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centrostudieiniz

Quei sacrifici che ci rendono solo più poveri

di Giovanni Mazzetti

Introduzione al quaderno n. 8/2020 del Centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e redistribuzione del lavoro complessivo sociale

mazzetti“Ogni sterlina risparmiata
è un’occupazione cancellata”

Perché riproporre oggi ai lettori italiani una conversazione radiofonica di John M. Keynes, su Spesa e risparmio, che ebbe luogo nel gennaio del lontano 1933? La ragione è abbastanza semplice: perché le cose che Keynes cercò di esporre in quell'occasione, e nei suoi altri interventi di quel periodo, non sono ancora entrate a far parte del comune sapere dei cittadini dei paesi economicamente maturi. E in questo gli italiani non fanno eccezione. D'altronde, come cercheremo di mostrare in questa breve introduzione, si tratta di questioni che hanno una grande rilevanza ai fini della comprensione delle difficoltà economiche che gravano sulla società contemporanea e della spiegazione delle cause dell'odierna disoccupazione di massa.

Il sapere sociale è incapace di far fronte a questa situazione, e si macera da un quarantennio in ricorrenti riti sacrificali, favoriti dal riemergere delle ideologie conservatrici, appunto perché è ancora impastato di rappresentazioni, esperienze, concetti che risalgono al periodo che precedette l'affermarsi dello Stato Sociale e ignora l'ABC della rivoluzione keynesiana. Tutto lo sviluppo che ha avuto luogo nel trentennio antecedente al momento in cui è esplosa l'attuale crisi non riesce pertanto ad essere compreso; e ancora meno si riescono ad afferrare i problemi che a quello sviluppo sono conseguiti. Per questo la società torna lentamente sui suoi passi e subisce un lacerante impoverimento. Al mancato progresso nella comprensione dei processi sociali che hanno consentito l’arricchimento, deve necessariamente conseguire la loro dissoluzione e un grave regresso materiale.

 

Per non subire passivamente l'impoverimento

È vero che la maggioranza della popolazione rifiuta questa evoluzione. Che vaste minoranze dimostrano attivamente contro i tagli e i sacrifici.

Ma in che modo si può effettivamente impedire che si torni indietro? Come si può lavorare per consentire che, seppur tardivamente, quel passaggio che a suo tempo non è stato compiuto finalmente intervenga?

Una delle condizioni ineludibili di questo cambiamento è rappresentata proprio dalla chiara individuazione dei presupposti che hanno a suo tempo consentito l’imporsi dello Stato Sociale e una conoscenza dello straordinario sviluppo che esso ha garantito per un trentennio (1945-1975). Poiché nella conversazione del 1933 uno dei punti di forza del sapere keynesiano, quello inerente alla natura potenzialmente distruttiva del risparmio e dei sacrifici in una situazione nella quale la penuria materiale ha cominciato a recedere significativamente, viene affrontato in maniera semplice e piana, si è ritenuto di fare cosa utile nel riprodurla. Qualcuno potrebbe obiettare: ma è veramente così importante che si conosca la critica keynesiana al rapporto che intercorre tra rigore economico e disoccupazione? È veramente così essenziale che si riconosca la natura contraddittoria di una strategia economica finalizzata oggi al risparmio e ai sacrifici? La risposta a questi quesiti secondo noi è positiva, ed è chiarita proprio dai due documenti che proponiamo al lettore, documenti che forniscono anche alcuni spunti per una possibile interpretazione della crisi dello Stato Sociale. Cerchiamo di spiegare il senso di questa affermazione.

 

Su quale base è intervenuto lo sviluppo?

Circa un anno prima della conversazione radiofonica alla BBC, Keynes aveva tenuto un discorso, che pure riproduciamo, alla Society for Socialist Inquiry, su II dilemma del socialismo moderno. Il senso di quell’intervento è, a nostro avviso, abbastanza univoco, ed emerge con chiarezza nella parte centrale del discorso. Keynes pone lì, infatti, un interrogativo di grande rilevanza, che può essere sintetizzato nei seguenti termini: qual è la base dalla quale muove la rivendicazione della necessità di una trasformazione sociale? In maniera più diretta: come prende corpo la rivendicazione del socialismo? Qual è, se c’è, il nesso che lega l’istanza ideale ai fatti e alle dinamiche economiche? Si tratta di un interrogativo con il quale il movimento dei lavoratori ha dovuto fare continuamente i conti, senza però riuscire a consolidare un orientamento appropriato. Già L'ideologia tedesca, scritta da Marx e da Engels nel lontano 1845, ruotava attorno alla critica dei giovani hegeliani, per il fatto che questi ultimi «non erano in grado di indagare sui presupposti generali delle loro stesse proposte». «A nessuno di quei filosofi era cioè venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la loro critica e il loro proprio ambiente materiale»1. D’altra parte, la sottolineatura dei limiti propri del primo socialismo utopistico, che troviamo nel Manifesto del Partito Comunista, è dovuta al fatto che quel socialismo non è stato in grado di confrontarsi con le condizioni storiche dell’emancipazione del proletariato, né di anticiparle, e si è rifugiato nell’indicazione di condizioni puramente e semplicemente immaginarie. All’organizzazione del proletariato in classe, con un processo graduale che tenesse conto delle condizioni economiche, gli utopisti hanno cioè fantasticamente sostituito la proposta di un’organizzazione della società da essi escogitata a bella posta. Insomma, nella storia dei processi di trasformazione sociale, troviamo che quasi sempre «il lato attivo», quello teso a realizzare una trasformazione del contesto capace di garantire una soluzione dei problemi, si è «sviluppato in opposizione al materialismo», con fughe in avanti di tipo ideologico 2.

Si potrebbe obiettare: ma che c’è di male ad essere idealisti? La risposta è relativamente semplice: nulla più del fatto che normalmente l’idealismo spinge a ignorare o a sottovalutare le condizioni nell’ambito delle quali si opera, in particolare le condizioni economiche, e finisce così con l’avvolgere i bisogni di un misticismo che li priva della loro stessa forza. Poiché l’individuo, il gruppo, il partito o il governo che si fanno portatori di quei bisogni agiscono in maniera idealistica, prescindono dall’individuazione delle concrete pratiche sociali che potrebbero garantire alla loro azione una possibilità di successo. Appunto perché eludono l’analisi del modo in cui il mondo è fatto, e delle sue dinamiche evolutive, e si limitano a fornire ricette sul come dovrebbe essere, essi attribuiscono a se stessi, oltre che ai loro stessi avversari, una capacità di «fare il mondo» sulla base della sola volontà politica, che nella realtà non è dato riscontrare. Ad esempio, spingendo per la soluzione del problema della disoccupazione, sostengono che si tratta soltanto di una questione di «scelte», e che la disoccupazione non viene eliminata, appunto, perché le classi dominanti non lo vogliono. Mentre loro, che in merito sono portatori di una volontà positiva, sarebbero in grado di porre presto rimedio al problema. Il processo di cambiamento, che richiede lo svi­luppo di complesse e concrete capacità, che prendono eventualmente corpo nell'interazione col contesto - cosicché la trasformazione delle circostanze fa tutt'uno con la trasformazione di se stessi - viene invece risolto nella pura e semplice estrinsecazione di una generica volontà di fare il bene o il male, e della lotta tra coloro che sarebbero portatori della prima e quelli che, invece, cercherebbero di imporre la seconda.

Il valore dell'idealismo sta dunque in rapporto inverso alla consapevolezza dell'evoluzione storica. Esso è essenziale quando si tratta di far prendere embrionalmente corpo al bisogno, ma si trasforma in un ostacolo nel momento in cui si tratta di procedere sulla via della sua concreta formulazione e della sua effettiva soddisfazione.

 

I limiti del welfare state

Nel suo discorso alla Society for Socialist Inquiry, dopo aver sollevato l'interrogativo inerente ai nessi esistenti tra l'istanza ideale a favore del socialismo e la comprensione delle dinamiche economiche, Keynes sconsolatamente osserva che le convinzioni dei laburisti inglesi su ciò che doveva essere fatto in campo economico «sono sempre state quasi esattamente le stesse dei loro avversari», vale a dire quelle dei conservatori3. Egli richiama inoltre l'esperienza del governo laburista, che in quegli anni, di fronte alle difficoltà economiche, ha agito esattamente alla stessa maniera dei governi conservatori, mostrando in tal modo che la sua aspirazione al cambiamento era, appunto, di natura prevalentemente ideologica. Un fenomeno che caratterizza anche il modo di procedere delle forze progressiste di oggi.

Sappiamo che negli anni successivi le cose cambiarono abbastanza profondamente. Che anche con la complicità della guerra, che dimostrò la possibilità di un'efficace intervento dello stato nell'organizzazione generale dell'economia, i suggerimenti keynesiani finirono con l'imporsi, anche a causa della totale inconsistenza delle politiche conservatrici. Queste ultime condannarono infatti l'Inghilterra, per tutto il periodo tra le due guerre mondiali, quando il pensiero keynesiano non era ancora riuscito ad affermarsi, a subire un tasso medio di disoccupazione del 14,2%. Da certi punti di vista, potremmo dire che il trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale è stato un periodo di trionfo del keynesismo. Tant'è vero che, sul finire degli anni ’60, un economista come Paul Samuelson, poteva tranquillamente sostenere che gli economisti erano diventati tutti keynesiani. E i risultati si videro, perché ovunque la disoccupazione scese stabilmente al di sotto del 4%. Nei fatti si instaurò una situazione opposta e speculare rispetto a quella del periodo tra le due guerre. Vale a dire che anche quando i conservatori andavano al governo, non potevano far altro che attuare politiche di tipo keynesiano.

La metabolizzazione del pensiero keynesiano, in quella fase, fu però più apparente che reale. L'insegnamento di Keynes fu, infatti, purgato della sua parte più preziosa: quella inerente all'evoluzione di lungo periodo del sistema capitalistico. Questo perché si sperava di aver finalmente acquisito un insieme di strumenti - gli interventi di politica economica tesi a far fronte agli squilibri congiunturali - che avrebbero garantito uno sviluppo praticamente illimitato di quello che veniva allora chiamato neo-capitalismo. Il progresso fu quasi sempre ideologicamente rappresentato nella forma della conquista di un sistema di diritti, del­l'imposizione di un nuovo patto sociale, ecc. La base economica dello sviluppo, che spiegava e giustificava l'intervento strutturale e crescente dello stato nel processo di produzione senza aumento delle imposte, continuò ad essere ignorata. Per questo, quando nel corso degli anni '70 cominciarono a emergere nuovi problemi, inevitabilmente connessi con lo sviluppo in atto, la forza soggettiva sulla quale lo stato sociale sembrava poggiare cominciò a mostrare tutta la sua inconsistenza idealistica.

Il sistema dei diritti, non trovando altra giustificazione che in se stesso, e apparendo come la pura emanazione di una arbitraria volontà politica, cominciò a essere frantumato sotto i colpi delle limitazioni economiche, che riuscirono ad imporsi proprio a causa di una loro apparentemente superiore oggettività. Con lo Stato Sociale ci si era infatti spinti al di là dei limiti corrispondenti alla pura e semplice riproduzione del capitale, ma in contraddizione con le stesse forme dell'esperienza individuale e del modo di vita delle persone, che continuavano ad essere quelle dei rapporti capitalistici. I cittadini esigevano che lo stato li emancipasse dalla disoccupazione, dalle malattie, dall'ignoranza e dall'isolamento reciproco, ma non facevano in modo che le condizioni di questa emancipazione si trasformassero in elementi pratici della loro vita individuale. Era dunque inevitabile che tutto lo sviluppo intervenisse come un fenomeno esteriore rispetto agli stessi individui. E che la ricchezza conquistata, non poggiando sui suoi stessi presupposti, fosse destinata a dissolversi all'emergere dei primi seri problemi riproduttivi, appunto perché non essendo fondata economicamente appariva come una ricchezza arbitraria.

 

Una misura dei limiti dello sviluppo soggettivo

Per avere un’idea di questo radicale contrasto tra la base economica e la forma dominante del sapere sociale sulla quale è stato, contraddittoriamente, edificato lo Stato Sociale, basta raffrontare la conversazione di Keynes su Spesa e risparmio con i suggerimenti per far fronte alla crisi che un noto attore italiano, bene esprimendo il senso comune, ha recentemente (1995) avanzato. A un giornalista che gli chiedeva: «Ha una ricetta per salvare le casse dello Stato?», Alberto Sordi candidamente rispondeva: «E una ricetta semplicissima. Si chiama risparmio. Si prendono i conti dello Stato e si dice, per esempio: tu magistrato, guadagni un milione al mese di meno; tu deputato, due milioni di meno; tu ministero, devi diminuire le spese per la carta, il telefono, le automobili, il che sarebbe anche positivo per il traffico e l’inquinamento... e così via. Informando mensilmente gli italiani, alla televisione e sui giornali, dei risparmi ottenuti. Allora si potrebbero chiedere sacrifici a tutti: diventerebbe una gara a chi è più bravo» 4. Come spiegare a Sordi, e ai milioni di europei che condividono il suo errore, che questa sarebbe una gara a creare disoccupazione? Come fargli comprendere che egli ragiona come se il mondo non fosse mai andato al di là degli anni ’30, e Keynes dovesse ancora combattere per far passare le sue idee? Come fargli vedere che «ogni lira risparmiata è un’oc­cupazione cancellata»? (Un fatto confermato dall'enorme risparmio che oggi, 2020 giace inutilizzato nelle banche addirittura nei conti correnti, che in Italia hanno raggiunto lo stesso ammontare del PIL annuo.)

D’altra parte, dopo una fase nella quale erano tutti conformisticamente keynesiani, gli economisti sono diventati in massa antikeynesiani, e si affannano a teorizzare l’esatto opposto di quanto sostenuto da Keynes nella sua conversazione. Essi dimostrano così la validità della critica che Marx avanzò nei confronti di questa forma del sapere, sostenendo che essa non era più in grado di comprendere gli ulteriori possibili sviluppi delle capacità produttive umane. D’altra parte, quanto più questa loro nuova ortodossia conservatrice si impone, tanto più la disoccupazione cresce. E quanto più gli economisti ci chiedono di accordare loro fiducia, tanto più il quadro generale della difficoltà di creare lavoro peggiora. In molti paesi europei siamo già stabilmente su valori molto vicini a quelli della depressione degli anni ’30 (anche se la cosa è mascherata dalla manipolazione dei criteri di rilevamento statistico). E il tentativo di trasformare lo Stato Sociale in uno Stato Asociale, non può far altro che aggravare la situazione.

 

Come uscire da questa trappola?

Cerchiamo, dunque, di richiamare l’attenzione su ciò che ancora sfugge alla coscienza comune, prendendo le mosse dalla domanda che Keynes pose a Stamp fin dalle prime battute della loro conversazione. «Non si comincia oggi a comprendere in modo abbastanza generale che la spesa di un uomo è il reddito di un altro uomo?» Se fossimo chiamati noi a rispondere a questo interrogativo, dovremmo sconsolatamente dire che «no, ancora non si riconosce questa semplice realtà». Anzi, il senso comune muove addirittura da una rappresentazione opposta. Vale a dire che la maggior parte delle persone sono convinte che la possibilità di creare un reddito per gli altri, i disoccupati, i pensionati, ecc. - sia dato dal risparmio che si pone in essere. Insomma il problema della mancata soddisfazione dei bisogni, nonostante il sussistere di una forza-lavoro disoccupata e di risorse materiali che consentirebbero di soddisfarli, viene rappresentato come se non fosse dovuto a una mancata spesa, ma piuttosto a una penuria di denaro. Ovunque si sente, infatti, ripetere che «i soldi non ci sono», e che si dovrebbe ridurre il livello di vita alla misura consentita dalla disponibilità di denaro.

Ma la conversazione radiofonica del '33 sfatava già questo mito, distinguendo chiaramente tra la mancanza di risorse, e il loro mancato ritorno in circolo. Non è il denaro che manca, quanto piuttosto il suo reimpiego. Vale a dire che il denaro c'è, ma si rinuncia a spenderlo. Ed esso si sottrae all'impiego perché non si vede garantire il rendimento cui anela, il guadagno. Questo deflusso del denaro al di fuori del processo produttivo, determina quindi un blocco artificiale della soddisfazione dei bisogni, contenendo l'attività entro limiti che sono molto al di sotto delle possibilità materiali. Per sottolineare quanto questa situazione fosse paradossale, nella Teoria generale, Keynes si spinse fino al punto di sostenere che «l'unica cura radicale per le crisi di fiducia che affliggono la vita economica del mondo contemporaneo sarebbe quella di non lasciare all'individuo alcuna scelta oltre a quella di spendere il suo reddito in consumi o nell'ordinare la produzione di uno specifico impianto produttivo ... evitando di lasciargli la possibilità, quando è assalito da dubbi, di non impiegare il suo reddito in una delle due forme» 5.

Ma per quale ragione i possessori di denaro preferiscono impiegare i loro capitali speculativamente, o addirittura trattenerli in forma liquida, invece di investirli nell'ampliamento della produzione materiale? Anche questo è uno dei punti nodali della teoria keynesiana. Perché il superamento della scarsità comporta l'emergere di una strutturale difficoltà di realizzare profitti. L'intervento dello stato viene da Keynes sollecitato in quanto i nuovi investimenti, necessari per mantenere un livello di occupazione adeguato, non garantirebbero rendimenti, e quindi non sarebbero attuato dai privati. Poiché l'offerta è ormai in grado di far fronte alla domanda e tende a sopravanzarla stabilmente, i prezzi di vendita non sono mediamente in grado di consentire un recupero dei costi. La riproduzione materiale della società contrasta, quindi, con la possibilità di riprodurre il rapporto capitalistico e da mezzo per la soddisfazione dei bisogni su scala allargata, quale era stato per tutto il secolo scorso, quest'ultimo si rovescia in un rapporto che la ostacola. Quando si comprende questo meccanismo, si può anche riconoscere la razionalità del deficit pubblico che, agli occhi di chi è ancora invischiato in forme del sapere prekeynesiane, può sembrare un'assurdità.

Già, il disavanzo strutturale! Chi potrà mai ragionare seriamente su di esso senza aver approfonditamente studiato il capitolo XVI della Teoria Generale? Chi potrà mai comprendere il bisogno di garantire uno sbocco al prodotto eccedente del settore capitalistico, se si immagina feticisticamente non tanto che il capitale garantisca un rendimento al suo proprietario, quanto piuttosto che addirittura lo produca per natura? E chi potrà mai comprendere il paradosso della povertà prodotta dall'abbondanza, senza conoscere i complessi legami e gli stringenti vincoli che, a un tempo, separano e uniscono risparmi e investimenti? Insomma, chi potrà mai comprendere i propri guai economici, senza dedicare una parte del proprio tempo a cercare di scoprire, seguendo il suggerimento keynesiano, «ciò che è economicamente sano e ciò che non lo è»?

 

Economia e libertà

C’è, infine, quell'importante accenno che Keynes fa, nella parte conclusiva del suo discorso alla Society for Socialist Inquiry, alle conseguenze dello sviluppo della produttività. Se i muscoli umani vengono resi obsoleti come fattore della produzione, un mondo di rapporti sociali tramonta definitivamente. È il tema che era già stato svolto due anni prima in Possibilità economiche per i nostri nipoti, là dove era stato indicato con grande enfasi che il rapporto di denaro è un rapporto coerente solo con la miseria generalizzata, e che è destinato a mostrare tutti i suoi limiti con il crescere della ricchezza materiale.

Non abbiamo riportato quelle pagine che possono essere recuperate con facilità dal lettore interessato 6. Ma da esse traiamo delle indicazioni su quello che Keynes considerava come il problema con il quale avrem­mo dovuto confrontarci ai nostri giorni, se fossimo stati in grado di agire in modo economicamente razionale. «Giungo alla conclusione che, in assenza di guerre e di rilevanti aumenti della popolazione, il problema economico possa essere risolto, o almeno essere avviato a soluzione, entro cento anni... Per la prima volta dalla sua creazione l'uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema - come impiegare la sua libertà dalle pressanti esigenze economiche, come occupare il tempo libero, che la scienza e l'accumulazione avranno guadagnato per lui, in modo da vivere saggiamente, in maniera condivisibile e bene... A giudicare dalla condotta e dai risultati ottenuti dalle classi ricche di oggi in qualsiasi parte del mondo, il panorama è molto deprimente! Queste classi sono, infatti, per così dire, la nostra avanguardia - coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le tende. Ed esse hanno nella maggior parte dei casi fallito disastrosamente. Almeno a me sembra, che coloro i quali hanno un reddito che li rende indipendenti e nessun obbligo o legame o associazione, non abbiano saputo risolvere il problema che è stato loro posto». «Sono certo che, con un po’ più d’esperienza, useremo i doni della natura appena scoperti in modo assolutamente diverso dal modo in cui i ricchi li usano oggi, e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso dal loro». «Per molte generazioni ancora, il vecchio Adamo che è in noi sarà così forte che tutti noi avremo bisogno di fare un qualche lavoro per accontentarlo. Faremo per noi stessi più cose di quante non ne facciano di solito i ricchi per se stessi oggi, ben contenti di avere piccoli doveri, compiti e impegni abituali. Ma al di là di ciò, dovremo adoperarci a spartire accuratamente quel poco pane, per rendere tutto il lavoro che è rimasto da fare quanto più condiviso possibile. Turni di tre ore o settimane lavorative di quindici ore potrebbero consentirci di accantonare il problema per un bel po’. Perché tre ore al giorno sono più che sufficienti per far contento il vecchio Adamo che è nella maggior parte di noi! »

Il contrasto tra questa metafora e l’arrogante vanto di modernità del quale si fregiano i fanatici dei sacrifici, i quali vanno in giro a predicare il bisogno di un allungamento del tempo di lavoro 7, ci dice quanto com­plessa sia l’opera da compiere per rimettere il problema dello sviluppo sui suoi piedi. Un obiettivo che potrà essere eventualmente perseguito solo grazie all'impegno individuale teso a comprendere come il mondo è cambiato rispetto a quello dei nostri nonni e dei nostri padri.


NOTE
  1. KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 16.
  2. È la prima delle undici tesi su Feuerbach di Marx.
  3. Un problema analogo si pone per la maggior parte delle forze politiche progressiste ai nostri giorni, per cui può intervenire un paradosso come quello di un governo Dini appoggiato da uno schieramento di centro-sinistra, e qualche anno dopo di un governo Monti appoggiato da tutte le forze, incluse quelle progressiste.
  4. L'Italia s'arrangia, di Barbara Palombelli, «La Repubblica», 14 marzo 1995, p. 11.
  5. JOHN M. keynes, The generai theory of employment, interest and money, Macmillan, London 1964, p. 161 (in italiano esiste una traduzione dell'UTET).
  6. II testo si trova in una raccolta di saggi curata da Giorgio Lunghini, JOHN M. keynes, La fine del laissez-faire ed altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1993 e in Esortazioni e profezie, Garzanti 1975.
  7. ROMANO PRODI, ne II capitalismo ben temperato, scrive ad esempio: «si deve allungare la vita lavorativa», vedi p. 85, II Mulino, Bologna 1995.

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