Print Friendly, PDF & Email
nazione indiana

I tortuosi sentieri del capitale

David Harvey intervista Giovanni Arrighi 

arrighi1Giovanni Arrighi, dall’inizio degli anni Sessanta fino al giorno della sua scomparsa, il 18 giugno scorso, è stato qualcuno che ha creduto, con tenacia illuministica, nella possibilità di penetrare nel fatum capitalistico. Per questo suo sforzo è considerato, a livello mondiale, uno dei massimi studiosi del capitalismo in un’ottica storico-comparativa. Avendo lasciato l’Italia per gli Stati Uniti, nel 1979, il nostro paese lo ha ricambiato prestando poco interesse alla sua opera. Non credo che questo sia mai stato per lui un dispiacere. Gli era perfettamente chiaro che gli strumenti intellettuali che aveva elaborato sarebbero stati usati da generazioni di intellettuali asiatici, africani o americani piuttosto che europei. Un bel ricordo di Arrighi da parte di Piero Pagliani qui. A. I.


[Presentiamo alcuni brani dall’ultima intervista di Arrighi, rilasciata a David Harvey e apparsa sul numero 56 (mar.-apr. 2009) della New Left Review. Ringrazio David Harvey, Beverly Silver, Kheya Bag per la disponibilità, Nicola Montagna per i pareri sulla traduzione e la Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna per le indicazione bibliografiche. Gh. B.]

[…]


Come mai nel 1963 sei andato in Africa, per lavorare al University College of Rhodesia and Nyasaland?

Il perché ci sono andato è molto semplice. Venni a sapere che le università inglesi stavano pagando davvero delle persone per insegnare e fare ricerca – diversamente dal mio posto in Italia, dove si doveva prestare servizio per quattro o cinque anni come assistente volontario prima che ci fosse qualche speranza di avere un lavoro pagato. Nei primi anni ‘60, gli inglesi stavano fondando delle università in tutto il loro ex-impero coloniale, come college di quelle britanniche. Il UCRN era un college della University of London. Mi sono presentato per due posti, uno in Rhodesia e uno a Singapore. Mi chiamarono per un colloquio a Londra e, dato che l’UCRN era interessato, mi offrirono un impiego come Lecturer in Economics. E così sono andato.

Fu una vera e propria rinascita intellettuale. La tradizione neoclassica, modellata sulla matematica, a cui ero stato educato1 non aveva niente da dirmi sui processi che andavo osservando in Rhodesia, o le diverse realtà della vita africana. Al UCRN lavoravo al fianco di antropologi sociali, in particolare con Clyde Mitchell, che stava già facendo un lavoro sull’analisi di rete, e Jaap van Velsen, che stava introducendo l’analisi situazionale, più tardi riconcettualizzata come analisi estesa dei case study. Andavo regolarmente ai loro seminari e sono stato influenzato fortemente da tutti e due. Un po’ alla volta, ho abbandonato la modellazione astratta per la teoria sociale antropologica, più concreta e fondata empiricamente e storicamente. Iniziai la mia lunga marcia dall’economia neoclassica alla sociologia storico-comparativa.

Questo era il contesto del tuo saggio del 1966, The political economy of Rhodesia, che analizzava le forme dello sviluppo capitalista di classe in corso in quel paese e le loro contraddizioni specifiche – spiegando le dinamiche che portarono alla vittoria del Rhodesian Front Party, il partito dei coloni nel 1962, e la Unilateral Declaration of Indipendence di Smith nel 1965. Quale fu l’impulso iniziale dietro al saggio, e qual è la sua importanza per te, guardandoti indietro?

The political economy of Rhodesia è stato scritto dietro incitamento di Van Velsen, che era un critico implacabile del mio uso dei modelli matematici. Avevo fatto una recensione di un libro di Colin Leys, European politics in Southern Rhodesia e Van Velsen mi suggerì di svilupparla in un articolo più lungo. Qui, e in Labour supplies in historical perspective, ho analizzato il modo in cui la completa proletarizzazione della classe contadina della Rhodesia creava delle contraddizioni per l’accumulazione capitalista – negli effetti, in che modo finiva per produrre più problemi che vantaggi per il settore capitalista(2). Fino a che la proletarizzazione era parziale, creava le condizioni per cui i contadini africani sussidiavano l’accumulazione di capitale, dato che producevano parte della loro propria sussistenza; ma più la classe contadina diventava proletaria, più quei meccanismi iniziavano a rompersi. Una manodopera completamente proletarizzata poteva essere sfruttata solo se era pagata con un salario di sussistenza pieno. In questo modo, invece di rendere più facile lo sfruttamento della manodopera, la proletarizzazione lo rendeva in effetti più difficoltoso, e spesso ha richiesto al regime di diventare più repressivo. Martin Legassick e Harold Wolpe, per esempio, davano per certo che l’apartheid in Sud Africa era dovuto principalmente al fatto che il regime aveva dovuto diventare più repressivo nei confronti della forza lavoro africana poiché quella era pienamente proletarizzata, e non poteva più sussidiare l’accumulazione del capitale come aveva fatto in passato.

Tutta la regione dell’Africa Meridionale – che si stende dal Sud Africa al Botswana attraverso la ex-Rhodesia, il Mozambico, il Malawi, che una volta era il Nyasaland, fino al Kenya, come punta estrema a nord-est – era caratterizzata da forti risorse minerarie, dall’agricoltura dei coloni e da un’estrema spoliazione della classe contadina. È molto diversa dal resto dell’Africa, nord incluso. Le economie dell’Africa Occidentale sono basate essenzialmente sull’agricoltura. Ma la regione meridionale – che Samir Amin chiamava l’“Africa delle riserve di manodopera” – era in qualche modo un paradigma dell’estrema spoliazione contadina, e allo stesso modo della proletarizzazione. Parecchi di noi stavano mettendo in evidenza che questo processo di spoliazione era contraddittorio. Inizialmente creava le condizioni perché la classe contadina sussidiasse l’agricoltura capitalista, le attività estrattive, la manifattura e così via. Ma, procedendo, creava delle difficoltà nello sfruttamento, la mobilitazione e il controllo del proletariato che, nel frattempo, era stato creato. Il lavoro che stavamo facendo allora – il mio Labour supplies in historical perspective, ed i lavori collegati di Legassick e Wolpe – stabilirono quello che poi venne chiamato il Paradigma dell’Africa Meridionale sui limiti della proletarizzazione e della spoliazione.

Contrariamente a quelli che ancora identificavano lo sviluppo capitalista con la proletarizzazione tout court – Robert Brenner, per esempio – l’esperienza dell’Africa meridionale mostrava che la proletarizzazione, di per sé, non favorisce lo sviluppo capitalista – dato che erano richieste anche altre circostanze di tutti i generi. Per la Rhodesia, identificai tre stadi di proletarizzazione, solo uno dei quali era favorevole all’accumulazione capitalista. Nel primo stadio, i contadini rispondevano allo sviluppo del capitalismo rurale fornendo i prodotti agricoli, ed avrebbero fornito manodopera solo in cambio di alti salari. L’intera area in questo modo finiva per essere caratterizzata da una penuria di manodopera, perché non appena l’agricoltura capitalista o l’attività estrattiva iniziavano a svilupparsi, si creava una domanda per i prodotti locali che i contadini africani era molto veloci nel soddisfare; potevano partecipare all’economia monetaria attraverso la vendita dei prodotti piuttosto che con la vendita di manodopera. Uno degli scopi del supporto statale all’agricoltura dei coloni era di creare concorrenza con i contadini africani, cosicché questi ultimi fossero costretti a fornire manodopera piuttosto che prodotti. Questo condusse ad un processo a lungo termine che andò dalla proletarizzazione parziale alla proletarizzazione completa; ma come già menzionato si trattò anche di un processo contraddittorio. Il problema, con il normale modello “proletarizzazione come sviluppo capitalista”, è che ignora non solo le condizioni reali del capitalismo dei coloni dell’Africa Meridionale ma anche molti altri casi, come gli stessi Stati Uniti, che erano caratterizzati da uno schema completamente differente – una combinazione di schiavitù, genocidio della popolazione nativa e immigrazione del surplus di manodopera dall’Europa.

[...]

Quando sei tornato in Europa, hai trovato un mondo molto diverso da quello che avevi lasciato sei anni prima?

Sì. Tornai in Italia nel 1969, e piombai immediatamente in due situazioni complicate. Una era all’Università di Trento, dove mi era stata offerta una docenza. Trento era il centro principale della militanza studentesca, e la sola università in Italia che, a quel tempo, offrisse dottorati in sociologia. La mia nomina era sponsorizzata dal comitato organizzativo dell’università che era formato dal democristiano Nino Andreatta, dal socialista liberale Norberto Bobbio, e da Francesco Alberoni; faceva parte di un tentativo di imbrigliare il movimento studentesco attraverso l’assunzione di un radicale. Nel primo seminario che tenni, avevo solo 4 o 5 studenti; ma nel semestre autunnale, dopo che il libro sull’Africa era uscito nell’estate del 1969, avevo quasi mille studenti che cercavano di entrare in classe(3). Il mio corso divenne il grande evento di Trento. Provocò addirittura una spaccatura in Lotta Continua: la fazione di Boato voleva che gli studenti venissero al corso, per ascoltare una critica radicale delle teorie dello sviluppo, mentre la fazione di Rostagno cercava di interrompere le lezioni lanciando pietre, in classe, dal cortile.

La seconda situazione era a Torino, grazie a Luisa Passerini, che fu uno personaggio di rilievo nella diffusione degli scritti situazionisti e che, quindi, ebbe una grande influenza su molti dei quadri di Lotta Continua che stavano attingendo al situazionismo. Facevo il pendolare tra Trento e Torino, via Milano – dal centro del movimento studentesco al centro del movimento dei lavoratori. Mi sentivo attratto e allo stesso tempo spaventato da alcuni aspetti di questo movimento – particolarmente dal suo rifiuto della “politica”. In alcune assemblee, poteva capitare che operai molto militanti si alzassero e dicessero, “Basta politica! La politica ci sta spingendo nella direzione sbagliata. Abbiamo bisogno di unità”. Per me, fu proprio uno shock, arrivando dall’Africa, scoprire che i sindacati comunisti erano considerati reazionari e repressivi dagli operai in lotta – e che in questo c’era un importante elemento di verità. La reazione contro i sindacati del PCI divenne una reazione contro tutti i sindacati. Gruppi come Potere Operaio e Lotta Continua si affermarono come un’alternativa, sia ai sindacati che ai partiti di massa. Con Romano Madera, che allora era uno studente, ma anche un quadro politico e un gramsciano – una rarità nella sinistra extra-parlamentare – iniziammo a sviluppare l’idea di trovare una strategia gramsciana per metterci in relazione con il movimento.

È qui che l’idea di autonomia – di autonomia intellettuale della classe operaia – è emersa per la prima volta. La creazione di questo concetto è ora generalmente attribuita ad Antonio Negri. Ma, in effetti, ha origine nell’interpretazione di Gramsci che sviluppammo nei primi anni ‘70, nel Gruppo Gramsci cofondato da Madera, Passerini e me. Il contributo più importante che ci sembrava di potere dare al movimento non era nelle vesti di chi offriva un sostituto dei sindacati, o dei partiti, ma come studenti e intellettuali impegnati ad aiutare le avanguardie degli operai nello sviluppo della loro stessa autonomia – autonomia operaia – attraverso una comprensione dei processi più ampi, sia nazionali che globali, in cui le loro lotte avevano luogo. In termini gramsciani, lo si concepiva come formazione di intellettuali organici alla classe operaia in lotta. A questo fine formammo i Collettivi politici operai (CPO), che divennero noti come l’Area dell’Autonomia. Non appena questi collettivi avessero sviluppato la loro pratica autonoma, il Gruppo Gramsci avrebbe cessato di avere una funzione e si sarebbe potuto sciogliere. Quando si sciolse effettivamente, nell’autunno del 1973, Negri entrò in scena e portò i CPO e l’Area dell’Autonomia verso una direzione avventurosa che era lontana da ciò che si pensava in origine.

 

Ci sono della lezioni comuni che hai appresso dalle lotte di liberazione nazionali africane e dalle lotte della classe operaia italiana?

Le due esperienze avevano in comune il fatto che, in entrambe, avevo buonissime relazioni con i movimenti più ampi. La gente voleva sapere su che basi stavo partecipando alla lotta. La mia posizione era: ‘”Non ho intenzione di dirvi che cosa fare, perché voi conoscete la vostra situazione molto meglio di quanto potrò mai fare io. Ma sono in una posizione migliore per capire il più ampio contesto in cui si sviluppa. Così il nostro scambio deve essere basato sul fatto che voi mi dite qual è la vostra situazione e io vi dico in che relazione si trova con il contesto più ampio, che non potete vedere o che vedete solo parzialmente, nel quale operate”. Quella fu sempre la base di eccellenti relazioni, sia con i movimenti di liberazione nell’Africa Meridionale che con gli operai italiani.

Gli articoli sulla crisi capitalista hanno avuto origine in uno scambio di questo tipo, nel 1972 (4). Agli operai dicevano: “Adesso c’è una crisi economica, dobbiamo stare calmi. Se continuate a fare le lotte i posti di lavoro in fabbrica se ne andranno altrove”. Così gli operai ci posero la questione: “Siamo dentro a una crisi? E, se sì, quali sono le implicazioni? Dovremmo starcene tranquilli per questo?”. Gli articoli che costituivano Towards a theory of capitalist crisis furono scritti in funzione di questa problematica particolare, formulata dagli operai stessi, che dicevano: “Parlaci del resto del mondo e di che cosa ci dobbiamo aspettare”. Il punto di partenza degli articoli era: “Allora, le crisi avvengono che voi facciate le lotte o no – non sono in funzione della militanza degli operai, o degli “errori” nella gestione dell’economia, ma sono fondamentali al funzionamento della stessa accumulazione capitalista”. Era quello l’orientamento iniziale. Il libro fu scritto proprio all’inizio della crisi; prima che l’esistenza della crisi fosse ampiamente riconosciuta. Divenne importante come cornice di riferimento che poi ho usato, negli anni, per monitorare quello che succedeva. Dal quel punto di vista, ha funzionato per bene.

Torneremo sulla teoria delle crisi capitaliste, ma volevo prima chiederti del tuo lavoro in Calabria. Nel 1973, proprio mentre il movimento si stava alla fine placando, hai accettato l’offerta di un posto di insegnamento a Cosenza?

Una delle attrattive, per me, dell’andare in Calabria, era continuare la mia ricerca sull’offerta di manodopera in un nuovo contesto. Avevo già visto in Rhodesia come, quando gli africani furono completamente proletarizzati – o, più precisamente, quando divennero coscienti che a quel punto erano completamente proletarizzati – la cosa portasse alle lotte per chiedere un salario di sussistenza nelle aree urbane. In altre parole, la finzione per cui “siamo maschi soli, le nostre famiglie continuano a vivere delle vite contadine nelle campagne”, non poteva più reggere, una volta che le stesse famiglie erano costrette a vivere nelle città. Avevo messo in evidenza questa cosa in Labour supplies in historical perspective. La misi ancora più a fuoco in Italia, perché c’era questa situazione ingarbugliata: i migranti del sud venivano portati nelle regioni industriali del nord come crumiri, negli anni ‘50 e nei primi anni ‘60. Ma, dagli anni ‘60, e specialmente verso la fine degli anni ‘60, furono trasformati in avanguardie della lotta di classe, che è l’esperienza tipica dei migranti. Quando misi in piedi un gruppo di ricerca in Calabria, feci leggere gli antropologi sociali che avevano lavorato sull’Africa, particolarmente sulle migrazioni, dopodiché facemmo un’analisi dell’offerta di manodopera dalla Calabria. Le questioni erano: che cosa stava creando le condizioni per questa migrazione? E quali erano i suoi limiti – dato che, ad un certo punto, anziché creare una forza lavoro docile che potesse essere usata per minare il potere di contrattazione della classe operaia settentrionale, gli stessi migranti diventavano l’avanguardia militante?

Dalla ricerca emersero due cose. La prima, che lo sviluppo capitalista non si basa necessariamente sulla completa proletarizzazione. Da una parte, la migrazione su lunga distanza della manodopera si stava verificando a partire da luoghi dove non era in corso nessuna spoliazione, dove, addirittura, c’era la possibilità per i migranti di acquistare terra dai proprietari terrieri. Questo aspetto era collegato al sistema locale di primogenitura, attraverso il quale solo il figlio maggiore ereditava la terra. Tradizionalmente, i figli minori finivano per entrare nella Chiesa o nell’esercito, fino a che le migrazioni su larga scala e su lunga distanza fornirono un’alternativa sempre più importante per guadagnare i soldi necessari all’acquisto della terra, una volta tornati a casa, e per mettere su le proprie fattorie. Dall’altra parte, nelle aree veramente povere, dove la manodopera era completamente proletarizzata, in genere non ci si poteva affatto permettere di migrare. L’unico modo in cui si riuscì a farlo fu, per esempio, quando i brasiliani abolirono la schiavitù nel 1888 e ci fu bisogno di manodopera sostitutiva a buon mercato. Vennero reclutati i lavoratori da queste aree profondamente impoverite dell’Italia Meridionale, venne loro pagato il viaggio e furono risistemati in Brasile, per rimpiazzare gli schiavi emancipati. Questi sono schemi di migrazione molto diversi. Ma in termini generali, non sono i poverissimi a emigrare: è necessario avere qualche mezzo e qualche aggancio per poterlo fare.

La seconda cosa che si ricavò dalla ricerca calabra aveva delle similitudini con i risultati della ricerca in Africa. Anche qui, la disposizione dei migranti, rispetto all’impegnarsi nelle lotte della classe operaia nei luoghi in cui si erano spostati, dipendeva dal presupposto che le condizioni in quel luogo fossero considerate come in grado di determinare permanentemente le loro possibilità di vita. Non è sufficiente dire che la situazione delle aree verso cui si emigra determina per quali salari e per quali condizioni i migranti lavoreranno. Si deve anche dire fino a che punto i migranti si percepiscono nella condizione di ricavare il grosso della propria sussistenza dall’impiego salariato – è un meccanismo che può essere individuato e monitorato. Ma il punto principale che emergeva era un tipo diverso di critica all’idea di proletarizzazione come processo tipico dello sviluppo capitalista.

[...]

 

Un’altra idea, alla quale hai fornito una profondità teorica molto più grande, ma che ciononostante deriva da Braudel, è la nozione che l’espansione finanziaria annunci l’autunno di un particolare sistema egemonico, e preceda lo spostamento verso una nuova egemonia. Questa sembrerebbe un’intuizione centrale in The long twentieth century(1)?

Sì. L’idea era che le organizzazioni capitaliste, che fanno da guida in una data epoca, siano anche le guide dell’espansione finanziaria, che si dà sempre quando l’espansione materiale delle forze produttive raggiunge i suoi limiti. La logica di questo processo – anche se, di nuovo, Braudel non la fornisce – è che quando la competizione si intensifica, l’investimento nell’economia materiale diventa sempre più rischioso e, quindi, la preferenza di liquidità di chi accumula è accentuata, la qual cosa, a sua volta, crea le condizioni di offerta dell’espansione finanziaria. La questione successiva, naturalmente, è come vengono create le condizioni di domanda per le espansioni finanziarie. Per questo aspetto, mi sono basato sull’idea di Weber che la competizione inter-statale per il capitale mobile costituisca la specificità, nella storia mondiale, dell’età moderna. Questa competizione, sostengo, crea le condizioni di domanda per l’espansione finanziaria. L’idea di Braudel di “autunno” – come fase conclusiva di un processo di leadership nell’accumulazione, che va dal materiale al finanziario e finalmente al trasferimento per opera di un altro leader – è cruciale. Ma lo è anche l’idea di Marx che l’autunno di uno stato particolare, che sta avendo la sua espansione finanziaria, è anche la primavera di un altro luogo: i surplus che si accumulano a Venezia vanno in Olanda; quelli che si accumulano in Olanda dopo vanno in Gran Bretagna; e quelli che si accumulano in Gran Bretagna vanno negli Stati Uniti. In questo modo, Marx ci mette in grado di completare quello che troviamo in Braudel: l’autunno diventa altrove una primavera, producendo una serie di sviluppi interconnessi.

[...]

Ancora sulla questione della manodopera, potremmo allora ritornare sul tuo saggio del 1990, riguardo al ricostituirsi del movimento operaio mondiale, Marxist century, American century(2)? Lì sostieni che la descrizione di Marx della classe operaia, nel Manifesto, è profondamente contraddittoria, dato che pone l’accento allo stesso tempo sul crescente potere collettivo della forza lavoro, come effetto dello sviluppo capitalista, e sul suo crescente impoverimento, corrispondendo i due aspetti, concretamente, ad un esercito industriale attivo e ad un esercito di riserva. Marx, metti in evidenza, pensava che entrambe le tendenze si sarebbero trovate unite in una medesima massa umana; ma tu sei andato oltre, proponendo che, all’inizio del XX secolo, in effetti si polarizzarono spazialmente. In Scandinavia e nell’Anglosfera, è prevalsa la prima, in Russia e ancora più a est la seconda – con Bernstein che comprendeva la situazione della prima, e Lenin dell’ultima – portando alla divisione tra le ali riformista e rivoluzionaria del movimento operaio. Nell’Europa centrale – Germania, Austria, Italia – d’altra parte, proponevi che ci fosse un equilibrio più incerto tra l’esercito attivo e la riserva, cosa che portò agli equivoci di Kautsky, incapace di scegliere tra riforma e rivoluzione, contribuendo alla vittoria del fascismo. Alla fine del saggio, suggerivi che potrebbe essere prossima una ricomposizione del movimento operaio – con la miseria che riappare in Occidente, per il ritorno di una disoccupazione diffusa, e il potere collettivo degli operai, con la rinascita della Solidarność, che riappare nell’Est, forse riunendo ciò spazio e storia avevano diviso. Come vedi oggi una prospettiva di questo tipo?

Ecco, la prima cosa è che, insieme a questo scenario ottimistico dal punto di vista dell’unificazione delle condizioni della classe operaia in termini globali, c’era anche una considerazione più pessimistica nel saggio, che sottolineava una cosa che ho sempre considerato un difetto serio del Manifesto di Marx e Engels. C’è un salto logico che proprio non regge, intellettualmente e storicamente – l’idea che, per il capitale, quelle cosa che noi oggi chiameremmo genere, etnia, nazionalità, non abbiano importanza. Che la sola cosa che abbia importanza per il capitale sia la possibilità dello sfruttamento; e che quindi è il gruppo sociale più sfruttabile quello che viene impiegato, senza alcuna discriminazione in base alla razza, il genere, l’etnia. Questo è certamente vero. Tuttavia, non ne deriva che i vari gruppi sociali all’interno della classe operaia lo accettino così semplicemente. In effetti, è proprio nel momento in cui la proletarizzazione diventa generalizzata, che gli operai iniziano a mobilitarsi su qualunque tipo di differenza di status riescano a identificare o costruire, per ottenere un trattamento privilegiato da parte dei capitalisti. Si mobiliteranno lungo linee di genere, linee di nazionalità, di etnia o quant’altro, per ottenere un trattamento privilegiato da parte del capitale.

Marxist century, American century quindi non è così ottimistico come potrebbe essere apparso, poiché puntava su questa tendenza interna alla classe operaia ad accentuare le differenze di status, per proteggere se stessa dalla disposizione del capitale a trattare la forza lavoro come una massa indifferenziata, che va impiegata solo nella misura in cui permette al capitale di mietere profitti. Così l’articolo finisce con una nota ottimistica, per cui c’è una tendenza al livellamento ma, allo stesso tempo, dovremmo tenere in conto che gli operai lotteranno per proteggersi, attraverso la formazione o il consolidamento di gruppi sociali, proprio contro questa tendenza.

Questo vuol dire che la differenziazione tra l’esercito attivo e la riserva industriale tende anche ad essere divisa in base allo status – razzializzata, per così dire?

Dipende. Se si guarda al processo globalmente – laddove l’esercito di riserva non è solo il disoccupato, ma anche il sommerso o l’escluso – allora c’è di sicuro una divisone di status tra i due. La nazionalità è stata usata da segmenti della classe operaia, dell’esercito attivo, per differenziarsi dall’esercito di riserva globale. A livello nazionale, la cosa è meno chiara. Se si prendono gli Stati Uniti o l’Europa, è molto meno evidente che ci sia, in effetti, una differenza di status tra l’esercito attivo e quello di riserva. Ma con i migranti che in questo periodo stanno arrivando da paesi molto più poveri, i sentimenti anti-immigrazione, che sono una manifestazione di questa tendenza a creare distinzioni di status all’interno della classe operaia, sono cresciuti. E, così, si tratta di un’immagine molto complessa, specialmente se si guarda ai flussi transnazionali di migrazione, e alla situazione, per cui l’esercito di riserva è principalmente concentrato nel Sud globale piuttosto che nel Nord.

Nel tuo articolo del 1991, World income inequalities and the future of Socialism (3), hai mostrato la straordinaria stabilità, nel XX secolo, della gerarchia della ricchezza regionale – nella misura in cui la differenza nelle entrate pro capite tra il centro, rappresentato dal Nord e Ovest del mondo, ed il Sud ed Est periferici e semiperiferici, era rimasta immutata o, in effetti, si era approfondita dopo mezzo secolo di sviluppo. Il comunismo, evidenziavi, ha fallito nel diminuire quella differenza in Russia, nell’Europa Orientale e in Cina, benché non avesse fatto peggio del capitalismo in America latina, nell’Asia Sud-orientale o in Africa, e sotto altri punti di vista – una distribuzione del reddito più egualitaria all’interno della società ed una più grande indipendenza dello stato dal centro Nord-Occidentale – avesse fatto decisamente meglio. Circa due decenni dopo, la Cina ha ovviamente rotto lo schema che avevi descritto allora. Quanto è stata una sorpresa – o quanto non lo è stata – per te?

Per prima cosa, non dovremmo esagerare la portata con cui la Cina ha rotto lo schema. Il livello di reddito pro capite in Cina era così basso – ed è ancora basso, se paragonato alle nazioni ricche – che anche i progressi più grandi devono essere circostanziati. La Cina ha raddoppiato la sua posizione rispetto al mondo ricco, ma la cosa vuol dire solo andare dal 2 per cento del reddito medio pro capite dei paesi ricchi al 4 per cento. È vero che la Cina è stata decisiva nel produrre una riduzione delle disuguaglianze di reddito a livello mondiale tra le nazioni. Se non si conta la Cina, la posizione del Sud è peggiorata a partire dagli anni ‘80; se la si conta, allora il Sud è migliorato di un poco, dovuto quasi esclusivamente al miglioramento della Cina. Ma, naturalmente, c’è stata una grande crescita della disuguaglianza all’interno della RPC, cosicché la Cina ha contribuito anche all’aumento degli ultimi decenni delle disuguaglianze all’interno delle nazioni su scala mondiale. Prendendo i due indici insieme – disuguaglianza tra e dentro le nazioni – statisticamente la Cina ha portato quasi ad una riduzione nel totale della disuguaglianza globale. Non dovremmo esagerare questa cosa – lo schema mondiale è ancora quello delle fortissime differenze, che si stanno riducendo di piccola misura. Comunque, è importante perché cambia le relazioni di potere tra le nazioni. Se va avanti, può anche cambiare la distribuzione globale del reddito, da una ancora molto polarizzata ad una più normale, sul tipo di quella di Pareto.

La cosa mi ha sorpreso? In una certa misura, sì. In effetti, è per questo che, negli ultimi quindici anni, ho spostato il mio interesse verso lo studio dell’Asia Orientale, realizzando che, benché l’Asia Orientale – eccetto il Giappone, chiaramente – faccia parte del Sud, ha alcune peculiarità che la mettono in grado di generare un tipo di sviluppo che non si adatta affatto allo schema di disuguaglianza stabile tra le regioni. Allo stesso tempo, nessuno ha mai affermato – certamente non l’ho fatto io – che la stabilità nella distribuzione globale del reddito significava anche l’immobilità di nazioni e regioni specifiche. Una struttura abbastanza stabile di disuguaglianza può persistere, con alcune nazioni che vanno su e altre giù. E questo, in una certa misura, è quello che è successo. Dagli anni ‘80 e ‘90, in particolare, lo sviluppo più importante è stata la biforcazione tra un’Asia Orientale altamente dinamica e in mobilità verso l’alto ed un’Africa stagnate ed in mobilità verso il basso, particolarmente l’Africa Meridionale – “l’Africa delle riserve di forza lavoro”, di nuovo. Questa biforcazione è la cosa che mi interessa di più: perché l’Africa Meridionale e l’Asia Orientale si sono mosse in direzioni così opposte. È un fenomeno importantissimo da capire, perché vorrebbe anche dire modificare la nostra comprensione dei fondamenti di uno sviluppo capitalista di successo e di quanto si basa o no sulla spoliazione – la completa proletarizzazione della classe contadina – come è successo nell’Africa Meridionale, o sulla proletarizzazione molto parziale che ha avuto luogo in Asia Orientale. Così, la divergenza di queste due regioni porta in evidenza un grossa questione teorica, che di nuovo sfida l’identificazione di Brenner dello sviluppo capitalista con la completa proletarizzazione della forza lavoro.

Chaos and governance sosteneva prima di altri, nel 1999, che l’egemonia americana sarebbe decaduta principalmente attraverso la crescita dell’Asia Orientale, e soprattutto della Cina. Allo stesso tempo, apriva la prospettiva secondo la quale sarebbe stata quella anche la regione in cui la forza lavoro avrebbe posto in futuro la sfida più aspra al capitale, a livello mondiale. È stato a volte suggerito che c’è una tensione tra queste prospettive – la crescita della Cina come centro di potere rivale agli Stati Uniti e il crescente fermento tra le classi operaie in Cina. Tu come vedi la relazione tra le due?

La relazione è molto stretta perché, prima di tutto, contrariamente a quanto molti pensano, i contadini e gli operai cinesi hanno una tradizione millenaria di irrequietezza, che non ha paralleli in nessun’altra parte del mondo. In effetti, molte transizioni dinastiche sono state provocate dalle ribellioni, dagli scioperi e dalle dimostrazioni – non solo di operai e contadini, ma anche di commercianti. Questa è una tradizione che continua fino al presente. Quando Hu Jintao disse a Bush, pochi anni fa, “Non preoccupatevi che la Cina cerchi di sfidare il dominio degli USA; abbiamo già troppe preoccupazioni a casa”, si stava riferendo ad una delle caratteristiche principali della storia cinese: come contrastare la combinazione di ribellioni interne da parte delle classi subordinate e di invasioni esterne da parte dei cosiddetti barbari – dalle Steppe, fino al XIX secolo, e poi, a partire dalle Guerre dell’Oppio, dal mare. Queste sono sempre state le opprimenti preoccupazioni dei governi cinesi ed hanno messo dei limiti molto stretti al ruolo della Cina nelle relazioni internazionali. La stato della Cina imperiale della fine del XIX e del XX secolo era essenzialmente una specie di stato sociale pre-moderno. Queste caratteristiche vennero riprodotte anche nel corso dell’evoluzione successiva. Durante gli anni ‘90, Jiang Zemin ha fatto uscire il genio del capitalismo dalla lampada. I tentativi di questi giorni di rimetterlo dentro devono essere messi nel contesto di questa tradizione molto più lunga. Se le ribellioni delle classi subordinate cinesi si concretizzassero in una nuova forma di stato sociale, allora avrebbero un’influenza sullo schema delle relazioni internazionali per i successivi venti o trenta anni. Ma l’equilibrio tra le forze di classe in Cina è ancora fuori portata.

C’è una contraddizione tra essere uno dei maggiori centri di fermento sociale ed essere una potenza in crescita? Non necessariamente – gli Stati Uniti negli anni ‘30 erano all’avanguardia delle lotte operaie, nello stesso momento in cui stavano emergendo come potenza egemonica. Il fatto che queste lotte avessero successo, nel bel mezzo della Grande Depressione, fu un fattore significativo nel rendere gli USA socialmente egemonici anche per le classi operaie. È stato sicuramente il caso dell’Italia, dove l’esperienza americana divenne il modello per alcuni sindacati cattolici.

[...]

Per ritornare alla questione delle crisi capitaliste. Il tuo saggio del 1972, Towards a theory of capitalist crisis, mette in opera una comparazione tra la lunga flessione del 1873-1896 e la predizione, che si dimostrò completamente accurata, di un’altra crisi simile, sottolineando le somiglianze ma anche delle importanti differenze tra le due. Però hai scritto di meno sulla crisi dal 1929 in poi. Ti sembra che la Grande Depressione continui ad essere di minor rilevanza?

Beh, non di minor rilevanza, perché in effetti è la crisi più seria di cui il capitalismo storico abbia fatto esperienza; certamente, fu un punto di svolta decisivo. Ma fu anche educativa, per i poteri a venire, nei termini di ciò che avrebbero dovuto fare per non ripetere quella esperienza. Ci sono una varietà di strumenti, più o meno riconosciuti, per prevenire che quel tipo di crollo accada di nuovo. Anche adesso, benché il collasso della borsa sia paragonato agli anni ‘30, credo – ma posso sbagliarmi – che sia le autorità monetarie che i governi degli stati, che effettivamente hanno voce in capitolo in tutto questo, abbiamo intenzione di fare tutto quello che possono per evitare che il collasso dei mercati finanziari abbia effetti sociali simili agli anni ‘30. Semplicemente non se lo possono permettere, politicamente. E così se la caveranno in qualche modo, faranno tutto quello che devono. Anche Bush – e prima di lui Reagan – per tutta la loro ideologia da libero mercato, si sono basati su una forma estrema di spese statali keynesiane. La loro ideologia è una cosa, quello che fanno effettivamente è un’altra, dato che rispondo a situazioni politiche a cui non possono permettere di deteriorarsi troppo. Gli aspetti finanziari possono anche essere simili agli anni ‘30, ma c’è una maggiore consapevolezza e dei vincoli più stretti sulle autorità politiche perché non si lasci che questi processi abbiano effetti, sulla cosiddetta economia reale, nella stessa misura con cui lo fecero negli anni ‘30. Non sto dicendo che la Grande Depressione sia meno rilevante ma non sono convinto che sia in procinto di ripetersi nel prossimo futuro. La situazione dell’economia mondiale è radicalmente differente. Negli anni ‘30 era fortemente segmentata e quello potrebbe essere stato un fattore che ha prodotto le condizioni per quei crolli. Adesso, è molto più integrata.

In Towards a theory of capitalist crisis descrivi un conflitto strutturale profondo, all’interno del capitalismo, nel quali fai una distinzione tra le crisi che sono causate da un tasso troppo alto di sfruttamento, che conduce ad una crisi di realizzazione a causa dell’insufficienza della domanda reale, e quelle causate da un tasso troppo basso di sfruttamento, che taglia la domanda di mezzi di produzione. Ora, mantieni ancora questa distinzione generale e, se sì, diresti che ci troviamo in una crisi di realizzazione soggiacente, mascherata da finanziarizzazione ed espansione dell’indebitamento privato, dovuta alla repressione dei salari che ha caratterizzato il capitalismo degli ultimi trenta anni?

Sì. Credo che negli ultimi trenta anni ci sia stato un cambiamento nella natura delle crisi. Fino ai primi anni ‘80, la crisi era tipicamente una crisi di caduta del saggio di profitto, dovuta all’intensificarsi della concorrenza tra le agenzie capitaliste, e dovuta a circostanze nelle quali la manodopera era molto meglio attrezzata per difendersi rispetto alle precedenti depressioni – sia alla fine del XIX secolo che negli anni ‘30. Quella era la situazione per tutti gli anni ‘70. La controrivoluzione monetaria di Reagan e Thatcher era finalizzata negli effetti a minare questo potere, questa capacità che le classi operaie avevano di difendersi – non fu il solo obiettivo, ma fu uno degli obiettivi principali. Credo che tu citi un qualche consigliere di Thatcher, che diceva che ciò che fecero fu…

…creare un esercito industriale di riserva; esattamente…

…ciò che Marx diceva che avrebbero dovuto fare! Questo cambiava la natura della crisi. Negli anni ‘80 e ‘90 e adesso, negli anni 2000, stiamo davvero affrontando una crisi di sovrapproduzione, con tutte le caratteristiche tipiche. I redditi sono stati ridistribuiti in favore dei gruppi e delle classi che hanno un’alta liquidità ed una disposizione speculativa; così i redditi non tornano in circolazione nella forma di una domanda effettiva ma vanno nelle speculazioni, creando bolle che scoppiano regolarmente. Dunque, sì, la crisi si è trasformata da crisi di caduta del saggio di profitto, dovuta all’intensificazione della concorrenza tra i capitali, a crisi di sovrapproduzione, dovuta alla scarsità sistematica di domanda effettiva, creata dalle tendenze dello sviluppo capitalista.

[...]

Una delle conclusioni di Marx ne Il capitale, in modo particolare nel Primo volume, è che l’adozione di un sistema di libero mercato di tipo smithiano condurrebbe alla crescita delle disuguaglianze di classe. Fino a che punto l’introduzione di un regime smithiano a Pechino comporta il rischio di disuguaglianze di classe ancora più grandi, in Cina?

La mia tesi nel capitolo teorico su Smith, in Adam Smith in Beijing(4), è che non c’è alcuna nozione nella sua opera di mercato autoregolantesi, come nel credo neoliberista. La mano invisibile è quello dello stato, che dovrebbe regolamentare in modo decentrato, con un minimo di interferenza burocratica. In sostanza, l’azione del governo in Smith è a favore della manodopera, non a favore del capitale. È del tutto esplicito rispetto al fatto che non è a favore del far competere gli operai, per una riduzione dei salari, ma del far competere i capitalisti, per ridurre i profitti alla minima ricompensa accettabile per il loro rischio. Le concezioni correnti lo stravolgono da capo a piedi. Ma non è ancora chiaro verso dove si è diretta la Cina oggi. Nell’era di Jiang Zemin, negli anni ‘90, si era diretta certamente nella direzione del far competere gli operai a beneficio del capitale e del profitto; su questo non ci sono dubbi. Ora c’è un’inversione, tale che come ho detto prende in considerazione non solo la tradizione della rivoluzione e del periodo di Mao, ma anche gli aspetti da stato sociale del tardo impero cinese sotto la dinastia Qing, nel XVIII secolo e fino alla fine del XIX. Non scommetto su nessun risultato in particolare, in Cina, ma dobbiamo mantenere una mente aperta per vedere dove sta andando.

[...]

In The long twentieth century, delinei tre possibili risultati al caos sistemico verso cui la lunga ondata di finanziarizzazione, che cominciò nei primi anni ’70, ci stava conducendo: un impero mondiale controllato dagli Stati Uniti, una società di mercato mondiale in cui nessuno stato dominasse sugli altri o una nuova guerra mondiale che avrebbe distrutto l’umanità. In tutte e tre le eventualità, il capitalismo, per come si era storicamente sviluppato, sarebbe scomparso. In Adam Smith in Beijing, concludi che, con il fallimento dell’Amministrazione Bush, il primo risultato era ormai escluso del tutto, lasciando solo gli ultimi due. Ma non c’è, almeno logicamente, una possibilità all’interno della tua cornice teorica che la Cina possa emergere nel tempo come una nuova potenza egemone, prendendo il posto degli Stati Uniti, senza alterare le strutture del capitalismo e del territorialismo per come le descrivi? Escludi questa possibilità?

Non escludo quella possibilità ma iniziamo a chiarire in modo preciso cosa ho detto effettivamente. Il primo dei tre scenari che prevedevo, alla fine di The long twentieth century, era un impero mondiale controllato dagli Stati Uniti in cooperazione con i loro alleati europei. Non avrei mai pensato che gli USA sarebbero stati così sconsiderati da cercare di andare da soli verso un Nuovo Secolo Americano – era semplicemente un progetto troppo folle per prenderlo in considerazione; e, naturalmente, gli si è ritorto contro immediatamente. In effetti, all’interno dell’establishment della politica estera USA c’è una forte corrente che vorrebbe mettere una pezza alle relazioni con l’Europa, che erano tese a causa dell’unilateralismo dell’Amministrazione Bush. Quella è ancora una possibilità, anche se adesso è meno plausibile di quanto lo fosse prima. Il secondo punto è che una società di mercato mondiale ed un peso maggiore della Cina nell’economia globale non si escludono a vicenda. Se si guarda al modo in cui la Cina si è storicamente comportata verso i propri vicini, ci sono sempre state delle relazioni basate più sul commercio e sugli scambi economici che non sul potere militare; è ancora questa la situazione. Le persone spesso fraintendono questa cosa: pensano che io immagini l’elemento cinese come se fosse più morbido o migliore dell’Occidente; ma il discorso non ha niente a che fare con questo. Ha a che fare con i problemi di governance di una nazione come la Cina, di cui abbiamo discusso. La Cina ha una tradizione di ribellioni che nessun altro territorio di dimensioni simili ha mai affrontato. Inoltre i suoi governanti sono estremamente consci della possibilità di nuovi invasori dal mare – in altre parole, dagli USA. Come sottolineo, nel Capitolo X di Adam Smith in Beijing, ci sono diversi piani americani riguardo a come comportarsi con la Cina, nessuno dei quali è esattamente rassicurante per Pechino. A parte il piano di Kissinger, che è quello della cooptazione, gli altri prevedono sia una Guerra fredda diretta contro la Cina che il coinvolgimento della Cina in guerre con i suoi vicini, mentre gli USA giocano il ruolo del “terzo che se la gode”. Se la Cina emerge davvero, come credo farà, in quanto nuovo centro dell’economia globale, il suo ruolo sarà radicalmente diverso da quello delle precedenti potenze egemoni. Non solo a causa dei contrasti culturali, radicati come sono questi nelle differenze storico-geografiche; ma precisamente perché la storia e la geografia così diverse della regione dell’Asia Orientale avranno un impatto sulle nuove strutture dell’economia globale. Se la Cina è in procinto di diventare la potenza egemone, sta per diventare una potenza egemone in modi molto diversi dalle altre. Per dirne una, il potere militare sarà molto meno importante che non il potere culturale ed economico – specialmente il potere economico. Deve giocare la carta dell’economia molto più di quanto abbiano mai fatto gli USA o gli inglesi o gli olandesi.

[...]

La crisi corrente del sistema finanziario mondiale sembra la dimostrazione più spettacolare che ci si potesse immaginare delle tue predizioni teoriche a lungo termine. Ci sono degli aspetti della crisi che ti hanno sorpreso?

La mia predizione era davvero semplice. La tendenza ricorrente verso la finanziarizzazione era, come dice Braudel, un segno dell’autunno di una particolare espansione materiale, centrata su uno stato particolare. In The long twentieth century, definivo l’avviamento della finanziarizzazione come la crisi segnale di un regime di accumulazione, e mettevo in evidenza che nel tempo – generalmente si trattava di circa mezzo secolo – la crisi terminale sarebbe seguita. Per le potenze egemoni precedenti, era possibile identificare sia la crisi segnale che, dopo, la crisi terminale. Per gli Stati Uniti, azzardai l’ipotesi che gli anni ‘70 fossero la crisi segnale; la crisi finale non era ancora arrivata – ma lo avrebbe fatto. Come sarebbe arrivata? L’ipotesi di base è che tutte queste espansioni finanziarie fossero fondamentalmente insostenibili, perché stavano trascinando verso la speculazione più capitale di quanto ne potessero effettivamente gestire – in altre parole, c’era una tendenza in queste espansioni finanziarie a sviluppare delle bolle di diverso tipo. Previdi che questa espansione finanziaria avrebbe portato alla fine ad una crisi terminale, perché le bolle sono insostenibili adesso come lo sono state nel passato. Ma non previdi i dettagli delle bolle: il boom del dot.com, la bolla edilizia.

Inoltre, rimasi ambiguo circa il punto in cui eravamo ai primi anni ‘90, quando scrissi The long twentieth century. Pensavo che, in qualche modo, la Belle Èpoque degli Stati Uniti fosse già finita, mentre in effetti era appena all’inizio. Reagan la preparò provocando una recessione di grandi dimensioni, che poi creò le condizioni per una successiva espansione finanziaria; ma effettivamente fu Clinton che supervisionò la Belle Èpoque, che così finì con il collasso finanziario degli anni 2000, specialmente del Nasdaq. Con lo scoppio della bolla edilizia, ciò che stiamo osservando ora è, del tutto chiaramente, la crisi terminale della centralità finanziaria e dell’egemonia degli USA.

[... ]

Note
1) NdT: all’Università Bocconi.
2) V. rispettivamente: Arrighi, The political economy of Rhodesia, nlr 1/39, Sept–Oct 1966; Leys, European politics in Southern Rhodesia, Oxford, 1959; Arrighi, Labour supplies in historical perspective: a study of the proletarianization of the African peasantry in Rhodesia, in Arrighi and John Saul, Essays on the political economy of Africa, New York, 1973 [NdT: v. nota successiva per l’edizione italiana di Essays on the political economy of Africa.
3) Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Torino, 1969.
4)V. in inglese Arrighi, Towards a theory of capitalist crisis, nlr 1/111, Sett–Oct 1978; gli articoli sono apparsi per la prima volta in “Rassegna Comunista”, 2, 3, 4 e 7, Milano, 1972 [NdT: con il titolo comune di Una nuova crisi generale].
5) The long twentieth century / Giovanni Arrighi. – Verso, 1994. V. in italiano: Il lungo XX secolo / Giovanni Arrighi. – Il saggiatore, 1996.
6) Arrighi, Marxist century, American century: the making and remaking of the World labour movement, nlr 1/179, Gen–Feb 1990.
7) Arrighi, World income inequalities and the future of Socialism, nlr 1/189, Sett–Ott 1991.
8) Adam Smith in Beijing / Giovanni Arrighi. – Verso, 2007. V. in italiano: Adam Smith a Pechino / Giovanni Arrighi. – Feltrinelli, 2008.

Traduzione di Gherardo Bortolotti

Add comment

Submit