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Socializzazione della Finanza e Crisi Economica Globale

Intervento di Info Free Flow

"Indietro non si torna"

Punto di partenza di questa discussione è l'assunzione di due ipotesi di ricerca della sociologia del lavoro contemporanea: il muoversi di pari passo del paradigma produttivo con l'evoluzione tecnologica e la centralità del linguaggio nella valorizzazione capitalista contemporanea, come flusso che contemporaneamente attraversa e determina sia la sfera della produzione industriale che quella del mercato finanziario. Vedremo come la complementarità di questi elementi, riflessa nell'irrompere del modello di rete (che sia a livello infrastrutturale che organizzativo modifica il paradigma fordista) e della nuova determinazione dell'informazione (come vettore di conoscenze, competenze, relazioni, pubblicità ed investimenti trasversalmente agli ambiti lavorativi e del tempo libero) modifichi radicalmente le dinamiche di controllo capitalista sui versanti della produzione e del consumo, fino ad accomunare l'economia finanziaria e quella (cosiddetta) reale, ed a rendere fallimentari i tentativi di scindere le due nella proposizione di un progetto sostenibile di governance economica per il dopo-crisi.

Per proporre una genealogia appunto della crisi, occorrerà risalire ad un altro contesto di trasformazione dei dispositivi dell'economia globale: quello degli anni '70, periodo in cui sono state gettate le basi e spianato il terreno a quell'incorporazione del rischio e del debito nella razionalità capitalista contemporanea, le cui contraddizioni riesploderanno all'inizio del nuovo millennio - con la bolla delle Dot Com - e nell'autunno del 2008, con la bolla dei mutui subprime ed il tracollo della finanza mondiale.


Crisi del Capitale

Nei paesi occidentali, entrambi i periodi che precedono le due crisi presentano una crescita economica generalizzata (anche se, nel caso degli anni del neoliberismo trionfante, si riscontra una distribuzione della ricchezza prodotta profondamente sbilanciata). Nel primo caso, quello della cesura degli anni '70, volgono al termine i cosiddetti "trenta anni gloriosi" (che abbracciavano il periodo tra la ricostruzione del dopoguerra e lo sviluppo dello stato sociale, caratterizzato da una crescita economica sostenuta) e si arriva alla saturazione dei mercati dei beni di consumo di massa. Auto, televisori, elettrodomestici e telefoni non sono più lussi per pochi, bensì veicoli generalizzati di idee e stili di vita della società di massa, la cui diffusione è così spinta che non a caso è proprio in tale contesto di relativo benessere che alcune personalità critiche iniziano a parlare di consumismo, accumulo di beni "inutili". Questo per quanto concerne il consumo: in merito al versante della produzione, da un lato con il conflitto sociale (particolarmente intenso nel Giappone degli anni '50 e nell'Italia degli anni '60 e '70), dall'altro con la pronunciata sindacalizzazione dei lavoratori, il salario ed il costo del lavoro rimangono rigidi: non vi è possibilità per il capitale di abbassarli, e la disoccupazione si mantiene ai minimi termini. Tutto ciò, unito agli elevati livelli di spesa sociale garantiti dai governi occidentali, ai bassi tassi d'interesse da essi praticati ed alla relativa redistribuzione della ricchezza operata dall'inflazione determinano per il capitale l'impossibilità di estrarre ulteriore plusvalore dai processi produttivi fordisti. Questo rapporto di forze porta gli operai a rivendicare maggiore reddito e condizioni di lavoro meno alienate rispetto alla ripetitività ed all'impersonalità della catena di montaggio, con lo spettro della sovversione e del sabotaggio che si riversano fuori dalle fabbriche per saldarsi alle istanze di altre categorie in cerca di protagonismo come donne e studenti. L'instabilità politica ed economica (con la crisi petrolifera e la stagflazione) si trasfigurano in una vera e propria crisi del sistema di regolazione fordista, a cui si risponde dall'alto con variegate strategie di ristrutturazione, facenti leva sulle possibilità offerte dalla telematica per favorire la libertà di circolazione globale del capitale e su dispositivi in grado di legare la riproduzione della forza lavoro all'andamento dei mercati finanziari, limitandone così la conflittualità.



Processi di Ristrutturazione


1) Informatizzazione della finanza

Il 5 febbraio 1971, con l'apertura del NASDAQ (National Association of Securities Dealers Automated Quotation, ovvero: "Quotazione automatizzata dell'Associazione nazionale degli operatori in titoli") presso la Borsa di New York si avvera la convergenza tra finanza e informatica (ancora “telematica”): si tratta della prima borsa valori telematica, anche se all'epoca poteva contare esclusivamente su una semplice bacheca elettronica, che non connetteva realmente compratori ed acquirenti. A tutto ciò si accompagna la notevole diffusione a partire dagli anni '70 di strumenti quali bancomat e carte di credito a banda magnetica, fatto che opera una vera rivoluzione percettiva  rispetto alla portata della circolazione del denaro, sia a livello individuale che collettivo. Se da un lato il denaro diviene sempre più virtuale, dall'altro si "materializza" e diventa ubiquo; si riducono i tempi di accesso al credito e al consumo futuro, e tale capacità di movimentazione della propria ricchezza prelude a quella che si darà per le informazioni personali, attraverso le webmail ed i weblog di massa a fine anni '90.


2) Controllo sui Flussi Finanziari

Per sfruttare la nuova opportunità della finanza telematica, al di là del limitato sviluppo della sua infrastruttura, occorreva una socializzazione di massa delle pratiche finanziarie - operazione complicata dal carattere specialistico della disciplina. Allo stesso tempo il controllo statale sull'economia era ancora saldo e ramificato (nel caso dell'Italia, basti pensare alla quantità e qualità delle partecipazioni statali ed ai tassi di redditività dei BOT ancora negli anni '80!). La strategia seguita dalla nascente "global class" è quella di intervenire a valle di queste tendenze anziché a monte, cioé appoggiandosi ai canali di circolazione della finanza pubblica - ed alla loro necessità di solvibilità per l'alto livello di spesa sociale raggiunto in epoca keynesista - per estendere il processo di finanziarizzazione. Una colonizzazione graduale, realizzata però con l'apporto iniziale di enormi investimenti e prestiti da parte del capitale internazionale, che vengono quasi immediatamente recuperati, e con gli interessi.

Operiamo a questo punto una dissezione del mercato borsistico, esaminando una parte dei vari flussi che lo compongono, e cerchiamo di capire come le innovazioni finanziarie e gestionali operate tramite ciascuno di essi siano riuscite a legare la riproduzione di diversi strati sociali a quella del capitale:

  • *Fondi pensione e fondi comuni di investimento. Come ci ricorda Marazzi, alla crisi del controllo politico sull'erogazione del reddito sociale ed al disavanzo pubblico si risponde nello Stato di New York del '74-'75 retribuendo gli impiegati pubblici in City Bonds: obbligazioni (cioé quote di debito) pubbliche locali il cui buon andamento e quindi il ripagamento finale veniva a dipendere dal grado di efficienza e produttività del servizio pubblico stesso - come avveniva con la distribuzione di stock options ai manager delle grandi aziende private. Un corto circuito in cui i lavoratori, cooptati al suo interno anche a seguito di pressioni sindacali, venivano scollegati dalla circolazione delle lotte delle minoranze e del sottoproletariato urbano, evitando allo stesso tempo l'aumento delle tasse per i ceti più abbienti. Importante è anche l'aspetto dell'autogestione e della embrionale personalizzazione dello strumento finanziario: potendo calibrare i piani pensionistici a contribuzione definita 401 (k) (indirizzati principalmente al mercato azionario) in base alla propria disponibilità di reddito, molti contribuenti americani acquisiranno competenze sufficienti per permettere loro di investire anche in altri settori del mercato finanziario. Come vedremo più avanti, tali meccanismi di co-partecipazione finanziaria verranno idealmente ripresi da processi di co-produzione (come nel caso di Ikea): tuttavia per ora limitiamoci a prendere atto che fondi pensione e fondi comuni di investimento rappresentano la chiave di volta per la trasposizione finanziaria, con il collocamento nei mercati borsistici di quote di spesa previdenziale, dei salari stessi, che a quel punto diventano una semplice variabile delle oscillazioni dei mercati.   *Flussi di interessi sui prestiti bancari internazionali ai paesi emergenti. L'apprezzamento del dollaro (valuta di riferimento del mercato petrolifero) in seguito alla crisi energetica del '79 favorisce l'indebitamento dei paesi in via di sviluppo. Tale trend, che in alcuni casi sfocia in un vero e proprio stato di insolvenza generalizzata, sarà determinante in seguito nel legare questi paesi alle politiche di aggiustamento strutturale delle istituzioni finanziarie internazionali, anche grazie all'inflazione artificialmente bassa (vedere “politica monetarista” più avanti).
  • *Profitti che derivano dal rimpatrio di dividendi e royalties a seguito di investimenti diretti all'estero. Anche qui si assiste, in accordo con la graduale apertura dei mercati e la delocalizzazione delle aziende, ad un generale trasferimento di liquidità verso il nord del mondo.
  • *Debito privato (mutui, leasing, ecc.). Vale lo stesso discorso effettuato per i fondi pensione ed i fondi comuni di investimento. Questa quota di flusso borsistico diventa sempre più consistente man mano che entrano sul mercato dei mutui  intermediari non bancari, strutturati come società per azioni ed in grado di offrire soluzioni sempre più differenziate di finanziamento. Si amplia anche grazie alla crescente diffusione e popolarità di strumenti come le carte di credito.
  • *Somme direttamente investite sui mercati borsistici con l'acquisto di prodotti finanziari, il cui volume cresce nel tempo.



3) Deregolamentazione e liberalizzazione delle commissioni


Parallelamente alla nascita della finanza telematica, il mercato borsistico viene anch'esso investito dall'onda lunga della controrivoluzione macroeconomica neoliberista i cui principali ideologi, tra cui Milton Friedman e Alfred Kahn, diventano ascoltati consiglieri delle amministrazioni statunitensi (e non solo) a partire dagli anni '70. Nel 1971, sotto l'amministrazione Nixon, Kahn elabora la proposta della prima grande deregolamentazione di un'industria di massa - quella dell'aviazione civile - dalla fine del laissez-faire ottocentesco. Occorrerà aspettare il 1978 e l'amministrazione democratica di Carter affinché si materializzi. Una situazione analoga si riscontrava sul mercato azionario statunitense, anch'esso fortemente regolato: come nel caso delle commissioni sulle operazioni di borsa, che per legge fino agli anni '70 erano a tasso fisso e su cui non si praticavano sconti. Grazie all'avvento della telematica, nascono società di brokeraggio (appunto di compravendita su commissione di titoli finanziari): attività che nel 1975 viene liberalizzata dalla Borsa statunitense, ponendo le società che la praticano in diretta concorrenza con i monopoli istituzionali, come i vecchi istituti di credito. L'elevato afflusso di capitali che queste riforme comportano per la Borsa di New York, rendendola la maggiore piazza finanziaria mondiale, spinge altri paesi all'azione: l'amministrazione Thatcher britannica, il 27 ottobre 1986, presiede al “Big Bang” del mercato finanziario della City di Londra: simultaneamente si attuano l'apertura del commercio telematico, la completa liberalizzazione della compravendita di titoli finanziari e la possibilità per investitori esteri di acquisire società di brokeraggio britanniche.

Riassumendo, l'informatizzazione della finanza, il controllo dei flussi finanziari, la deregolamentazione e la liberalizzazione delle commissioni, sono gli strumenti di una ristrutturazione dal duplice esito: 1) di sovvertimento del vecchio sistema keynesista di elevata regolazione del mercato del lavoro, al cui impianto redistributorio si sostituisce il mercato finanziario che diventa il luogo principe di produzione di valore. 2) di maggiore integrazione dei mercati internazionali sia rispetto ai circuiti credito-debito che ai movimenti finanziari, con il caso esemplare dei derivati, panieri di investimento che incorporano beni scambiati anche in diversi paesi alla volta.


4) Politica monetarista

Si tratta di una politica economica monetaria incentrata sull'innalzamento dei tassi d'interesse da parte della banca centrale (a cui sono legati quelli bancari), volta a ridurre la quantità di moneta in circolo, per aumentare quella depositata in banca e di seguito quella investita in borsa. Negli USA viene inaugurata a partire dal 1979 da Paul Volcker, direttore della Federal Reserve, mentre in UE, dai Parametri di Maastricht del 1992 (con l'inflazione che viene mantenuta artificialmente bassa ancora in epoca euro). Nell'ortodossia neoliberista di inizi anni '80 tutto ciò aveva la finalità dichiarata di “raffreddare l'inflazione”, ritenuta un “disturbo del mercato”; tale politica deflattiva presentava però ulteriori effetti più o meno dichiarati quali:

  • *Aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori impiegati; questo allo stesso tempo crea un blocco di consenso alle politiche liberiste tra di essi e li sgancia dal resto della classe in via di precarizzazione, che da allora li percepirà come un'aristocrazia privilegiata e tutelata.
  • *Privilegiare i creditori che hanno prestato a tasso variabile, chiaramente attraverso l'aumento dei tassi d'interesse.
  • *Indirizzare i flussi di capitale verso i paesi ricchi, come già detto.
  • *Favorire la parcellizzazione del mercato del lavoro, come si vedrà tra un attimo.


E' lampante la continuità operativa di tali effetti, ad esempio con la pratica di concedere prestiti a tasso variabile ai paesi del terzo mondo per delocalizzarvi le attività delle aziende multinazionali occidentali.


5) Atomizzazione del mercato del lavoro

Con la maggiore redditività del capitale investito in borsa, il costo del lavoro vivo veniva reso ancora più oneroso: per abbassarlo occorreva frantumare la continuità spazio-temporale dell'ambiente lavorativo e la trasversalità delle sue mansioni che permettevano ai lavoratori, in particolar modo all'operaio di fabbrica, di acquisire forza contrattuale a partire dal riconoscersi in una comunità d'intenti condivisa. E' di primo piano il ruolo giocato in questo processo sia dall'organizzazione toyotista del lavoro che dalle Private Equity (finanziarie) come il Carlyle Group, società d'investimenti interessate al controllo di aziende con grandi potenziali di crescita e redditività futura - da assicurarsi tramite appunto ristrutturazioni produttive ed organizzative - per poi rivenderle sul mercato una volta rese proficue. Più nello specifico, l'atomizzazione agisce su tre piani:

- Individualizzazione, con mansioni sempre più personalizzate che non permettono più ai lavoratori di riconoscersi in processi e pratiche condivisi

- Precarizzazione, che investe in particolare la dimensione temporale del rapporto di lavoro (colpendo i contratti a tempo indeterminato ed introducendo il part-time) e mutua dal mercato il rischio come variabile strutturale esistenziale.

- Esternalizzazione, che ricolloca il lavoro in luoghi immuni da conflitti, siano essi il propri domicilio o zone del pianeta ove il lavoro è disciplinato dalla fame o dal terrore, per poi rapidamente licenziare lavoratori e smantellare impianti secondo il flusso di produzione e di profitto. E' chiaro come le partecipazioni statali, ancora legate alla dimensione territoriale ed alla rigidità salariale, non possano reggere il livello di competitività imposto dalla crescente mobilità del capitale ed, in un circolo vizioso, a venire percepite come improduttive da strati sempre maggiori dell'opinione pubblica e bersagliate da politiche di destra.

Riprendendo quanto scritto da Gorz, con l'atomizzazione e l'informatizzazione del lavoro sembra materializzarsi la trasformazione a comando dell'insieme dei lavoratori, sempre più precari, nell' "esercito (post-)industriale di riserva" di cui il capitale ha perenne bisogno per non essere travolto dall'intensificarsi delle vertenze dei suoi sottoposti.


Lavoratori della Conoscenza

L'effetto combinato di disinflazione e atomizzazione sul mercato del lavoro è quello di abbattimento del costo del lavoro vivo (salari e previdenza); tuttavia questo è vero per il lavoro a bassa richiesta di specializzazione. Le innovazioni tecnologiche ed organizzative che rendono quest'ultimo sempre più marginale nella produzione di valore sono opera dei lavoratori della conoscenza:

- Definiamo lavoratore e lavoratrice della conoscenza colui o colei che utilizza, almeno in gran parte o completamente, le proprie capacità intellettuali, cognitive, relazionali, linguistiche, esperienziali ed emotive all'interno della propria prestazione lavorativa (precaria.org)

- Il lavoratore della conoscenza rappresenta “la classe che guida lo sviluppo” (P.Drucker)

Questi lavoratori hi-tech tendono a considerare il proprio lavoro come la parte più singolare e personalizzata, quella più essenziale della loro vita - esattamente il contrario di quanto accadeva all'operaio industriale, il cui lavoro manuale veniva tendenzialmente svolto da macchinari comandati automaticamente - sia in qualità di lavoratori autonomi che per la valorizzazione attribuita alle loro competenze e specificità da aziende desiderose di partire alla conquista del mercato dei consumi post-massa che si sta aprendo.

Di questa composizione di classe estremamente eterogenea e differenziale (dalle public relation alla comunicazione aziendale, dagli operatori culturali al design) isoleremo due particolarità, quella della mediazione finanziaria, cuore della valorizzazione economica di ogni sfaccettatura dell'esistente, dal materiale all'immateriale, e quella del design informatico prima come motore dell'evoluzione dell'automazione delle macchine fordiste, poi come infrastruttura delle comunicazioni e delle transizioni della società informazionale ed infine come terreno di produzione e consumo di nuovi beni digitali.

Gli effetti dell'interazione di tali particolarità ricoprono trasversalmente l'intero spettro del lavoro e della composizione di classe sia fordista che post-fordista; il loro studio ci aiuta a spiegare la dinamica della ristrutturazione capitalista nella transizione post-fordista ed oltre, fino al cosiddetto biocapitalismo.


La Finanza nel Postfordismo


Come precedentemente descritto, la sussunzione finanziaria della previdenza immette ampi capitali sui mercati borsistici; praticato in principio da attori statali, questo fenomeno si estende a tutta una serie di istituzioni private (assicurazioni, fondi pensione, istituti di previdenza, finanziarie, SIM, ecc.) funzionanti come società per azioni che, grazie alla deregolamentazione dei mercati, si pongono come intermediari non bancari del credito e delle transizioni borsistiche. Laddove in precedenza si tenevano i propri risparmi in banca (con un tetto di interessi limitato e garanzie in caso di fallimento dell'istituto) e si investivano in titoli di stato, la nuova disintermediazione bancaria promette maggiore redditività dei titoli azionari e dei minori interessi sui prestiti, ma elimina le tutele per i risparmiatori-azionisti in caso di fallimento dell'istituzione. Anche le aziende preferiscono emettere azioni ed obbligazioni, affidandosi dunque ad una pluralità di investitori e canali di credito, piuttosto che limitarsi a chiedere finanziamenti in banca. Lo stesso settore bancario cambia: si affermano le banche d'affari (quelle che nel 2008 saranno al centro della crisi finanziaria globale) le quali, non potendo per legge tenere depositi, hanno liceità di comportarsi esattamente come gli intermediari non bancari, cioé di effettuare investimenti in condizioni di rischio molto maggiori rispetto alle banche tradizionali.

Accompagnata dalla crescente deregolamentazione dei mercati, la disponibilità di questi nuovi canali di valorizzazione amplifica e dà centralità al ruolo dell'informazione e della conoscenza; anche nel settore finanziario l'aspetto della capacità relazionale, della fiducia che sottende a transazioni ed acquisizioni viene esaltato. Studi su esternalità, asimmetrie informative, valutazione del rischio ed opportunismo post-contrattuale irrompono nei manuali di economia. Le nuove figure professionali che lavorano all'ampliamento di questo mercato, promotori finanziari e broker, traggono stimolo dal fatto che la propria conoscenza o capacità di intuizione di per sé producano ricchezza.

Assistiamo ad un'anticipazione della New Economy dal momento in cui, grazie alla deregolamentazione diviene possibile anche per entità relativamente eteree come le finanziarie (fondate su pura disponibilità di capitale e management) scalare grazie alla leva i colossi della cosiddetta “economia reale”: disponendo dell'appoggio di investitori come banche e fondi (e qui ritornano l'elemento relazionale e la capacità di creare rete), anche una finanziaria modesta può acquisire una grossa società bersaglio, ripagando il costo dell'operazione con i profitti futuri che essa si prevede realizzerà. L'acquisto iniziale viene effettuato a mezzo di prestiti concessi dagli investitori di cui sopra, che vengono gradualmente ripagati a mezzo di obbligazioni della società acquisita (man mano che i flussi di cassa lo permettono, o vendendone gli asset e operando le pesanti ristrutturazioni sul fronte della forza lavoro a cui si faceva precedentemente riferimento). Emblematico è il caso della scalata e dell'acquisizione nel 1988 della grande conglomerata americana dell'agroalimentare RJR Nabisco, da parte della finanziaria newyorkese KKR, che per la sua spregiudicatezza e portata fa parlare di "barbari alle porte". Tra gli investitori della finanziaria figuravano il MIT ed Harvard: operazione non innocente in un'epoca in cui il Bayh-Dole Act del 1980 consentiva la brevettazione di scoperte la cui ricerca era finanziata da denaro pubblico, con la conseguente spinta all'aziendalizzazione degli atenei. In seguito a questa rivoluzione finanziaria, prende forma l'idea di un'economia a crescita slegata dai limiti della vecchia "economia reale", e si inizia a parlare di FIRE Economy (Finance, Insurance, Real Estate, vale a dire economia finanzaria, assicurativa ed immobiliare).


L'Informatica nel Postfordismo

Nel 1995 il saggio "L'Ideologia Californiana" di Richard Barbrook ed Andy Cameron descrive la genesi dell'ultima frontiera americana: quella elettronica, i cui pionieri si alimentano di un bizzarro mix di letture controculturali e neoliberiste delle nuove potenzialità tecnologiche. Da un lato, la speranza libertaria di costruire grazie allo sviluppo tecnologico un' "economia del dono"  digitale. Tale attitudine, riflessa nel movimento del Software Libero, sottendeva alla libera circolazione del codice, alla cooperazione nel suo sviluppo e ad una sostanziale orizzontalità organizzativa delle comunità di programmatori.  Dall'altro, la fiducia quasi incondizionata nella possibilità di costruzione di un libero mercato dispiegato in rete  - grazie alla (presunta) tendenza naturale di quest'ultima a trasformare monopoli in opportunità concorrenziali, eliminare le asimmetrie informative e rimpiazzare la regolazione statale con la diretta interazione tra individui autonomi, nella loro accezione di attori di mercato. Entrambe queste letture si rifanno alla democrazia jeffersoniana, mitopoiesi fondante degli Stati Uniti d'America, che pretenderebbero di portare a compiutezza - con la realizzazione di un'agorà di libertà mediale in rete e la rimozione dei vincoli statali - nello spazio della frontiera elettronica. E' appunto la figura di John Perry Barlow, "nuovo repubblicano" ed ex-paroliere del gruppo di culto hippie dei Grateful Dead, che fondata la Electronic Frontier Foundation (EFF) nel 1990  da lì a sei anni stilerà la "Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio", culmine della pulsione emancipatrice e cosmopolita dell'Ideologia Californiana rispetto ai vincoli degli stati e dei loro sistemi di diritto, e indirizzata all'insieme della "classe virtuale" di cognitari, programmatori e specialisti della comunicazione.

Al cuore di questa "classe virtuale" si pongono quei lavoratori della conoscenza che Formenti identifica come “Cybersoviet” e Castells come la "Tecno-elite": comitati di scienziati, ricercatori, ingegneri, dediti tra gli anni '80 e '90 alla costruzione dell'infrastruttura di internet; finanziati da fondi pubblici, essi sono prevalentemente legati agli ambiti universitari e della difesa. Godono di ampia autonomia organizzativa, ed utilizzano la rete come base materiale e tecnologica perché questa si traduca in autonomia istituzionale. Prendono decisioni consensualmente, implementano nella propria programmazione il codice che sembra funzionare meglio e riconoscono esclusivamente il “capitale reputazionale” come surrogato di leadership.


RENDIMENTI CRESCENTI!

L'appeal che questi knowledge worker presentano per il grande pubblico e per il capitale, che ne vede l'apice nel perfetto matrimonio tra informatica e finanza nella seconda metà degli anni '90 della New Economy (“i ruggenti anni '90” della globalizzazione clintoniana di cui parla Stiglitz), è dovuto anche alla fiducia ottimista nello sviluppo sostenibile dell'economia della conoscenza. Il superamento da parte di essa della legge dei rendimenti decrescenti di Ricardo avverrebbe attraverso due accattivanti assunti: che una volta pagati i costi di produzione iniziali dell'informazione, il costo della sua riproduzione sarebbe stato tendenzialmente nullo; e che la sua non rivalità (il consumo di essa da parte di qualcuno non ne riduce la disponibilità per altri) e non escludibilità (una volta prodotta e resa pubblica, non si può impedire a qualcuno di accedervi - postulato questo non scontato, né privo di problematicità) avrebbero ampliato la partecipazione collettiva ai benefici del mercato. Il lavoro cognitivo, come quello dei broker e degli informatici, avendo la prerogativa di incorporare la conoscenza stessa (e quindi produrre e consumare informazione allo stesso tempo) produce un'implicazione decisiva: la produttività non è più legata alle economie di scala, ma alla capacità di risposta in situazioni emergenziali ed occasionali, sfuggenti a qualsiasi tipo di pianificazione.

Terreno privilegiato di questo nuovo paradigma, che sembra trascendere la stessa razionalità economica (per sua definizione, relativa a condizioni di scarsità di beni e rivalità tra i loro consumatori) è la rete internet, che nei primi anni '90 con l'avvento del World Wide Web e la diffusione dei personal computer inizia ad uscire dalla nicchia della sperimentazione militare ed accademica e a porsi come nuovo ambiente sociale e quindi terreno di valorizzazione ed accumulazione capitalista. In questa fase di transizione non è chiaro il modello di business da seguire per ricavare profitti da tale conformazione della rete, così si registra una certa schizofrenia del mercato verso l'economia della conoscenza dei Knowledge Worker. Da una parte si assiste a numerosi tentativi di reintrodurre limiti al consumo di beni immateriali tramite dispositivi di privatizzazione della conoscenza: negli anni '90 raggiunge nuove vette quella moltiplicazione dei brevetti - e la diffusione di programmi a codice proprietario a partire da posizioni monopolistiche sul mercato dei personal computer - iniziata nel decennio precedente. Dall'altra, si amplifica l'hype sulle rosee prospettive di crescita futura della nuova economia, che a tutti i livelli - dal capitalista di ventura al piccolo risparmiatore - apportano fondi al mulino delle dot com.

Negli Stati Uniti, l'informatizzazione capillare aveva apportato nuovi posti di lavoro in periodo di bassa inflazione, e la conformazione antropologica della classe dei lavoratori della conoscenza rendeva improbabile il raggiungimento degli stessi livelli di conflittualità capitale-lavoro a cui si era assistito negli anni '70. I venture capitalist, preconizzando un mondo in cui chiunque di li a poco avrebbe compiuto ogni genere di transazione online, dalla spesa al supermercato fino a ingenti movimentazioni di capitali, scommettevano ormai su base statistica nelle 100 dot com alla volta, delle quali anche solo l'unica di successo avrebbe ripagato l'investimento iniziale e le perdite delle altre con gli interessi. I piccoli risparmiatori seguivano a ruota, facendo ingrossare il mercato azionario man mano che le quotazioni delle dot com schizzavano verso l'alto, seguendo le convenzioni di investimento in quella che lo stesso direttore della Federal Reserve Greenspan definiva "euforia irrazionale".

 

Dopo la bolla della New Economy...

Al di là delle motivazioni più squisitamente economiche dello scoppio della bolla delle Dot Com nel 2000, c'è da riflettere sulla distanza antropologica tra previsioni degli investitori e design dell'architettura di rete degli anni '90. In quel periodo erano necessarie notevoli competenze specialistiche per usufruire di un computer e per navigare in una rete che, sebbene in transizione verso l'uso civile, aveva le sue radici ancora nei progetti dei cybersoviet, compensando i prerequisiti tecnici richiesti a chi vi si avvicinasse con un'elevata scalabilità ed orizzontalità. L'infrastruttura di rete e la capacità di storaggio e trasmissione dei dati non erano ancora così elaborate da facilitare la partecipazione del grande pubblico ad un'economia di beni e servizi immateriali come quella prospettata dalla retorica positivista dei redattori di Wired. In altre parole, la bolla della New Economy è stata dovuta ad errori di sopravvalutazione da parte del mercato della assorbibilità dei servizi delle dot com, della loro monetizzabilità e del livello di competenza dei loro utenti. Slogan del tempo prospettavano: "arricchisciti in fretta" o “costruiamole, poi arriveranno”, ma ciò si è dimostrato a lungo termine insostenibile, davanti alla mancanza di un design in grado di permettere agli investitori/utenti di orientarsi tra ed usufruire di dispositivi in grado di offrire loro servizi e contemporaneamente mettere a lavoro la propria esperienza. Il colpo alla FIRE economy a fine anni '90 deriva anche da un deficit di economia ICE (intellectual, cultural, educational) che non poteva essere colmato, a meno di non abbassarne l'asticella ad un target dotato di competenze più generiche e dandogli modo di metterle a valore.

Il crollo delle Dot Com comporta un profondo ripensamento delle dinamiche della cosiddetta "economia della conoscenza", spesso enfaticamente ed ottimisticamente posta come "economia dell'abbondanza": se è vero che con i costi di riproduzione marginali dei beni immateriali tendenti allo zero la circolazione degli stessi viene assai facilitata, è anche vero che non tutti possiedono abbastanza tempo e risorse cognitive ed interpretative non solo per goderne, ma alle volte nemmeno per intercettarli. Si pone il problema dell'economia dell'attenzione, che non rappresenta certo il ritorno alla scarsità tradizionale, bensì una declinazione di questa variabile rispetto allo scenario della New Economy. Il deficit di attenzione dell'operaio sociale della New Economy è profondamente intrecciato alle dinamiche della finanziarizzazione e della parcellizzazione del lavoro precedentemente discusse: questi processi hanno sì generato redditi aggiuntivi (distribuendoli in modo ineguale), ma distruggendo al contempo salario e stabilità occupazionale (con le ristrutturazioni e le esternalizzazioni) e dirottando il tempo di attenzione dei lavoratori-consumatori dalla ricerca di beni e servizi a quella di lavoro. E' un problema presente e persistente persino nella nuova new economy del Web 2.0 in cui - nonostante le avanzate tecniche di profilazione, di tailored advertising e la messa a lavoro di risorse e competenze extra-lavorative con la messa a valore del tempo libero - resta o diventa ancora più scarso in rapporto all'offerta il tempo di attenzione da dedicare alla ricerca ed consumo di beni e servizi informazionali.

La grande lezione impartita dalla bolla delle dot com riguarda la posizione della forza lavoro: essa non è solo un costo salariale e un produttore di attenzione, ma anche un reddito ed un consumatore di attenzione. Anche in questo la rete si dimostra non un paradiso della gratuità e della disponibilità sconfinata di beni e servizi, bensì un ambiente regolato da interazioni niente affatto differenti rispetto al reale.


Riaprire la Frontiera della Sussunzione: Personalizzazione di Massa


Se nel mondo della finanziarizzazione è la nuda vita ad essere messa a valore, ciò comporta un collegamento diretto con la necessità di determinare questo valore ai fini di un suo migliore inserimento e scambio sul mercato. Non si tratta esclusivamente di vita ed esperienze antropiche: l'intero mondo naturale e le sue manifestazioni vanno ridotte a quantità, reificati, sia per venire fruiti inclusivamente dal più ampio numero possibile di soggetti, sia per essere collocati sul mercato e permettere a questo di scommettere sulle loro oscillazioni. Nel postfordismo fino alla bolla delle dot com, ciò è stato possibile solo in parte, a causa di evidenti limiti infrastrutturali.

Questa rivoluzione silenziosa viene messa in secondo piano dall'altra spinta capitalista, ma qualitativa, dell'apertura delle frontiere internazionali al libero mercato: sia a livello globale (con l'istituzione dell'OMC nel 1995) che regionale (ad esempio con l'implementazione del trattato di Maastricht in Europa), l'irruzione di merci straniere sui mercati nazionali sembrava rappresentare la soluzione alla saturazione di questi ultimi. Tuttavia, il tentativo, od il passaggio, di proporre beni terziari ed immateriali standardizzati, come in una sorta di prosecuzione del consumo di massa fordista in cui al modello T si sostituiscono le scarpe Nike, il Big Mac, ecc. (in un fordismo di beni terziari, immateriali) ha prodotto opposizione e conflitto. Il pensiero unico e la globalizzazione subiscono a distanza ravvicinata da parte di una pluralità di movimenti, consumatori, resistenze - spinta da motivazioni diversificate e a volte antitetiche - il triplice colpo sociale (Seattle 1999) economico (Dot Com 2000) e politico (Genova e Twin Towers 2001) che porta il capitale alla ristrutturazione sotto l'insegna della personalizzazione di massa, il riconoscimento della possibilità di costruire un mercato su un soggetto a partire dalla sua propria identità. Per inciso, si nota una ciclicità affine al decennio rosso, in cui il conflitto sociale (dal '68) precede la crisi economica (anni '70) e la ricalibrazione del sistema politico (Thatcherismo/Reaganismo).

E' con il crollo delle dot com che si chiude la transizione post-fordista e si apre la fase del biocapitalismo.


Ad inizi anni 2000, di pari passo con la presa d'atto del deficit di istruzione del grande  pubblico nei confronti delle applicazioni dell'internet dei cybersoviet e delle asimmetrie informative tra di esso ed i knowledge worker della finanza, iniziano a concretizzarsi quelle infrastrutture, dispositivi e design applicativi in grado di abbattere i costi di accesso per la collettività all'interfaccia sussuntiva di rete globale, ed aumentarne i margini di profittabilità per il capitale.

Leve parallele di questa tendenza sono le rivoluzioni nelle capacità di portabilità e storaggio dell'informazione, sintetizzate dall'affermazione progressiva del cloud computing e del "software come servizio". Come si vedrà in dettaglio più avanti, l'abbattimento dei costi e l'aumento delle capacità dei dispositivi di storaggio permettono alle grandi imprese dell'information technology di dotarsi di enormi datacenter sui cui server su cui far girare un crescente numero di servizi.

Il primo e più emblematico di essi, in rapporto alla fase che si stava aprendo, è quello della webmail: fino ad anni '90 inoltrati, la fruizione di internet passava per l'abbonamento ad internet service provider a dimensione prevalentemente locale, fornitori di connettività e servizi web. Uno di questi ultimi, la casella di posta elettronica - che consentiva per la prima volta al grande pubblico di scambiarsi messaggi online in tempo reale - prevedeva di default l'installazione di un client per scaricarli sul proprio computer.

L'entrata sul mercato dei provider delle telco, desiderose di mettere a profitto un canale mediale su cui esercitavano un monopolio naturale in molti casi pressoché assoluto, oltreché al moltiplicarsi dell'offerta di servizi online di attori del mondo software come Microsoft, reca con sé l'offerta di spazio web da cui accedere alle proprie informazioni. Quasi vent'anni dopo l'ubiquità dell'accesso al credito, viene posta l'ubiquità di accesso ed immissione delle informazioni in rete, amplificandone la portata e le occasioni di valorizzazione.

Da qui al credito mobile ed alla connessione internet via smartphone, vero e proprio culmine delle innovazioni biocapitaliste, vi è tutta una successione di importantissimi passaggi, che portano al consolidamento di una serie di dispositivi volti ad assicurare la concentrazione dei nuovi profitti prodotti: sul versante finanzario, che interessa la messa a valore capitalista dell'informazione (oltre che della nuda vita), segnaliamo gli strumenti derivati ed il microcredito. Sul versante informatico, che interessa la messa a lavoro capitalista dell'informazione, si possono citare l'introduzione di digitalizzazione, banda larga, memorie di massa; delle licenze Creative Commons; del software open source. Quest'insieme di dispositivi risponde all'esigenza capitalista di trasformare un mercato di massa, finanche nella sua variante postfordista, in una massa di mercati per superarne la standardizzazione e l'esclusività che la globalizzazione aveva prodotto e contro cui era esplosa una stagione di antagonismo:

1) Includendo quanti più soggetti possibile nel mercato

2) Dando loro la possibilità di usufruire di prodotti altamente personalizzati

Ma in che modo?


Costruzione finanziaria del Biocapitalismo


Nel novembre 1999, dopo che la proposta di legge ottiene una schiacciante maggioranza in Congresso, il presidente statunitense Clinton promulga il Gramm-Leach-Bliley Act (GLBA), noto anche come Financial Services Modernization Act. Accogliendo richieste più che decennali da parte di operatori finanziari come Citigroup, (che già operavano in tal senso nell'illegalità, e che avevano la possibilità di supervisionare la stesura della legge grazie ai loro lobbisti in Congresso, ed ad appoggi come il segretario al tesoro Rubin nell'amministrazione) veniva a cadere il divieto di fusione tra banche commerciali, d'investimento ed agenzie assicurative introdotto nel 1933 dal Glass-Steagall Act, emanato dopo la Grande Depressione del 1929. Si venivano a creare veri e propri supermarket della finanza, in cui la spinta a coprire ogni stadio ed ogni contingenza del credito e del risparmio comportavano la corsa sempre più vertiginosa ad acquisizioni di attività e fusioni tra operatori con target anche molto differenti.

Fatto cruciale, la legge esentava esplicitamente da ogni regolazione, controllo e registrazione da parte della SEC (la commissione statunitense di vigilanza sulla borsa valori) derivati come i contratti di swap sui titoli, avallandone così l'esistenza di un mercato parallelo.

 
Boom degli strumenti derivati


Nella scia del riassetto istituzionale appena discusso, i derivati diventano lo strumento principe per allargare la partecipazione al processo di finanziarizzazione a fasce di popolazione sempre più ampie. Come? Questi prodotti finanziari sono titoli il cui valore di mercato è correlato a quello di altri (azioni, obbligazioni, valute, indici, tassi, materie prime, altri derivati, ecc.), cioé al loro andamento borsistico; se io effettuo un investimento rischioso posso tutelarmi dalla sua eventuale cattiva performance acquistando il derivato adeguato - che può prevedere la copertura delle perdite con l'acquisto di un altro titolo o paniere di titoli dall'andamento più prevedibile, con un rimborso alla stregua di un premio assicurativo, o altro ancora.

Un esempio di derivati sono le opzioni (Covered Warrant): esse danno il diritto a vendere o comprare un titolo ad un dato prezzo e/o durante/allo scadere di un certo periodo. Se mi impegno a comprare un lingotto d'oro tra un mese al prezzo attuale, ma nel frattempo il prezzo dell'oro scende, con l'opzione adatta ho la facoltà di recedere dall'accordo.
Se da una parte la varietà, versatilità, ed alienabilità dei derivati a terzi ne assicura il successo come strumenti di copertura del rischio (hedging) tramite la creazione di piani di investimento personalizzati, dall'altro ne favorisce lo scambio su mercati in larga parte informali e non regolamentati, oltreché a fini speculativi (fino al 2008 negli USA se con il derivato adatto si acquistava un titolo pagandolo dopo un mese, speculando sulla caduta del prezzo del titolo in quell'intervallo era possibile ricavare un profitto anche senza disporre di capitali per garantire l'operazione): anche in questo riemerge la concatenazione della riproduzione sociale allargata a quella del capitale.


Microcredito

Nonostante la loro popolarità, i derivati non risolvono il problema di chi al grande casinò della borsa non può partecipare per gravi deficit infrastrutturali e di competenze, i non-investitori per definizione come ad esempio gli ultrapoveri dei paesi in via di sviluppo.

E' qui che interviene il microcredito, creando un bacino di nuovi consumatori nel riprodurre un surrogato di basic income, nella misura in cui si presta denaro a soggetti privi di occupazione fissa e referenze creditizie pregresse.

Il rischio del capitale, endogenizzato e compresso in tal modo, viene però a riemergere sotto altre forme: tassi d'interesse molto elevati, che in alcuni contesti raggiungono percentuali usurarie; tendenza a privatizzare reti di protezione sociale locali, sottraendo in tal modo alle comunità strumenti di autogoverno; scarsa attenzione alle condizioni lavorative del debitore, cosicché esso si trova in svariati casi ad affidarsi a lavori usuranti o informali, o a ricorrere ad altri prestiti, o addirittura diventare un vero e proprio lavoratore salariato nelle sussidiarie messe in piedi ad hoc dalle istituzioni di microcredito.


Costruzione informatica del Biocapitalismo

Come detto in precedenza, per rendere effettiva la valorizzazione biocapitalista occorre operare la quantificazione delle infinite variabili che sottendono alla nostra percezione del mondo e dei viventi, e quindi del sapere. Lasciando per un po' da parte le declinazioni di tale quantificazione maggiormente afferenti all'ambito produttivo - dai crediti universitari alle agenzie di rating alle certificazioni di qualità - concentriamoci sul processo seminale di riduzione dei fenomeni audiovisivi da valori continui a valori discreti.

Infrastrutture e dispositivi di massa per effettuarlo e veicolare - acquisendo e riproducendo - tali fenomeni esistevano già (scanner/stampanti, registratori e videoregistratori); la novità introdotta nel tardo postfordismo degli anni '90 sta tutta nel supporto su cui gli audiovisivi verranno riversati, cioé della convergenza sul formato digitale. Al di là degli standard proprietari come l'MP3 (1994) per l'audio ed il DIVX (1999) per il video, e dei nuovi strumenti impiegati (come le fotocamere e videocamere digitali  degli anni '90), la novità è rappresentata dalla trasposizione in bit dei fenomeni audiovisivi, che riduce la durata di un brano e la qualità di un video alla stessa dimensione. Infatti, per sua stessa definizione, tutto ciò che è digitale (da digitus, numero) può essere quantificabile e quantificato; e tutto ciò che può essere quantificato può essere commerciato. L'architettura di rete della prima internet era generalmente caratterizzata dalla parità tra capacità di upload e download; se ciò favoriva la moltiplicazione dei provider ed evitava i colli di bottiglia dello streaming (che si basa sulla trasmissione di dati a partire da un server centralizzato) essa era certamente deleteria per chi volesse trarre profitto dalle dinamiche generate da una fruizione di massa della rete, che doveva basarsi incondizionatamente sulla velocità di download di una quantità di beni e servizi informatici da parte del grande pubblico. E' a tal fine che nel 1998 nasce l'ADSL (Asymmetric Digital Subscriber Line) che, appunto, penalizza la capacità di upload di dati da parte dell'utenza in favore di quella di download. Completa questo mosaico la commercializzazione a fine anni '90 delle memorie di massa portatili: grazie ai progressi della miniaturizzazione si opera un salto di qualità nella mobilizzazione quantitativa e qualitativa dei dati: quantitativa rispetto al numero di informazioni e beni di consumo digitali da poter immagazzinare e di cui disporre, qualitativa laddove ad interi archivi di nastri di audio e videocassette, enciclopedie cartacee e persino agli stessi floppy disc, cd e dvd, si sostituiscono hard disk portatili e semplici pendrive USB.


Licenze Creative Commons

L'introduzione di queste licenze nel 2002 ad opera del giurista di Stanford Lawrence Lessig - desideroso di estendere i valori e le attitudini alla base del "movimento" dell'Open Source all'intero spettro delle opere dell'ingegno - rappresenta il primo vero tentativo di gettare le basi di una sistematizzazione dei diritti di proprietà sui beni immessi in rete. Possono porsi in forma di condizione o combinazione di condizioni che ne regolano la circolazione in un regime di copyleft:

- Attribuzione (BY) (deve essere citato l'autore originale dell'opera)

- No opere derivate (ND) (l'opera non deve essere modificata)

- Condividi allo stesso modo (SA) (secondo quanto stabilito dall'autore dell'opera originaria)

- Non commerciale (NC) (tranne che per l'autore stesso)

Prestabilire tali condizioni facilita la diffusione e la rielaborazione di saperi ed opere in misura maggiore rispetto a quanto avvenga per quelli posti sotto copyright: a tal fine il pubblico dominio sarebbe inefficace, potendo un'opera rilasciata in tal modo venire privatizzata semplicemente apportandole qualche piccola modifica e rivendicandone la paternità. Prendiamo ad esempio il settore dell’editoria: un’opera sotto copyright, una volta esaurito il suo ciclo commerciale, può finire non ristampata per lunghi anni e divenire introvabile, anche in presenza di una nicchia di consumatori disposta a pagare per averla, mentre ciò non accade se essa viene rilasciata in creative commons, laddove essa può essere reperita ed eventualmente sfruttata commercialmente piuttosto che essere lasciata ai soli vecchi intermediari editoriali. Va comunque evidenziato, a scanso di equivoci, come tutto ciò non crei di per sé un economia di tipo comunista: la valorizzazione dell'opera rilasciata sotto licenze creative commons avviene a valle della sua pubblicazione, venendo realizzata principalmente sotto forma di pubblicità ed accesso a contenuti premium proposti da chi possieda l'infrastruttura attraverso cui viene veicolata: mediatore che molto raramente coincide con l'autore. Inoltre, non vi è esplicito riconoscimento del carattere sociale che la rielaborazione del sapere o del bene riveste, e l'autore può prevenirne l'utilizzo commerciale.


Software Open Source

Il movimento del Software Libero, fondato da Richard Stallmann nel 1983 si prefiggeva di sviluppare software licenziato sotto queste condizioni:

* Libertà di eseguire il programma per qualsiasi scopo

* Libertà di studiare il programma e modificarlo

* Libertà di copiare il programma in modo da aiutare il prossimo

* Libertà di migliorare il programma e di distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio

inserite nel framework giuridico della licenza GNU GPL (la cui prima elaborazione risale al 1989 e la seconda al 1991); il tutto per proteggere il codice dall'appropriazione proprietaria, ampliatasi di concerto con il boom dei brevetti universitari degli anni '80. Non solo: la condizione di viralità, cioé dell'applicazione della licenza GNU GPL anche alle modifiche del software rilasciato sotto di essa, favoriva la circolazione non solo del codice in sé, ma anche del modello di sviluppo software e dell'etica hacker ad esso sotteso.

Nel 1998 alcuni esponenti del movimento del Software Libero, con il fine di renderlo appetibile per il big business, danno vita alla Open Source Initiative: ciò porta all'ingresso graduale del venture capitalism nelle comunità di sviluppo software, introducendo al loro interno tempistiche e finalità commerciali. Sono diversi i passaggi organizzativi e gestionali delle start up della OSI che gettano ponti verso il big business dell'information technology: tra di essi la calendarizzazione delle release di nuove versioni dei loro software (laddove in precedenza essi venivano rilasciati nel momento in cui raggiungevano un livello di stabilità reputato soddisfacente, o rispettavano altri parametri di usabilità stabiliti dagli sviluppatori), la tolleranza o la rivendicazione esplicita della presenza di pezzi di codice proprietario all'interno di software libero e di programmi proprietari all'interno di sistemi operativi liberi, la formalizzazione aziendalista dei ruoli della comunità di sviluppo.

Tuttavia il salto di qualità dell'open source in ambito enterprise avviene con l'implementazione al suo interno delle piattaforme L.A.M.P. (sinergia di sistema operativo Linux, web server Apache, database MySQL, e linguaggi di programmazione Perl, Python e PHP): aperte e gratuite, consentono per questo alle aziende di risparmiare sulla sicurezza e sulle licenze software. E' da notare come grazie alla loro elevata stabilità conquistino il mercato dei server e si ritrovino per questo sia alla base delle infrastrutture dell'internet in generale che di molte popolari web application gestite dai nuovi intermediari dell'informazione (Google, Facebook,ecc.), volte ad incanalare dati ed elaborazioni dei loro utenti come si vedrà tra poco.


Conseguenze

L'implementazione delle Web Application (dalla posta elettronica fino ai portali di investimento finanziario online) determina la crisi del soggetto del lavoratore della conoscenza: con l’aumento della potenza di calcolo a disposizione dell’utenza e le nuove web application disponibili - come blog, wiki, fotoritocco online - non occorrono più l'acquisto di software per il desktop e/o il possesso di un ampio bagaglio di conoscenze tecnologiche per produrre e consumare beni digitali che possano trovare anche uno sbocco di mercato. Per il dilettante che, ricordiamolo, si pone al centro di quest'ultimo processo produttivo dedicandovi prevalentemente il suo tempo libero, viene coniata l'etichetta di prosumer (produttore, consumatore e rielaboratore di informazioni e beni digitali allo stesso tempo). Per sfruttare il suo lavoro le imprese del web 2.0, secondo la definizione data da 'O Reilly:

   1. Si concentrano sull'offerta di servizi piuttosto che su quella di pacchetti software.
   2. Usano il web come architettura di partecipazione e non solo di comunicazione e distribuzione di prodotti, informazioni e conoscenze.
   3. Elaborano efficienti strategie di sfruttamento di intelligenza collettiva dei propri utenti
   4. Adottano modelli di business che sfruttano la creatività fondata sul remixing di oggetti culturali esistenti.

Focalizzando i loro sforzi sulla profilazione della coda lunga - la massa di mercati di beni di nicchia che i prosumer prediligono, e che quantitativamente nel suo complesso sopravanza la quota di mercato dei prodotti generalisti.

E il lavoratore della conoscenza? Forse il più emblematico colpo di coda della tecno-elite è stato quello attuato da Jon Postel, informatico californiano ed architetto dell’internet moderna: il fallimento del suo atto di disobbedienza contro l'accentramento dell'autorità di attribuzione dei domini internet - operato dal governo americano - che lo vide convogliare a scopo dimostrativo sul suo computer i rootserver della rete mondiale, è anche quello del lavoratore della conoscenza nel perpetuare la propria riproduzione.
La maggior parte di tutta questa composizione di classe sprofonda nel precariato; ascende nell'ambito residuale ma importantissimo delle attività che richiedono flessibilità, creatività, problem-solving generalizzato e comunicazione complessa - cioé, attività non routinarie che non possano (ancora) essere svolte da macchine - chi presenti invece tali competenze.

Inoltre, i lavoratori della conoscenza solo nella fase espansiva dell'economia a rete hanno visto coincidere le loro finalità con quelli della riproduzione economica, che nel biocapitalismo è legata alla riproduzione della vita stessa: il prosumer viene costruito dalle informazioni che consuma/produce. E si noti come la classe subentrante cannibalizzi la precedente: i lavoratori della conoscenza prosperano sui dispositivi informatici che destrutturano l’operaio massa, e vengono disfatti dalle web application utilizzate dai prosumer, ormai veri e propri infoproletari.

Quindi anche nella composizione sociale la “distruzione creatrice” segue l’innovazione?


Ancora sull' economia dell'attenzione...


Davanti al limite umano alla raccolta ed elaborazione di dati nel rumore di fondo della rete, acquistano importanza istituzioni e dispositivi di intermediazione informazionale. Come osserva Magnus Eriksson, più il valore economico dell'informazione statica tende allo zero, più diventa importante l'accesso alla comunità che circonda quelle informazioni, perché è la comunità che gli conferisce un significato, che determina se alle fine valgono qualcosa.

Quindi da una parte vi sono i grandi portali dell'immissione di informazioni in rete: Google e Facebook da un lato e le piattaforme finanziarie dall'altro - che non a caso iniziano a convergere. Dall'altra, certificazioni e strumenti volti a scremare questi portali per estrapolarne ciò che fa più al caso nostro: da quelle rilasciate dall'ufficialità delle agenzie di rating (incaricate di valutare i titoli delle imprese in base alla loro rischiosità - una variazione del rating comporta la variazione del tasso d'interesse associato ad un determinato titolo) a quelle più informali degli aggregatori, dei feed RSS, e delle applicazioni di Social Bookmarking.


E sugli intermediari del Web 2.0...

Come spiega Dmytri Kleiner in Infoenclosure 2.0:

"Un investitore del Web 2.0 ha bisogno principalmente di finanziare la generazione di hype, marketing e chiacchiericcio. L'infrastruttura è largamente disponibile a buon mercato, il contenuto è gratuito ed il costo del software, almeno di quanto di esso non sia anche gratuito, è trascurabile. Di base, fornendo banda e spazio su disco potete diventare un sito internet di successo, se siete in grado di vendervi efficacemente.

Il successo principale di un'azienda Web 2.0 arriva dal suo relazionarsi alla comunità o, più precisamente, nella capacità di un'azienda di rimanere monolitica nel suo brand contenutistico o, ancora meglio, nella sua aperta proprietà di quel contenuto, dischiudendo allo stesso tempo il metodo di creazione di quel contenuto alla comunità" - come accade per le compravendite effettuate su Ebay, su cui il sito incassa una percentuale, o per la produzione di informazioni e valore aggiunto sui propri prodotti effettuata da Amazon, la quale permette ai suoi utenti di copartecipare alla costruzione del proprio database librario: dinamica questa tutt'altro che limitata al web 2.0 e che verrà brevemente ripresa nel prossimo paragrafo - "Caratteristica imprescindibile di queste operazioni è il controllo centralizzato e verticale dell'azienda web 2.0 sul server del suo applicativo.

Dato che i capitalisti che investono nelle start-up del Web 2.0 spesso non ne finanziano la prima capitalizzazione, il loro comportamento diventa peraltro marcatamente parassitario. Arrivano spesso in ritardo nel processo, quando la creazione di valore ha una buona spinta, e vi si inseriscono per assumerne la proprietà ed utilizzare il proprio potere finanziario per promuovere il servizio, spesso entro il contesto di una rete egemonica di importanti e ben finanziati partner."

Grazie agli strumenti open source di data mining e profilazione delle preferenze dei loro utenti, i social network ed i motori di ricerca le aggregano e ne ricavano dei trend, che reimmettono in rete sotto forma di “video più cliccato”, “brano più ascoltato”, ecc, anche se l'opinione della maggioranza non rispecchia necessariamente la qualità di un contenuto. Tutto ciò fa saltare all'occhio la stretta corrispondenza di tali comportamenti imitativi in rete con quelli che avvengono sui mercati finanziari, sede in cui essi vengono direttamente valorizzati.


Automatismi di rete: convenzione, razionalità mimetica e comportamenti gregari

Se accogliamo il parallelo tra il lavoratore della conoscenza e l'artigiano che - grazie alle sue innovazioni - alla vigilia della rivoluzione industriale preparava il terreno per l'avvento dei dispositivi di organizzazione scientifica del lavoro, e continuiamo ipotizzando una "proletarizzazione" dell'ambiente di lavoro informazionale di rete, possiamo a questo punto chiederci se e come si possano declinare nel contemporaneo quelle forme di lavoro routinario condivise dagli operai fordisti come la catena di montaggio, che rappresentavano per essi allo stesso tempo un vettore sia di alienazione che di riconoscimento reciproco come classe accomunata dagli stessi bisogni ed obiettivi. Introduciamo due importanti differenze tra la vecchia e la nuova catena produttiva:

1) nel primo caso gli automatismi si trasfigurano in dispositivi impersonali ed alienanti, mentre gli automatismi in rete si pongono come co-partecipazione alla produzione e riproduzione della propria vita. Ciò si estende a tutte quelle forme di lavoro del consumatore che esondano dalle fibre ottiche di internet per materializzarsi nel montaggio della libreria Ikea da parte dell'acquirente piuttosto che nella prova di prodotti "omaggio"

2) gli automatismi della fabbrica sono giocati sul lavoro morto, quello che rispecchia la visibilità e materialità della catena produttiva, mentre gli automatismi di rete, come le convenzioni ed i comportamenti gregari sono giocati sul lavoro vivo e sulla sua tendenza ad interiorizzare legami deboli ed interagire con schemi concettuali riduzionisti per rapportarsi, partecipare o sfruttare la socialità complessa. La definizione di questi automatismi è tutt'altro che predeterminata, perché deriva sia dalla reputazione, credibilità e legittimità degli attori sociali che li determinano che delle piattaforme che li veicolano (giornali, volantini, bollettini, televisioni, blog, social network...) e in questo senso l'intera medialità diventa territorio di conflitto incessante, che porta sia il segno del potere che quello del contropotere.

Tali automatismi corrispondono alla convenzione, basata su idee vaghe ma sostenute da uno spaccato trasversale di investitori e netizen, e consolidata dai mezzi di comunicazione che si accontentano spesso di convalidare tale conoscenza indotta dagli stessi investitori, e la razionalità mimetica, che indica un comportamento di massa di tipo gregario basato sul deficit di informazione dei singoli, che si affidano alla convenzione come economizzatore di complessità, e riproduce un comportamento imitativo. Ad esempio in finanza la modalità di comunicazione di ciò che gli “altri” considerano un buon titolo su cui investire conta più del suo valore effettivo: ciò porta alla teoria del “momentum investing”, che consiglia di puntare sugli investimenti rialzisti, vale a dire quelli su cui si stia precipitando la massa degli investitori, spesso diretti da chi possieda un alto capitale reputazionale (dal tesoriere della Federal Reserve a Beppe Grillo...)


Dalla Fucina alla Nuvola. Una conclusione provvisoria

In una riedizione delle dinamiche della rivoluzione industriale, con i dispositivi del controllo sociale messi al servizio della riproduzione economica, le maglie delle nuove enclosure, quelle del sapere, tornano a restringersi. La celebrazione del “dilettante”, cioé dell'infoproletario, rispetto all'”esperto”, il vecchio lavoratore della conoscenza, non è che una maschera edulcorante per celare l'esodo di questa nuova figura lavorativa dalle "campagne" preinformazionali, le vecchie forme di lavoro ormai recintate dai dispositivi di sussunzione biocapitalisti e dall'organizzazione toyotista, per alienare la propria manodopera informazionale (i propri dati personali: e verrebbe da chiedersi se in un simile contesto le pratiche antagoniste in rete degli anni '90 e dei primi anni 2000, come le campagne in difesa della privacy rappresentino un assurdo o un lusso oppure una via di fuga ancora percorribile e necessaria) nelle moderne fabbriche, i portali delle web application. Un esodo quasi sempre drammatico, laddove sull'infoproletario si sovrappongono appunto le condizioni preinformazionali, di migranti dei contadini inurbati dei paesi in via di sviluppo, o di precari dei lavoranti a progetto e sottopagati dei paesi del capitalismo maturo. Dove un tempo gli operai si perdevano nel fumo delle fabbriche e nei rumori dei macchinari ora gli info-operai si perdono nella nuvola dell'informazione riduzionista e nel rumore di fondo della rete, mentre ritorna a divaricarsi la forbice tra essi ed i possidenti, infolatifondisti punti di snodo e controllo della ricchezza prodotta dalla rete allargata - dai vecchi media broadcast e baronati universitari ai nuovi aggregatori, dispositivi di profilazione e alle cloud più o meno compiute e ramificate, che arrivano ad offrire ai loro utenti spazio su disco online dove riversare le proprie informazioni: e, utilizzando un'espressione informatica, il vivere la propria esperienza in rete sottostando all'imposizione del "lato server" che queste ultime pongono in essere non rappresenta altro che l'ultima forma di schiavitù prodotta dalla ristrutturazione biocapitalista.

Bibliografia Critica
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André Gorz, L'immateriale, Bollati Boringhieri 2003
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Christian Marazzi, Capitale&Linguaggio, DeriveApprodi 2002
Christian Marazzi, Finanza Bruciata, Casagrande 2009
Dmytri Kleiner, Copyfarleft, copyjustright e la legge ferrea degli introiti da copyright - oltre il copyleft verso dei commons autonomi 2007
Dmytri Kleiner e Brian Wyrick, Infoenclosure 2.0 2007
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Geert Lovink, Internet non è il Paradiso, Apogeo 2004
Geert Lovink, Zero Comments, Mondadori 2008
Ippolita, Open non è Free, Eleuthera 2005
Ippolita, Luci ed Ombre di Google, Feltrinelli 2007
Nicholas Carr, Il Lato Oscuro della Rete, ETAS 2008
Nick-Dyer Whiteford, High-tech Proletariat, in Cybermarx: Cycles and Circuits of Struggle in High Technology Capitalism, University of Illinois Press 1999
Richard Barbrook ed Andy Cameron, L'Ideologia Californiana 1995

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