Ucraina: i falchi sulle due sponde dell’Atlantico mettono all’angolo Trump
di Roberto Iannuzzi
Incapace di superare l’idea di un mero congelamento del conflitto, Trump ha finito per abbracciare le posizioni antirusse degli europei e degli elementi più intransigenti della sua amministrazione
Le relazioni fra Stati Uniti e Russia hanno registrato un serio peggioramento. Dopo la telefonata del 20 ottobre fra il segretario di Stato USA Marco Rubio e il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, il primo ha raccomandato che la Casa Bianca cancellasse il previsto incontro fra i presidenti dei due paesi a Budapest.
Poi, il dipartimento del Tesoro ha annunciato dure sanzioni contro le due principali compagnie petrolifere russe, Rosneft e Lukoil, “a seguito della mancanza di un serio impegno, da parte della Russia, verso un processo di pace che ponga fine alla guerra in Ucraina”.
Due giorni dopo, il 22 ottobre, il Wall Street Journal ha rivelato che l’amministrazione Trump aveva tolto le restrizioni all’impiego ucraino di missili a lungo raggio forniti dagli alleati europei (i quali impiegano componenti e dati di targeting provenienti dagli USA).
Trump ha definito la rivelazione una “fake news”, ma il fatto che la possibilità di autorizzare gli attacchi sia passata dal Pentagono al generale Alexus Grynkewich, comandante (di origini bielorusse) delle forze USA in Europa, e che i dati di targeting siano forniti dagli americani, lascia pochi dubbi sulla veridicità della notizia.
Il 21 ottobre uno Storm Shadow britannico ha colpito un impianto chimico russo a Bryansk. Le restrizioni all’impiego di tali missili erano state introdotte da Elbridge Colby, sottosegretario alle politiche del Pentagono, “falco” riguardo alla Cina ma notoriamente scettico nei confronti dell’impegno militare USA in Ucraina e Medio Oriente.
A luglio, due esperti militari americani avevano scritto che, così come il generale Michael Kurilla aveva vinto la battaglia contro Colby in Iran (da poco bombardato dagli USA), Grynkewich avrebbe dovuto fare lo stesso in Ucraina.
Analogamente, il segretario al Tesoro Scott Bessent ha fatto la parte del leone nell’annunciare le sanzioni alle compagnie petrolifere russe. Su Truth, il suo social preferito, Trump ha semplicemente ripubblicato l’annuncio del dipartimento del Tesoro, un po’ sottotono e senza alcuna enfasi.
Un Trump irascibile e ondivago
Un atteggiamento di basso profilo, quello del presidente americano, che pochi giorni prima aveva tenuto un comportamento molto duro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in occasione della visita di quest’ultimo alla Casa Bianca.
L’incontro, tenutosi il 17 ottobre, era sfociato in accesi scontri verbali tra i due. Trump avrebbe gettato via le mappe del fronte che Zelensky intendeva mostrargli, secondo quanto rivelato dal Financial Times, affermando che Putin avrebbe “distrutto l’Ucraina” se egli non avesse ceduto l’intera regione del Donbass.
Contrariamente alla narrazione dominante sui media occidentali, abbracciata pubblicamente dallo stesso Trump, il presidente avrebbe anche detto a Zelensky che l’economia russa sta “andando alla grande”.
A conferma della freddezza della Casa Bianca, giungendo alla Andrews Air Force Base vicino Washington, Zelensky non era stato accolto da alcun rappresentante statunitense, ma solo da esponenti ucraini.
I commentatori americani avevano spiegato la durezza di Trump nei confronti di Zelensky con la telefonata che solo un giorno prima era intercorsa, su richiesta del Cremlino, tra il presidente americano ed il suo omologo Vladimir Putin.
Durante il colloquio, definito dal consigliere di Putin Yury Ushakov, “molto concreto” ed “estremamente franco”, è probabile che il presidente russo abbia sollevato la questione dei missili Tomahawk, la cui fornitura a Kiev era stata ventilata da Trump nelle settimane passate, e ribadito le condizioni russe per risolvere il conflitto.
Ed è nel corso di questo colloquio che i due presidenti avevano concordato di incontrarsi a Budapest, in Ungheria, in una sorta di riedizione del meeting tenutosi in Alaska ad agosto che aveva spinto alcuni a sperare in un possibile sbocco negoziale del conflitto.
In realtà, l’incontro in Alaska era stato molto più teso e difficile di quanto inizialmente trapelato. Secondo quanto riferito recentemente dal Financial Times, in quell’occasione Putin avrebbe rifiutato l’offerta di un allentamento delle sanzioni in cambio di un cessate il fuoco.
Il leader russo avrebbe invece insistito sulla necessità di risolvere le cause profonde del conflitto dilungandosi in una serie di digressioni storiche che avrebbero irritato notevolmente Trump, il quale anche in quel caso avrebbe più volte alzato la voce e addirittura minacciato di andarsene.
Alla fine, l’incontro era stato chiuso in breve tempo, ed il previsto pranzo fra le delegazioni era stato cancellato. Ciò fa comprendere quanto fosse fragile la presunta distensione inaugurata da quell’evento.
Ostruzionismo e provocazioni
Sebbene lo stesso Trump non fosse disposto a concedere molto in quell’occasione, vi sono esponenti all’interno della sua amministrazione, e figure visceralmente antirusse nel vecchio continente, che hanno accolto in maniera molto negativa la notizia di una riedizione di quell’incontro a Budapest.
Un segnale significativo era stato il ritorno del segretario alla Difesa Pete Hegseth alla riunione del Gruppo di contatto per l’Ucraina, il 15 ottobre al quartier generale della NATO a Bruxelles. Dopo che a febbraio Hegseth aveva annunciato il disimpegno americano dall’Europa, per mesi egli si era astenuto dal prendere parte a queste riunioni.
Tornato a Bruxelles, Hegseth ha invece ammonito che gli USA avrebbero “imposto costi alla Russia” se Mosca non avesse accettato di porre fine al conflitto. Le sue dichiarazioni sono state accolte con “sollievo” da diversi ministri europei.
In Europa, la scelta dell’Ungheria del “riottoso” Viktor Orbán come sede dell’incontro fra Putin e Trump è stata un altro fattore che ha indotto molti a incoraggiare la cancellazione di quell’appuntamento.
Nel frattempo Aleksandr Bortnikov , direttore dell’FSB, il servizio segreto federale di Mosca, ha accusato le forze speciali e l’intelligence britanniche di contribuire in maniera determinante agli attacchi ucraini contro le infrastrutture energetiche russe.
Fonti dell’intelligence militare di Mosca aggiungono che anche la CIA prende parte attiva alla pianificazione di queste operazioni. La notizia, del resto, è stata confermata ancora una volta dal Financial Times.
“Il momento più fragile”
Dal canto suo Sergei Naryshkin, direttore dell’SVR (il servizio segreto estero di Mosca), parlando a una riunione di sicurezza della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) a Samarcanda, in Uzbekistan, ha ammonito che “il mondo sta attraversando il momento più fragile per la sicurezza internazionale dalla seconda guerra mondiale, vale a dire un periodo di trasformazione qualitativa dell’ordine globale”.
Egli ha aggiunto che è in corso “un’aspra battaglia” fra blocchi contrapposti per definire le regole del futuro ordine mondiale, osservando che “il nostro comune e forse principale compito è garantire che l’adattamento alla nuova realtà proceda senza lo scoppio di una guerra su vasta scala, come accaduto in precedenti fasi storiche”. Un compito non facile visto che, secondo Naryshkin, “vediamo che i membri europei della NATO si stanno preparando a una guerra con il nostro paese”.
In un simile contesto, era prevedibile che l’annunciato incontro fra Trump e Putin in Ungheria fosse appeso a un filo, tanto più che il maldestro tentativo di Trump di risolvere il conflitto ucraino per via negoziale era sostanzialmente fallito già prima dell’incontro in Alaska di agosto.
Lo scoglio che ha portato ad annullare l’appuntamento di Budapest è stato ancora una volta la richiesta americana di un cessate il fuoco immediato, che conferma l’appiattimento di Washington sulle posizioni europee.
Tale richiesta è irricevibile per Mosca, in quanto porterebbe a una guerra congelata che avrebbe l’unico effetto di permettere all’Ucraina e alla NATO di riorganizzarsi per una futura ripresa del conflitto.
Il concetto è stato ribadito per l’ennesima volta dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov all’indomani dell’annunciata cancellazione dell’incontro da parte americana.
“Le richieste di un cessate il fuoco immediato senza affrontare le cause profonde del conflitto ucraino contraddicono gli accordi raggiunti da Putin e Trump in Alaska”, ha dichiarato Lavrov.
Resta da chiedersi, alla luce delle ultime rivelazioni sull’atteggiamento di Trump in quell’occasione, se dal punto di vista americano un’intesa in proposito fosse mai stata raggiunta.
Dal canto loro, gli europei hanno immediatamente “celebrato” l’annullamento del meeting di Budapest e l’imposizione di ritorsioni USA sulle compagnie petrolifere russe, approvando a loro volta il 19° pacchetto di sanzioni contro Mosca.
Contemporaneamente, il segretario generale della NATO Mark Rutte si recava alla Casa Bianca per ringraziare Trump e ribadire la propria convinzione che una “pressione sostenuta” nei confronti della Russia avrebbe spinto Mosca ad accettare un cessate il fuoco.
Intransigenza con Mosca, condiscendenza con Pechino
In conclusione, la frattura consumatasi tra le due sponde dell’Atlantico con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, e la sua successiva “apertura negoziale” nei confronti di Mosca, è in gran parte ricomposta con il fallimento di tale apertura (sostanzialmente causato dall’insistenza dell’amministrazione USA su un cessate il fuoco immediato senza condizioni) e l’accettazione europea di assumersi i costi della guerra.
Incapace di formulare una visione coerente in grado di superare l’idea di un mero congelamento del conflitto, Trump ha finito per abbracciare le posizioni antirusse degli europei e degli elementi più intransigenti della sua amministrazione.
Tuttavia, con l’esercito ucraino sempre più a mal partito (a Pokrovsk e in altre zone del fronte) e la palese incapacità europea di finanziare realmente lo sforzo bellico di Kiev, la strategia occidentale è passata dal tentativo di sconfiggere le forze russe sul campo di battaglia ucraino a quello di aumentare i costi strategici del conflitto per Mosca, prendendo di mira il suo settore energetico attraverso le sanzioni e la campagna di attacchi contro le infrastrutture in territorio russo.
Il calcolo è probabilmente perdente, oltre che pericoloso, perché la Russia appare in grado di assorbire tali costi, e in ogni caso non può permettersi una sconfitta strategica in Ucraina. E sarà Kiev a pagarne il prezzo più alto.
Del resto, per Washington l’Ucraina è sempre stata sacrificabile (così come per gli europei) pur di indebolire Mosca, tenendola impegnata in un conflitto a lungo termine, e di smantellare l’integrazione economica euro-russa.
Il problema degli USA è che l’aver ricostituito una cortina di ferro in Europa, alimentando un rischioso conflitto e sacrificando la prosperità del vecchio continente, non appare in grado di fermare l’inarrestabile ascesa del vero avversario di Washington: la Cina.
Lo conferma l’incontro appena conclusosi fra Trump e il presidente cinese Xi Jinping a Busan, in Corea del Sud, che ha segnato una tregua temporanea nella guerra commerciale fra i due paesi, caratterizzata però da una sostanziale ritirata della Casa Bianca.
Pechino ha sfruttato la sua posizione egemone nel processo di estrazione e lavorazione delle terre rare, così importanti per l’industria della difesa statunitense e per la rivoluzione dell’intelligenza artificiale, allo scopo di ottenere da Washington una sostanziale riduzione dei dazi.
Mentre Trump è stato costretto a tornare sui propri passi, la Cina mantiene alcune restrizioni all’esportazione di minerali come gallio e germanio, essenziali nella produzione di semiconduttori, mostrando a Washington chi è che ha il coltello dalla parte del manico nell’attuale scontro tecnologico e commerciale.







































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