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sinistra

Crisi pandemica e passaggi di fase

di Raffaele Sciortino

pandemic expansion sett20 html 101a94bf96bca952“… alienati dalla natura, e quindi infelicissimi”
Leopardi, Zibaldone

"Non le cose turbano gli uomini ma i giudizi che gli uomini formulano sulle cose"
Epitteto, Manuale

Probabilmente solo questo autunno-inverno, a fronte di una nuova ondata pandemica o del suo affievolirsi, si capirà qualcosa in più sulla natura del covid dal punto di vista “medico-scientifico” (terreno spinosissimo questo del rapporto non lineare tra tecnoscienza, potere, capitale, informazione…). Ciò non toglie che, anche dovesse sperabilmente confermarsi la relativamente bassa letalità del virus sull’insieme delle popolazioni, il suo impatto è un fenomeno sociale di primaria grandezza legato al quadro di insicurezza strutturale dell’esistenza dentro il capitalismo globale, di cui le percezioni soggettive di paura, come sull’altro versante di scetticismo o negazione, sono manifestazione oggettiva. La pandemia - crisi sociale non solo globale ma simultanea - si sta rivelando infatti un notevole acceleratore delle particelle già discretamente impazzite del capitalismo a più di dieci anni dallo scoppio della crisi globale. Al tempo stesso è un potente rivelatore delle patologie del capitalismo all’altezza della sussunzione reale e un catalizzatore di reazioni sociali profonde. Reazioni che manifestano all’oggi tendenze contraddittorie compresenti che in parte si scontrano, in parte si intrecciano, con esiti politici indeterminati. Qui di seguito, per punti, alcune valutazioni in corso d’opera e qualche ipotesi interpretativa.

 

§ 1. Doppia crisi: deglobalizzazione o crisi della globalizzazione? Usa/Cina; cambio di passo UE; keynesismi selettivi

Ad un’analisi impressionistica il coronavirus può apparire uno shock esogeno: in realtà, non solo il sistema economico globale era a inizio 2020 già sotto notevole stress, ma l’intreccio tra crisi economico-finanziaria e sconvolgimenti in senso lato ambientali andrebbe oramai considerato a pieno titolo un fattore endogeno.

Le contraddizioni sistemiche del capitalismo globalizzato, comprensive di un rapporto sempre più distruttivo verso la natura, sono la scaturigine profonda dell’intreccio tra pandemia e crisi economico-sociale da essa innescata. Questo ennesimo passaggio - che solo un inveterato economicismo potrebbe trascurare in quanto non direttamente scaturente da processi “economici” - rimanda alla disconnessione sempre più marcata tra riproduzione sistemica del capitale e riproduzione sociale complessiva.

1.1. Ciò non significa sottovalutare l’uso che i poteri sovranazionali, statali e sub-nazionali, possono fare, già van facendo di questa crisi in funzione di un più ampio controllo sulle popolazioni e/o di tentativo di rilancio dell’accumulazione su nuove basi. Ma ciò che al momento pare delinearsi è piuttosto una crisi della governance politica, ancorché differenziata per portata ed effetti nei diversi paesi e aree geo-economiche. La crisi pandemica ha prodotto una scossa tremenda in un terreno già percorso da molteplici smottamenti, costringendo i governi (e le comunità scientifiche, con significativi contrasti al loro interno) a reazioni di negazione o scetticismo prima, sorpresa e panico poi.

1.2. La pandemia ha rappresentato così l’innesco di quello che potrebbe essere il secondo tempo della crisi globale scoppiata nel 2008-9, all’incrocio tra contingenza e tendenze di fondo. L’emergenza è infatti andata a collidere in maniera violenta con i problemi lasciati irrisolti da quella crisi, che non ha visto una effettiva ripresa generalizzata basata su un forte rilancio dell’accumulazione. Non a caso, da ultimo, il barometro dell’economia mondiale segnava tempesta alla luce della guerra dazi Usa-Cina, della caduta borse nel 2018 poi tamponata con iniezioni di liquidità delle banche centrali, dei segni di recessione in Giappone e Germania, degli enormi interventi sul mercato repo della Federal Reserve statunitense negli ultimi mesi del 2019, dell’approssimarsi dell’ennesima guerra sul prezzo del petrolio, ecc.

1.3. Dietro questi segnali, precipitati nello shock produttivo e di domanda innescato dalla pandemia, si intravede un’accelerazione di tendenze generali già in atto. Contrazione del commercio mondiale, sfilacciamento delle filiere globali, riduzione degli investimenti esteri fanno il paio, sul piano economico, con l’offensiva geopolitica di Washington contro la Cina volta al decoupling almeno parziale delle due economie. Siamo allora di fronte a un’inversione del ciclo, all’inizio della de-mondializzazione? Allo stato, è forse più appropriato parlare di crisi della globalizzazione. Il punto cruciale, infatti, è che la globalizzazione non è in primis o esclusivamente una politica che si possa impunemente dismettere: è innanzitutto uno “stadio” del processo di affermazione del mercato mondiale. Certo, un processo per natura interminabile e foriero di contraddizioni esplosive che possono anche, a date condizioni, farlo deflagrare. Ora, una rottura effettiva della globalizzazione è funzione, principalmente, di quanto andrà a fondo lo scontro Usa/Cina. Washington deve bloccare e invertire l’ascesa della Cina intaccandone a fondo la stessa tenuta unitaria come stato, nel quadro di un programma di regime change globale a difesa del dominio mondiale del dollaro. La Cina è spinta dal suo stesso corso capitalistico verso una collocazione meno subordinata all’interno del mercato mondiale, che pure non punta a rovesciare né ha i numeri per dominare (i discorsi sul Secolo Cinese sono risibili). Washington deve, per le contraddizioni crescenti interne ed esterne del suo dominio mondiale, piegare quel corso alle proprie esigenze, mettendo altresì in riga gli “alleati” europei, in primis Berlino, agendo di fatto da paese revisionista dell’ordine internazionale. Ma si tratta di un processo non esente da ostacoli rilevanti e contraddizioni dirompenti. Primo: è da vedere se le multinazionali Usa possono rilocalizzare il capitale fisso investito in Cina che permette di appropriarsi della gran parte del plusvalore estratto dalla classe operaia cinese mentre, al contempo, la condizione proletaria interna agli States andrebbe a tal punto abbassata da rendere convenienti le riallocazioni. Secondo: c’è il rischio che l’incasinamento dovuto alla recrudescenza della crisi mondiale e dello scontro geopolitico possa intaccare seriamente il predominio del dollaro prima che la strategia yankee di sbaraccamento della Cina abbia successo. Terzo: è possibile una ripresa non asfittica dell’accumulazione solo incrementando l’estrazione di plusvalore a scala globale o non si sta palesando la necessità sistemica di procedere ad una distruzione massiccia del capitale fisso, ben oltre quella che avrà luogo di capitale fittizio e che ogni attore cercherà di scaricare su partner e avversari? Comunque sia, che abbia successo la strategia statunitense oppure si vada verso la disarticolazione del sistema internazionale e lo scontro bellico (tutt’altro, quindi, dalle illusioni o speranze multipolariste di molti), il mercato mondiale, anche nel pieno degli scontri più accesi, resta l’arena essenziale per l’estrazione e la realizzazione del plusvalore (tutt’altro, quindi, dalle illusioni sovraniste sulla possibilità di restaurare mercati autosufficienti a scala nazionale o regionale). Da esso non si torna indietro salvo l’esplodere di un conflitto militare mondiale che lo renda, per la durata del conflitto, impraticabile. Un conflitto, comunque, che sarebbe per una ri-spartizione del mercato mondiale stesso.

1.4. In questo quadro di disarticolazione, gli altri attori nazionali, anche pressati dalle proprie popolazioni, spingono su una ri-nazionalizzazione delle proprie politiche a fronte di una politica statunitense sempre più ostile, per i rivali, o sempre meno affidabile, per gli “alleati”. In particolare, l’Unione Europea è stretta tra lo scontro Usa/Cina, da un lato, e l’esigenza di giocare un ruolo globale in proprio, dall’altro. Ciò spiega, dopo le solite iniziali divisioni al suo interno a fronte dell’emergenza virus, il cambio di passo attuato sotto la spinta della Germania. Con l’accantonamento del patto di stabilità e il varo del Recovery Fund - che prevede una provvisoria e parziale mutualizzazione dei debiti statali dei paesi membri, certo legata a condizionalità - ci si è preoccupati, innanzitutto, della tenuta sociale dei paesi più colpiti dal covid, sul fronte meridionale della UE. In prospettiva però si punta a riorganizzare, intorno al polo egemone tedesco, la struttura produttiva e la finanza europee in funzione della competizione crescente sui mercati globali. L’obiettivo di Berlino è di preservare e rafforzare UE e euro per ovviare ai segnali statunitensi di sempre maggiore ostilità, che preluderebbero ad una maggiore sottomissione a Washington in funzione anti-cinese e anti-russa. In più, l’emissione di debito comunitario - e di debito green (sponsorizzato dalla mobilitazione gretiana) - potrebbe attirare sull’euro capitali da sottrarre al dollaro e ai Treasury Bond statunitensi e parare così il rischio speculazione già concretizzatosi con l’eurocrisi dei primi anni Dieci. Restano, però, notevoli difficoltà perché questo passaggio diventi effettivo: divisioni interne all’Europa (sfruttate da Washington, che egemonizza i paesi dell’Est Europa e potrebbe giocare contro Berlino i paesi meridionali), titubanza di Berlino a rompere con l’atlantismo e in prospettiva scontro interno tra due fronti politici, impossibilità dell’euro di fungere da moneta mondiale, ritardo enorme accumulato nella competizione digitale, assenza di una politica imperialista unitaria, e su tutto la necessità di procedere a riforme profonde che intaccheranno gli equilibri sociali interni ai singoli paesi nonché quelli tra paesi membri. Lo scontro tra Berlino e Washington andrà comunque avanti, in forme ora più aperte ora sotterranee.

1.5. Sia in Europa che negli Stati Uniti sembra comunque delinearsi un cambio di passo nelle strategie economiche rispetto alla precedente crisi. Assistiamo a misure di erogazione di liquidità (debito) a salvataggio non più solo della finanza, ma anche per interventi effettivi nella cosiddetta economia reale. Si tratta, sulla carta almeno, di massicci interventi statali di stampo keynesiano atti innanzitutto a tamponare la crisi occupazionale e a preservare gli apparati produttivi in vista di una (eventuale) “ripresa”. In prospettiva si tratterà però di incrementare la base reale del valore per sostenere con rinnovati profitti sia l’enorme bolla di capitale fittizio alimentata dall’ulteriore indebitamento statale sia l’acuita concorrenza globale. Le economie andranno incontro a ulteriori processi di ristrutturazione e concentrazione, a scala nazionale e sovranazionale, lasciando sul campo le imprese-zombie fin qui sopravvissute e parte della forza-lavoro. Gli assetti sociali, a seguito del secco ridimensionamento dei salari e dei risparmi di proletari e ceti medi salariati e del secco ridimensionamento e/o torchiatura di buona parte del ceto medio indipendente, verranno sconvolti da una profonda ristrutturazione produttiva e sociale (digitalizzazione, automazione, riconversione verde, riforma dei servizi pubblici e del welfare, ecc.). Se di keynesismo si potrà effettivamente parlare, sarà dunque ultra-competitivo e ultra-selettivo, a tutti i livelli, e niente affatto indolore per le società a misura che i debiti andranno ripagati con gli interessi. I sogni nutriti a sinistra di un rilancio e riqualificazione delle spese sociali andranno incontro a una doccia fredda.

 

§ 2. Reazioni sociali: Cina; Occidente

Le reazioni sociali alla pandemia hanno rappresentato e rappresentano, nella loro diversità e mutevolezza, il terreno di posizionamento delle diverse classi, nelle diverse aree geopolitiche, rispetto al palesarsi di alcune importanti disfunzioni se non veri e propri limiti strutturali del sistema capitalistico (fragilità delle catene del valore, urbanizzazione irrazionale, infrastrutture sociali in declino, ritmi di vita iperaccelerati e patogeni, ecc.). Non va trascurato il fatto che sanità e scuola, tra i servizi più colpiti dall’epidemia, restano a tutt’oggi il pilastro welfaristico del residuo compromesso sociale in Occidente. Di qui le sparute scintille di coscienza e spinte alla mobilitazione cui abbiamo assistito. Se dall’alto le reazioni all’emergenza sicuramente vengono utilizzate - essa va altresì smuovendo le acque fin qui stagnanti di una società traumatizzata da dieci anni di crisi. Le classi si lasciano “manipolare” finché si tratta di ordinaria amministrazione del compromesso sociale dato, ma non si ingannano quando eventi cruciali lo scuotono bucando il filtro della comunicazione e della vita quotidiana normalmente sussunta ai feticci del capitale.

2.1. Partendo dalla Cina, duramente colpita nell’economia e nell’immagine dallo scoppio dell’epidemia, non si può negare che lo stato centrale ha mostrato notevoli capacità di gestione della crisi ribaltando in parte in termini di soft power le negative ripercussioni iniziali. Cruciale è stato un fattore quasi sempre trascurato nei commenti occidentali: la forte reazione comunitaria delle masse cinesi alla notizia del diffondersi del virus con conseguente pressione sui vertici statali a fronte della trascuratezza e dell’incompetenza delle autorità locali. Alla spinta dal basso si sono così affiancate le mosse di Pechino con un intervento deciso in quanto in gioco era la legittimazione del partito e dello Stato. Si è quindi trattato dell’ennesima dialettica democratica - intesa nel senso di costituzione materiale del rapporto tra proletariato, partito e Stato - con il “popolo” che ha spinto sul potere che, a sua volta, ha lanciato una campagna nello stile della “guerra di popolo”, contro il virus ma anche contro la possibilità che l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, potesse approfittare della crisi sanitaria per dare un colpo alla tenuta del paese. Contestualmente, a misura che il virus si diffondeva nel mondo, il modello cinese di intervento - ovviamente condizionato nella sua rigidità dalle gravi carenze dell’infrastruttura sanitaria - ha avuto un’immediata ripercussione in Occidente nel rapporto tra popolazione e rispettivi governi fissando quasi un benchmark nella gestione della crisi epidemica. (L’Italia, primo paese occidentale colpito duramente dall’epidemia, è stato anche il primo ad adottare un lockdown rigido ancorché non totale). È come se la Cina avesse con ciò lanciato un messaggio universalistico - fin qui prerogativa dell’Occidente - non declinato sui diritti umani ma sulla necessità di prendere misure decise e di cooperare globalmente per superare la pandemia. Questo, insieme all’invio di attrezzatura medica, ha palesato un sottofondo politico (e geopolitico) che ha contato nello spostamento degli umori e delle reazioni dell’opinione pubblica dei paesi occidentali. In questo senso, ma per ora solo in questo senso, la spinta dal basso per una lotta efficace al virus ha alluso alle potenzialità dell’azione proletaria oltre i confini nazionali. D’altro canto la risposta di Pechino non va sopravvalutata perché l’epidemia ha messo in estrema difficoltà l’economia cinese e il suo tentativo di risalire la catena del valore. A differenza del 2008/2009, allorché le sue misure keynesiane hanno contribuito a che l’Occidente non precipitasse in una depressione economica, la Cina è oggi completamente dentro la crisi ed esposta a un indebitamento maggiore dai ritorni decrescenti. Non solo non potrà salvare l’Occidente, ma dovrà salvare se stessa e per farlo, tenendo conto della guerra economica in corso con gli Usa, probabilmente dovrà salvarsi dall’Occidente. Lo stesso patto sociale tra Stato, ceto medio e proletariato, sempre meno praticabile come scambio tra stabilità politica e crescita economica, dovrà mutare, con quanto ne seguirà in termini di instabilità interna che andrà ad aggiungersi a quella internazionale (v. vicenda di Hong Kong).

2.2. In Occidente ha inizialmente prevalso lo sconcerto di fronte al fatto che un virus sconosciuto potenzialmente letale non sia restato confinato alle periferie del mondo. Al di là di atteggiamenti anche molto differenti, quello che è emerso è che per ampi settori di popolazione il modo di vivere quotidiano di occidentali non è più percepito come sicuro. Con un gioco di rimando rispetto all’incertezza complessiva e profonda prodotta da dieci anni di crisi e all’attitudine meno positiva, se non in certi settori del tutto negativa, verso gli effetti della globalizzazione. Su queste basi - che non sono solo soggettive, rappresentando l’incertezza oramai una condizione strutturale - il virus pur avendo fin qui quasi sempre mostrato una letalità più bassa del temuto ha avuto e sta avendo un impatto sociale notevole dagli effetti ancora non ben calcolabili. Tale situazione ha rimesso in moto la testa e la pancia di proletari e ceti medi e potrebbe aprire a domande inaspettate. Presa d’atto dello stato disastroso dei sistemi sanitari; percezione del montante clima neomalthusiano verso anziani e malati in genere; frattura, all’interno dello stesso mondo di chi vive del proprio lavoro, tra ragioni inderogabili dell’economia da un lato e cura della vita e della salute dall’altro; riflessioni, seppur solo accennate, sulla forma del vivere che ci ha portati a questo punto; dubbi se il sistema di poteri “plurale” e “democratico” sia veramente al servizio della comunità; distinzione che si fa strada tra bisogni “essenziali” e no; domanda su cosa è essenziale produrre, come distribuirlo senza mettere a rischio la salute: tutto ciò attiene ad alcuni nodi importanti del rapporto tra riproduzione sociale e riproduzione sistemica capitalistica. Contestualmente si è fatta strada la richiesta dal basso di venire incontro all’esigenza di reddito per chi ne è rimasto privo attingendo al capitale complessivo accumulato - in forma monetaria e soddisfatta dallo stato, dunque tutta interna al rapporto di capitale - e non lasciare completamente al mercato produzioni e servizi indispensabili. In germe, quindi, una serie di esigenze almeno parzialmente in contraddizione con le necessità del capitale per come si è strutturato negli ultimi decenni: esse hanno segnalato un’istanza in senso lato di classe niente affatto scontata alla luce dell’interiorizzazione proletaria della “naturalità” del capitalismo, e in particolare delle ragioni superiori dell’impresa. Almeno nel periodo di percezione del maggior rischio sanitario, la cifra generale degli umori e delle (minime) pratiche dal basso è stata quella di far pressione sullo Stato a tutela della salute collettiva, o di mobilitarsi in questo senso laddove i governi non sono venuti incontro a tali richieste, per una sorta di socialismo rozzo emergenziale. Il tutto accompagnato in alcune imprese private da scioperi spontanei per la sicurezza dei lavoratori e da una spinta allo smart working per la protezione della salute in ampi settori di ceto medio salariato, pubblico o autonomo. In sintesi, mentre il virus si è incaricato di mettere a nudo alcune patologie della nostra società, dominata dall’industrializzazione della vita, le reazioni sociali emergenti in senso al proletariato hanno innescato - confusamente e non senza sofferenze e contraddizioni legate alle misure di restrizione delle libertà individuali e al carico riproduttivo gravante sulle donne - un bisogno di comunità che è giunto, anche solo per poco, a mettere l’economia in secondo piano rispetto alla vita. Riproduzione della specie contro mera riproduzione della forza-lavoro.

 

§ 3. Di nuovo neopopulismi?

Le reazioni sociali alla pandemia - tanto più se questa non scomparirà così presto - rappresentano dunque un passaggio forte senza che per questo, sia chiaro, si delinei una crisi ingestibile per il capitale. In quale direzione si va? Per alcuni aspetti la situazione sembra confermare in Occidente la dinamica del neopopulismo1 - come terreno nuovo della contraddizione di classe una volta esauritosi il movimento operaio classico - impostosi nei paesi imperialisti con la crisi globale. A patto di focalizzarsi non sulle espressioni organizzative contingenti, ma sul con/fuso intreccio tra istanze classiste e comunitarie-nazionali, espresse in senso ora cittadinista ora sovranista, segno della profonda trasformazione dei rapporti di classe. Infatti, pur nell’inedito contesto di doppia crisi, epidemica e economica, ri-vediamo all’opera queste istanze nella loro ambivalenza:

- la rivendicazione di sovranità sulla vita: salute contro economia, possibile non al singolo ma alla comunità, che preme sullo Stato affinché esso disciplini gli interessi egoistici privati facendosi portatore delle esigenze della riproduzione sociale - nell’ambivalenza della rivendicazione cittadinista di uno Stato di tutti;

- la presa di distanza nei comportamenti, ancorché parziale e provvisoria, dall’individualizzazione del rischio - dispositivo neoliberista di scarico delle responsabilità sociali sul singolo lasciato a se stesso - che ha riproposto il nodo della costruzione di una responsabilità comune. La situazione drammatica ha costretto a reagire non come il singolo ma come singoli al plurale, premessa di un non scontato corso sociale in controtendenza all’atomizzazione fin qui imperante, ma non senza la pericolosa contropartita di un controllo delegato al potere statale, illusorio surrogato della comunità che si nutre dei limiti di questa;

- la dinamica di classe che ha visto settori (minoritari) di proletariato manifatturiero e dei servizi farsi sentire, anche con scioperi, contro il disprezzo delle imprese per la vita della gente e a fronte della diversa incidenza e letalità del virus a seconda dei fattori di classe e razza, pur nella contraddizione chiaramente percepita tra la propria riproduzione come classe e specie umana e il diktat dell’economia che presiede alla propria riproduzione immediata monetaria;

- il senso comune interclassista della difesa comune contro il virus, pur nella crescente divaricazione tra i differenti settori e interessi del “popolo” (v. sotto § 4.);

- la crescente insofferenza, in ampi strati delle popolazioni europee, verso gli Stati Uniti, il negazionismo trumpiano, l’arroganza manifestata da Washington su tutti i piani; ma anche il rigurgito di sovranismo anti-UE a fronte dell’assenza di una strategia comune delle tecnocrazie europee nella fase iniziale dell’epidemia (ma anche il probabile riallineamento pro-UE di settori popolari a seguito dei previsti “aiuti” sconterà il fatto che la “svolta” di Bruxelles è il portato, oltreché dell’eccezionalità della situazione, proprio degli umori populisti che i governi italiano e francese in particolare hanno a modo loro raccolto per una contrattazione più dura ai tavoli comunitari).

In parte spinte spontanee, in parte istanze esplicite, queste espressioni confermano la presenza di un campo sociale nuovo, imprevisto e incomprensibile alle “sinistre”, che va molto al di là dei suoi provvisori contenitori. Quelle neopopuliste restano, comunque, fondamentalmente reazioni, non potendo incarnare nella destrutturazione della società capitalistica in corso un’alternativa di modello sociale complessivo, come invece è stato per tutta una fase con il riformismo operaio che ha accompagnato, pur tra crisi e disastri, un capitalismo con ampi spazi di espansione.

 

§ 4. Slittamenti: nuove linee di faglia; secondo tempo del neopopulismo?

Gli slittamenti, le discontinuità sono però altrettanto significativi. Contro ogni ipotesi di sviluppo lineare, con la pandemia sono entrate in gioco nuove variabili. Oltre ai fattori globalizzazione e precarizzazione, sono infatti comparse nuove linee di faglia, foriere di potenziali contrapposizioni, sul terreno della difesa della salute contro il primato dell’economia, delle condizioni di lavoro più o meno “protette”, delle differenze generazionali, per nominare solo le più eclatanti. I campi sociali e politici fin qui esistenti ne risulteranno sicuramente scombussolati.

4.1 La linea di divaricazione più netta è quella emersa tra i settori, prevalentemente proletari ma anche di ceto medio salariato del settore pubblico, che antepongono la sicurezza delle proprie condizioni al lavorare per altri, da un lato, e proletari delle piccole-medie imprese impauriti dalla possibile disoccupazione, “autonomi” che vivono del proprio lavoro nel settore dei servizi alle imprese e alle persone, parte del ceto medio produttivo con possibilità di accumulazione sempre più precarie e senza effettiva indipendenza ma convinti di lavorare in proprio, dall’altro, che si oppongono a misure restrittive che impediscono o rendono difficile la prosecuzione delle attività. È in questi settori che, già durante o subito dopo la fase più acuta della pandemia, ha trovato consenso la narrazione del lockdown (effettivo o presunto) come ingiustificata dittatura sanitaria pro poteri forti, “privilegiati”, stato, ecc. (salvo poi esigere essi stessi appoggio statale a spese della comunità, per lo più sotto forma di sussidi e sconti fiscali). È un fatto che i due settori non solo hanno difficoltà a collegare le proprie istanze ma - agendo in senso opposto il nesso tra riproduzione del capitale e riproduzione della propria vita - al momento sono su fronti contrapposti. E qualitativamente differenti, caratterizzandosi il secondo settore per l’assenza dell’istanza comunitaria, l’illusione di poter tornare alla “libertà” perduta e una logica di auto-impresizzazione pur nel rancore verso il grande capitale, che va ad accaparrarsi fette di mercato a danno dei pesci piccoli. La crisi pandemica accelera dunque la scomposizione dei ceti medi e la divaricazione di una parte di essi dal proletariato. Nondimeno, l’interclassismo proprio dell’orizzonte neopopulista non lascerà affatto il posto sul versante proletario a posizionamenti classisti “puri”, andrà piuttosto a riconfigurarsi. Non sarà comunque di poco conto il fatto che, con un guizzo subito scomparso, si è vista riemergere l’importanza cruciale della collocazione direttamente produttiva del proletariato, potenzialmente in grado di bloccare l’intera riproduzione del capitale.

4.2 Altra linea di faglia, ancora sotto traccia, è quella che va scavandosi tra le generazioni. In particolare, tra giovani e adulti fin qui poco toccati dal rischio virus e quanti tra i più anziani hanno o la possibilità di meglio autotutelarsi o vengono di fatto spinti verso una forma di (auto)segregazione, in un montante clima neo-malthusiano. In effetti, l’attitudine della massa dei giovani di fronte alla pandemia - oscillanti tra “senso di responsabilità” verso i più fragili e comportamenti “liberatori” rigorosamente individuali o amicali nell’ambito di un consumismo da eventi compensativo - non segnala al momento un ripensamento della propria misera collocazione in questa società, tra l’essere riserva di lavoro precario e fruitori di consumi inutili o distruttivi, né dei possibili modi alternativi di socialità. Sembra il loro ancora un immaginario legato alle aspettative di “ceto medio in formazione” - puoi essere tutto ciò che saprai essere - con credito facile e arricchimento accessibili in funzione della meritocrazia dell’intelligenza. Immaginario cui continua a contribuire l’istituzione scolastica con la subalternità controproducente degli insegnanti, i quali hanno da tempo costruito la loro identità sull’illusione di essere vettori insostituibili (?) della mobilità sociale (?) dei propri studenti. È sperabile che la crisi pandemica inizi a scuotere tutto ciò. Certo, l’ordine secco impartito dalle imprese - per le quali la scuola di massa, al di là di ogni retorica sulla formazione, deve fungere prevalentemente da parcheggio per i figli della propria forza-lavoro - a “riaprire” le scuole quali che siano le condizioni di sicurezza, la dice lunga su quello che il capitale prepara più in generale per il ceto medio salariato delle infrastrutture pubbliche. Del resto, il peggioramento complessivo della condizione dei lavoratori - quale migliore occasione di una crisi dovuta a cause “naturali”?! - è l’obiettivo di un possibile uso capitalistico anche della faglia generazionale, con i giovani che potrebbero essere scagliati contro i “vecchi privilegiati” nel tentativo delle imprese di trovare per una propria rivitalizzazione nuove riserve di energia disponibili a basso costo. Dumping generazionale in vista in una società capace solo di sprecare e bruciare le energie della gioventù, ma anche nascosto potenziale di quest’ultima.

4.3 In questo senso giocano anche i limiti delle reazioni di chi, per lo più salariato, ha cercato di opporsi alle “ragioni” dell’impresa e al social-darwinismo di alcuni governi:

- non si è andati molto oltre la difesa immediata della salute nell’illusione diffusa di tornare a “come si era prima” o, almeno, di poter minimizzare i danni con richieste categoriali puramente economiche (verso cui, nella migliore delle ipotesi, spingono i sindacati);

- lo stesso soggetto che ha spinto per misure restrittive è facile che spinga ora per la riapertura delle attività economiche, vuoi perché preso dalla drammaticità delle prospettive occupazionali vuoi per una mutata percezione della soglia del rischio sanitario (“col virus si deve convivere”);

- è forte la delega allo Stato per le misure di prevenzione del rischio e poi di difesa del reddito; anche se non c’è una richiesta di un “potere forte”, i governi sapranno utilizzare tale legittimazione per far passare a tempo debito l’inevitabile socializzazione delle perdite sulla base del richiamo all’unità di tutti nei sacrifici;

- non c’è chiarezza sulle cause prettamente sociali della pandemia (non, ovviamente, del virus) legate al modo di produzione capitalistico.

Tutto ciò potrebbe risospingere quella parte di proletariato ancora legata al residuo compromesso sociale nella passività o, peggio, accodarlo nei confronti di quei settori di capitale più concentrati che dell’emergenza epidemica puntano a fare il trampolino di lancio per ricette economiche shock; mentre i settori meno “protetti” cadrebbero in balia, senza peraltro capacità di condizionamento, del sovranismo (in Europa, al momento, più di facciata e filo-americano) della piccola borghesia portata alla rovina dal grande capitale.

4.4 Altri slittamenti prefigurano invece, per lo meno in Europa, potenziali ma non scontati passaggi in avanti nella chiarificazione dei rapporti di classe e nel posizionamento proletario:

- mentre nella prima fase del neopopulismo lo scontro, per lo più ancora di umori e comportamenti elettorali, è stato globalisti contro cittadinisti-sovranisti, la doppia crisi in corso rimette sì in campo la necessità di secche misure stabilite a scala nazionale, al contempo rende evidente che la scala decisiva delle questioni, o almeno uno dei terreni fondamentali, tanto più a fronte ad una pandemia, è quella internazionale;

- emerge uno spostamento importante del disagio neopopulista dal piano fin qui prevalentemente politico - espresso dalla rivolta cittadinista contro i “corrotti” e da quella sovranista contro i poteri sovranazionali - al piano del funzionamento dell’economia e della società (lo scarso interesse in Italia per il referendum “anti-casta” è indicativo dello slittamento degli umori di massa);

- soprattutto, è in atto una divaricazione tra spinte dal basso e contenitori politici istituzionali, che si sono fin qui fatti rappresentanti dei perdenti della globalizzazione. Anche se non abbiamo ad oggi un conflitto di classe aperto - tipo mobilitazione dei Gilets Jaunes francesi2, che ha messo in crisi le pretese credenziali populiste del lepenismo di nuovo conio - la presa dell’asse sovranista (il cosiddetto populismo di destra) sul popolo è stata messa alla prova. L’esito non può non aver sollevato seri dubbi, in particolare sul versante proletario, soprattutto alla luce del sostanziale negazionismo rispetto all’epidemia dei campioni sovranisti “di destra”, costretti dagli eventi a riposizionarsi in maniera piuttosto netta nel campo della libertà di impresa e del più sfrenato individualismo proprietario (Lega italiana, AfD, conservatori brexiters, ecc.), nonostante le ragioni non sempre peregrine addotte contro il “capitalismo della sorveglianza” dalle frange “anarco-capitalistiche” di questo spettro politico. Ma anche il cosiddetto populismo “di sinistra” non se la passa molto meglio a misura che è stato ricondotto nell’alveo di politiche istituzionali centriste e europeiste (M5S, Podemos) perdendo ogni possibilità di appuntamento con il futuro.

4.5 Negli Usa la dinamica è ancor meno lineare. La crisi covid, gestita dall’amministrazione Trump al modo che sappiamo, si è intrecciata non solo con una grave disoccupazione, ma anche con la mobilitazione antirazzista scoppiata a seguito dell’assassinio di George Floyd. Con il virus che colpiva, e continua a colpire, lungo evidenti linee di classe e di colore affondando il coltello nella disastrosa situazione sociale, la questione razziale è diventata la cifra di un disagio complessivo. È l’insieme della vita sociale che si rivela sempre meno accettabile per uno spettro di sfruttati più ampio dei neri, tra guerra contro i poveri e guerra tra poveri. Grazie alla partecipazione, simpatia o anche solo attenzione che ha suscitato all’interno di settori proletari bianchi - anche di una parte degli elettori di Trump quattro anni fa - la mobilitazione antirazzista ha così iniziato a mettere in difficoltà il sovranismo trumpista, che alla base proletaria si era rivolto con la prospettiva di riconquista del primato industriale e di risparmi sulle spese per guerre lontane. Ma, va detto, difficilmente essa potrà andare all’immediato oltre questo primo, importantissimo risultato a misura che rimane incentrata sull’anti-trumpismo e sulla pur fondamentale lotta antirazzista: qui i punti di caduta sono già ben visibili nella capacità di recupero da parte del fronte democratico in termini di politiche identitarie che escludono programmaticamente di portare il conflitto su un terreno di classe, l’unico in grado di parlare al settore degli sfruttati bianchi che, piaccia o meno, resta decisivo. Trump ha così modo di rieditare, seppur in tono meno “classista”, il suo fronte con il richiamo a “legge e ordine” e la chiamata alle armi contro la Cina (condivisa, peraltro, dai democratici e, come umore, da gran parte degli elettori), dopo esser ricorso a importanti sussidi economici anti-disoccupazione (l’helicopter money che piace a tanta sinistra). Le possibilità del sovranismo di destra sono dunque tutt’altro che esaurite - così come l’imperialismo Usa non è affatto alla canna del gas. Le elezioni presidenziali, eventualmente dopo un “incidente” internazionale contro Pechino o Teheran, potrebbero serbare sorprese. Ma ciò non toglie nulla all’importanza di questa scesa in campo che lascia intravedere i contorni, pur non ben decifrabili, di una potenziale guerra di classe nel ventre della bestia imperialista.

4.6 Insomma, il passaggio in atto, assai tortuoso, potrebbe preludere a un (confuso, “sporco”) secondo tempo del neopopulismo che, ben oltre il terreno elettorale fin qui privilegiato, vedrebbe sciogliersi alcune delle ambivalenze viste nella direzione di un approfondimento delle istanze classiste proletarie e, contestualmente, della radicalizzazione di quelle sovraniste-nazionaliste, in tendenziale rotta di collisione reciproca, mentre andrebbero a bruciarsi le posizioni intermedie. Il che non significa, a breve-medio termine, la possibilità di una ripresa proletaria su basi proprie. Al di là delle situazioni specifiche, il grosso problema per uno scarto in avanti del proletariato dal posizionamento neopopulista sta nella difficoltà di creare un movimento generale anche partendo da un terreno e un settore particolari ma in grado di fare del proprio problema una questione vitale per l’ampio spettro degli sfruttati, dunque su contenuti almeno implicitamente politici (ma non istituzionali), sulla falsariga di quanto tentato dai GJ. Anche per questo non si può escludere l’eventualità di una guerra di tutti contro tutti - una guerra civile, sotterranea o palese, senza guerra di classe, anche fomentata dai diversi racket del potere - laddove i contesti nazionali dovessero implodere per ragioni economiche, geopolitiche o sociali. La confusione è grande sotto il cielo… Molto dipenderà dagli sviluppi tortuosi di una crisi a denti di sega, sì all’ingiù ma finora senza precipitazioni catastrofiche, dall’evoluzione dello scontro geopolitico tra Usa e Cina, da un’eventuale ricollocazione più autonoma della Ue - che nel caso potrebbe trascinare con sé settori già euroscettici - e, infine, dagli esiti della profonda ristrutturazione capitalistica che ha già iniziato il suo corso.

 

§ 5. Ristrutturazione capitalistica

Una variabile fondamentale è data dal corso e dal ritmo che assumerà la ristrutturazione capitalistica innescata dalla doppia crisi: che cosa comporterà, e ci saranno reazioni, di quali classi e di che tipo? La sua necessità si era resa inderogabile da prima che scoppiasse la pandemia, a fronte del rallentamento produttivo dei due motori, Cina e Germania, che hanno fin qui sostenuto l’accumulazione globale. La nuova situazione rappresenta l’occasione d’oro per una terapia-shock basata su automazione, intelligenza artificiale, digitalizzazione generalizzata tramite piattaforme dei processi produttivi (anche la casa diventa luogo di produzione), logistici e riproduttivi (scuola, sanità, pubblica amministrazione, ordine pubblico, ecc.). Un futuro annunciato, non una novità assoluta: a ciò la socializzazione e l’assuefazione alle macchine digitali preparano da tempo, trasversalmente a generazioni e aree geoeconomiche. E non è detto che, in controtendenza a quanto visto finora, la trasformazione di un’altra consistente fetta di attività in lavoro direttamente digitale non susciti maggiore consapevolezza dell’espropriazione e dell’impoverimento in corso e qualche reazione di lotta.

Nel frattempo si approfondiscono i processi di centralizzazione dei capitali - Big Tech e Big Pharma in prima fila -, di messa fuori mercato dei competitori più deboli, di assoggettamento dei capitali meno concentrati: processi che vanno a incrociarsi con le acuite tensioni geopolitiche (§ 1.3-4). I processi lavorativi subiranno con le nuove tecnologie - la classica estrazione di plusvalore relativo - un’intensificazione decisa che anche in Occidente renderà superfluo molto lavoro, ne dequalificherà altro, rimescolerà le gerarchie di direzione e controllo riconfigurando i ruoli tecnici. Non solo il proletariato ma anche i ceti medi, comunque collocati, subiranno profonde trasformazioni in peggio, le riserve fin qui accumulate tenderanno ad assottigliarsi. Tanto più che la configurazione degli spazi urbani e la rendita immobiliare verranno a riconfigurarsi con le ricadute del caso su forme di vita urbane e periurbane e su fonti di reddito così come la crisi dell’economia degli eventi e del consumo culturali, se non contingenti, incideranno a fondo sulle narrazioni globaliste già peraltro non in buona salute.

Non a caso il padronato e il ceto politico più “progressisti” hanno in mente forme di compensazione come un reddito universale di sopravvivenza e la generalizzazione, ma al ribasso, delle prestazioni welfaristiche, nel mentre propugnano politiche migratorie atte ad allargare il bacino di forza-lavoro disponibile a basso costo. Che, però, questo possa bastare a superare gli assetti cosiddetti post-fordisti stabilendo un nuovo standard di valore mondiale senza previa e consistente distruzione di capitale fittizio e fisico, resta da vedere…

 

§ 6. Riflessioni conclusive

Per concludere. Sullo sfondo di una vera e propria crisi della civiltà capitalistico-industriale, la vicenda covid sembra prefigurare confusamente lo scontro tra due partiti - in senso “storico”, non “formale” - quello economicista-neomalthusiano contro quello dell’individuo sociale, che sa mettere al primo posto la riproduzione della specie umana. Il primo, il partito borghese sottomesso alla valorizzazione è per ora ben saldo al potere, pur essendo percorso da contraddizioni, anche interne, sempre più dirompenti destinate ad accrescersi con l’inceppamento dell’accumulazione. Il secondo, esauritasi la parabola del movimento operaio, è allo stato molecolare e si staglia fragilissimo sullo sfondo di un confuso humus sociale. Ma ha dato segni di vita, ed è già qualcosa, in particolare su due aspetti in prospettiva fondamentali. Primo, con la reazione istintiva contro la subordinazione della vita alle ragioni del capitale una parte della classe sfruttata e oppressa, minoritaria ma sostenuta da un senso comune assai più ampio, non è scesa in campo per interessi particolari ma ha in un certo senso lottato contro se stessa come elemento del capitale, ha contrapposto, pur inconsapevolmente, la riproduzione sociale a quella sistemica, ha cozzato, senza volerlo, con i limiti della propria condizione proletaria particolare, interna al capitale, come limiti alla riproduzione della comunitàumana. In secondo luogo, ha dimostrato di saper concretamente disconnettere, sia pure per una breve parentesi, la riproduzione della vita dalla riproduzione del capitale. Si darà in prospettiva la possibilità di una presa d’atto da parte di ampie masse della crisi della riproduzione sociale complessiva, natura compresa, nel suo urtarsi contro i limiti sempre più distruttivi posti dalla riproduzione del capitale? Che tutto ciò avvenga attraverso catastrofi, economico-sociali, belliche e ambientali, sta purtroppo nelle cose: il capitale è come un vampiro, tanto più tiene quanto più i vivi diventano deboli, si ammalano, provano paura. Ma di qui si dovrà passare, e non è detto che dalla paura - una delle componenti fondamentali delle passioni umane - debbano emergere sempre solo risposte regressive. Humani nihil a me alienum puto


Note

1 V. R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios 2019 e Il neopopulismo come problema, in A. Barile, Il secondo tempo del populismo, Momo 2020, dove ho abbozzato una fenomenologia incrociando le due varianti cittadinismo/sovranismo, una genealogia che rimanda alla storia del movimento operaio novecentesco e al passaggio cruciale del Sessantotto, e infine un’ipotesi teorico-politica.

2 Vedi Nicola Casale, Gilets Jaunes. La vittoria dei vinti?, Asterios 2019 e Tristan Leoni, Sur les Gilets jaunes, entrambi in rete.

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Paolo Selmi
Wednesday, 23 September 2020 10:50
" il proletariato bianco occidentale se li sogna i bei tempi andati"... Caro Michele, è vero. me ne sto rendendo conto da come sto affrontando il mutuo e da come lo hanno affrontato in miei, e pure in una situazione inizialmente peggiore perché monoreddito. Dopo tredici anni, l'ammontare di quel fisso da pagare ogni sei mesi si era già in gran parte sciolto, liquefatto, nelle buste paga che, complici inflazione e scala mobile, aumentavano. Noi dopo tredici anni siam sempre nella stessa m.: quel fisso si è "sciolto", mettendo insieme i due stipendi e calcolando il rapporto fra incidenza del primo sui secondi, solo di un centinaio di euro.
E questa è solo la differenza macroscopica.
ciao
paolo
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michele castaldo
Wednesday, 23 September 2020 10:05
Il regista del film MissMarx a un certo punto, in un gioco in famiglia fa dire a Marx «Nulla che sia umano mi è estraneo», ovvero l'espressione tradotta in italiano che Raffaele pone a conclusione del suo lungo articolo.
Parlando con estrema sincerità, e per farmi bene intendere, l'articolo è complesso e mette insieme un pò tutte le questioni dove però è difficile rintracciare una linea di tendenza che arrivi allo sbocco che da comunisti - o perlomeno da chi si augura la disfatta di questo sistema sociale - auspichiamo. E per essere ancora più schietto, dico che lo scritto rappresenta lo stato d'animo e l'approccio complessivo, dunque il punto analitico della migliore sinistra in questa fase, quella che però non è estranea all'insieme della voliera di sinistra dove ognuno canta il suo "canto libero" senza ascoltare nessuno degli altri volieristi, per una ragione molto semplice: ognuno si sforza di proporre una propria visione piuttosto che relazionarsi correttamente al movimento reale - che è dato dal modo di produzione capitalistico - e rintracciarne linee effettive di tendenza.
Inoltre, proprio perché l'insieme della sinistra novecentesca è nata e si è sviluppata in una fase precisa del modo di produzione capitalistico, arranca di fronte alla sua crisi. E' questo l'elemento centrale d'analisi. Da quì scaturiscono tutte le difficoltà a interpretare correttamente la fase.
La riprova la tocchiamo con mano anche in questo articolo di Raffaele che rincorre - di dritta o di rovescio - il soggetto rivoluzionario, ovvero "la leva per sollevare il mondo". Si tratta di una questione teorica di primaria importanza, alla base della quale c'è una non chiara interpretazione del movimento in crisi, cioè il modo di produzione, e si è legati ancora alla dinamica delle classi e della classe al potere piuttosto che al Capitale come movimento storico e storicamente determinato. E' questa la questione di fondo.
Alcune domande sul proletariato che Raffaele si pone rivestono l'aspirazione di una sua ricomposizione su un terreno nuovo, diverso, cioè rivoluzionario. Così facendo, parlando degli Usa e della lotta contro il razzismo di questi mesi, finisce per sostenere la tesi che «in termini di politiche identitarie che escludono programmaticamente di portare il conflitto su un terreno di classe, l’unico in grado di parlare al settore degli sfruttati bianchi che, piaccia o meno, resta decisivo», ovvero: in un modo o in un'altro col proletariato bianco bisogna fare i conti. Non è così semplicemente perché si intravede una linea di tendenza - partendo proprio dagli Usa - che è il proletariato bianco che deve cominciare a fare i conti con una crisi che lo spinge lì dove lui non pensava di andare o di arrivare. Ed è evidente che se lo indichiamo come soggetto col quale fare i conti, un compagno come Paolo Selmi è preso dallo sconforto e non a torto, visto che una parte importante di esso ha votato Trump e si appresta a fare altrettanto a novembre. Peggio ancora se indichiamo volta per volta il soggetto, come per esempio i Gilet gialli, per poi deprimerci per il suo riflusso oppure lo straordinario movimento anticapitalistico di tipo antirazzista di questi mesi negli Usa. Sapevamo che poteva rifluire perché tutti i movimenti di questa fase sono fluidi e non hanno nessuna possibilità di continuità come poteva darsi per il proletariato della fase ascendente del modo di produzione capitalistico in modo particolare in Europa occidentale e/o negli Usa. Ripeto: tutti i movimenti di questa fase sono destinati ad essere fluidi e procedono a ondate ed a macchia di leopardo. Sono il riflesso agente della crisi che è senza soluzione, per i suoi caratteri strutturali aggravati dalla pandemia del Covid-19. E dall'Oriente ben presto arriveranno novità di un certo interesse.
Non esiste - dico a Raffaele - sul piano storico un movimento eterno, tutto nasce per fattori determinati, venendo meno i quali un MOTO implode. Sicché le classi sociali, per dirla con una certa Rosa, sono quello che possono essere nelle circostanze determinate. Questo vuol dire - dico a Paolo Selmi - che il proletariato bianco occidentale se li sogna i bei tempi andati. Sono sotto i nostri occhi i livelli di precarietà complessiva delle nuove generazioni in Occidente e la rottura con le generazioni precedenti è nelle cose, perché l'insieme del movimento storico procede verso un caos.
Sarà pur vero che gli Usa non sono ancora alla canna del gas,come dice Raffaele, ma di sicuro sono ben lontani, se non lontanissimi dalla forza della Prima e Seconda guerra mondiale e di tutta la tracotanza degli ultimi 30/40 anni, basta pensare all'Iraq del 1991, tanto per intenderci. E va fatto notare l'antico proverbio napoletano: quando Pulcinella aveva i denari, aveva amici, parenti e compari; mò che Pulcinella non ha più niente ha perso amici, compari e parenti. Diceva il Cristo: chi ha da intendere intenda.
E' rintracciabile una linea di ricomposizione di classe in tale caos?
E' questa la domanda di fronte alla quale siamo chiamati a tentare una ipotetica risposta.
Per come riesco a interpretare la fase dico che non è possibile una ricomposizione di classe che proceda per accumulo di forze e neppure che un nucleo di classe faccia da coagulo per una polarizzazione su contenuti lassisti.
Siamo ancora nella fase iniziale di un interludio che ho definito torbido, ovvero dove confluiscono espressioni di ribellione di vari settori, in modo particolare di una variabile impazzita, quale il ceto medio, che a differenza del proletariato che guarda al capitale come i girasoli guardano il sole, alcune categorie non sanno, e sempre di meno sapranno, dove sbattere la testa. Una variabile, perciò impazzita che è in balia delle onde, suscettibile a qualsiasi opzione ma nessuna che possa andare nella direzione di una stabilizzazione del sistema perché mancano i margini essenziali per una ripresa generalizzata dell'accumulazione.
Ecco il senso da dare alla tendenza al Caos generalizzato.
Sicché L' « Humani nihil a me alienum puto ... » cui fa riferimento Raffale non è legato alla capacità dell'uomo di razionalizzare un sistema impersonale che viaggia dritto verso il caos per le sue leggi di funzionamento. Proprio per questo la rivoluzione sorgerà dalle sue ceneri come l'araba fenice.
Dunque: sursum corda! perché la coscienza dell'uomo è determinata dalla sua azione incosciente!!!!
Michele Castaldo
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Paolo Selmi
Tuesday, 22 September 2020 22:10
Grazie a te Raffaele.

Ogni tanto guardo mia figlia e ripenso a quella canzone di George Benson, che faceva da colonna sonora al film del '77 "The greatest" (su Mohammed Ali), canzone poi portata alla popolarità mondiale dalla Houston e che iniziava con "I believe the children are our future, teach them well and let them lead the way"... e a mio padre che quando riceveva un complimento per me diceva "i figli devono essere migliori dei genitori".

Poi guardo questo anno disgraziato, dove han fatto "lezione" su zoom dal 23 di febbraio al 2 giugno, lasciati completamente soli: e penso che, anche nella scuola, l'emergenza covid ha fatto da ACCELERATORE, RIVELATORE e CATALIZZATORE di un sistema che faceva già acqua da tutte le parti: le parole che hai usato all'inizio del tuo lavoro possono essere applicate a tutti i settori.

E vedo che i giovani di oggi partono enormemente svantaggiati rispetto a noi. Hanno paradossalmente accesso a informazioni e stimoli che noi ci sognavamo: televisione a colori, canali tematici, telefonini trasformati in computer in grado di cercare e riprodurre qualsiasi materiale multimediale, in qualsiasi lingua, da qualsiasi parte del mondo. Per fare giapponese e cinese dovetti andare a Venezia (perché era più vicina a casa di Napoli), mentre oggi cinese è addirittura insegnato in alcune superiori. Per me l'estremo oriente è stato per anni il libro di Marco Polo (sceneggiato rai di Giuliano Montaldo) che leggevo e rileggevo (e ho rivisto recentemente, finalmente a colori). Per loro sono i risultati di parole chiave restituiti immediatamente su un motore di ricerca. L'ex-URSS, il variegato mondo delle 15 repubbliche socialiste sovietiche, era per me raccontato dai profughi del centro di prima accoglienza dove prestavo servizio, dalle mercanzie che recuperavano dai venditori ucraini al mercato all'aperto del sabato presso il capolinea (allora) di Molino Dorino: libri, VHS di film che non erano la Corazzata Potemkin, ma Brilljatovaja ruka, e via discorrendo. Tutto "a tocchi", alla bell' e meglio, mentre oggi si possono scaricare film interi senza aspettare che il venditore ritorni con quanto gli hai chiesto uno o due sabati dopo.

Ma la scuola di oggi, che ha le LIM al posto delle vecchie lavagne di ardesia, le slide al posto dei lucidi, inglese sin dalla prima elementare al posto della prima media, non fa nulla per mostrare agli studenti il mondo che c'è stato e che c'è fuori dal loro guscio: prova ne é che, a casa, i bimbi lasciati soli con un tablet (errore da non fare) finiscono nei canali di slime e porcherie varie che si vendono in cartoleria, abbinati a personaggi demenziali che incassano milioni di euro di royalties per l'uso del loro marchio su scarpacce di plastica che non durano una stagione, orologi di plastica con i pezzi che ti rimangono in mano, zainetti di plastica idem come sopra, oltre che riempire direttamente con 9.6 milioni di euro le loro tasche con gli incassi al botteghino del loro primo "film".

Questa ultima nota può essere anche la conclusione di questo intervento. Ai miei tempi (azz l'ho scritto!), vabbeh, ormai l'ho scritto e lo ripeto, ai miei tempi si doveva lavorare MOLTO di fantasia, non come ai tempi di mio padre dove "correva la fantasia verso la prateria fra la via Emilia e il West", ma sempre e comunque - in un mondo "analogico" - i posti dove uno andava erano le cartoline che ti arrivavano, i posti studiati sul sussidiario restavano sulla carta finché non li vedevi. Ma la voglia e la curiosità ti restavano. E ti plasmavano: sentivi a vent'anni The River di Bruce Springsteen, perché la scroccavi a un amico che aveva l'album "registrando la cassetta" a casa sua, e pensavi al Ticino e a quando ci eri andato per la prima volta in bici, i più fortunati in motorino, con l'amichetta di allora. E la risenti ancora oggi.

Oggi un bambino, un ragazzo, è letteralmente BOMBARDATO di stimoli. Stimoli immediati. Stimoli che si susseguono IN UN ORDINE BEN PRECISO E DEFINITO da gente che studia per sfondare le difese psicologiche più coriacee e insinuare il virus del consumo in persone che, fino ad allora, si erano divertite di più a manipolare il fango e a giocare con un bastone, una palla o il gatto del cortile. Fatto questo, parte l'EMULAZIONE, quindi tutti lo fanno quindi devo farlo anch'io, insieme al fatto che le catene della grande distribuzione, quella che fa fare quelle porcherie in Cina, le importa in decine di migliaia di pezzi e le piazza sugli scaffali dei centri commerciali, MONOPOLIZZANO L'OFFERTA DOPO AVER INDOTTO, CREATO EX-NOVO, LA DOMANDA, una domanda drogata a monte, per iniziare a drogare i "bisogni" a partire dai più piccoli.

In questo contesto una scuola che, invece di smontare il giocattolo, invece di innamorare gli studenti al mondo che li circonda, affascinarli, fargli venire voglia di continuare da soli su un percorso, incoraggiarli e poi lasciarli andare, magari stando dietro un passo per evitare qualche testa contro il muro, ma non tutte perché anche le testate servono, invece di spiegargli e mostrargli concretamente, con gli strumenti tecnologici a disposizione, che aldilà di questo Paese, di questo continente, c'è un mondo intero che aspetta di essere scoperto da loro, invece di fare questo e altro pensa a "completare il programma" per spuntare a fine anno gli obbiettivi ministeriali, è il miglior alleato dei signori di cui sopra. Che hanno già stravolto le linee difensive dei giovani e stanno già selezionando, fra un'alternanza scuola lavoro e l'altra, chi dovrà entrare nelle loro ditte a fargli far quattrini e chi invece dovrà servire come carne da macello da buttare in sequenza nel tritacarne.

Mi ricordo ancora gli anni che uscivo dal lavoro e andavo a insegnare alla sesta ora in una scuola superiore del mio paese il cinese, come materia extra-curricolare. Il mio stomaco non ringraziava affatto per quel panino che mi restava su per tutto il pomeriggio, ma il mio cervello si, perché dopo trent'anni ritornavo sul "luogo del delitto"... e trovavo non ragazzi che ringraziavano il colpo di fortuna di esser riusciti ad accedere cose per cui io dovetti studiare a 350 km da casa per quattro anni, ma ragazzi che avevano capito come "accumulare crediti" in maniera facile (materia extracurricolare, no voto in pagella, no verifiche). Quella era la realtà. Una realtà contro cui ho combattuto e che sono fiero di aver anche trasformato. Ero un insegnante atipico, dopo che il primo pugno picchiato sul tavolo (e l'impiallacciato devo dire che vibra discretamente per raggiungere il dovuto effetto scenografico) aveva prodotto il grado di attenzione desiderato. Parlavo pane al pane, vino al vino. Gli dicevo che il cinese a loro non sarebbe servito a nulla per trovare un lavoro qui, che le mail che mandavo in Cina ogni giorno e da lì ricevevo erano in inglese, quindi sarebbe stata tutta fatica sprecata. Ma gli dicevo anche che quello cinese era un mondo TROPPO bello per non essere conosciuto. Partivo da un segno scritto e gli tiravo fuori la storia da (o la logica con) cui era nato, e gli spiegavo che quel segno era capito dal nord al sud di un paese che conteneva l'europa sulla sua superficie, oltre che da un altro paese vicino chiamato Giappone. E già lì me li tiravo dietro. Poi cominciavo a farli "cantare", in cinese, appassionandoli così, piano piano, ai toni del mandarino. Gli scrivevo sulla lavagna, LAVAGNA DI ARDESIA! PERCHE' NON C'E' NIENTE MEGLIO DEL GESSO PER EMULARE IL TRATTO DEL PENNELLO, la sequenza di scrittura di ciascun carattere che andavamo a esaminare, facendoli appassionare a una scrittura SEGNO che era, di fatto, DI-SEGNO. E alla fine quasi tutti (gli irriducibili ci sono sempre!) si erano dimenticati che si erano iscritti perché era un corso dal "credito assicurato", per cui bastava rispondere all'appello e continuare a dormire sul banco.

Lo stesso, nel mio piccolo, oggi che non insegno più, faccio con mia figlia. Perché non posso permettermi più il lusso di aspettare che lo faccia la scuola. La manualità, l'aspetto tattile che aveva all'asilo e che poi in prima le han fatto perdere quasi del tutto, è ritornato alla grande con la creta, un piffero e una chitarra più grande di lei che strimpella come vuole lei, in attesa che mi chieda come van pigiate le dita, i ferri della maglia, un martello, gli animali delle fattorie e dei maneggi qui vicino o delle montagne qui intorno, un libretto cartaceo, di tutto e di più, purché non resti a rincoglionire davanti a un pezzo di plastica che la bombarda di suoni e immagini.

Un primo recupero, in questo senso, è fatto. Resta il rapporto con l'immateriale, il multimediale, di immediato consumo e fruizione. E lo sto affrontando in questa maniera. Certo, le ho fatto anche vedere i due deficienti di cui sopra con entrate milionarie fra royalties e incassi diretti, perché proibire è la cosa peggiore, poi le fai venire ancor più il desiderio. Ma le ho fatto vedere anche il cartone animato della Linea, o Masha e Orso in russo dicendole che quella era la lingua originale, o Boogie Wonderland degli EWF, piuttosto che una bambina come lei che cantava Smugljanka, la scena di dai la cera togli la cera di karate kid (con scena dopo delle parate in automatico), Jurij Nikulin che canta la Pesnja pro zajcev, Celentano che canta Azzurro o che pigia l'uva, Mark Knopfer che fa l'attacco di Money for nothing a Live aid... di tutto e di più.

E le ho detto, visto che in seconda elementare i bimbi le domande se le fanno, che ogni volta che compra una cosa con sopra il marchio di quei due deficienti, i nostri soldi vanno a loro, che li intascano senza fare nulla, non come il papà che torna a casa la sera tardi per portare a casa un centesimo di quello che si intascano loro. E l'ha capita subito. Continua a guardare i loro video, ma senza incensare i due personaggi come faceva prima.

Che dirti Raffaele... non è una battaglia semplice. Per niente. Vygotskij aiuta decisamente più di Makarenko. E fino a un certo punto. Ma un bambino la differenza fra la merda e il cioccolato la capisce subito. Occorre che qualcuno glielo faccia vedere e annusare, e gustare, il cioccolato. E ci metta la faccia, la passione, tutto sé stesso, perché egli lo apprezzi sempre di più. Perché gli vuole bene, veramente bene, e per un bambino questo lato, che per me è essenziale, oggi lo vedo poco o niente. Con un ragazzo è ancora, decisamente, più difficile. Ma il ragazzo ha una cosa che il bambino non ha: ti sfida continuamente, vuole metterti alla prova, "I learned it off by heart but now that's torn in two", cantavano gli Spandau, ed è così. e lì te la devi giocare diversamente, lavorando anche su un carisma, un'autorevolezza, che ti costruisci giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, spiazzando, spostando continuamente il centro dell'attenzione ma sempre finalizzando il tutto al raggiungimento dell'obbiettivo, della trasmissione di significati, metodi, tecniche perché poi lo studente possa continuare sulla sua strada portandoli con sé nella sua personale cassetta degli attrezzi, capendo che più ne ha, meglio è.

Ho cercato di far mio il motto "pessimismo della ragione, ottimismo della volontà"... ogni tanto ci riesco, spesso no. Teniam duro.

Ciao
Paolo Selmi
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raffaele sciortino
Tuesday, 22 September 2020 12:05
caro Paolo,
grazie per il commento, che condivido nelle linee di fondo: da sempre la crisi è per il capitale, ovvero i capitalisti in concorrenza tra di loro, occasione di ristrutturazione. Nè escludo una guerra di tutti contro tutti... Volevo solo portare alla discussione alcuni elementi di analisi e nodi politici (ancorchè non immediatamente "agibili") riflettendo su continuità e discontinuità con la fase precedente.
Quello che scrivi meriterebbe di essere adeguatamente approfondito, anche a riguardo della spinossima e cruciale questione della formazione.
grazie,
un caro saluto
raffaele
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marku
Tuesday, 22 September 2020 10:06
Il cornavirus causa dirompente nel capitalsmo/globalismo?
No di sicuro
Innanzitutto perchè l'unica pandemia in giro è quella
massmerdtika
che ci bullizza/terrorizza
con dati che non sono controllabili di
nuovi contagi/decessi.
In Cina come vedete la situazione è sotto controllo
e si va a scuola senza mascherina.
Come è stato ottenuto questo strepitoso risultato.
Semplice
con il pugno di ferro
e la costruzione di ospedali per terapie ntensive
da migliaia di posti
usa e sposta.
Qui in occidentalia
gli interventi sono stati presi solo una volta stabilito
che il virus
attecchisce e prolifera si nelle periferie e nelle fabbriche
ma conivolge anche le elites
per il loro stile di vita
iperdissoluto
moralmente/eticamente
(monnezza johnson insegna)
Quindi ricorrendo a lockdown
anche dove non servivano
perpetrando invece stragi
soprattutto nella fascie più a rischio
e negli "inutili" anziani
e ad un allentamento temporaneo
dei vincoli finanziari
di stampo liberal/liberista,
si è attesa la bella stagione
per spalmare su tutti i territori
il contagio
disperdendo così le prove
della loro colpevole
colpevolezza
economico/ideologica.
Come sappiamo
decine di vaccini sono allo studio, uno è già in produzione
altri arriveranno presto e il sistema riprenderà a correre come se niente fosse, che non sono bastate due guerre mondiali a provocarne una rovinosa caduta
figuratevi
una pseudo pandemia
che ha si coinvolto
decine di milioni d'individui
(di cui fortunatamente più del 99% con nessun o scarsissimi scompensi di salute).
Alla fine l'oms di bill gates (per l'inferno)
risulterà vincitore, la Cina ha già vinto gli basta l'immunizzazione di massa ed è finita e dimenticata
(credo di capire che i dati macroeconomici siano già in rapida risalita).
L'unico stato a perdere dovrebbe essere il grande satana,
ma lì si fà presto
si cambia presidente, si butta tutta la colpa sullo sconfitto
si stampano vagonate da triliardi di $$$$ e via avanti verso le magnifiche e progressive sorti
della libertà e del kapitalismo.
Insomma un pò di pane et circense
e vai a tutto gas di scarico.
Assai più preoccupanti sono le mosse geopolitiche
del water closet mondiale.
Come si può bene vedere si sta ritentando
la mossa dei fuochi d'artificio, quella che ha già provocato
la caduta dell'URSS.
Si spinge cioè verso una folle e sempre più tecnologica corsa al riarmo per sottrarre quanto più possibilie risorse economiche agli avversari sino a chè questi non potendo più competere con uno stato che vive sulla possibilità di stampare danaro che è la riserva di valuta mondiale, spinte dall'altra parte dalla richiesta della popolazione di sempre più beni di consumo, non potendo competere economicamente, non avendo più nessun collante ideologico egualitario, avendo creato al suo interno una classe parassitaria ed ingorda, non crolla su se stessa
implodendo.
La prima volta è andata benissimo
crollo economico sociale e militare, centinaia di milioni di persone buttate letteralmente sul mercato e macinate sulle soglie di un supermercato
destinato a pochi.
Oggi è più difficile.
Le elites e le burocrazie cinesi, le oligarchie e le mafie russe hanno capito il giuoco e fanno contromosse a ripetizione, addirittura alle volte attaccano e rilanciano
(vedi I BRICS).
Il tentativo è apuunto quello di disarticolare il dollaro
L'€uropa a trazione ordoliberista germanica benchè governata da nani
tipo quell'evasore fiscale del lichtenstain, vorrebbe creare un terzo polo baricentrico, ma al suo interno è dilaniata dagli ultranazionalisti teutonici, tentati da accaparrarsi tutto il piatto insieme alla potenza nucleare francese, mollando i piigs buoni solo per le lore coste mediterranee di confine,
Ad oggi la situazione è questa
poli in competetizione assidua e costante,
il dominus in una crisi economico/sociale e come ben si vede ora anche sanitaria pazzesca,
che sembra un giorno pronto ad esplodere ed il giorno dopo ad implodere,
altri due poli che si affannano a cercare alleati ed a stringere alleanze con chicchessia per rafforzare i propri asset geopolitici, una serie di crisi interimperialiste minori (per modo dire che ci sono coinvolte alcuni miliardi di genti) pronte ad accendersi in ogni momento vedi (israele/iran, turchia/siria/ue
india/pakistan
giappone, corea del sud / Korea del Nord,
il tutto condiito come detto con una corsa agli armamenti
che definire folle è un complimento.
Se uno fosse un catastrofista, dietrologo e complottista
vedrebbe questo scenario
prodromico
alla WW3.

Ed io lo fossi
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Paolo Selmi
Tuesday, 22 September 2020 08:08
Caro Raffaele,

analisi molto ricca di spunti di riflessione, di cui ti ringrazio. Forse un po' troppo ottimistica, alla luce della tornata elettorale di ieri e l'altro ieri, quando provi a declinarla in senso "costruttivo" dal nostro punto di vista e riassumibile nella frase: "È sperabile che la crisi pandemica inizi a scuotere tutto ciò."

Perché ciò sia possibile, almeno, dal mio punto di vista, occorre che qualcuno almeno provi a mettere il bastone tra le ruote al processo di DISGREGAZIONE e RICOMPOSIZIONE economico-sociale in corso, ovvero di RISTRUTTURAZIONE CAPITALISTICA, come tu giustamente noti. In altre parole, qualcuno è riuscito a TRASFORMARE il covid-19 da CAUSA OGGETTIVA a OCCASIONE, per non dire PRETESTO.

Il distanziamento è una causa oggettiva, tenere chiuse per un mese piccole e medie imprese con il codice ATECO sbagliato è una scelta politica.

Occorre prendere tempo. Amazon e Bill Gates non hanno "preso tempo", così come non ha "preso tempo" la GDO.
Bill Gates che, per inciso con la sua fondazione, è in prima fila "contro" la pandemia.

Noto quindi questa trasformazione di una causa reale, oggettiva, in un'occasione per ABBINARLA, da parte del blocco di potere dominante, a tante questioni LASCIATE NEL CASSETTO, a tanti ROSPI DA FARCI INGOIARE come in quei DECRETI OMNIBUS di cui i nostri politici sono cinture nere, come ammesso anche dallo stesso Mattarella,con la stessa incisività con cui io ottengo da mia figlia che a scuola non si distragga. Ora che alle elementari hanno avuto la "GENIALE" idea di fare dalle 8 alle13 più rientro al pomeriggio, giusto per far figurare che le ore sono fatte con due rientri pomeridiani in meno e il sabato a casa... e poi mi chiedi se sono ottimista! Ma così la "curva dell'attenzione" di un bambino di sette anni va a farsi benedire... embè? Chi se ne frega!

Anche qui, "causa oggettiva" -> "pretesto per".

Cassa integrazione in deroga: la causa oggettiva che la ha generata è diventata un "pretesto" per sin dall'inizio del suo impiego, (un articolo tra i pochi pubblicati, segno che certi tasti è meglio non toccarli troppo: https://www.affaritaliani.it/cronache/coronavirus-inps-2000-aziende-fittizie-hanno-chiesto-la-cassa-integrazione-677751.html). E qui siamo nella piena illegalità. Poi c'è chi lo fa "legalmente". E intanto qui facciamo la fame. E "tu la stai facendo a ore, brutto stronzo, mentre io la faccio a giorni, ed è da mesi che prendo novecento euro al mese!": due piccioni con una fava per i padroni, che sono riusciti - ancora una volta -a farci beccare fra noi come i polli di renzo.

Scusami per la nota-sfogo pessimistica, spero TANTISSIMO di sbagliarmi e che sia come quando, di fretta, cerco le chiavi di casa per mezz'ora e poi sono sempre state davanti a me.

Un caro saluto
Paolo Selmi
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