Print Friendly, PDF & Email

controlacrisi

Trump, risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione

di Domenico Moro

trump globalizzazione1. Populismo o alternanza nella democrazia oligarchica?

La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.

In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti1. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore2, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump. Nei primi tre giorni post-voto Wall Street ha guadagnato 341 miliardi di capitalizzazione e dopo due settimane gli indici Nasdaq, S&P 500 e Dow Jones hanno raggiunto i massimi storici. Inoltre, il dollaro ha avuto uno scatto impetuoso, segno tutt’altro che di sfiducia nel risultato delle elezioni, portandosi da 1,13 a 1,05 sull’euro, il quale ha toccato i minimi negli ultimi 11 mesi rispetto alla valuta statunitense.

Se qualcuno pensa che la vittoria di Trump possa significare un mutamento sul piano del funzionamento dei meccanismi del potere in qualsiasi senso non tiene conto di che cosa è la democrazia rappresentativa contemporanea nel Paese che ne è stato l’inventore. Come ha ricordato Slavoj Zizek, “credere che l’elezione di Trump trasformi gli Usa in uno stato fascista è una esagerazione ridicola”3. A parte il fatto che la libertà d’azione del presidente è limitata dal Congresso, il punto principale è che gli Usa non hanno bisogno del fascismo, a meno che non lo intendiamo in senso lato, cioè nel senso delle politiche corporative e imperialiste come lo intendeva George Jackson, il rivoluzionario nero del Black Panther Party4. In questa accezione, gli Usa fascisti lo sono a prescindere da Trump. Senza contare che la Clinton sarebbe senz’altro fascista non meno di Trump, con buona pace di chi invitava a votarla così come negli anni Trenta si votava contro i fascisti per i candidati “democratici”.

Altrettanto assurdo è che Trump possa, anche solo implicitamente, segnare una rottura con l’establishment, perché è egli stesso espressione di quell’establishment. Anzi, Trump rappresenta la capacità dell’establishment di reagire alla sua crisi di egemonia in settori popolari importanti, quelli colpiti dalla deindustrializzazione. Engels, già nel 1884, evidenziava come nella repubblica democratica

“la ricchezza esercita il suo potere indirettamente ma in maniera tanto più sicura. Da una parte nella forma della corruzione dei funzionari, della quale l’America è il modello classico, dall’altra nella forma di alleanza tra governo e Borsa, alleanza che tanto più facilmente si compie tanto più salgono di debiti pubblici (….). E infine la classe possidente domina direttamente per mezzo del suffragio universale”5.

Gaetano Mosca, fondatore della scuola sociologica elitista, fu altrettanto esplicito:

“Sarebbe ingenuo credere che i regimi liberali si appoggino sul consenso esplicito della maggioranza numerica dei cittadini, perché nelle elezioni la lotta si svolge fra i diversi gruppi organizzati, che possiedono i mezzi capaci di influenzare la massa degli elettori disorganizzati, ai quali non resta che scegliere fra i pochissimi rappresentanti di questi gruppi.”6

Gli Usa sono la rappresentazione migliore di questo sistema, definibile come democrazia oligarchica, nel quale partito democratico e partito repubblicano funzionano come due ali di uno stesso partito e che sulle questioni veramente importanti (che non sono quelle che generalmente alimentano i talk show televisivi e spesso i dibattiti di certa sinistra) tendono a trovare una convergenza, il cosiddetto bipartisan consensus. Tuttavia, le elezioni statunitensi non possono essere ridotte a una sorta di spettacolo o di gigantesca presa in giro. Esse sono uno dei terreni e forse il terreno principale, come diceva Mosca, su cui i diversi gruppi dell’élite capitalistica si scontrano per definire e affermare gli interessi prevalenti. La democrazia rappresentativa, rispetto al fascismo, presenta il vantaggio di una maggiore flessibilità (si può cambiare, ovviamente sempre in modo controllato) e soprattutto di una maggiore autonomia del potere economico su quello politico. Le competizioni elettorali sono, da una parte, uno strumento dell’esercizio dell’egemonia sulle masse e, dall’altra, uno strumento di modificazione o di conservazione dei rapporti di forza e quindi di soluzione dei contrasti all’interno della classe economicamente dominante. Infatti, ciò che spesso ci si dimentica è che il capitale è tutt’altro che unitario. Esso è diviso non solo in imprese ma anche in settori in competizione tra loro, non solo a livello internazionale ma anche a livello nazionale. Anche nel suo strato di vertice esso si divide in gruppi con interessi diversi che spesso sfociano in forti conflitti. Ciò si è verificato anche in queste presidenziali: le imprese tecnologiche della Silicon Valley, Microsoft, Amazon, Apple, ecc. erano a favore della Clinton, mentre i settori dell’acciaio, del carbone e del petrolio erano chiaramente a favore di Trump.

Sebbene repubblicani e democratici, sulle questioni essenziali, siano sempre stati più o meno convergenti, almeno nella misura in cui si tratta di difendere i processi di accumulazione e gli interessi del capitale Usa nei confronti degli avversari di classe o esteri, ci si può legittimamente domandare se Trump rappresenti posizioni tanto estreme da determinare una rottura con la passata tradizione di bipartisan consensus. La nostra risposta è negativa, sulla base del contesto in cui è avvenuta l’elezione di Trump e in base alle similitudini con Clinton su aspetti essenziali del programma.

 

2. L’attacco bipartisan di Trump e Clinton al neomercantilismo cinese e europeo

Queste elezioni sono state caratterizzate da un preciso contesto, che ha influito pesantemente, accentuando le contraddizioni interne al capitale e soprattutto determinando un orientamento di maggiore discontinuità rispetto al passato. Contrariamente alle speranze, la politica monetaria espansiva perseguita da Obama e dalla Banca centrale statunitense (Fed) non ha avuto gli effetti aspettati, e, a differenza delle altre crisi scoppiate dopo la Seconda guerra mondiale, l’economia negli Usa, così come negli altri paesi avanzati, non ha ripreso la sua marcia ai ritmi precedenti allo scoppio della crisi del 2007-2008. La crescita del Pil è ancora ben al di sotto della crescita potenziale, tanto che si è coniato il termine di “crisi secolare”, secondo la nota espressione dell’economista Larry Summers, ex ministro del Tesoro di Bill Clinton7. Al contempo, la globalizzazione ha portato alle delocalizzazioni e all’indebolimento della struttura industriale e manifatturiera statunitense, che dal ’79 ha perso 7 milioni di posti di lavoro concentrati soprattutto negli stati industriali della rust belt, dove Trump ha prevalso. Di fatto, le basi produttive e dell’accumulazione di capitale statunitensi si sono contratte. Conseguenze ne sono state l’aumento della disoccupazione e della sottoccupazione, nonché il calo dei salari, anche a seguito del passaggio da impieghi nell’industria, relativamente meglio pagati, a impieghi nei servizi, peggio retribuiti. Malgrado alcuni settori abbiano beneficiato della globalizzazione, quelli appunto tecnologici, altri settori industriali e manifatturieri, ma anche il settore bancario, si trovano maggiormente in difficoltà e gli Usa, nel complesso, hanno perso posizioni nel commercio mondiale a favore di potenze economiche emergenti. La maggiore crescita delle importazioni rispetto alle esportazioni ha peggiorato anche il debito commerciale (in termini nominali +48,1 per cento tra 2009 e 20158), insieme a quello pubblico, salito a causa del sostegno alle imprese e alle banche in crisi. Una situazione che, alla lunga, è insostenibile specie se gli Usa vogliono mantenere una egemonia mondiale, e che evidentemente molti all’interno dei circoli dominanti Usa hanno pensato che andasse affrontata con un cambiamento di rotta, con una nuova ricetta economica.

La questione più interessante è che sui punti decisivi della ricetta, nelle sue grandi linee, non c’era grande differenza tra Trump e Clinton. Entrambi i candidati hanno puntato su politiche fortemente espansive, ma non dal punto di vista monetario, come la Fed, la Bce, la Banca d’Inghilterra e del Giappone hanno fatto negli ultimi anni, portando i tassi d’interesse a zero o addirittura a livelli negativi. Le politiche espansive del programma di Trump e Clinton prevedevano l’aumento della spesa pubblica, mediante investimenti massicci in lavori pubblici, in particolare nell’ammodernamento della gigantesca e, dopo decenni di tagli, malmessa infrastruttura (ponti, strade, ferrovie, reti elettriche e idriche, aeroporti, ecc.). Si parla di cifre enormi: 1000 miliardi di dollari in dieci anni e forse di molto di più, secondo Summers 2.200 miliardi. La Clinton prevedeva subito un piano di emergenza da 250 miliardi. Dunque, quello a cui assistiamo è un cambio di rotta rispetto alle politiche precedenti di austerity (anche se negli Usa queste sono state più contenute che in Europa), e che si avvicinano alle politiche classiche keynesiane il cui impatto, nelle intenzioni, dovrebbe dare un impulso all’economia e all’occupazione e sulle quali c’è un ampio consenso bipartisan al Congresso. La crescita degli investimenti pubblici in lavori pubblici e la correzione delle politiche troppo espansive della Fed, inoltre, porterebbero alla fine dei tassi d’interesse troppo bassi, che non hanno determinato una soddisfacente crescita e anzi hanno portato deflazione e perdita di profittabilità per le banche e non solo per queste. La crescita della borsa dipende in parte dall’aspettativa di crescita dell’inflazione e in parte dalla crescita dei titoli legati alle banche, al minerario, e alle materie prime e semilavorati per le costruzione e per le infrastrutture, a partire dal rame e dall’acciaio. Ad ogni modo, il passaggio da politiche espansive monetarie a politiche espansive fiscali non è una peculiarità di Trump (o di Clinton), ma è in linea con quanto è prospettato da Janet Yellen, presidente della Fed, e da molti economisti espressione di circoli economici che contano, come Summers, per il quale la causa principale del permanere della stagnazione sono i bassi tassi d’interesse. Questi economisti pensano che c’è troppa liquidità nell’economia, che ciò crea il rischio di crisi finanziarie, e che, invece, bisogna rilanciare gli investimenti attraverso l’aumento della spesa pubblica.

La differenza tra Clinton e Trump stava da un’altra parte: nel modo di finanziarie l’aumento della spesa pubblica. Clinton prevedeva l’aumento delle entrate, soprattutto mediante l’aumento dell’imposizione fiscale, e quindi appariva maggiormente orientata a contenere l’aumento del debito pubblico e, quindi, meno decisa nell’abbandono della disciplina di bilancio. Trump, invece, è apparso deciso a contenere la pressione fiscale, anzi a tagliare le imposte sui profitti delle imprese e ai più ricchi, e quindi molto meno preoccupato di espandere il debito pubblico. L’orientamento espansivo di Trump, però, se, da una parte, crea difficoltà per la gestione futura del debito federale, dall’altra parte, appare più coerente con i massicci progetti di investimento. Infatti, il finanziamento della spesa pubblica mediante l’aumento della tassazione sulle imprese Usa appare poco realizzabile, perché, data l’organizzazione già molto internazionalizzata delle imprese, le spingerebbe maggiormente verso la delocalizzazione e ostacolerebbe i progetti di reindustrializzazione. Quindi, l’aumento della spesa pubblica inevitabilmente porterebbe alla crescita del debito pubblico. Paradossalmente, con buona pace dei suoi critici (tra cui lo stesso Summers), Trump non poteva non apparire più credibile della Clinton.

Il problema principale, posto dal varo di politiche espansive della portata prospettata, è, però, soprattutto un altro. L’avvio di imponenti lavori pubblici porterebbe all’aumento dell’occupazione, e quindi del reddito disponibile e dei consumi, senza contare, ovviamente, l’aumento della domanda di materie prime e semilavorati relativa al piano infrastrutturale. Ora, come sempre avviene in occasione di politiche fiscali espansive, se la manifattura domestica non è sufficientemente competitiva, l’aumento della domanda interna porta all’aumento delle importazioni, e quindi all’aumento del debito commerciale estero. Il pericolo per gli Stati Uniti è proprio questo: avendo già un debito commerciale enorme e una manifattura in molti settori meno competitiva, a trarre vantaggio dell’aumento della spesa pubblica statunitense sarebbero i Paesi che negli ultimi anni hanno orientato la loro economia in senso neomercantilista, cioè che hanno basano la loro crescita prevalentemente non sul mercato interno ma sulle esportazioni. Pensiamo solamente al possibile aumento delle importazioni di acciaio, necessario per le infrastrutture, dalla Cina, di gran lunga il maggiore produttore mondiale9. È a questo punto che interviene il secondo punto della ricetta economica, il protezionismo, che limiterebbe l’import e quindi l’aumento del debito commerciale, conseguente all’espansione della spesa pubblica statunitense. La vulgata ha dipinto Trump come il crociato del protezionismo e la Clinton come la paladina della libera circolazione. In realtà, a guardare il loro programma, entrambi si erano detti pronti a rivedere la politica commerciale Usa in senso protezionista. Anzi, la Clinton ha operato una conversione di centottanta gradi passando da fautrice del Tpp (il trattato di libero commercio dell’area del Pacifico) a fiera oppositrice. Il programma della Clinton era ispirato al rilancio della manifattura, in base al principio “buy american”, e alla prevenzione degli abusi del libero mercato da parte della Cina10. Tuttavia, dati i precedenti iperliberisti di Hillary Clinton e soprattutto del marito Bill, anche su questo Trump appariva più credibile e, nell’insieme, più coerente.

L’obiettivo dichiarato delle politiche protezionistiche, nella retorica elettorale di Trump e Clinton, è la Cina, che nel 2015 ha realizzato un surplus commerciale di 367 miliardi di dollari con gli Usa, pari a quasi metà dei 745 miliardi di dollari del debito commerciale complessivo11. Ancora più importante è che la Cina si appresta a superare economicamente gli Usa e che possa rappresentare l’unico Stato che in futuro potrebbe mettere in difficoltà il ruolo globale degli Usa. La Cina negli ultimi anni è sempre più presente con scambi commerciali e con investimenti di capitale non solo in Asia, ma anche in Africa e persino in America Latina, il giardino di casa degli Usa. La Cina ha sostituito gli Usa come primo partner commerciale del Brasile e c’è un progetto, per ora fermo, riguardante un canale attraverso il Nicaragua, alternativo a quello di Panama, che è controllato dagli Usa. Se esiste una minaccia al mantenimento dell’egemonia mondiale degli Usa, questa non viene dalla Russia. Malgrado questo paese sia molto esteso e molto ricco di materie prime e abbia una forza militare di un certo rispetto, soprattutto però in riferimento alle armi nucleari, la sua debolezza sul piano economico e demografico non gli permette di andare oltre il livello di potenza regionale12. Da questo punto di vista, ha senso l’orientamento di Trump a spostare il focus della strategia degli Usa dalla Russia alla Cina, cercando di trovare un accordo con i russi in modo da rompere o almeno indebolire la loro intesa con i cinesi. Allo stesso modo, avrebbe senso, se stiamo alle dichiarazioni di Trump e alla nomina di Michael Flynn alla sicurezza nazionale (perse il ruolo di capo dell’intelligence militare perché entrò in contrasto con Obama per l’appoggio ai jihadisti di Al Nustra in Siria), la correzione della politica medio-orientale obamiana e clintoniana di uso indiretto del radicalismo islamico e del jihadismo contro i regimi laici. Fra l’altro, gli sponsor diretti dei jihadisti, Arabia Saudita e petromonarchie arabe, molto vicini alla famiglia Clinton, sono stati impegnati negli ultimi anni in una guerra commerciale contro il settore americano dello shale oil, che è uno dei settori industriali dietro l’ascesa di Trump. Gli errori della Clinton come segretario di stato nell’area medio-orientale, ad esempio in Libia, dove gli Usa hanno subito l’iniziativa franco-britannica, sono stati probabilmente una delle cause della sua mancata elezione.

Ma le politiche protezionistiche statunitensi hanno un altro obiettivo, non esplicitamente dichiarato da Trump e Clinton, ma non meno importante per il mantenimento dell’egemonia mondiale statunitense. Si tratta della Ue e in particolare della Germania, che, in rapporto alle dimensioni dell’economia e della popolazione, realizza un surplus commerciale più grande della Cina. Il surplus commerciale della Ue con gli Usa, calato dai 96,4 miliardi di euro del 2006 ai 48,5 miliardi del 2009, è esploso negli ultimi anni, raggiungendo i 122,7 miliardi nel 201513. Quasi la metà del surplus Ue è da riferirsi alla Germania (54 miliardi), per la quale gli Usa sono diventati nel 2015, per la prima volta, il primo partner commerciale, superando la Francia14. Senza i saldi positivi con gli Usa, la bilancia complessiva della Ue e quella di molti Paesi dell’area euro sarebbe negativa o ancora più in negativa, visto che con la Cina il saldo degli scambi è pesantemente negativo (nel 2015, 180 miliardi di euro di passivo per tutta la Ue). Inoltre, peggiorerebbero i profitti delle multinazionali europee, visto che gran parte dell’export europeo verso gli Usa è intracompany, cioè diretto a controllate di multinazionali con sede nella Ue. Tra i Paesi europei maggiormente beneficiati dagli scambi con gli Usa, c’è l’Italia, per la quale il Paese nordamericano nel 2015 è stato il terzo mercato di esportazione (8,7% sul totale), ma ha rappresentato il surplus maggiore con 21,8 miliardi su un saldo complessivo di 41,8 miliardi15. Non meraviglia, quindi, che le borse europee, a partire da quella di Milano e a differenza di quella di New York, siano crollate dopo l’elezione di Trump, né che i mezzi di comunicazione di massa europei si siano particolarmente accaniti contro Trump, a partire da The Economist, che è tradizionale espressione del capitale multinazionale e transnazionale europeo, e che vede tra i suoi maggiori azionisti proprio quella famiglia Agnelli che è attiva nel settore dell’auto e specificatamente in Messico con la sussidiaria statunitense Chrysler, cioè in uno settori e in uno dei Paesi obiettivo della retorica protezionistica di Trump.

 

3. Trump come espressione delle tre crisi del capitale, della globalizzazione e dell’egemonia statunitense

Gli Usa parlano a nuora (la Cina) affinché anche suocera (la Germania e la Ue) intenda. Infatti, l’ascesa di Trump sarebbe stata impossibile se l’Europa non avesse accentuato la sua politica di austerity e di neomercantilismo proprio durante la crisi peggiore dal dopoguerra. Mentre gli Usa spendevano per cercare di far fronte alla crisi, e, stimolando la domanda interna, facevano da traino all’export delle economie europee, l’Europa a trazione tedesca riduceva la domanda interna, imponendo cure da cavallo e vincoli di bilancio ai Paesi più in difficoltà, nonostante i moniti del Fondo monetario internazionale e di Obama. Quest’ultimo, non a caso, ha scelto la Grecia per iniziare il tour di commiato dagli alleati europei, parlando proprio contro l’austerity. Fra l’altro, da parte degli Europei risulta abbastanza ipocrita lamentarsi del protezionismo di Trump, quando si applica o invoca, in particolare da parte dell’Italia, lo stesso protezionismo contro la Cina, ad esempio proprio sull’acciaio.

L’elezione di Trump non è il prodotto di alcuna tendenza populista, se proprio vogliamo seguire i media nell’usare questo termine che non spiega nulla e che mette insieme partiti e movimenti molto diversi. Ad ogni modo, se con il termine populista intendiamo una tendenza che fuoriesce da un quadro bipartitico o bipolare tradizionale e, quindi, dagli interessi dello strato di vertice del capitale, come in effetti accade in Europa, dove centro-sinistra e centro-destra perdono complessivamente voti, la vittoria di Trump non è populista in quanto esprime le tendenze dell’élite capitalistica Usa e si colloca all’interno dell’alternanza bipartitica. Se le posizioni di Trump appaiono anomale, è soltanto perché la situazione del contesto è anomala, caratterizzata com’è da una crisi di durata e ampiezza straordinaria. Trump è il prodotto di tre crisi strettamente connesse tra loro:

  1. la “crisi secolare”, che poi non è che un nome per definire uno stato, ormai cronicizzato, di sovraccumulazione di capitale del modo di produzione capitalistico, che si accompagna a una tendenza al calo del saggio di profitto;
  2. la crisi della globalizzazione. La globalizzazione è stata la risposta alla prima manifestazione della sovraccumulazione di capitale con la crisi del ’74-75 e quella dei primi anni Novanta, attraverso l’export all’estero di merci e soprattutto di capitale in eccesso verso Paesi con salari più bassi e con un tasso di capitale fisso investito inferiore e, quindi, con saggi di profitto più alti. Questa risposta oggi, però, come è evidente anche dal rallentamento del commercio mondiale, non basta più a compensare o a frenare la caduta del saggio di profitto, a causa dell’intensificazione della sovraccumulazione di capitale e della conseguente sovrapproduzione di merci nei Paesi avanzati e dal presentarsi di questi fenomeni anche nei Paesi emergenti, soprattutto in Cina. La tendenza a scaricare la sovrapproduzione crescente sui mercati esteri ha provocato l’aumento della competizione commerciale e messo in crisi gli assetti della prima fase della globalizzazione
  3. la crisi di egemonia degli Usa. La sovraccumulazione di capitale si presenta in forme tanto più massicce quanto più un paese è capitalisticamente avanzato. Tale fenomeno negli ultimi due decenni ha dato luogo a uno sviluppo ineguale, determinando la perdita di potere relativo da parte degli Usa a favore di economie emergenti sostenute da stati forti. Inoltre, la conflittualità tra aree economiche principali e tra stati si è accentuata proprio con la crisi scoppiata nel 2007-2008 e gli Usa hanno maggiori difficoltà ad assolvere al tradizionale ruolo di traino della crescita mondiale mediante le importazioni, proprio a causa di una crescita interna che rimane troppo bassa.

Trump è, quindi, l’esecutore di un cambiamento di linea ritenuto necessario da gran parte dell’élite nordamericana, sebbene tale cambiamento possa essere declinato con alcune differenze nel modo di attuazione e con l’accentuazione su certi interessi piuttosto che di altri. Tuttavia, e forse proprio per questa ragione, sarebbe sbagliato pensare che Trump e le politiche protezionistiche possano rappresentare la fine della globalizzazione o del libero mercato. La fine della prima globalizzazione, coincisa con lo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914, dipese non solo da una crisi economica importante, ma anche da due elementi strutturali: a) all’epoca le imprese e il mercato dei capitali non erano così internazionalizzati e integrati come oggi; b) esistevano imperi territoriali entro cui i capitali potevano rinserrarsi; c) in definitiva l’accumulazione funzionava soprattutto su base nazionale. Oggi, invece, l’accumulazione è globale, le imprese sono multinazionali e transnazionali e esiste un mercato internazionale dei capitali. Per le stesse ragioni, ben difficilmente Trump potrà imporre con successo politiche troppo protezionistiche. Probabilmente potrà imporre una maggiore protezione sullo scambio di merci (compresa la forza lavoro), ma certo avrebbe molte più difficoltà a imporre politiche di controllo sui movimenti dei capitali, ammesso che lo voglia. Anzi, un eccessivo protezionismo sulle merci e una competizione tra stati sull’abbassamento delle imposte alle imprese possono costituire una spinta a investire in impianti che producano all’estero e un freno ai programmi di rilocalizzazione della manifattura. Se già negli anni Sessanta Kennedy e Johnson fallirono nel tentativo di limitare gli squilibri della bilancia delle partite correnti Usa, controllando l’esportazione di capitale delle multinazionali e provando a reinternalizzare i profitti esteri, a maggior ragione un tale tentativo risulta velleitario oggi16. Dunque, ben difficilmente ci troviamo, almeno per il momento, davanti alla chiusura della fase storica del capitale globalizzato. Inoltre, una inversione della tendenza del capitalismo all’espansione verso l’esterno e una massiccia reindustrializzazione degli Usa e degli altri Paesi avanzati appaiono quantomeno improbabili, proprio a causa dei livelli di sovraccumulazione raggiunti. Probabilmente siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione, peraltro già apertasi con la Brexit. Tale fase sarà caratterizzata da una maggiore conflittualità tra frazioni del capitale internazionale, soprattutto tra Usa, Germania, Giappone e Cina e da un riequilibrio o da un tentativo di riequilibrio delle relazioni degli Usa con la Cina e con la Ue, con una combinazione di elementi di protezionismo e di internazionalizzazione.

Dunque, è per ragioni strutturali, che rimandano al funzionamento del modo di produzione capitalistico, che è altamente improbabile che gli Usa ritornino a una politica isolazionista o che abbandonino la Nato. Inoltre, abbiamo qualche dubbio che, come alcuni hanno ritenuto, la politica di Trump possa essere meno bellicista di quella della Clinton. La stessa polemica da parte di Trump sulla necessità che gli alleati della Nato aumentino la loro spesa militare non va interpretata come una tendenza isolazionista. Molto più probabilmente rientra nella critica all’austerity europea, ispirata alla necessità che anche la Ue adotti politiche di bilancio espansive (in questo caso di keynesismo militare), che aiutino gli Usa a controllare i propri squilibri commerciali e delle partite correnti, con l’aggiunta di dare impulso all’export del complesso militare-industriale statunitense.

La politica di Trump avrà probabilmente effetti destabilizzanti sull’intero quadro economico e politico mondiale. In primo luogo, accentuerà la competizione economica con la Ue e la Cina. Inoltre, molto dipenderà dall’effetto delle politiche di spesa pubblica, che porteranno all’aumento del debito federale, e conseguentemente all’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato a livello mondiale. Le previsioni di un tale aumento, oltre alla rivalutazione del dollaro, stanno già creando difficoltà a molti Paesi europei, con l’aumento dello spread, e soprattutto ai Paesi emergenti, in difficoltà a ripagare i debiti pubblici e i debiti delle imprese in dollari o in valute legate al dollaro e da cui i capitali hanno ricominciato a defluire verso l’euforico mercato azionario statunitense. A questo proposito, va ricordato che gli Usa hanno sempre fondato la loro capacità di finanziare il debito pubblico e commerciale mediante l’attrazione di capitali dall’estero, in particolare dai grandi esportatori (petromonarchie, Giappone e Cina). Ma ciò è possibile solo grazie al fatto che il dollaro è moneta di riserva e di scambio internazionale. Visto che il dollaro è moneta internazionale soprattutto perché è utilizzata per gli scambi di petrolio, che gran parte dei rifornimenti cinesi e giapponesi di petrolio vengono dal Golfo Persico e che quelli del settore petrolifero sono tra i maggiori interessi dietro Trump, ne deriva la necessità di rimettere al centro della politica statunitense il controllo sull’area medio-orientale, oltre che di mantenere il controllo strategico sulle vie commerciali e sull’area che va dal Golfo Persico al Giappone. Dunque, anche per queste ragioni il ritorno a una politica isolazionista è da escludere. Anzi, viene da pensare che la politica di apparente “ammorbidimento” con la Russia, oltre a essere un tentativo di isolare la Cina, nasconda l’obiettivo di preparare il terreno diplomatico per riportare i boots on the ground, cioè per l’intervento di truppe di terra nell’area medio-orientale, dopo la fase obamiana basata sull’uso combinato di forze locali (jihadisti compresi), droni e bombardamenti aerei.

 

4. La vittoria di Trump ci parla della necessità di superare l’euro e del socialismo

La vittoria di Trump parla direttamente a noi, cioè all’Europa e alla Germania. E, in secondo luogo, ci dice molto anche sulle tendenze del capitalismo e sulle conseguenze di tali tendenze. Dice in sostanza che la crisi del capitalismo e la conseguente contrazione della base produttiva e nei Paesi centrali porta all’espansione all’estero, che presto o tardi conduce a un contrasto sempre più forte tra capitali e tra stati. Ma dice anche che questa tendenza è stata pesantemente accentuata dalla integrazione europea, specialmente quella monetaria, in particolare dalle misure di austerity. Mentre Trump e Clinton, durante la campagna elettorale, parlavano in termini di migliaia di miliardi da spendere in lavori pubblici, il tanto sbandierato piano di investimenti del presidente della Commissione europea, Claude Junker, si è rivelato chiaramente una bufala colossale e la moderatissima richiesta del governo italiano di un piccolo sforamento sui vincoli di bilancio per il terremoto e per l’immigrazione ha dato luogo a una battaglia campale con la Commissione. Chi critica, giustamente, il nuovo volto reazionario degli Stati Uniti trumpiani farebbe bene a domandarsi quanto Trump sia figlio, oltre che della crisi e dell’imperialismo Usa, anche del modo in cui l’Unione economica e monetaria, non solo la Germania, si è mossa negli ultimi anni contribuendo a creare pericolosi squilibri mondiali. Ma in Europa non è possibile neanche pensare a un programma di investimenti pubblici che permettano di riassorbire la disoccupazione e imprimere una crescita all’economia senza aver prima superato i vincoli europei che stanno alla base dell’integrazione valutaria europea e quindi la stessa integrazione valutaria. Infatti, non va dimenticato che l’euro è stato lo strumento che, attraverso la riduzione della domanda e del mercato interni, ha incentivato la spinta verso l’export. L’euro, in questo modo, ha accentuato la tendenza neomercantilista già presente in Germania e ne ha permesso l’estensione al resto dell’Europa, a partire dall’Italia. La ricerca europea di ampi surplus commerciali ha contribuito a produrre importanti squilibri economici a livello mondiale, tra i quali c’è senz’altro il rigonfiamento del debito commerciale statunitense.

Il modo di produzione capitalistico ormai da tempo non è più fattore di sviluppo delle forze produttive. Anzi, sta distruggendo capacità produttiva e risorse umane e ambientali, determinando una inversione radicale nella condizione delle classi subalterne dei Paesi avanzati, rispetto al lungo periodo di sviluppo delle forze produttive e di miglioramento delle condizioni del lavoro salariato, che, pur con alcune interruzioni, è andato dagli anni Ottanta dell’Ottocento alla fine del Novecento. La globalizzazione, iniziata negli anni Novanta, e la crisi scoppiata nel 2007-2008 hanno colpito pesantemente il centro del modo di produzione capitalistico e la sua classe lavoratrice, riproducendo la disoccupazione di massa e portando la povertà persino fra chi lavora. Ma la polarizzazione sociale e il diffuso disamoramento verso la politica e i partiti tradizionali, che ne derivano, sono stati ricondotti in alvei tutto sommato innocui o addirittura controproducenti. La classe lavoratrice rimane nella condizione di spettatrice passiva o di massa di manovra strumentalizzata dai diversi settori in competizione delle élites capitalistiche, come accaduto nelle ultime elezioni presidenziali negli Usa. In Europa, dove pure il tradizionale bipolarismo viene messo in crisi, la classe lavoratrice viene distolta verso obiettivi che non hanno nulla a che fare con i motivi strutturali della crisi, come l’immigrazione, o che spesso sono solo un sottoprodotto del dominio di classe e hanno un impatto del tutto secondario sulle sue condizioni, come la corruzione o i costi della politica. Eppure, segnali positivi ce ne sono stati: Syriza in Grecia, Corbin nel Regno Unito, Podemos in Spagna, Sanders negli Usa. Il punto è che da nessuna parte, dopo i primi risultati positivi, si è riusciti a rompere con il quadro di riferimento ereditato dal periodo precedente, promuovendo una vera autonomia politica di classe. La sinistra non riesce ad avere piena consapevolezza che la fase storica del capitale è cambiata, rendendo obsolete le tattiche e le posizioni del passato, oppure non riesce a tradurre tale consapevolezza in una linea politica conseguente e coerente. Negli Usa, dove il quadro di riferimento è l’alternanza bipartitica, Sanders è stato ricondotto al sostegno di Hillary Clinton e in Europa, dove il quadro di riferimento è l’integrazione monetaria, la sinistra non è riuscita a smarcarsi dal condizionamento dell’europeismo, inteso come valore in sé positivo.

La ricostruzione di una autonomia politica non può passare unicamente per la crisi del centro-sinistra e del centro-destra tradizionali. Passa, in primo luogo, attraverso la capacità di rompere politicamente con qualsiasi illusione di alleanza con i settori della “sinistra” capitalistica che si sono fatti promotori della globalizzazione, i democratici negli Usa e il partito socialista europeo, e con i vincoli che finiscono per neutralizzare le spinte che, nonostante tutte le difficoltà, si producono all’interno delle società avanzate. Ma passa anche per la consapevolezza che, data la fine dei margini delle politiche di redistribuzione, è necessario mettere in discussione i rapporti di produzione esistenti, che stanno alla radice della sovraccumulazione, della distruzione delle forze produttive e della tendenza espansionista delle varie frazioni del capitale. In definitiva, passa per la capacità di ricostruire le coordinate di una prospettiva complessiva di trasformazione della realtà. Né il programma di Trump né quello di Clinton possono risolvere, in ambito capitalistico, la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione che porta alla contrazione delle basi della produzione della ricchezza sociale nei Paesi avanzati. Al massimo possono tamponarla momentaneamente. L’unica soluzione possibile alla crisi del capitale, in ambito capitalistico, sarebbe una distruzione di capitale di dimensioni fino ad ora inimmaginate. In alternativa, c’è un’unica soluzione. Questa passa per il superamento dei rapporti di produzione privati, basati sull’appropriazione da parte di pochi del massimo profitto possibile. Quindi, la prospettiva su cui la sinistra deve muoversi non può che essere il socialismo, ossia la riconduzione dei mezzi di produzione sotto il controllo dei lavoratori associati secondo un piano razionale, che superi l’anarchia e la concorrenza del libero mercato. Sono proprio la fine delle illusioni legate alla globalizzazione e il ritorno dell’intervento dello Stato nel Paese guida del capitalismo, seppure in forme funzionali all’accumulazione di capitale, a portare una ulteriore prova della necessità e quindi dell’attualità storica del socialismo.


Note
1 http://cookpolitical.com/story/10174
2 Mario Platero, Il paradosso di Hillary beniamina dei mercati finanziari, vedi anche altri articoli in Speciale America al voto, “Il Sole24ore”, 2 novembre 2016.
3 Slavoj Zizek, Une chance de recréer une gauche autentique, Le monde, 13 novembre 2016.
4 George Jackson, Con il sangue agli occhi, lettere dal carcere, Agenzia X, Milano 2008.
5 Engels, L’Origine della famiglia della proprietà privata e dello stato, Editori riuniti, Roma 1981, p. 203.
6 Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica, Fratelli Bocca Editori, Torino 1923.
7 Larry H. Summers, U.S. Economy Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the zero lower bound, in Business Economics, vol. 49, n.2, 2014. Per una sintesi del pensiero di Summers e le altre questioni della decadenza economica dei Paesi avanzati, si veda il mio “Globalizzazione e decadenza industriale”, Imprimatur, 2015.
8 Calcolo mio su dati United States Census Bureau,
https://www.census.gov/foreign-trade/balance/c0004.html#2015
9 A ottobre 2016 la produzione di acciaio cinese è stato di 68 milioni di tonnellate, quella Usa di 6,4 milioni.
10 https://www.hillaryclinton.com/issues/manufacturing/
11 United States Census Bureau, Us Trade in Goods.
12 Tim Marshall, Prisoners of Geography, Elliott and Thompson Limited, London 2015.
13 Eurostat, Tables by Theme, Extra Eu 28 Trade by main partner, total products. http://ec.europa.eu/eurostat/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tet00035&plugin=1
14 Federal statistical office of Germany.
15 Istat, Commercio con l’estero e prezzi all’import dei prodotti industriali, settembre 2016.
16 Giovanni Arrighi, The Geometry of Imperialism, Verso Edition, Londra 1983.

Comments

Search Reset
0
Vincenzo Cucinotta
Thursday, 01 December 2016 10:11
Caro Moro, mi scuso innanzitutto per questi ripetuti interventi e per farmi scusare, prometto che non interverrò più a proposito del suo articolo.
Lei occupa quasi metà del totale del suo nuovo intervento per dimostrare che sono io che non ho capito quel passaggio sulla posizione maggioritaria all'interno delle elite finanziarie. Io le do pienamente ragione, ho equivocato, sperando così che lei legga anche il resto, perchè il centro del mio intervento e le questioni centrali che abbiamo di fronte sono ben altre.
Le pongo direttamente due questioni così forse usciamo da questo inutile pingpong.
Lei dice che lei è ottimista in quanto diagnostica questa difficoltà del capitale di uscire dalla crisi, ma non si fa facili illusioni perchè sa che la strada verso l'unica soluzione reale, il socialismo, è ancora lunga. Spero di avere riassunto certo brutalmente, ma in maniera tuttavia abbastanza fedele ciò che lei scrive.
Ebbene, le due domande sono su cosa lei intende per socialismo e su come, con quali tempi e partendo da quale luogo si potrà giungere al socialismo.
Io non parlo di socialismo, ma credo nell'attualità dell'uscita dalla società di mercato per come la definisce Polanyi, e da questa mia posizione che vede in una pianificazione economica democratica la caratteristica che principalmente distingue la nuova società per cui lotto, e che vede la situazione del capitalismo irresolvibile in avanzata fase autolesionistica e prossima al suicidio definitivo, sostengo che la situazione, che lei così bene interpreta, di quel poco che è rimasto della sinistra, appare senza sbocchi, senza capacità di fornire proposte concrete per l'oggi e quindi è in definitiva prepolitica.
Parlare del socialismo come unica prospettiva positiva e senza specificare come e quando arrivarci e neanche in cosa consisterebbe, non legando qundi l'attualità politica a questa società per cui si lotta, è darsi una patina di rivoluzionarismo, ma nei fatti praticare una politica del tutto interna al pensiero dominante.
Ciò che conta in politica è l'oggi, anche quando la conquista del potere è rinviata a un futuro remoto, gli atti di oggi devono essere legati e coerenti a quell'obiettivo finale, sennò si da luogo a due distinte prassi, l'una quella per l'oggi, in cui si va in piazza a difendere ad esempio la politica di genere assieme ai radicali, e quella del tutto slegata da questa, della società ideale futura, che a questo punto rappresenta soltanto una bandiera senza agganci con la realtà di oggi.
La prego infine di non scambiare il mio modo franco di dialogare che deriva proprio dalla mia fiducia nel dialogo, come scortesia o volontà di recare offesa.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Francesco Zucconi
Thursday, 01 December 2016 00:45
Che basti una "spallata" ne sono convinto anche io.
Tutti vediamo la sconcezza e la pochezza dei dirigenti politici attuali, che, sicuramente sono anche incartapecoriti per le troppe prebende... Però bisogna mettere in conto parecchie migliaia di morti nella sola Italia. Questa volta non sarà come nel 1922. Oggi i vincoli internazionali sono molto più stringenti, guardate il caso della Siria. In Italia, se si è disposti a soffrire molto, e ad accordarsi con quella piccola borghesia che paga le tasse e che e' assai istruita si potrebbe tentare il colpo sotto la guida del partito della Nazione, suona fascista, ma non è così!.. E' vero, gli operai e le classi subalterne dovrebbero accettare, in cambio di cultura diffusa, di protezione sociale e dei diritti civili elementari, di contribuire a mandare avanti il paese in uno stato molto simile a quello di guerra. Per evitare che questa fusione possa svilupparsi, in altre parole, per impedire la nascita del partito della Nazione, in molti cercano di spaccare ancor più il
paese, e certi comunisti sono fra i più gettonati a dividere il paese, e' un mestiere che hanno appreso da piccoli, forse in Jugoslavia, e furono assai utili per danneggiare la Patria a vantaggio degli interessi inglesi sul Mediterraneo e ora sono Tornati ad essere fondamentali per aumentare il caos in tempo di Brexit...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Domenico Moro
Wednesday, 30 November 2016 15:08
Mi permetta di ribadirLe che o non ha letto con attenzione l'articolo o non ne ha compreso il senso. La svolta verso l'espansione fiscale e il protezionismo era comune ai programmi di Trump e Clinton. Non certo una esclusiva di Trump. Di conseguenza non Trump ma la svolta era sostenuta dalla maggioranza dell'élite, divisa tra l'appoggio a Trump e a Clinton. Più volte ho detto, in questo e in altri articoli, che l'espansione fiscale è un fatto positivo, che stimola occupazione e Pil, anzi ho detto che L'Italia e l'Europa dovrebbero fare esattamente almeno questo, ma che non possono farlo a causa dei vincoli europei e dell'euro, tanto che bisognerebbe superare l'euro. Il problema nasce dal contesto generale in cui è inserita l'espansione fiscale. In primo luogo, una espansione fiscale dovrebbe essere fatta in modo coordinato da tutte le aree economiche principali, coordinando anche il livello di protezionismo del mercato delle merci e controllando i flussi dei capitali. Ma questo è impossibile in un ambito capitalistico globalizzato, cioè di ricerca del massimo profitto e di concorrenza su scala mondiale, resa più accesa dalla crisi. L'espansione fiscale di Trump, condotta insieme al protezionismo aumenterà la competizione tra le aree economiche, e, condotta insieme alla riduzione delle imposte alle imprese e ai ricchi, aumenterà il debito pubblico Usa e quindi, di nuovo, le tensioni internazionali, per le ragioni spiegate nell'articolo e che non ripeto. Ma c'è un aspetto più importante che sta nella tanto da lei vituperata economia e che non riesce a vedere per la sua avversione contro il marxismo. Per un momento lasci perdere il marxismo e guardi i fatti e i dati (mi permetto di consigliarLe la lettura del mio Globalizzazione e decadenza industriale). In sintesi: la caratteristica principale dell'economia attuale è la riduzione della base produttiva domestica e il direzionamento degli investimenti di capitali all'estero, che provoca delocalizzalizoni, riduzione dell'occupazione, riduzione salariale, in definitiva decadenza industriale e economica, ecc. Questo dipende dalla sovraccumulazione, ormai cronica, di capitale e in ultima istanza dai rapporti di produzione, fondati sulla ricerca del massimo profitto. Una politica come quella di Trump fondata sulla difesa a oltranza delle imprese private e dei loro profitti, non risolve questo problema. Alla lunga non lo risolve, anche se a breve può, come detto, tamponarlo. In aggiunta, la spesa per le infrastrutture darà una spinta, ma quanto durerà? Negli anni '30 il New Deal diede una spinta all'economia per qualche anno, ma nel '38/39 l'economia Usa era di nuovo in crisi. Solo le distruzioni di capitale (che risolsero la sovraccumulazione) e le enormi spese militari (molto maggiori di quanto possa essere la spesa attuale in infrastrutture) della Seconda guerra mondiale risolsero la Grande Depressione, dandoci 30 anni di espansione che poi hanno lasciato il campo di nuovo alla sovraccumulazioen sempre più grave. Quindi, guerra a parte, solo una prospettiva che contempli la riduzione del perimetro della produzione e dell'economia privata può ridurre le difficoltà economiche e solo il passaggio al socialismo può risolvere definitivamente la crisi. In questo senso, una politica di espansione fiscale, come quella di Trump, che si combini con la riduzione delle imposte alle imprese, con la riduzione del welfare e con l'aumento delle presenza privata nei settori pubblici, non può risolvere le difficoltà dei lavoratori e ancor meno può superare la stagnazione secolare. L'obiettivo di Trump è aumentare i profitti delle imprese, o almeno di alcuni settori di queste, dando una spinta fiscale, e non certo quello di stravolgere il funzionamento dell'economia. La crescita della capitalizzazione della borsa di New York, dopo l'elezione di Trump, si spiega con le aspettative della crescita dell'utile per azione. Tuttavia, se rilegge con attenzione l'articolo, la mia è tutt'altro che una visione tutta nera e senza prospettive come Lei l'ha capita e dipinta nei suoi post. Il ritorno all'intervento dello Stato è positivo in questo: che dimostra non solo l'inefficacia del capitalismo ma anche la necessità e l'attualità del socialismo. Invece, è proprio facendosi illusioni su un personaggio come Trump, che non sta certo dalla parte dei lavoratori, che si soggiace all'opportunismo e che si pongono le basi per la demoralizzazione, conseguenza automatica di ogni speranza malrisposta. E' molto meglio, come in ogni cosa della vita, guardare in faccia la realtà. Non per lasciar perdere ma per prendere la direzione giusta, che, poi, secondo me, è la costruzione di una propria autonomia poltica, senza dover contare su nessun miliardario.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Vincenzo Cucinotta
Tuesday, 29 November 2016 15:01
Grazie per avermi dato di chi legge senza capire.
In verità, io non ho mai detto che nell'articolo si sostenesse che le elite erano unanimi attorno a Trump, ma è invece vero che lei ha scritto che la svolta di Trump era richiesta dalla maggioranza delle elite, ed io a questa affermazione mi riferivo.
Mettendo da parte le questioni pure importanti di galateo e di rispetto dell'interlocutore, che dovrebbero pure fare da premessa ad ogni dialogo, rimango dell'opinione che la sua visione troppo economicista la condanna a sottovalutare l'entità della svolta.
In ogni caso, se le elite cambiano strategia, ciò mi pare implichi una loro battuta d'arresto.
Se le misure di stimolo monetario dimostrano sempre più di essere impotenti ad uscire dalla situazione di crisi in cui si trovano ancora ampie zone del pianeta, ipotizzare che Trump non sia la soluzione, le pare così assurdo?
E' dal 2008 che costoro le tentano tutte ma si incartano perchè non hanno fatto l'unica cosa risolutiva da fare, cioè la distruzione di tutta questa cartaccia che avevano creato, e non la fanno perchè i possessori di questa carta sono loro stessi e al loro dimagrimento preferiscono il tirare a campare con una logica del giorno dopo giorno.
Non essendo marxista, mi posso permettere di guardare agli eventi dal punto di vista strettamente politico, e riconoscere così che l'elezione di Trump non costituisce la svolta concordata di ampi settori delle elite globaliste, ma una loro dimostrazione di debolezza, divise tra chi resisteva sulla linea Obama-Clinton e i pro-Trump secondo però la logica del "proviamo anche questa".
Se certamente non è possibile essere certi che la formula Trump non costituirà la soluzione, come tuttavia io sono orientato a pensare, mi permetterei di suggerire che anche il contrario, e che cioè Trump sia la soluzione giusta per le elite, sia almeno altrettanto ingiustificata.
Io criticavo questa tendenza che travalica ampiamente il suo articolo, a trascurare le difficoltà e gli inciampi che subiscono gli avversari per rinchiudersi in una posizione pessimistica che li vede come imbattibili, forti anche quando evidentemente sconfitti anche se soltanto su aspetti parziali, e che finisce con lo giustificare il più bieco opportumìnismo e perfino il totale disimpegno (non le sto rivolgendo queste accuse, parlo di un clima culturale complessivo che avvolge quel poco che è rimasto della sinistra).
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Domenico Moro
Tuesday, 29 November 2016 14:13
Leggere non sempre vuol dire capire. Nell'articolo non si dice che tutta l'élite era con Trump. Al contrario si dice chiaramente che c'è stato uno scontro all'interno delle élites capitalistiche americane e che (pensa un po') in genere le elezioni servono anche a risolvere le contraddizioni interne alla classe dominante. Specie in fasi di crisi, quando anche le contraddizioni interne alla classe dominante aumentano. Quello che si dice è che Trump e Clinton presentavano importanti somiglianze nel programma, sebbene presentassero anche importanti differenze nel modo di attuarlo. E' nel passaggio da una politica espansiva monetaria a una espansiva fiscale che può ravvisarsi un cambiamento dell'orientamento delle classi dominanti Usa. Ugualmente non è corretto dire che non si individuano importanti novità nell'elezione di Trump. A parte la virata verso politiche espansive basate verso la spesa pubblica e l'aumento del debito (novità non da poco), si parla di un diverso orientamento verso la Russia e il Medio-Oriente. Nel complesso si dice che l'elezione di Trump è tutt'altro che ininfluente. Essa segna un cambiamento di fase storica: apre una seconda fase della globalizzazione caratterizzata da maggiore conflittualità tra aree economiche principali e maggiore tendenza alla guerra. Sempre a proposito di contraddizioni nel campo avverso, mi sembra semplicistico pensare che non esistano contraddizioni tra Usa e Germania e che quanto accade in Europa sia eterodiretto dagli Usa. E' evidente che c'è una contraddizione nel modo in cui la Uem si è mossa durante la crisi con come si sono mossi gli Usa. Ugualmente evidente e non nuovo (vedi il contrasto col Giappone negli anni '90) il problema che gli Usa hanno col debito commerciale e quindi con i Paesi forti esportatori. Comunque, non penso che le élite siano imbattibili, penso però che non sia il caso di farsi illusioni per eventi come l'elezione di Trump. Pensare che basti una spallata per far cadere tutto il castello è non solo semplicistico, è una illusione pericolosa. C'è bisogno di ben altro: la costruzione di un progetto e di una chiara prospettiva politica, come dico nell'articolo. In particolare c'è bisogno di costruire una autonomia di politica di classe e certo l'elezione di Trump e l'appoggio di Sanders alla Clinton non vanno in quella direzione.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Vincenzo Cucinotta
Monday, 28 November 2016 15:15
L'articolo fa una sua disamina della situazione economica a seguito dell'elezione di Trump, minimizzandone l'impatto sulla situazione esistente.
Tuttavia, proprio per la evidente parzialità di questa analisi che neanche sfiora gli aspetti geopolitici, fallisce nel comprendere quanto invece essa corrisponda ad una svolta epocale. Inoltre, ignorando gli aspetti geopolitci, l'articolo sottovaluta l'influenza che tali aspetti hanno giocato e giocheranno anche sugli aspetti più specificamente economici.
Tanto per esemplificare, l'autore sembra non cogliere come non abbia senso alcuno sostenere come egli fa che la Germania sia la causa di tanti danni all'economia mondiale e specificamente USA.
Ciò trascura completamente il fatto che è poi quello centrale, che la Germania ha potuto svolgere tale ruolo perchè gli USA gli hanno delegato la gestione dell'Europa. Le tiratine di orecchie alla Merkel sono subito apparse come qiusquilie, un teatrino per una certa opinione pubblica che non avrebbe mai potuto condizionare il governo tedesco, che difatti ha continuato a praticare allegramente le proprie politiche e quando si è prospettato, come nel caso della Grecia, una possibile uscita dall'eurozona, a fronte della solidarietà di facciata, Obama ha costretto Tsipras a piegarsi ai diktat tedeschi.
Insomma, ai tedeschi è apparso da subito chiaro che gli USA avrebbero subito con qualche rimbrotto puramente scenografico, qualunque iniziativa tedesca perchè non erano disposti a rompere questo patto di delega a loro concessa (figurarsi la rottura della UE!).
Cambieranno i rapporti con la Russia e cambieranno di conseguenza i rapporti con l'europa e la Germania è il paese che più ha da temere dal cambio di presidenza USA. La UE va verso la propria dissoluzione e se questa non è una svolta epocale, soprattuto poi per noi europei, allora davvero non si capisce cosa potrebbe rappresentarla in alternativa.
Non capisco poi come l'autore possa affermare che la maggior parte delle elite nord-americane avevano scelto Trump. Mi pare un dato del tutto contrario ai fatti, l'intero settore mediatico come noto sotto completo controllo di tali elite ha fatto a Trump una guerra senza quartiere, e la Clinton ha raccolto fondi per circa tre volte quelli raccolti da Trump.
Ancora una volta, si dipingono queste elite come imbattibili, esse cadrebbero sempre in piedi e tutto ciò che è accaduto era previsto ed addirittura voluto.
Al contrario, queste elite, malgrado la loro forza, stanno sbagliandfo tutte le mosse, stanno perdendo su tutti i fronti e resistono proprio perchè nel fronte avverso non si capisce quanto la situazione sia mobile, sia in movimento frenetico e come basterebbe una bella spallata per fare cadere il castello di carte su cui basano il loro potere.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit