dalla lettrice) operaio dialettico, Debord non coglieva la differenza (in francese linguisticamente ben definita) tra la dialettica e colui che la pratica.
[3] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2013, §75, pp. 89-90.
[4] Ho affrontato meglio la questione in: cfr. A. Kaveh, Guy Debord e l’eredità dello spettacolo. Da Marx a Lukács, plagiatore o teorico?, Il Rasoio di Occam (Micromega), 12.6.2020.
[5] T. Bunyard, Debord, Time and History, Historical Materialism Book Series, Brill, London, 2011, p. 14, nota 75. (Traduzione mia)
[6] «Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento, e in definitiva dalla sua epoca […]. Il détournement è il linguaggio fluido dell’anti-ideologia. Esso appare nella comunicazione che sa di non poter pretendere di detenere alcuna garanzia in se stessa e definitivamente. […] Il détournement non ha fondato la sua causa su nulla di esterno alla sua pura verità come critica presente», in: G. Debord, op.cit., §208, pp. 174-175.
[7] Ivi, §9, p. 55.
[8] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano, 2006, p. 95.
[9] G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Einaudi, Torino, 1975, vol. II, p. 654.
[10] G.W.F. Hegel, op.cit., p. 131.
[11] G. Debord, op.cit., §204, p. 173.
[12] Ivi, §205, p. 173.
[13] G.W.F. Hegel, op.cit., p. 301.
[14] G. Debord, op.cit., §206, p. 173.
[15] A. Jappe, Guy Debord, Manifestolibri, Roma, 1999, p. 158.
[16] G. Debord, op.cit., §206, pp. 173-174.
[17] A. Jappe, op.cit., p. 158.
[18] Per esempio nelle figure che, come Foucault, Deleuze, Guattari, Lyotard, saranno la chiave di lettura del postmodernismo, e di quello strutturalismo che Debord definisce «incubo freddo» e che critica in quanto «il punto di vista da cui si pone il pensiero anti-storico dello strutturalismo è quello dell’eterna presenza di un sistema che non è mai stato creato e che mai finirà», spodestando così il soggetto e riconducendo erroneamente la forza motrice della storia alle sole strutture, quasi come fossero imposte inconsciamente «su ogni prassi sociale». Debord definisce lo strutturalismo «un pensiero universitario di quadri medi, presto appagati, pensiero interamente calato nell’elogio meravigliato del sistema esistente», dunque un’analisi e una critica non conflittuale, e che «riconduce piattamente ogni realtà all’esistenza del sistema»; in: G. Debord, op.cit., §201, p. 171. Secondo Debord invece «il soggetto della storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco» (§74, p. 89) e, in linea alla tendenza marxista del suo tempo «il pensiero della storia» diviene «pensiero pratico» attraverso «la pratica del proletariato come classe rivoluzionaria» e antagonista che si costituisce come «coscienza storica operante sulla totalità del suo mondo» (§78, p. 91); questa praxis si realizza, secondo Debord, solo nel potere consiliarista, questo perché è nei Consigli che «il movimento proletario è il proprio prodotto, e questo prodotto è il produttore stesso. […] Là soltanto la negazione spettacolare della vita è negata a sua volta», (§117, p. 120).
[19] Tuttavia, come emerge dalle schede di lettura di Debord depositate alla Bibliothèque Nationale de France, in un quaderno segnato dalla dicitura «Philosophie et sociologie», si possono leggere dei suoi appunti approfonditi non solo su Freud (di cui comunque si possono trovare due détournement alle §21 e §52, oltre che una citazione diretta alla §51) ma anche su Herbert Marcuse e Wilhelm Reich.
[20] G. Debord, «La société du spectacle», in: Id, Opere cinematografiche, Bompiani, Milano, 2004, p. 93. Ripreso da: G. Debord, op.cit., §76, p. 90.
[21] H. Lefebvre, Il materialismo dialettico, Einaudi, Torino, 1948, p. 43.
[22] G. Debord, op.cit., §76, p. 90.
[23] Ivi, §80, p. 92.
[24] K. Korsch, Karl Marx, Laterza, Bari, 1970, p. 201.
[25] G. Debord, op.cit., §79, p. 91.
[26] «La cultura si è staccata dall’unità della società del mito, “allorché il potere di unificazione scompare dalla vita degli uomini e gli opposti hanno perduto la loro relazione e interazione vivente, e sono diventati autonomi…”», in: Ivi, §180, p. 161.
[27] A. Jappe, op.cit., p. 29.
[28] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano, 1974, p. 183.
[29] A. Jappe, op.cit., p. 55.
[30] G. Debord, op.cit., §78, p. 91.
[31] Ivi, §125, p. 125.
[32] G. Lukács, Il giovane Hegel, op.cit., p. 650.
[33] G. Debord, op.cit., §81, p. 93.
[34] Ivi, §147, p. 141.
[35] Ivi, §161, p. 146.
[36] A. Jappe, op.cit., p. 45.
[37] G.W.F. Hegel, op.cit., p. 1055
[38] G. Debord, op.cit., §132, p. 129.
[39] Ivi, §134, p. 130.
[40] Ivi, §135, p. 130.
[41] Ivi, §136, p. 131.
[42] Ivi, §137, p. 132.
[43] Ivi, §140, p. 134.
[44] Ivi, §145, p. 137.
[45] Ivi, §146, p. 137.
[46] Ivi, §142, p. 135.
[47] A. Jappe, op.cit., p. 46.
[48] G. Debord, op.cit., §52, p. 74.
[49] Ivi, §215, p. 180. La frase di Hegel è: «una vita del morto moventesi in sé», in: G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Laterza, Bari, 1984, p. 61.
[50] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op.cit., p. 189.
[51] G. Debord, op.cit., §21, p. 59.
[52] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, op.cit., p. 373.
[53] Ivi, p. 71.

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Eros Barone
Sunday, 25 October 2020 00:22
Nel campo dell'uso euristico delle categorie hegeliane, praticato da Guy Debord, direi che un posto epistemologicamente e politicamente centrale spetta alla categoria del 'riconoscimento' (in anticipo, sotto questo profilo, sullo stesso Axel Honneth, cui si deve nel nostro periodo lo sviluppo più significativo di tale categoria). E' grazie ad essa che Debord ha potuto tematizzare ed approfondire quel micidiale processo di estetizzazione della politica, così lucidamente individuato da Walter Benjamin, che non a caso aveva richiesto, per contrastarlo, la politicizzazione dell’arte. Un processo che continua a svolgersi sotto i nostri occhi, moltiplicato ed esteso dagli odierni 'mass media', un processo che risponde a un disegno di colonizzazione delle menti lucidamente indicato nell’epigrafe che Debord mutuò da Feuerbach e premise al suo saggio sulla "età dello spettacolo”: «E senza dubbio il nostro tempo...preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere... Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi il sacro s’ingigantisce ai suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo dell’illusione è anche per esso il colmo del sacro». Debord è stato un grande analista dell'ideologia contemporanea, tanto che può essere paragonato per certi versi ad Antonio Gramsci, alle cui indagini fornisce utili complementi e opportune integrazioni. Entrambi hanno applicato una lente filosofica di chiara estrazione hegelo-marxista al processo economico di materializzazione dell’ideologia. Si legga questo passo della "Società dello spettacolo" per averne la prova: "Ciò che l’ideologia era già, la società lo è divenuta. La perdita di contatto con la prassi, e la falsa coscienza antidialettica che l’accompagna, è appunto quanto viene imposto ad ogni momento della vita quotidiana sottomessa allo spettacolo; e che bisogna comprendere come un’organizzazione sistematica della 'perdita della facoltà di incontro', e come la sua sostituzione con un fatto allucinatorio sociale: la falsa coscienza dell’incontro, l’'illusione dell’incontro'. In una società in cui nessuno può più essere riconosciuto dagli altri, ogni individuo diviene incapace di riconoscere la sua propria realtà. L’ideologia è a casa propria; la separazione ha edificato il suo mondo". In effetti, depurata dei suoi aspetti politicamente caduchi (l'antisovietismo e l'anticomunismo di matrice anarchica), l'opera di Debord può prestarsi ad un 'uso parziale alternativo' e rivelarsi efficace e puntuale per la critica e la demistificazione di quella gigantesca sovrastruttura del capitalismo monopolistico che è l'attuale "società dello spettacolo integrato".
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