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osserv.anticap

Introduzione al Manifesto del Partito Comunista

di Stefano Garroni*

MG 7608 1024x10242xCom'è ben noto Il Manifesto fu scritto da Marx ed Engels su commissione della Lega dei comunisti, organizzazione londinese, che però raccoglieva anche lavoratori di altri paesi e che aveva una consistente rete di rapporti internazionali.

Lo scopo dell'opuscolo - perché di questo si trattava - era di propagandare un unitario orientamento politico, che fosse, nello stesso tempo, capace di rinserrare le file dei più decisi e combattivi rivoluzionari europei, come anche di fornire a quell'orientamento uno spessore storico e teorico. Insomma, si trattava anche - e forse fondamentalmente - di organizzare un effettivo argine contro il dilagare, nel movimento rivoluzionario, di orientamenti utopistici, spesso costruiti su ispirazioni di tipo francamente religioso e, generalmente, tanto roboanti sul piano verbale, quanto inconcludenti su quello effettivamente pratico e politico.

Ricordiamo che tutta la vicenda si ambienta nel 1848, in un'epoca, dunque, ricca di fermenti rivoluzionari, ma pure caratterizzata ancora dal fatto che il movimento proletario e persino gli ambienti rivoluzionari più solidi, mancano di una propria autonomia teorica, non sanno discriminare adeguatamente tra le critiche alla società presente che esprimono i rimpianti delle classi tramontate; e quelle, invece, che rappresentano un nuovo punto di vista, legato al moderno proletariato di fabbrica.

È un'epoca, dunque, di incertezze teoriche, che si esprimono sia in oscillazioni politiche, sia nella proclamazioni di tesi francamente utopistiche e spesso "colorate" - lo ripeto - in senso religioso e sentimentale.

La battaglia per dare al movimento rivoluzionario un orientamento teorico diverso, che fosse fondato dal punto di vista critico-scientifico, già aveva visto nettamente impegnati sia Marx che Engels: l'incarico, dunque, ottenuto dalla Lega dei comunisti era anche una loro personale vittoria. Tuttavia, il compito assegnato era sempre - e solo - quello di scrivere un opuscolo agitatorio. Ricordare ciò può sembrare bizzarro, quasi si insistesse su un'ovvietà.

Senonchè, capita che Il Manifesto abbia conosciuto un'enorme "fortuna" sia in quanto a numero di lettori (si è perfino scritto che solo la Bibbia ne abbia avuto di maggiori), sia in quanto a letteratura critica, cioè, a scritti, che avevano Il Manifesto come oggetto. Ed è qui che - per così dire - cominciano i guai.

Schematicamente, infatti, si può notare che la letteratura critica sul Manifesto (fatte le dovute eccezioni) è di due tipi: o esprime la preoccupazione di dimostrarne la non attualità - per rendere, così, accettabile la proposta al movimento operaio di un orientamento riformistico e socialdemocratico; oppure, esprime una preoccupazione opposta - di dimostrare la piena attualità del testo, allo scopo di consolidare un orientamento comunistico.

Il fatto è, però, che questo secondo tipo di letteratura critica è stato continuato anche quando le organizzazioni comuniste si andavano effettivamente orientando, sul piano politico, secondo prospettive che, ormai, non avevano quasi più nulla in comune con quelle enunciate da Marx ed Engels perché non tanto indirizzate verso lo Stato socialista, quanto più modestamente verso lo Stato sociale.

È capitato, dunque, che i due tipi di letteratura finissero, come si dice, col darsi la mano: complementari, infatti, sono (per certi aspetti) i ruoli di chi nega l'attualità del Manifesto e di chi l'afferma, invece, ma in modo tale da ridurre il testo a verità già data, indiscutibile: dunque, morta.

D'altronde è significativo che il terreno comune ai due tipi di letteratura critica (con pochissime eccezioni) sia stato quello della secca alternativa fra attualità-non attualità del testo: ora, come si può onestamente porre una tale rigida questione, quando si ha a che fare con un opuscolo agitatorio, scritto per altro da due giovani autori?

La secchezza dell'alternativa una sola cosa, in realtà, dimostra: che i critici dell'uno o dell'altro tipo, tutti, prescindono proprio dal testo, cioè da una riflessione che tenga conto del genere letterario a cui esso appartiene, degli scopi che si propone e del posto che occupa sul serio all'interno di un processo - ancora assai lungo - di costruzione della teoria marxista. È solo fatte tutte queste mediazioni, che ha senso interrogarsi, poi, sull'attualità del Manifesto (a patto, ben inteso, che per un testo sia rilevante e positivo essere attuale, quasi non fosse vero che, a volte, pregio di uno scritto è, invece, proprio la sua in-attualità).

È probabile, ad esempio, che un lettore odierno del Manifesto resti in primo luogo colpito non tanto dalla sua attualità o inattualità, quanto piuttosto dalle sue ambiguità (è chiaro che qui sto parlando di un lettore, il quale voglia capire le pagine che ha di fronte, e non usarle strumentalmente per confermarsi in convinzioni ad esse presupposte).

Se vogliamo, della primissima tra queste ambiguità già abbiamo accennato: all'interno di un periodo di forti tensioni rivoluzionarie, Marx ed Engels si impegnano, con la profondità e la decisione loro proprie, per liberare il movimento operaio da ideologie utopistiche, a sfondo religioso, equivoche negli esiti politici e, in generale, destituite di dignità teorica.

Ebbene, come possiamo non avvertire la consonanza profonda tra quell'impegno di Marx ed Engels e quello che dovrebbe essere, oggi, l'impegno dei comunisti e marxisti?

Però - e qui c'è l'elemento differenziante con la nostra situazione attuale - Marx ed Engels operano in un periodo di forte vivacità politica, che si esprime, anche, in una diffusa richiesta di cultura, di teoria, di acquisizione - insomma - degli strumenti critici per capire ed operare. Se a questo punto tornassimo alla situazione, in cui i comunisti e marxisti si trovano oggi ad operare, dovremmo registrare una profonda diversità di clima - non solo politico, ma propriamente ideologico e culturale: a questo punto risulterebbe retorico sottolineare l'attualità dell'impegno di Marx ed Engels - nel senso che l'autentica questione odierna è come riuscire a risvegliare un impegno critico e razionale, in un movimento operaio (o, forse, è più adeguato dire di "sinistra"), che teorizza perfino la rinunzia al rigore della critica razionale. C'è da chiedersi: "è la ristampa del Manifesto un ausilio a questo nostro impegno d'oggi?".

La risposta non può essere univoca. Ed una condizione perché sia, invece, positiva, è che il lettore affronti le pagine del Manifesto come quelle di un'opera, che in realtà testimonia di una ricerca, di una tensione.

Che, certo, è giunta ad alcuni risultati importanti, la cui presenza, tuttavia, è ancora problematica, instabile, non coerente. Facciamo alcuni esempi, che serviranno a chiarire in che senso parlo di ambiguità del testo.

In una delle pagine più belle del primo capitolo (Borghesi e proletari), Marx ed Engels disegnano - a tratti essenziali - il processo di costituzione della borghesia come classe e del suo imporsi come classe dirigente.

Bisogna leggere con attenzione quella pagina perché il suo ritmo e struttura entrano nettamente in contrasto con una versione scolastica, che il marxismo è andato successivamente assumendo e che per molti, ancora, è la quintessenza del materialismo dialettico.

Pur nella rapidità dell'esposizione, la pagina è costruita nel senso di suggerire l'intrecciarsi di fattori scientifici, politici e militari, economici e sociali, i quali - singolarmente presi - non basterebbero a motivare lo sconvolgimento profondo, che dal modo di produzione feudale condurrà al moderno capitalismo.

Riescono, invece, a motivarlo - quello sconvolgimento - in quanto, in un'epoca determinata, son riusciti ad intrecciarsi l'un con l'altro, ad interagire, a combinarsi in un certo modo.

Come si vede, ciò che conta - nell'analisi di Marx ed Engels - non è in sé la presenza di questo o quel fattore (e neppure di questo e quel fattore); ma sì la circostanza dell'intreccio tra l'insieme di quei fattoriche, costituendosi, inserisce nella situazione storica una novità rilevante: una necessità (un "destino", per dirla con Hegel), che d'ora in avanti spingerà verso (questo è il senso del bestimmen dialettico e marxiano, solitamente tradotto, invece, col più forte "determinare") l'imporsi dell'ordinamento capitalistico.

Dunque, ciò che guida Marx ed Engels non è - in nessun senso - una visione della storia "a disegno", nulla obbliga - questo voglio dire - la storia a procedere in un certo verso, in una certa direzione; neppure innovazioni che avvengano sul piano economico e tecnologico. Ciò che conta è, invece, l'intrecciarsi in un tempo dato di una varietà di fattori.

È solo una volta costituitosi questo intreccio, che il corso della storia risulterà sollecitato da una interna "pulsione" (o logica), che finirà coll'imporsi sulla stessa volontà dei singoli e dei gruppi.

Le conseguenze teoriche dell'impostazione che sta al fondo della pagina marx-engelsiana, sono di grosso rilievo e noi possiamo, qui, semplicemente accennarle.

Osserviamo in primo luogo che - data la centralità che ha il momento dell'intreccio, dell'interazione dei diversi fattori - nessuna categoria marxista può essere rigidamente collocata - in alternativa - nell'economico o nel politico, nel culturale o nel sociologico.

Ben al contrario, ogni categoria (prendiamo, ad esempio, quella di "classe") giace, contemporaneamente, su ognuno di questi piani, ed è proprio dal modo in cui si pone nell'interconnessione loro, che la categoria in questione assume la sua specificità storica.

Ma dire "specificità" significa anche dire variabilità storica: si comprende, dunque, perché il marxista è sempre chiamato alla ricerca e non possa mai disporre di verità già acquisite.

L'approccio dialettico di Marx ed Engels è, dunque, intimamente legato al senso della differenza e non può tradursi se non in una continua indagine critica dell'esistente.

Abbiamo visto, però, che questa plasticità, quest'essenziale anti-dogmatismo, son resi possibili dal senso, che Marx ed Engels hanno, dell'epoca storica come "intreccio" che - dandosi - imprime agli eventi una spinta verso certi esiti e non altri.

Se rapportassimo questa impostazione al dibattito storico e sociologico del nostro tempo, vedremo in Marx ed Engels la risposta ad una difficoltà, che attraversa la ricerca a noi contemporanea.

Voglio dire che Marx ed Engels, per un verso, si contrappongono a quelle concezioni che ipostatizzano enti collettivi - ad esempio, la "società" -, attribuendo loro qualità e comportamenti caratteristici e vincolanti (atteggiamento, questo, che oggi vien detto olistico); ma per un altro, si rendono conto che lo svolgimento storico non può essere ridotto alla somma o al prodotto di comportamenti, scelte e decisioni individuali (nella ricerca storica e sociologica odierna, questo orientamento è detto individualismo metodologico ed epistemologico). Per chiarir meglio, andiamo ad un'altra pagina del Manifesto.

Cosa significa esser capitalista, si chiedono Marx ed Engels: non certo occupare una posizione personale nell'ambito produttivo, ma di inserirsi in un certo modo all'interno di una rete collettiva di relazioni.

Appunto, ciò che consente a Marx ed Engels di superare un approccio "individualistico" - nel senso che chiarivo prima - non è un ragionare sulla "storia" o sulla "società" come se fossero delle entità dotate di propri comportamenti, leggi e norme che si sovrappongano, poi, a comportamenti, leggi e norme degli individui (l'orientamento "olistico", di cui sopra dicevo). Sì invece, il risolvere la storia e la società in una rete di interconnessioni, che va costituendosi mediante la combinazione di scelte, di decisioni, di circostanze, di condizioni oggettive, ma anche casuali: insomma, una concezione della storia come insieme di relazioni dinamiche, che - dandosi certe circostanze - sollecitano gli eventi verso certe situazioni e non altre.

Si vede, dunque, che l'argomento dialettico marx-engelsiano coniuga caso e necessità, regola e differenza, ragione ed empirico, ed a questo riesce, perché al suo centro sta la nozione di "totalità", in quanto rete di connessioni dinamiche, che - dandosene le condizioni - si costruisce. Notiamo rapidamente che, giusta questa impostazione, Marx ed Engels possono - in un certo senso - "togliere" quella separazione tra piano dell'accertamento obiettivo e piano del dover essere morale, su cui, invece, è ancora bloccata gran parte della riflessione storico-sociale contemporanea.

Anche critici del marxismo hanno sottolineato il grande valore teorico - e la grande attualità - di questa impostazione marx-engelsiana; senonché va osservato che, in alcune pagine del Manifesto è proprio questa impostazione che si perde, o almeno si sfuma, vien lasciata cadere.

Mi riferisco alle parti, in cui al centro dell'analisi è il rapporto tra borghesia e proletariato, dal punto di vista della maturazione politica del proletariato stesso: il limite del disegno che ne risulta sta nella sua linearità.

In altri termini, da un lato, la borghesia è costretta a chiamare all'impegno politico il proletariato per combattere gli strati sociali che le si oppongono, dall'altro, le condizioni di vita e di lavoro in cui si trovano costringono i proletari ad organizzarsi, a livelli crescenti, contro il singolo padrone e, a mano a mano, contro i padroni in generale. Di qui, una maturazione politica proletaria ed il crescere progressivo di una nuova coscienza di classe che, giunta ad un certo livello, farà tesoro delle lezioni politiche ricevute dalla stessa borghesia, per rovesciargliele contro.

Dicevo che il limite di questo disegno sta nella sua linearità; se infatti avessero conservato quel senso forte - su cui ci siamo soffermati - dell'intreccio, dell'interconnessione, Marx ed Engels avrebbero potuto evitare l'immagine di due mondi - quello borghese e quello proletario -, che entrano certo in relazione (pure conflittuale) ma, sempre - per così dire - dall'esterno: tanto che l'uno può fungere da maestro dell'altro e quest'ultimo - restando sempre se stesso, ma crescendo - può, come qualunque bravo studente, liberarsi ad un certo punto (ma quando, esattamente?) del proprio maestro.

È troppo ovvio che non c'è necessità di riferirci alla nostra esperienza, ma che basta leggere opere successive di Marx ed Engels, per comprendere il limite dell'analogia maestro-allievo, quando il problema sia pensare le relazioni tra borghesia e proletariato dal punto di vista della formazione politica e culturale.

In altre parole, non è solo vero che la borghesia educa (nel senso che sappiamo) il proletariato, ma anche lo corrompe, o, detta, in altri termini, se è vero - com'è vero e come leggiamo nel Manifesto - che la borghesia costruisce un mondo sociale e politico a propria immagine, allora è vero, anche, che costruisce un proletariato a propria immagine e che il processo di costruzione di un'autonoma coscienza di classe implica, pure, un impegno da parte proletaria a liberarsi da un'immagine di sé, costruita, appunto, dalla stessa borghesia.

È probabile che la "caduta" in una prospettiva evoluzionistica più che dialettica, che ci sembra qui di registrare in Marx ed Engels, non abbia una sola motivazione: per un lato, ad esempio, va considerato il clima politico del '48 - che con la sua effervescenza poteva indurre ad ottimismi non sempre giustificati -; ma, per un altro, non va trascurata anche l'ovvia considerazione che la maturazione dialettica del pensiero di Marx ed Engels non avviene tutta d'un colpo. Teniamo presente, comunque, che quando i marxisti ottocenteschi leggevano Marx in una prospettiva positivistico-evoluzionistica non erano, solo, influenzati dall'imperante "darwinismo sociale", ma potevano anche trovare appigli, per la loro interpretazione, nelle stesse pagine di Marx ed Engels.

Resta vero, comunque, che è sufficiente non limitarsi alla lettura del Manifesto per sapere che Marx ed Engels acquisteranno fino in fondo la consapevolezza della complessità del rapporto - sotto il profili che qui ci interessa - tra borghesia e proletariato. Più utile è, invece, che siamo noi oggi ad acquistarla quella consapevolezza.

Perché specifico della situazione, in cui attualmente ci troviamo, è che troppo spesso organizzazioni politiche e culturali della "sinistra" siano oggi proprio loro i tramiti della diffusione tra i lavoratori di quell'immagine di sé, che risulta in realtà funzionale agli attuali modi dell'organizzazione capitalistica. E questo capita, perché la "sinistra" ha l'ingenuità di scambiare quell'immagine - e la cultura da cui proviene - come l'espressione più compiuta della modernità o, forse, come alcuni preferirebbero, della postmodernità. Ma qui ci è utile tornare al Manifesto.

Tra le sue pagine più belle ci sono quelle dedicate all'effetto sulle istituzioni feudali dei loro "veli": nel senso che le relazioni, che intercorrono tra i membri della società feudale, hanno immediatamente vari sensi.

Sono, certo, relazioni economiche, ma anche - subito - politiche, morali, religiose; si potrebbe dire che, entro il quadro del feudalesimo, l'esperienza che si fa della socialità - in tutti i suoi aspetti e dimensioni - è immediata, è esplicitamente inscritta nell'orizzonte stesso della quotidianità.

In questo contesto, l'intervento della borghesia è caratterizzabile come riduzionismo: nel senso che essa opera una sorta di denudamento di quelle istituzioni, facendone cadere tutti i lati, che si accompagnano ed intrecciano con la dimensione economica.

Per così dire, scopo della borghesia è, appunto, far emergere questa sola dimensione, spogliare di "sacralità" l'esperienza sociale e ridurla, appunto, al mero calcolo economico, al nudo interesse.

È così che cadono i "pregiudizi" feudali, è così che si rompono le barriere - anche culturali - dei piccoli gruppi e comunità; è così che l'uomo vien proiettato in uno scenario assai più ampio, tendenzialmente identificato col mondo intero.

Senonchè, la borghesia ottiene questo risultato, non solo "spogliando" - nel senso che sappiamo le istituzioni feudali, ma anche appiattendo tutto l'orizzonte della socialità nell'unica prospettiva (utilitaristica) del nudo interesse.

A questo punto, la riduzione che la borghesia opera si rivela improntata al più puro cinismo: perché tutto riduce utilitaristicamente, e perché spaccia questa riduzione per qualcosa di diverso da quello che è.

Se di fatto è espressione del suo interesse, del suo orizzonte culturale e politico, la borghesia però mistifica quella riduzione utilitaristica ad espressione della ragione stessa, della stessa natura umana: son così preparate le condizioni perché questa forma specifica di coscienza, questo determinato orizzonte culturale possa espandersi su tutto l'universo sociale.

Insomma, non basta dire - come pure si è fatto - che Marx ed Engels in queste pagine descrivono il ruolo progressista ed innovatore della borghesia: perché il denudamento che quest'ultima opera delle istituzioni feudali ha, però, certi caratteri storici determinati, che si riassumono in un cinico riduzionismo utilitaristico, spacciato per compiuta espressione della ragione e della natura autenticamente umane. Ed è sulla base di questo cinico riduzionismo, che la borghesia tende a plasmare la società intera, anche quelle componenti che al dominio borghese son soggette.

I perni di questa ideologia sono, per un verso, l'enfatizzazione del "nudo interesse" - che ha nello spiritualismo religioso il suo complemento, come Marx ha già scritto pochi anni prima - e, per l'altro, la riduzione di tutte le dimensioni della società umana ad una prospettiva pragmatica ed utilitaristica.

Ecco, forse, uno dei luoghi di maggiore attualità del Manifesto: l'individuazione delle strutture di fondo della coscienza, che la borghesia tende ad espandere su tutto l'universo sociale.

Ed ecco, forse, uno stimolo per noi ad analizzare puntualmente in quali modi e forme quella coscienza, oggi, si esprima e, così, riconoscerla. Per combatterla, ovviamente.


Note:
*) Testo messo a disposizione dal Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni", facebook.com

E' possibile ascoltare le registrazioni audio degli incontri in collaborazione con Stefano Garroni andando su questo canale di Youtube

https://www.resistenze.org/sito/ma/di/fo/mdfoje10-021545.htm

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Eros Barone
Friday, 24 May 2019 23:12
Il problema di come concepire la relazione tra borghesia e proletariato, che Garroni non riesce a risolvere nel quadro concettuale del "Manifesto" marx-engelsiano se non imputando a questa relazione di essere troppo "lineare" e quindi di tipo evoluzionistico, nasce (in Garroni) da una carenza di logica dialettica concernente la corretta applicazione (in Marx ed Engels) della teoria degli opposti alla suddetta relazione. La "linearità" non c'entra, perché, a partire dal "Manifesto" e dai testi che lo precedono, segnatamente a partire dalla "Situazione della classe operaia in Inghilterra" per Engels (1845) e dalla "Miseria della filosofia" per Marx (1847), tale relazione si configura, attraverso la lotta delle classi, come relazione antagonista fra opposti correlativi asimmetrici. Naturalmente si tratta di comprendere: a) che questa lotta muove dalle classi dominanti e non da quelle subalterne, poiché di fatto è stata a lungo una guerra preventiva; b) che i capitalisti sono in una continua guerra concorrenziale fra di loro ("la borghesia è sempre in lotta: dapprima contro l'aristocrazia; più tardi contro quelle sue stesse parti i cui interessi si rivelano di ostacolo allo sviluppo dell'industria; e perennemente contro la borghesia di tutti i paesi stranieri", scrivono Marx ed Engels nel primo capitolo del "Manifesto"), ma di fronte alla classe operaia si comportano unitariamente e omogeneamente, come "fratelli massoni" (dirà Marx nel "Capitale"). Questo vuol dire semplicemente che si comportano come classe, in quanto il concetto di classe in Marx ed in Engels è nella sua compiutezza un concetto comportamentale
socio-politico, innestato nei rapporti di produzione. Sennonché il modo in cui si realizza il "comportarsi come classe" non è uguale per tutte le classi (ecco in che cosa consiste l'asimmetria degli opposti correlativi). Il proletariato per comportarsi come classe deve conquistare, attraverso l'esperienza e la teoria, la coscienza di classe (non è forse questo lo scopo fondamentale per cui è stato redatto il "Manifesto del partito comunista"?), superando la divisione concorrenziale in cui lo colloca 'ab origine' il processo di produzione capitalistico e i riflessi corporativi di tale collocazione (che saranno spiegati da Lenin con la teoria e la categoria di "aristocrazia operaia"). Nella conquista della coscienza di classe il proletariato quindi lotta anche e soprattutto per organizzarsi come classe (questa proposizione attraversa tutto il pensiero rivoluzionario di Marx dalla "Miseria della filosofia" alla "Critica del programma di Gotha"). Per comportarsi come classe la borghesia, invece, non ha bisogno di una coscienza di classe, basta che essa si comporti 'di fatto' omogeneamente contro la classe operaia. Ma non per questo la borghesia diventa omogenea e unificata in se stessa, perché lo impediscono ragioni strutturali (il frazionamento del capitale). La sua lotta di classe contro il proletariato è perciò nello stesso tempo, come accade con particolare evidenza anche oggi, una continua lotta al suo interno, tra le sue frazioni (o gruppi di frazioni), per la direzione, che non potendo essere soltanto strutturale è necessariamente politica, della sua lotta di classe contro il proletariato. Per concludere, questa importante precisazione dimostra una volta di più che senza il materialismo dialettico il materialismo storico ha le armi spuntate.
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