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sbilanciamoci

I rischi della guerra economica Usa-Cina

di Vincenzo Comito

La guerra economica tra Stati Uniti e Cina è partita il 6 luglio. Potrebbe riguardare, tra dazi, controdazi e perdita di produzioni, qualcosa come mille miliardi di dollari e portare a una recessione mondiale

Trump Xi Afp U20437914565LwB 835x437IlSole24Ore WebLa guerra economica tra Stati Uniti e Cina, nell’ambito di una offensiva commerciale più vasta scatenata da Trump contro quasi tutto il resto del mondo, è dunque partita davvero, il 6 luglio, nonostante lo scetticismo e l’incredulità di molti.

Sull’argomento sono state scritte molte migliaia di pagine e sono state dette moltissime cose. Cercheremo quindi di concentrare la nostra attenzione, per la gran parte, su alcuni degli argomenti meno esplorati dai media.

 

Le motivazioni di Trump

Ci si è a lungo interrogati sulle ragioni di queste iniziative di Trump.

La spiegazione ufficiale fornita dal presidente è quella che sono presenti degli squilibri inaccettabili nella bilancia commerciale del Paese con la controparte asiatica, mentre per di più le imprese cinesi rubano con la frode o con contratti iniqui le tecnologie americane, mentre intanto le imprese Usa vengono bloccate nei loro tentativi di penetrazione del mercato cinese e mentre infine la Cina sostiene con grandi aiuti statali lo sviluppo delle nuove tecnologie da parte delle imprese locali.

Ma queste motivazioni non sembrano tenere conto, tra l’altro, del fatto che circa il 50% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono fatte da imprese statunitensi e che, più in generale, oggi le catene del valore dei singoli prodotti sono molto complesse e che spesso la loro produzione tocca oggi anche 10-20 Paesi.

Per altro verso e più in generale, come ci ricorda Paul Krugman (Krugman, 2018), Trump e soci fanno affermazioni sugli effetti delle loro politiche che non hanno alcun riscontro nella realtà: Trump inventa cose di sana pianta e i suoi consiglieri di solito raccontano trionfi economici immaginari.

In realtà al di là delle dichiarazioni ufficiali (alcune delle quali analizzeremo più avanti) si intravedono almeno due altre motivazioni forti nel comportamento di Trump.

La prima è quella che gli Stati Uniti, la potenza sino a ieri fortemente egemone, non vuole rassegnarsi all’ascesa di una potenza alternativa, la Cina, che ha già superato le dimensioni del Pil Usa – almeno utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto – , nonché i volumi del suo commercio estero, mentre il Paese va avanti velocemente nel suo inseguimento degli Usa nel settore delle tecnologie avanzate, anche se ancora, in alcuni settori, quali i chip e la produzione di aerei civili, il percorso da fare appare abbastanza lungo. Ma la crescita del Paese sembra ormai inarrestabile.

Da questo punto di vista, il problema della lotta per non perdere il dominio del mondo sarebbe venuto fuori inevitabilmente, magari in forme diverse, anche con una presidenza Hillary Clinton. Nessuna grande potenza ha mai accettato pacificamente la perdita del primato, se non in circostanze eccezionali, come è stato nel Novecento per la Gran Bretagna, che ha dovuto cedere il potere agli Usa per forza maggiore con la seconda guerra mondiale.

Siamo ad un punto cruciale e delicato nella storia, quando una potenza è in declino e un’altra sta plausibilmente prendendone il posto, in un più vasto processo in atto di “orientalizzazione” del mondo. E’, tra l’altro, noto che nel 2017 i Paesi emergenti, utilizzando sempre il criterio della parità dei poteri di acquisto, hanno prodotto quasi il 60% del Pil mondiale, con una tendenza a un’ulteriore, rapida crescita di tale valore.

Ma sembra che nessuno negli Stati Uniti, almeno sino ad oggi, sia riuscito a trovare un rimedio adeguato a questo andamento e forse in effetti un rimedio non c’è.

La seconda motivazione di Trump, di tipo più congiunturale, sembra essere quella che, attraverso anche toni patriottici esasperati, egli cerca di guadagnare dei consensi nell’elettorato in vista delle elezioni di medio termine a novembre e delle prossime elezioni presidenziali. Quest’ultima motivazione contribuirebbe forse a spiegare anche perché, invece di prendersela con la sola Cina, il presidente attacca anche i suoi alleati più fedeli, con minacce in qualche modo analoghe.

Ma chissà. Noi cerchiamo sempre di trovare delle risposte razionali a quello che accade, ma a volte quelle vere sono di tipo diverso.

 

La reazione cinese

Si può alla fine sostanzialmente valutare che il colpo da 50 miliardi di dollari che Trump vuole infliggere alla Cina tassando le sue merci per tale valore può essere peraltro abbastanza da quest’ultima facilmente parato.

Nell’ambito di una politica quadro in atto da tempo nel Paese, volta a ridurre fortemente il peso delle esportazioni verso gli Stati Uniti, la Cina può far fronte al problema in molti modi: 1) svalutando la moneta, azione che sembra già in atto; 2) trasferendo degli impianti e delle lavorazioni in Paesi limitrofi, processo che è peraltro in corso da molti anni (si guardi cosa sta accadendo ad esempio nel settore dell’acciaio Feng, 2018); 3) truccando la nazionalità vera dei prodotti, facendoli transitare da un altro Paese; 4) limando i costi e i profitti; 5) spingendo le esportazioni verso altre aree; 6) concentrandosi di più sul mercato interno, anche con opportuni stimoli pubblici; 7) diversificando le produzioni al livello delle singole imprese. E forse abbiamo dimenticato qualcosa.

Per altro verso, gli americani minacciano di tassare merci cinesi sino a 500 miliardi di dollari. Il loro ragionamento sembra essere a questo proposito quello che dal momento che le esportazioni Usa verso la Cina sono solo di 130 miliardi, gli asiatici si troveranno in grande difficoltà nel rispondere a tale mossa. A parte che questo tipo di analisi dimentica i servizi, settore nel quale gli Usa esportano in Cina ogni anno per 50 miliardi di dollari, Trump e i suoi improbabili consiglieri non considerano che la Cina potrebbe bloccare progressivamente le attività delle imprese americane nel Paese, che valgono molte centinaia di miliardi di dollari, frenare ancora di più le attuali esportazioni Usa alzando a livelli ancora più elevati le tariffe e bloccando eventualmente i prodotti sotto mille pretesti tecnici; inoltre può sempre bloccare gli acquisti di titoli pubblici Usa e l’arrivo nel Paese di studenti e di turisti cinesi.

Non va peraltro dimenticato che oggi la Cina è in generale molto meno dipendente di una volta dalle esportazioni: quelle nette toccano ormai soltanto il 2% del reddito nazionale.

 

L’analisi dell’Economist

Ma esaminiamo ora da una parte le proteste delle imprese americane che pensano di essere discriminate dal Paese asiatico, mentre dall’altra ricordiamo cosa si insegna la storia per quanto riguarda il furto delle tecnologie.

Il settimanale The Economist, in un suo numero recente (Schumpeter, 2018), ha esaminato la consistenza delle lamentele del governo e delle imprese statunitensi sul presunto trattamento iniquo da parte della Cina verso le proprie imprese.

Intanto, le imprese cinesi vendono negli Stati Uniti quasi esclusivamente attraverso esportazioni, che sono state pari a 506 miliardi di dollari nel 2017. E’ vero che le aziende americane hanno esportato nello stesso anno in Cina solo 130 miliardi circa, ma – sottolinea l’Economist – se aggiungiamo le vendite fatte dalle stesse imprese attraverso le loro sussidiarie otteniamo una cifra che si aggira intorno ai 450-500 miliardi di dollari. Per altro verso, la quota di mercato aggregata delle imprese americane in Cina è del 6%, circa il doppio di quella delle imprese cinesi in Usa.

Se poi consideriamo la bilancia dei servizi, scopriamo uno squilibrio specifico a favore degli Usa che si aggira, come già accennato, intorno ai 50 miliardi di dollari annui.

Su un altro piano, per le imprese Usa le vendite in Cina sono cresciute del 12% all’anno dal 2012 in poi, mentre quelle delle imprese locali del 9% e quelle delle aziende europee del 5%. Queste cifre mostrano che non è vero che le imprese statunitensi ottengono risultati peggiori delle imprese locali e di altre multinazionali.

Per quanto riguarda il fatto che le società statunitensi (da Alphabet a Facebook, a Netflix) siano escluse in Cina da alcuni settori, questo appare indubbiamente un fatto vero, ma la stessa cosa si può dire per le imprese cinesi in Usa.

Alle considerazioni dell’Economist si potrebbe aggiungere il punto che se si comparasse il livello degli investimenti diretti delle imprese Usa in Cina e quelli degli investimenti cinesi in Usa, si riscontrerebbe una netta differenza negli importi a favore di quelle statunitensi.

 

La storia

Trump insiste sul fatto che i cinesi copiano, con mezzi a volte solo formalmente legali e a volte chiaramente fraudolenti, le tecnologie occidentali. E c’è certamente del vero in questo, ma si potrebbe ricordare che si tratta di una pratica comune in tutta la storia dell’economia e che i tentativi di ostacolarla non ottengono di solito grandi risultati.

Così, ad esempio, nella Firenze del Medioevo si sorvegliavano strettamente le tecnologie per la lavorazione della seta, sulle quali la città aveva il monopolio e si minacciava la pena di morte a chi cercava di esportarle verso altri lidi. Ciò non impedì ad alcuni artigiani fiorentini, ben pagati, di emigrare in Francia e di installarvi la lavorazione. Una cosa per molti versi simile si verifica a Venezia qualche secolo dopo per la lavorazione dei grandi specchi, tecnologia ancora più complessa, che i francesi riescono a rubare comprando i servizi di qualche artigiano italiano.

Dopo la rivoluzione industriale britannica gli Stati Uniti riuscirono a far decollare il loro settore industriale soprattutto grazie all’iniziativa di F.C. Lowell, che avviò a Boston la prima importante fabbrica tessile oltre Atlantico, essendosi impossessato, durante un viaggio in Gran Bretagna, nel 1813, del know-how relativo e avendo trafugato clandestinamente il progetto del telaio a vapore. Ma Trump, come del resto, per sua stessa ammissione, il nostro sottosegretario leghista alla cultura, non legge molti libri.

In epoche più recenti, il fenomeno si diffonde e anche lo sviluppo industriale italiano, in particolare nel secondo dopoguerra, attingerà abbondantemente alle tecnologie straniere, in particolare a quelle tedesche e statunitensi.

Uno dei problemi degli Stati Uniti appare poi quello che da tempo i cinesi, che sono forse i più grandi inventori di tecnologie nella storia dell’umanità, non si limitano a copiare quelle occidentali, ma hanno una produzione propria in un numero di settori sempre più ampio ed è forse questo che paventano soprattutto gli Stati Uniti e che cercano (noi pensiamo del tutto vanamente) di bloccare.

 

Conclusioni

Considerando anche il contenzioso in atto con l’Unione Europea, il Nafta (area in cui i commerci Usa sono più importanti di quelli con la Cina) e altri paesi sviluppati, facciamo potenzialmente riferimento ad almeno 1.000-1.500 miliardi di dollari di scambi oggi in discussione. Molti pensano e sperano che Trump non oserà avanzare ancora su tale terreno, cosa che porterebbe gravi conseguenze al suo Paese e all’economia mondiale, con la minaccia, tra l’altro, di una grave recessione planetaria; ma non è detto.

Molti ricordano a questo proposito che l’America non è progettata per l’autarchia, non è attrezzata per produrre in casa i beni che consuma. Il riadattamento a questo nuovo quadro sarebbe molto lungo e pieno di difficoltà e sofferenze, mentre il consumatore ne soffrirebbe fortemente.

In ogni caso si tratta di una battaglia che gli Usa non possono vincere. Certamente ci possono alla fine perdere tutti. Non ci saranno forse vincitori, ma se ne dovesse emergere uno, potrebbe essere semmai la Cina, che potrebbe risultare, dopo la crisi, come la nuova leader economica del mondo.


Testi citati nell’articolo
-Feng E., China steelmakers shift focus to south-east Asia, www.ft.com, 24 giugno 2018
-Krugman P., Commercio mondiale in tilt anche per le fake news di Trump, Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2018
-Schumpeter, Raging against Beijing, The Economist, 30 giugno 2018

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Paolo Selmi
Wednesday, 25 July 2018 17:40
PS sull'ultima osservazione, quella dell' "ipse dixit", cito il cristianesimo. Ovviamente, non intendo la religione cristiana tout court. Così come il suo fondatore, per sepolcri imbiancati, accusando i farisei di esserlo, non intedeva l'ebraismo tout court. Indico, invece, un comportamento antropologicamente molto diffuso a tutte le latitudini del pianeta: quando la Parola diventa Libro, è quindi codificata in un Classico, esistono custodi dell'Ortodossia che applicano l'IPSE DIXIT, in genere per mantenere il potere costituito. Ogni tanto escono poi fuoir altri, che applicano anche loro l'IPSE DIXIT, per metterlo in discussione. E inizia la battaglia. E' valso per le religioni, rivelate e non, è valso per le ideologie.
Mao accusava i suoi oppositori di avere "atteggiamenti libreschi" quando non aveva altri argomenti da opporre alle critiche, marxistiche, che gli erano poste. E all'epoca non c'era ancora Mosca a "pressare", e faceva il bello e cattivo tempo a Yan'an. Cinque anni dopo, non mezzo secolo, i primi volumi delle sue Opere scelte (Mao Zedong Xuanji 毛泽东选集) furono COMPLETAMENTE riscritti da amanuensi che li corressero alla luce dei Classici (marxisti) che loro avevano letto e lui, suo malgrado, no, dal momento che il Timoniere, capo di un partito se-dicente comunista, fratello minore del grande fratello (lao dage 老大哥) sovietico, non poteva scrivere argomenti antimarxistici. La stessa "sinizzazione del marxismo" (makesizhuyi de zhongguohua 马克思主义的中国化) fu lasciata in cantina fino alla fine dell'URSS e la questione fu bypassata dall'aggiunta, al CANONE, del PENSIERO DI MAO ZEDONG, insieme al marxismo leninismo. Fatta la legge, trovato l'inganno. Ogni capo successivo lasciava la propria traccia "teorica" sullo Statuto, il CANONE si allungava, e il peso specifico, ANCHE TEORICO, SPURIO, pourparler, del marxismo, diminuiva, depotenziato, ridotto a frasi stereotipate da citare per l'occasione, come, forse meno, dell'esame di teoria di scuola guida. Non ne faccio una colpa solo cinese: se i funzionari del PCUS fossero stati TUTTI ortodossi come quello che dichiaravano durante l'esame di marxismo-leninismo per l'ammissione nel partito (DUE ORE DI ESAME), l'URSS non sarebbe auto-implosa (распад).
Di nuovo un caro saluto.
Paolo
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Paolo Selmi
Wednesday, 25 July 2018 16:03
Caro Mario,
ti rispondo per i punti più importanti
- il libero mercato non esiste da nessuna parte, nemmeno nel paese più neoliberistico, anzi (vedasi guerra dei dazi e non solo). Controllare il libero mercato non è segno di "socialismo".
- La Huawei si auto-considera "privata" perché non statale, di fatto lo è in quanto la sua natura "cooperativa" assomiglia tanto alle "cooperative" che hanno in subappalto la movimentazione merci nei magazzini aeroportuali a malpensa. Qui una spiegazione approfondita:
https://www.cambridge.org/core/journals/asian-journal-of-comparative-law/article/transparency-and-opaqueness-in-the-chinese-ict-sector-a-critique-of-chinese-and-international-corporate-governance-norms/15ACF1C3AD8DDE0A7A60B34A99900509/core-reader
- Una nuova "nuova politica economica", un'altra cosa dalla "nuova politica economica", è meglio chiamarla con un altro nome.
- Il capitalismo monopolistico di stato è inteso in senso leninistico come fase ultima che prelude alla transizione al socialismo, non come fase di ulteriore affermazione del capitalismo. Per esempio, se invece di esportare capitali si investissero gli stessi (non le briciole) per dimezzare il coefficiente di Gini e togliere quegli 800 milioni di persone dalla miseria (nella fame, peraltro, ce li aveva lasciati Mao prima con il cosiddetto "balzo in avanti" e poi con la "rivoluzione culturale"), se non si sviluppassero a ogni costo tre borse (Shanghai Hong Kong Shenzhen) per togliere il posto a Wall Street, se non si accumulasse oro in misura maggiore di ogni altro Paese al mondo, forse i germi di un diverso modo di produzione si intravedrebbero. Quelli che non sussistono, neanche per errore, oggi, dove la appare in tutta la sua veemenza un un conflitto interimperialistico tra monopoli per la spartizione delle risorse del pianeta, lo ammetti tu stesso tra le righe.
- Qui non si parla di socialismo "ricco" o "francescano", qui si parla di socialismo come unica alternativa alla barbarie e alla distruzione del pianeta in cui viviamo. Un socialismo così, ne potrai convenire, non può permettere che la mia maglietta sia prodotta a 10.000 km di distanza, neanche se a produrla è il paese più socialista che sia mai esistito al mondo. IL MONDO E' IN VIA DI ESTINZIONE. LE PRIME 15 NAVI PORTACONTAINER INQUINANO COME TUTTI GLI AUTOVEICOLI MESSI INSIEME! E LA TENDENZA E' AL PEGGIORAMENTO (su questo ci ho già scritto, trovi tutto nelle puntate precendenti) Non è possibile andare avanti così. Non basta dire: pongo maggiore attenzione all'ambiente... occorre redistribuire produzione, ricchezze, lavoro in modo più equo in ogni regione del mondo, limitando il più possibile spostamenti inutili ed eliminando strutture di dipendenza. L'attuale politica estera cinese si muove, come l'imperialismo americano, in tutt'altra direzione.
- Il marxismo ridotto a citazioni selettive per avere un IPSE DIXIT su cui legittimare la propria azione politica del momento è lettera morta, come il cristianesimo, come tutti i sepolcri imbiancati che predicano in un modo e razzolano in un altro. Circa i "marxisti" cinesi, il primo libro di Marx XXI con gli atti del convegno organizzato a Roma sul "marxismo cinese" l'ho tradotto io, dalla prima all'ultima riga, quindi so benissimo chi parla e di che cosa. E' stata una prestazione professionale, quindi ti prego di non farmi aggiungere altro. Se vuoi proseguire, ti invito a scrivermi sul mio di posta elettronica.
Mi scuso per la brevità. Davvero, aspetto tue via mail.
Un caro saluto.
Paolo
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Mario Galati
Wednesday, 25 July 2018 13:37
Il capitalismo di stato può essere di due tipi: 1- controllo dell'economia e azione economica attraverso lo stato controllato dai capitalisti come classe economicamente e politicamente dominante. Intervento diretto dello stato dominato politicamente dai capitalisti nell'economia. Ossia, lo stato come capitalista collettivo, oltre che strumento di intervento sovrastrutturale nell'organizzazione economica; 2- settori di economia privata, mercantile o capitalistica all'interno di uno stato che non è controllato e dominato politicamente dai capitalisti. Ricordo le posizioni di Lenin e di Gramsci sulla NEP all'interno dello stato dei soviet.
In Cina si potrebbe parlare di capitalismo di stato nel secondo senso. Ma loro parlano di socialismo di mercato, un ossimoro forse solo apparente.
Nell'intervento di Galavotti intravedo qualcosa della sinofobia. C'è la paura di essere dominati dai cinesi, insieme alla loro implicita demonizzazione.
Paolo Selmi introduce molti elementi precisi, da studioso qual è. Io non ho elementi altrettanto precisi da contrapporre.
-Che la NEP fosse indirizzata alla produzione interna e che i nepmen non fossero capitalisti in grado di esportare capitale è vero. Tuttavia, parlare di nuova nep non significa asserire l'identità tra la nuova nep cinese e quella sovietica.
-Il settore pubblico dell'economia cinese ammonterebbe al 40% del PIL?. Non intendo contestare questo dato (avevo letto statistiche diverse). Però chiedo: la porzione di PIL riferibile ad aziende giuridicamente private, sotto forma di S.p.A., per es., ma economicamente in mano pubblica, cioè, le cui azioni siano di proprietà pubblica, è conteggiato nella produzione privata o in quella pubblica?
E la stessa Huawei non è forse una società cooperativa, di proprietà dei suoi dipendenti? In quale settore è conteggiata la sua produzione?
-La produzione cinese contribuisce ad aggravare la questione ambientale. Dunque, i cinesi devono abbracciare la decrescita per consentire a noi di continuare ad inquinare?
La Cina è consapevole di questi problemi, si sta già muovendo per cercare di contrastare il fenomeno e si trova anche all'avanguardia nelle tecnologie ambientali. Predicare un socialismo francescano ai cinesi, prima di aver risolto i nostri problemi produttivi e di consumi (risolvibili solo col socialismo), equivale soltanto a far loro un'ipocrita predica moralistica e a mantenerli in una condizione di inferiorità. O tutti, o nessuno.
Finchè il capitalismo occidentale ha il monopolio delle risorse, anche i mutamenti socialisti in questi paesi sviluppati sono impensabili, perchè il capitalismo ottiene il sostanziale consenso delle classi dominate dei paesi sviluppati alle spalle del resto del mondo "arretrato" (superprofitti coloniali o neocoloniali, creazione ideologica di un comune recinto "herrenvolk" tra classi superiori e classi inferiori). Ma anche mantenere il socialismo in un paese sottosviluppato è impensabile. In primo luogo per limiti interni (scarsità delle risorse) e in secondo luogo perchè la superiorità economica e tecnologica capitalistica è una minaccia per gli altri popoli.
Tutto ciò sta cambiando. E' un presupposto per l'unificazione delle condizioni mondiali e per la lotta per il socialismo. Ecco perchè penso che la "concorrenza" cinese e, in particolare, la "concorrenza" dei lavoratori cinesi con i nostri, sia positiva. Gioca a favore, non contro, la lotta mondiale per il socialismo. Almeno se guardiamo a tempi storici non immediati [L'URSS, in particolare l'URSS di Stalin, aveva elevato le forze produttive attraverso un'economia collettivizzata e pianificata, di segno socialista (ma pure il segno socialista dell'era di Stalin spesso è negato. Alcuni preferiscono parlare anche in questo caso di capitalismo di stato. Vorrei capire se per alcuni il socialismo può avere una dimensione storica e processuale o se esso può essere soltanto un ideale metastorico, utilizzato per negare ogni processo storico concreto). La Cina sta vivendo un'esperienza diversa in condizioni diverse, ma c'è una guida e una pianificazione-programmazione voluta e guidata da un partito comunista, che è ben altra cosa dal partito socialista craxiano].
-Paolo Selmi riconosce che il mercato in Cina è solo "apparentemente" libero. Ne prendo atto.
-Le riforme di Deng sono iniziate prima del crollo sovietico e, dunque, non possono essere la reazione alla mancanza di un campo socialista (tra l'altro, le relazioni sino-sovietiche non erano buone). Certamente è così. Ma la Cina ha reagito ad una situazione stagnante che non prometteva nulla di buono.
-Che ciò che fanno i cinesi e il suo partito comunista sia inedito e "revisionista" lo condivido. Anche Lenin fu avversato con motivazioni del genere per la NEP.
-In Cina sarebbe ormai operante un completo modo di produzione capitalistico e non ci sarebbe soltanto l'immissione di elementi di mercato? Sicuramente il settore privato capitalistico è molto ampio, ma il potere politico non appartiene ai capitalisti. Un modo di produzione è una totalità non solo economica, ma anche politica, giuridica, culturale, ecc, strutturale e sovrastrutturale. In Cina l'organizzazione economica, sociale e politica è contraddittoria, non lineare e coerente.
-La Cina non ha tolto 800 milioni dalla miseria ma soltanto dalla fame? Mi sembra un risultato apprezzabile.
-Dietro i fatti di Tien An Men c'era anche una lotta interna al partito comunista. E' verissimo. Lo stesso segretario del partito comunista, Zhao Zijang, se non erro, e settori del partito erano riferimento dei rivoltosi. E questi personaggi "riformisti" facevano a loro volta riferimento agli U.S.A., con i quali erano in contatto, come è stato dimostrato. Erano quelli più vicini alle posizioni liberali e filoccidentali, dunque, ancora più revisionisti. Costoro avrebbero consegnato anche il potere politico ai capitalisti e avrebbero disgregato la Cina. E' merito di Deng Xiao Ping e del resto del partito averli neutralizzati e sconfitti.
-Quanto al marxismo divulgato sotto forma di citazioni di classici, come da tradizione cinese, direi che è già un passo avanti nella divulgazione. Esiste comunque una comunità intellettuale marxista, la quale potrebbe pure insegnarci qualcosa e alla quale, penso, potrebbero insegnare qualcosa i marxisti occidentali e del resto del mondo. Sarebbe utile che si instaurassero un dialogo e uno scambio costanti.
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Enrico Galavotti
Wednesday, 25 July 2018 08:18
Tutti i paesi hanno diritto a sviluppare le loro forze produttive, ma che un partito comunista lo debba fare in senso capitalistico mi pare un'assurdità. In Russia son stati più coerenti: se proprio si vuol tornare al capitalismo, evitiamo le ipocrisie ideologiche. Certamente oggi è insensato sviluppare l'economia secondo le regole del socialismo statale, fallito miseramente, ma allora sarebbe meglio dire, guardando la Cina, che il socialismo non ha un'alternativa al proprio passato che non sia quella borghese. Noi comunisti però non dovremmo accettare una soluzione del genere solo perché pone un freno all'egemonia occidentale. Anzi ci dovrebbe preoccupare l'idea che il nostro capitalismo privato venga ereditato da un capitalismo statale che pare molto più efficiente e aggressivo del nostro e che può contare su una popolazione sterminata. Finiremo col diventare delle loro colonie.
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Paolo Selmi
Tuesday, 24 July 2018 23:34
Caro Mario,
provo a risponderti nel merito.

Rispondere alle scelte di politica economica cinese con la fine dell'URSS è anacronistico, visto che le riforme iniziano dieci anni prima della fine dell'URSS.

Su Tian an men ti rimando al mio lavoro che trovi sul sito di academia.edu. Nessuna rivoluzione colorata, all'epoca persino impensabile (non che oggi lo sia, peraltro), solo lotta interna fra due fazioni di partito. Nel mezzo, studenti vittime di un massacro. Può piacere o no, ma così è andata.

Nessuno parla di non sviluppare le forze produttive, ma di svilupparle in senso socialistico e non capitalistico. Come diceva Magda Abbiati, che ho avuto la fortuna di avere come professoressa di lingua cinese, 社会主义的建设 non va tradotto con "l'edificazione del socialismo" ma "l'edificazione socialistica". Il socialismo della miseria non lo voleva neppure Mao, anche se poi ha prodotto un comunismo da caserma o, come dicevano i sovietici, .

La Cina NON ha tolto 800 milioni di persone dalla miseria, vivendo la maggiorparte delle persone con al massimo 3.000 euro all'anno, le ha tolte dalla fame e le ha lasciate un gradino più in su, con un coefficiente di Gini del 40% (dati loro) e con differenze che si ampliano fra i più ricchi e i più poveri, preferendo allocare le proprie risorse in altri settori, in maniera del tutto coerente col capitalismo monopolistico di stato che promuove da prima potenza al mondo quale è.

Questo processo è stato possibile con il modo di produzione capitalistico con cui tutte le sue imprese, statali e non, funzionano, non con l'immisione di elementi capitalistici e neppure "di mercato" (quello lo aveva fatto l'URSS di Breznev e gli avevano dato tutti del revisionista... si vede che era colpa delle sopracciglia)

La NEP non c'entra nulla, non era proiettata all'estero con l'esportazione di capitali e con l'acquisizione di mercati. Per favore, questo no.

Gli imprenditori si lamentano e TENCENT, HUAWEI e ALIBABA dettano la linea ai congressi del partito. Anzi, l'ultima è coinvolta direttamente in quella cosa vergognosa che si chiama "sistema di credito sociale" (社会信用体系) dove questo discorso a me e a te (perché coinvolto direttamente da me) sarebbe costato la scomunica.

Il settore privato concorre al 60% del PIL (ti recupero il dato se vuoi)

Sul credito ti rimando alle prossime puntate, ci arriviamo, insieme alla borsa.

La libertà d'impresa è invocata, a parole, dagli stessi dirigenti del partito.

sulla torta delle risorse mondiali, a un comunista dovrebbe spiacere che capitalisti di ogni dove stanno rovinando il pianeta e lo stanno riducendo a una pattumiera.

Sul dominio yankee, ha fatto più la Russia di Putin (che non è comunista) che la Cina di Xi (che si dice comunista)

Anche Craxi era il risultato di un secolo di tradizione socialista nel nostro Paese...

Sul "tradimento" della rivoluzione, chi dice tutti traditori è qualunquista come chi dice tutti ladri. Sul concetto di "traduzione" e "tradimento" ci ho speso quattro anni di lavoro. Scusami ma ti rinvio alla mia tesi.

Sul marxismo nelle università cinesi, non esiste facoltà dove questa materia sia ridotta alla ripetizione meccanica di formulette e citazioni dai CLASSICI, il che è fondamentale in una cultura, come quella cinese, che si basa sui CLASSICI. I testi di economia aziendale, gestionale e commercio sono americani tradotti.

Non mettiamoci a fare classifiche sui diritti umani. Non osa farlo più nemmeno Trump. Nel primo mio lavoro qui pubblicato cito questo scambio di battute fra il senatore dem Kaine e Mike Pompeo:
Tim Kaine: "If we embrace the regime change in other nations, we can hardly say 'but this is something only the US gets to do.' If we say it is an acceptable foreign policy goal for us, other nations conclude it is an acceptable foreign policy goal for them." (se noi abbracciamo l’idea di cambiare regime in altre nazioni, non possiamo affermare che “solo gli USA possono farlo”. Se diciamo che per noi è un obbiettivo di politica estera accettabile, altre nazioni potrebbero fare altrettanto).
Mike Pompeo: “This [US] is a unique, exceptional country. Russia is unique, but not exceptional. ” (Questo (gli USA) è un Paese unico ed eccezionale. La Russia è unica, ma non eccezionale)

Cosa impedisce alla classe lavoratrice occidentale di fiorire e di sviluppare il suo autentico socialismo? Nulla e tutto, Di sicuro non lo erano URSS e non lo è la RPC, ma un mezzo secolo abbondante di quello che qualcuno chiamava "riflusso"... occorre lavorare, e molto.

E' da vent'anni che lavoro con i cinesi, che studio Cina, URSS e osservo dinamiche purtroppo da molto vicino. Quello che scrivo è tutto meno che "giudizi sommari e scomuniche affrettate". Cercherò di dimostrarlo nelle prossime puntate. Ci sono ancora circa 50 pagine non pubblicate e altre su cui sto lavorando in questi orari barbari.

Scusami per la sbrigatività, se hai dubbi specifici non la pubblico qui ma la mia mail la trovi sul CV di academia.edu, così almeno spero cada poco preda di spam. c'è anche il mio telefono. Un affettuoso abbraccio da compagno a compagno e un grazie per tutti gli stimoli della ultima tua.

Ciao!
Paolo
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Mario Galati
Tuesday, 24 July 2018 19:11
Dimenticavo di precisare che l'annuncio dei salari cinesi al livello portoghese e di altri stati europei è stato dato in alcuni articoli di quotidiani occidentali.
Ma che vi sia stato un netto miglioramento salariale e di tenore di vita è un fatto incontestato.
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Mario Galati
Tuesday, 24 July 2018 19:04
Fatti di Tien An Men, ovviamente.
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Mario Galati
Tuesday, 24 July 2018 19:02
L'URSS non c'è da quasi 30 anni. C'era soltanto un campo capitalistico e imperialistico in grado di disintegrare e sottomettere la Cina (hanno provato la spallata con i fatti di Town Am Men, ma non ci sono riusciti. O qualcuno appoggia il dirittumanismo dei colpi di stato delle rivoluzioni colorate?). Una Cina che non sviluppa le forze produttive non può reggere. Non esiste un socialismo della miseria, soprattutto se ti trovi in un mondo con un nemico più forte pronto a distruggerti.
La Cina ha sviluppato le forze produttive, ha acquisito tecnologia, ha tolto dalla miseria circa 800 milioni di persone. Dispiace questo fatto?
Questo processo è stato possibile con l'immissione di elementi capitalistici. E allora? Il partito comunista ha il potere politico saldamente in mano e guida questi processi. Non si può fare il paragone con la NEP? Non sarei così sicuro. Intanto gli imprenditori lamentano l'intrusione e il controllo del partito comunista nelle loro imprese. Inoltre, il settore pubblico è prevalente, il credito è pubblico. Qualcuno è forse per la libertà d'impresa e rimprovera questo fatto?
La Cina ha rotto il monopolio economico occidentale. La torta delle risorse mondiali non è più a nostra esclusiva disposizione. Dispiace anche questo fatto?
La Cina ha posto fine anche all'egemonia geopolitica USA. Era preferibile il dominio assoluto e incontrastato dell'imperialismo yankee?
La Cina e il suo partito comunista sono il risultato della rivoluzione socialista e anticoloniale. Invece di esserne orgogliosi, vogliamo ricorrere alla frusta categoria del tradimento?
Quando si guarda alla lunga transizione storica postrivoluzionaria, alla fase del consolidamento e dell'edificazione, difficile, contorta, contraddittoria, imprevedibile nelle direzioni che assume lo sviluppo storico, la rivoluzione risulta sempre "tradita". Si pensa alla lotta di classe come ad un cammino lineare e cristallino di forze disposte in campi nettamente separati, che risolvono il problema del potere una volta per tutte e generano immediatamente e automaticamente la loro propria organizzazione sociale.
Secondo queste schematiche e astratte letture, non solo i cinesi, Stalin e l'URSS hanno tradito, ma persino Lenin.
Xi Jin Ping ha introdotto corsi di marxismo come materia obbligatoria nelle università. Non rispetta la libertà scientifica? Forse qualcuno preferisce l'espulsione e la messa al bando del marxismo dalle università del mondo "libero" occidentale, l'adozione del catechismo neoliberista e la pappetta ideologica liberale, in tutte le sue sfumature e varianti (che osano chiamare pluralismo)?
La litania dei diritti umani è la stessa recitata un tempo per l'URSS, quando in USA vigeva pienamente e formalmente la segregazione razziale. In Cina è stato redatto un dossier sulla violazione dei diritti umani in USA. Potrebbe essere istruttivo dargli un'occhiata.
L'URSS è caduta, la Cina ha tradito il socialismo. Allora, tolti di mezzo questi equivoci storici, cosa impedisce alla classe lavoratrice occidentale di fiorire e di sviluppare il suo autentico socialismo?
Io non sono sicuro che il risultato del processo cinese sia il consolidamento del socialismo, o che non sfugga di mano sino alla completa restaurazione capitalistica. Ma non accolgo le sentenze anticipate.
Fuor di polemica, ogni analisi che ci faccia capire la situazione reale e le prospettive cinesi (che sono le prospettive del mondo, anche nostre) è benvenuta. Tutti i dati e i fatti raccolti ed evidenziati sono utili. Ma il giudizio complessivo deve scaturire da una visione storicamente dialettica e integrale. Abbiamo molto da studiare, capire ed elaborare.
E non è detto che afferriamo correttamente la corrente in atto.
Ma evitiamo giudizi sommari e scomuniche affrettate.
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Enrico Galavotti
Tuesday, 24 July 2018 08:53
Noi non abbiamo bisogno di un capitalismo statale cinese che si opponga al capitalismo privato occidentale. Abbiamo bisogno di creare una transizione al socialismo. Pensare che possano farlo i cinesi solo perché il loro capitalismo è gestito da un governo sedicente comunista mi pare abbastanza ridicolo.
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Enrico Galavotti
Tuesday, 24 July 2018 08:27
Il capitalismo cinese ha questo di spaventoso, che nel commercio estero non conosce regole ed è gestito dallo stato e persino da un partito sedicente comunista che sull'altare del benessere veloce e collettivo sacrifica i diritti umani. D'altra parte prima li sacrificava sull'altare del maoismo. È un capitalismo destinato a surclassarci proprio perché
meglio organizzato e più potente nello sfruttamento della manodopera
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Paolo Selmi
Monday, 23 July 2018 23:52
Caro Mario,

quello che sto cercando di dimostrare, dati alla mano, è che i salari cinesi non sono "portoghesi" (25.000 rmb, ovvero 3.000 eur non è il salario annuo di un portoghese), che la maggior parte dei lavoratori cinesi quei 25.000 rmb statistici non li vede neppure, che quanto investito sul versante sociale è inferiore a quanto esportato all'estero, o su conti offshore (vedasi il ruolo di Hong Kong) o per acquisire imprese e accumulare ancora maggiori profitti (FDI), che il modello che sostengono di produzione e riproduzione della merce è suicida, che nessuno dice di allearsi ai padroni, visto che sono i padroni stessi ad allearsi coi loro omologhi cinesi, peraltro membri a tutti gli effetti del partito (vedasi Romiti, Prodi, e associazioni di categoria ivi compresa quella dei trasporti, http://www.propellerclubs.it/Public/doc/Invito_BR_22_03_2016%20_Prop.pdf ).

L'URSS, con tutti, tutti i suoi difetti, con le comunelle che faceva coi capitalisti nostrani, e le faceva, vedasi trasporto da Torino a Tol'jattigrad della futura catena di montaggio delle Zhiguli, non ci ha mai tolto un posto di lavoro. La Ferrania in Italia ha chiuso non per colpa della Zenit di Krasnogorsk, o della Arsenal di Kiev, o della Pentacon di Dresda, o della Meopta di Prerov, o della LOMO di Leningrado. E arrivavano qui, le loro macchine, arrivavano.

La concorrenza cinese, è concorrenza monopolistica tipica di un capitale in cerca di sbocchi profittevoli all'estero e nuovi mercati da aprire, punta a determinare i prezzi delle materie prime e dei prodotti finiti a livello globale in contrapposizione con gli altri monopoli, crea dipendenza economica nei paesi esportatori di materie prime, e favorisce il completamento della desertificazione sociale, visto che impedisce le più elementari regole di reciprocità nello scambio commerciale e la crescita conseguente delle industrie locali. Dati concreti su questo punto li troverai nelle prossime due puntate.

Non c'è nessuno da demonizzare, c'è solo da prenderne atto per elaborare strategie di sopravvivenza tali da poterci consentire di andare avanti a fare questo discorso con le foto dei nostri nipoti davanti. Ho visto quel mio scritto di quindici anni fa: oggi siamo messi molto, molto peggio.

Un caro saluto,
Paolo
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Mario Galati
Monday, 23 July 2018 23:17
Leggo il commento di Paolo Selmi dopo aver postato il mio.
Il fatto che un miliardo e mezzo di cinesi, quasi un quarto dell'umanità, possegga capacità produttiva, acquisisca tecnologia, sia in grado di fare concorrenza a noi capitalisti occidentali è un fatto estremamente positivo. È finito il monopolio dei paesi cosiddetti sviluppati, del primo mondo. Leggere questa situazione solo in termini di dumping sociale e commerciale e di concorrenza intercapitalistica (sino a leggerla in termini di concorrenza da esportazione di capitale tra potenze imperialiste) mi sembra inadeguato.
La durissima fase "manchesteriana" ha consentito alla Cina di acquisire tecnologia dai capitalisti occidentali, oltre che di elevare la produzione. Il sacrificio cinese, però, non è stato fine a se stesso, ma soltanto una fase di un processo più ampio. Oggi si cominciano a intravedere importanti risultati. E il processo è ancora in atto. Il dato sui salari cresciuti e sulle condizioni di vita migliorate per centinaia di milioni di persone non è figlio del caso o l'effetto collaterale accidentale del capitalismo selvaggio lasciato a se stesso.L a Cina si orienterá di più verso il consumo interno, la sanità e l'assistenza miglioreranno, si sta già guardando con attenzione ai problemi ambientali, la produzione non si basa più soltanto su produzioni di qualità medio-bassa.
Guardare preoccupati a tutto ciò in termini di concorrenza con le nostre economie capitalistiche e, soprattutto, di concorrenza dei lavoratori cinesi con i nostri lavoratori non è lungimirante.
Non credo che i lavoratori occidentali debbano unirsi ai loro padroni in un blocco corporativo anticinese.
Mi sembra molto poco socialista una posizione del genere.
Se una speranza di ripresa di un movimento socialista c'è, questa proviene proprio dalla Cina. Se non altro, quando non si ammetta il carattere socialista del processo cinese (il punto è controverso e oggetto di dibattito, non liquidabile con giudizi sommari), per il fatto che la Cina rompe il dominio USA e occidentale, redistribuisce risorse a livello mondiale (erodendo la rendita coloniale e neocoloniale sulla quale si basa l'egemonia capitalistica su vasti strati di lavoratori), fa saltare gli equilibri di potere internazionali e il monolateralismo USA.
Al processo cinese si deve guardare con spirito critico. L'esperienza cinese è un momento cruciale della storia e può insegnare molto, in positivo e in negativo. Ma l'atteggiamento prevalente di fronte ad esso per i lavoratori occidentali dovrebbe essere di simpatia e di speranza, non ldi preoccupata ostilità.
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Mario Galati
Monday, 23 July 2018 22:10
Certamente, la produzione a basso costo del lavoro è stata fondamentale nel processo di crescita cinese, sino al punto da farli letteralmente lavorare per gli americani: la Cina un distretto manufatturiero degli U.S.A.
Ma già ora siamo in una fase diversa. Il processo è lungo ed è ancora in atto. Molto sta cambiando, e non casualmente, ma sotto la direzione consapevole e lucida del partito comunista cinese, il quale non si limita semplicemente a lasciar fare come un papa benevolo e autoritario. Esistono, e sono accessibili a tutti, piani cinquantennali.
Naturalmente, il processo è contradditorio e discutibile, ma bisogna fare i conti con esso tutto intero.
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Paolo Selmi
Monday, 23 July 2018 21:59
Cari Enrico e Mario, sui livelli di reddito dichiarati e sulla sua distribuzione ineguale a livello territoriale, oltre che sul coefficiente di Gini e altri indicatori economico-finanziari, ho scritto in un lavoro che è stato appena pubblicato oggi. Grafici e cartina mi hanno preso un po' di tempo extra-lavoro, ma penso ne sia valsa la pena. Sono dati ufficiali, quindi non interpretati. E penso che siano abbastanza espliciti.
Sul discorso import, vi ho recuperato una nota a margine di un capitolo di un manuale di economia politica sovietica che avevo tradotto a suo tempo.
http://www.bibliotecamarxista.org/collet%20urss/Economia%20Politica%20Manuale%20CAP.%20V.pdf
Era il lontano 2004, mi ricordo bene perché era l'ultimo anno in una ditta in cui ho fatto per anni l'import mare. Usciva visita, e andavo col funzionario a farla, aprivano il container, vedevo i prezzi attaccati ai colli e quelli indicati in fattura, e mi partiva il fegato. Per me il manuale di economia politica è stato un vero e proprio toccasana: lo traducevo, cercavo di attualizzarlo, e lo collegavo al lavoro di ogni giorno. Alla fine le note erano più del testo... Scusate l'excursus, ma era per farvi capire che, nel bene e nel male, ho visto e vedo passare da vent'anni tanto, forse troppo.
Le note che avevo fatto all'epoca sono due. Una è la 693 a p. 104. C'era ancora Ciampi presidente, che parlava di "fare sistema" e io intanto vedevo i nostri capitalisti chiudere e trasferire ordini e commesse nell'opificio del mondo. Peraltro, all'epoca non me la prendevo neppure con loro... anche se mi chiedevo cosa ci fosse di comunista in far sgobbare i propri connazionali e ridurli alle stesse condizioni in cui li avevo trovati pochi anni prima su una tagliacuci in un capannone del mio paese, anche se mi chiedevo cosa ci fosse di comunista nell'accettare commesse sapendo che il proprio lavoro avrebbe fatto chiudere una fabbrica qui. Ma tant'era... la colpa, mi dicevo, alla fine era di chi dava loro il lavoro e lo toglieva di qua, ovvero del capitalista nostrano.
Più avanti, a p. 109, facevo un esempio concreto, tratto dal mio lavoro di tutti i giorni (nota 714), in cui prendevo una fattura FOB dal Bangladesh di capi di abbigliamento e calcolavo tutti i ricarichi che tale prezzo subiva fino a destino fino alla ricaduta in termini di costo unitario.
Cosa è cambiato da allora? Tanto. Non tanto perché i prezzi sono aumentati, o perché è cambiato il giro della merce, su questo ho già scritto qualcosa nelle puntate precedenti. Basta del resto andare in qualsiasi centro commerciale e divertirsi a girare le etichette del "made in" che per legge devono esserci ma che per furbizia sono di solito più imboscate rispetto a quelle del lavaggio. Basta non fermarsi alla bandierina dell'Italia o al "designed / engineered in Italy" e andare avanti a leggere per capire che, da allora, in quasi quindici anni la situazione è peggiorata.
Cosa è cambiato, allora? Che il capitalismo cinese si è messo in proprio... e ha cominciato a comprarci i gioielli di famiglia. Ne parlerò proprio nella prossima puntata. Si è ovvero arrivati, anche da parte loro, all'inevitabile fase di esportazione del capitale. Una fase preoccupante, perché non siamo attrezzati per competere, perché il nostro capitalismo nazionale è di tipo prevalentemente familiare, le nostre manifatture sono piccole e distribuite sul territorio, perché gli abbiamo trasmesso i nostri segreti industriali per un piatto di lenticchie e ora loro li riproducono in un'economia di scala e sfruttando tutti i dumping loro concessi: sociale e ambientale, per esempio, buttandoci fuori dal mercato. Perché ci "tirano il collo", come diciamo noi al lavoro, mettendoci uno contro l'altro per assicurare ai loro trasporti e stoccaggi i prezzi più bassi possibili, mentre a casa loro agiscono in regime di monopolio e fatturano prezzi da franco fabbrica a franco porto / aeroporto simili, se non maggiori, dei nostri. Ma questo lo fanno anche gli indiani... E, come esaminerò nella prossima puntata, dedicata ai rapporti fra UE e i suoi singoli stati e la Cina, l'Unione Europea sinora ha difeso alcuni tipi di Paesi e penalizzato altri, ovvero ha difeso alcuni capitalismi nazionali e ne ha penalizzati altri. Basta vedere come ha messo subito prontamente dazi antidumping sui pannelli solari, per capire che quando vuole i suoi interessi li sa difendere...
Vi chiedo scusa per la lungaggine, probabilmente dietro a una birra o a un grappino sarei stato più breve. Ma la materia è molto, molto complessa.
Un caro saluto a tutti
Paolo
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Enrico Galavotti
Monday, 23 July 2018 18:58
Hai mai fatto acquisti su wish, geek, aliexpress? Le merci cinesi sono di qualità mediobassa ma praticamente sono regalate. Quindi io ne deduco che il costo del lavoro deve essere molto basso. Sono merci che faranno chiudere molti nostri negozi non specializzati o non di fascia alta. Ma tra un po' faranno chiudere anche quelli. È sufficiente che le nostre imprese delocalizzino da loro o che loro acquistino in Italia le nostre
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Enrico Galavotti
Monday, 23 July 2018 18:46
A volte la Cina mi pare assomigli alla Roma del Rinascimento. La dittatura papale permetteva alla borghesia di fare gli affari che voleva. Poi quando la borghesia cercò di rivendicare il potere politico sulla scia della riforma protestante, il papato bloccò tutto con la controriforma riportando lo Stato della chiesa, anzi, con l'aiuto degli spagnoli, al Medioevo.
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Mario Galati
Monday, 23 July 2018 10:44
Il paese di 1,3 miliardi (ma sono di più) che produce a costi ridicoli, oltre ad aver sottratto alla povertà circa 800 milioni di persone (a proposito di diritti umani: libertà dal bisogno), ha portato i salari operai all'incirca sul livello dei salari di paesi come il Portogallo (paese europeo nel quale non si produrrebbe a costi ridicoli).
E, sempre a proposito di diritti umani (libertà dalla paura) la Cina, dopo aver respinto l'aggressione imperialista dirittumanista e i suoi colpi di stato camuffati, ha consolidato l'indipendenza nazionale e si sta emancipando dal pericolo di sottomissione alle potenze capitalistiche occidentali.
Gli equilibri mondiali stanno cambiando e, con essi, anche gli equilibri di classe.
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Paolo Selmi
Monday, 23 July 2018 10:38
Caro Vincenzo,

ho letto con molto interesse il tuo intervento sulla guerra commerciale fra USA e Cina.
Tra le tante cose condivisibili, una però non la vedo molto chiara. Secondo me l’Economist sottovaluta il dato del 2% delle esportazioni nette sul GDP: dice una cosa giusta ma poi conclude che, tutto sommato, guerra più guerra meno andrebbe a incidere su quel 2% quindi, in parole spicce, non c’è da farne un dramma.
Non ne sarei così sicuro. Le esportazioni “nette” significa fare il saldo fra totale export e totale import. Proviamo a vedere entrambi i dati.
Questa è una tabella dello storico degli export
https://www.theglobaleconomy.com/China/Exports/
E questa è quella dello storico degli import
https://www.theglobaleconomy.com/China/Imports/
La percentuale delle esportazioni sul PIL nel 2016 è stata del 19.64%, quella delle importazioni del 17.42%, la differenza è, per l’appunto, il 2.22%.
La Cina esporta quindi, “lordo”, per il 19.64%. Il totale movimento di import e export ammonta al 37.06% del PIL.
Non è poco…
Andiamo avanti. Import e export sono fortemente interrelati fra loro. Importano essenzialmente materie prime e semilavorati ed esportano semilavorati e prodotti finiti. Una caduta delle esportazioni, PER QUALSIASI MOTIVO, avrebbe quindi gravi ripercussioni su import, sulla produzione di ricchezza, e sui consumi interni di quella classe media sempre più importante e influente all’interno del loro “organigramma sociale”. Questo articolo, un po’ datato, a opera dell’autorità monetaria di HK, spiega abbastanza bene alcune delle dinamiche e dei meccanismi collegati all’export cinese.
http://www.hkma.gov.hk/media/eng/publication-and-research/research/china-economic-issues/CEI_200901.pdf

Ora, 400 miliardi di dollari in meno su 2200 milardi di dollari di export complessivo non è poca cosa. Una delle immagini – informali! - per descrivere lo stato attuale dell’economia cinese, a opera peraltro di economisti cinesi, è quella dell’elefante in bicicletta. Non può rallentare, a causa della sua instabilità. Una sua caduta avrebbe conseguenze catastrofiche. E’ parte di una puntata futura dei lavori che Tonino ha consentito a pubblicare, e che non finirò mai di ringraziare. Ora, i 400 miliardi in meno minacciati appaiono tanto come i 100 missili che la leggenda vuole lanciati e tutti arrivati su un centro ricerche vuoto in Siria. Appartengono al personaggio, che minaccia dieci per ottenere cinque. E’ un gioco pericolossimo, perché il consenso acquisito dall’imperialismo americano nel proprio Paese ha basi molto più solide di quello cinese: armi ai ragazzini, gang, poveri in aumento, e nulla accade. Succedesse solo un quarto della metà in Cina, e non basterebbero 10 Tian an men per correre ai ripari. Il “mandato celeste” (tian ming) su cui si fonda il consenso del potere in Cina da millenni, prevede prosperità per il popolo. Manca la prosperità, manca il mandato celeste. Il popolo deve essere sempre messo davanti a segni tangibili di prosperità, di una terra promessa che prima o poi raggiungerà. Una sbandata dell’elefante in bicicletta potrebbe avere conseguenze imprevedibili da parte della stessa classe dirigente. Una sbandata che, per questo motivo, non si possono permettere, anche perché l’unico modo di correre ai ripari, non potendo ripensare altrimenti il proprio modello di sviluppo e il proprio modo di produzione, sarebbe piegare ULTERIORMENTE sul nazionalismo, tasto che viene suonato molto spesso ultimamente. Pericolosamente, aggiungo.

Staremo a vedere… quanto sta accadendo mi preoccupa, e non poco.

Un caro saluto.
Paolo
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Paolo Selmi
Monday, 23 July 2018 09:55
Caro Enrico,
hai perfettamente ragione. Gli USA sono gli ultimi a poter parlare di "diritti umani, civili, politici, sindacali"... ma non penso neppure che gli interessi farlo. Da un po' si sono buttati sul "caos creativo"... fino a quando gli è riuscito, ha funzionato bene. In Siria ha fatto fiasco, ormai se ne son fatti una ragione, anche se qualche colpo di coda lo cercheranno fino all'ultimo. E' proprio di ieri la notizia che, insieme agli "800 caschi bianchi", nel silenzio generale dei media le forze speciali israeliane abbiano evacuato anche 4 capi jihadisti conclamati:
Moaz Nassar - Fursan al-Golan Brigade
Abu Rateb - Fursan al-Golan Brigade
Ahmad al-Nahs - Saif al-Sham Brigade
Alaa al-Halaki - Jaish Ababeel
e fatto saltare l'immancabile deposito di armi e munizioni.
(https://colonelcassad.livejournal.com/4334897.html)
In Cina non gli ha funzionato né la carta dei "diritti umani", né quella del "caos creativo". E' una società troppo impermeabile per i loro infiltrati.

La strada che hanno tentato ora, quella della guerra economica, è l'ultima che gli resta prima della sua "continuazione con altri mezzi"... come direbbe qualcuno. Forse, ma forse, "ci hanno preso". E non tanto nel breve, quanto nel medio e lungo termine, cosa strana fra capitalisti... provo a sintetizzare quella che, al momento, è solo una mia impressione, in un commento separato.

Un caro saluto
Paolo
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Enrico Galavotti
Sunday, 22 July 2018 20:24
È impossibile competere con un paese che ha 1,3 miliardi di persone che lavorano con tecnologie avanzate a costi ridicoli. Bisogna puntare sui diritti umani, civili, politici, sindacali, ma in questi campi gli USA non possono aver nulla da dire
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