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perunsocialismodelXXI

Il concetto di nazione. Ovvero, una patata bollente per il marxismo

di Carlo Formenti

10361Spulciando il catalogo online di El Viejo Topo https://www.elviejotopo.com/ editore storico della sinistra iberica (al quale devo due edizioni di altrettanti miei saggi e la conoscenza di importanti materiali teorici in lingua spagnola), mi sono imbattuto in un titolo che ha catturato la mia attenzione: La base material de la nación. El concepto de nación en Marx y Engels, di Carlos Barros (dal profilo biografico dell’autore ho appurato che si tratta di uno storico medievista, fra i fondatori del partito comunista galiziano e membro del comitato centrale del PCE).

A intrigarmi, ancor più dell’argomento scottante (la questione nazionale è sempre stata fonte di problemi irrisolti e di conflitti teorici e ideologici in campo marxista), è stato il sottotitolo, il quale, come mi è stato confermato da un breve video di presentazione del libro registrato dall’autore, allude all’esistenza di un discorso sistematico e coerente, se non di una vera e propria teoria, dei due fondatori del materialismo storico sull’argomento in questione. La cosa mi è parsa sorprendente, non essendo a conoscenza di scritti di Marx ed Engels dedicati alla questione nazionale di peso e dimensioni paragonabili a quelli di altri mostri sacri del pensiero socialcomunista, Lenin su tutti (1).

Tuttavia, dopo avere acquistato e letto l’e.book di Barros, ho avuto conferma che il mio difetto di informazione non è frutto di disattenzione o ignoranza: effettivamente Marx ed Engels non hanno scritto nulla di sistematico sul concetto di nazione.

Eppure Barros, a compimento di un minuzioso lavoro di ricerca su una massiccia mole di materiali, non solo navigando fra le pagine delle opere più conosciute, ma anche fra quelle di numerosi testi minori e di occasione (soprattutto articoli di giornale e lettere) in cui due autori affrontano il tema, è convinto di essere riuscito, non solo a dimostrare che in Marx ed Engels esiste una vera e propria teoria della nazione, ma anche che essi ci forniscono un metodo di analisi che resta tuttora valido, benché l’attuale contesto storico, sociale, economico e geopolitico appaia assai lontano da quello del secolo XIX.

In che misura la sua convinzione è giustificata? Come cercherò di dimostrare nelle pagine seguenti, resto del parere che l’immagine che emerge dal mosaico pazientemente ricostruito da Barros è difficilmente descrivibile come una coerente costruzione teorica, e nutro seri dubbi anche sul fatto che possa offrirci un insegnamento metodologico in grado di sciogliere i nodi complessi e aggrovigliati che ci consegna l’attuale scenario geopolitico. Al tempo stesso, cercherò di mettere in luce come dallo scrupoloso lavoro di ricerca di Barros emergano una serie di riflessioni che aiutano a fare piazza pulita dei luoghi comuni che infestano sia il marxismo volgare e meccanicista, sia le narrazioni ideologiche di quei movimenti di sinistra che liquidano la realtà nazionale come un fenomeno meramente sovrastrutturale, negandogli consistenza ontologica.

Prendo le mosse da quest’ultimo aspetto. Marx, scrive Barros, era consapevole che la società concreta è nazionale. Il punto è cruciale, in quanto consente di liquidare le astrazioni (frutto di idealismo puro) che analizzano la concreta realtà capitalista di questo o quel Paese a partire da modelli idealtipici “universali”, applicabili indifferentemente a qualsiasi contesto nazionale, ignorando quindi il concreto percorso storico sociale e culturale attraverso il quale una determinata borghesia arriva a costituirsi come classe. Nel suo sforzo di “costruire un concetto materialista di nazione”, Barros contrappone a questo approccio, che si fonda esclusivamente sul concetto astratto di modo di produzione, quei passaggi in cui Marx parla di “condizioni nazionali di produzione”, facendo riferimento a tre fattori interconnessi – condizioni economiche, naturali e storiche (società, politica e cultura) – sia in relazione alla produzione nazionale che alla comunità nazionale. In questo modo, l’attenzione si concentra in primo luogo sulla base materiale e storica della nazione, per cui il nazionale si presenta come un tipo di totalità concreta, in cui gli elementi soggettivi e oggettivi si intrecciano in modo specifico per ogni singolo caso.

Borghesia e nazione nascono assieme, argomenta Barros, citando sia Engels, laddove scrive che in nessun paese si dà dominio della borghesia in assenza di indipendenza nazionale, sia Marx, allorché pone alle radici del processo nazionale la volontà politica della borghesia commerciale, la quale, fin dalla fase mercantilista, è cosciente del fatto che i suoi interessi si fondano sulla potenza della nazione. Ma ciò implica il riconoscimento che anche il proletariato può costituirsi come classe solo se e nella misura in cui riesce ad elevarsi a classe nazionale (come si dice nel Manifesto, aggiungo io, benché la lettura ortodossa abbia costantemente rimosso questo aspetto, limitandosi a estrarre da questo testo fondativo lo slogan “il proletariato non ha nazione”).

Sono quindi del tutto d’accordo con Barros, laddove richiama l’attenzione sul fatto che i marxisti hanno quasi sempre sottostimato l’elemento nazionale come fattore di coesione del corpo sociale, riducendolo a un fenomeno meramente sovrastrutturale, “illusorio”, al prodotto esclusivo della dominazione borghese. La nazione, replica Barros, non è qualcosa che cade dal cielo delle idee, una sovrastruttura ideologica, ma incarna un intreccio di vincoli (interessi comuni, relazioni di mutua dipendenza, volontà generale, ecc.) che uniscono tutti gli individui di una data comunità. Dopodiché conclude che le radici di questo nesso social-nazionale affondano nelle relazioni economiche, per cui quest’ultimo è, in ultima istanza, un fatto economico.

Anche quest’ultima affermazione mi vede concorde, ma solo a condizione che si chiarisca il senso della formula “in ultima istanza”. Nella sua opera matura (2), Lukacs pone ad esempio l’accento sull’aggettivo “ultima”, nel senso che, dal suo punto di vista, la determinazione dei complessi sovrastrutturali (politica, cultura, diritto, ideologie, ecc.) sì fa sempre più indiretta e meno cogente a mano a mano che progredisce lo sviluppo dell‘essere sociale. Non sono del tutto sicuro che lo stesso si possa dire di Barros, anche se è possibile che la mia limitata conoscenza dello spagnolo mi abbia impedito di cogliere tutte le sfumature del suo discorso. Ma prima di approfondire questo aspetto, vorrei motivare i miei dubbi in merito all’esistenza di una teoria marxiana della nazionalità e, soprattutto, sulla presunta attualità del metodo su cui essa si fonderebbe.

A un certo punto, Barros osserva che, negli scritti da lui presi in considerazione (che non elenco perché sono decine e decine), Marx ed Engels usano nella stessa pagina termini come nazione, paese, popolo e patria come fossero sinonimi, “per evitare ripetizioni”, scrive. Aggiunge poi che in altri contesti la voce popolo/popolare è usata col senso (distinto da nazione e nazionale) di soggetto sociale o congiunto di classi dominanti; che nazione e nazionalità sono termini talora equivalenti e talora distinti; che sia Marx che Engels condividono l’idea che le nazioni moderne si formano riunendo nazionalità diverse di origine precapitalista, generalmente medioevale; infine che normalmente Stato (potere pubblico, governo, amministrazione) si distingue da nazione intesa come società civile.

Premesso che tanta variabilità semantica dei termini citati, mi pare che mal si concili con la cassetta degli attrezzi di un dispositivo teorico coerente, provo a procedere per gradi. In primo luogo, occorrerebbe verificare se l’intercambiabilità fra le parole nazione, paese, popolo e patria sia esclusivamente ascrivibile a un artificio stilistico (evitare ripetizioni nella stessa pagina) e non piuttosto a una carenza di definizione delle reciproche differenze concettuali (per inciso, aggiungo che dubbi analoghi nascono laddove Barros scrive che nei testi che prende in esame “nazione e nazionalità sono termini talora equivalenti e talora distinti”). Barros se la cava suggerendo di usare come denominatore comune di tutte le varianti in questione la parola nazione perché si presta meno delle altre a confusioni terminologiche, ma è chiaro che in questo modo si sovrappone ai testi originali. Manipolazione motivata o arbitraria? Sospendo il giudizio perché occorrerebbe verificare caso per caso. Ma veniamo agli altri punti.

La distinzione fra popolo e nazione è importante in quanto concorre a tracciare il confine che separa la visione marxista dell’elemento nazionale – secondo cui la nazione, scrive Barros, è “un fatto storico in continua mutazione, non una costante inalterabile lungo i secoli” - da quella conservatrice e reazionaria che rinvia alle sue presunte radici metafisiche e metastoriche. Altrettanto importante ritengo la distinzione fra Stato e nazione intesa come società civile, soprattutto laddove Barros precisa che lo Stato – che per le correnti anarcocomuniste del marxismo è una “comunità illusoria” – è sì un elemento sovrastrutturale (anche se io preferisco parlare di costruzione politica, il che non è esattamente la stessa cosa) ma fondato sulla base reale di vincoli familiari, di lingua, divisione del lavoro e interessi di classe differenti in ogni conglomerato umano (e qui il riferimento è chiaramente all’Engels di Origini della famiglia, della proprietà privata e dello stato).

Restando sul piano terminologico, va infine segnalata la contraddizione fra l’asserzione dell’assoluta storicità del processo nazionale e l’uso del concetto di nazione nei confronti di comunità storiche preborghesi (nazioni antiche, asiatiche, feudali ecc.) da parte di Marx ed Engels. Barros difende tale uso criticando le tesi di Samir Amin, secondo il quale la nazione moderna è un fatto squisitamente borghese, né avrebbe senso parlare di nazioni nell’Europa feudale. Qui mi schiero decisamente dalla parte di Samir Amin, perché ritengo che la visione di Marx, ma ancor più quella di Engels, contenga residui d’una logica hegeliana che induce a proiettare sulle forme sociali precapitalistiche i germi embrionali delle forme moderne, le quali appaiono così come il risultato di “leggi” immanenti al processo storico. Personalmente, ritengo che questi residui vadano superati adottando il punto di vista dell’ultimo Lukacs, il quale afferma che l’analisi scientifica della storia può identificare i nessi causali dei processi solo post festum, ricostruendone le determinazioni materiali (socio-economiche) senza trascurare i fattori contingenti, casuali e specifici di ogni singola realtà spazio temporale.

Con questo siamo alle ragioni per cui, oltre a dubitare della possibilità di estrarre una teoria della nazione dagli scritti sparsi in cui Marx ed Engels si occupano del tema, dubito anche che questi ci consegnino un metodo per analizzarne le sfide attuali. A meno che il metodo in questione si riduca alla necessità di interrogarsi, ogniqualvolta ci si trovi di fronte a una concreta “questione nazionale”, su quale soluzione risponda meglio agli interessi delle classi subalterne coinvolte. Ma, se la risposta è questa, è evidente come le soluzioni appariranno le più diverse e contingenti in relazione ai concreti contesti economici, socioculturali, politici e geopolitici, ecc. Del resto, questo è proprio quanto emerge dalle posizioni assunte da Marx ed Engels in un contesto ottocentesco caratterizzato, fra i vari fenomeni, 1) dai processi di formazione di nuove entità nazionali per aggregazione di entità minori (Italia e Germania), 2) dai movimenti irredentisti di popoli europei colonizzati da altre nazioni europee (Irlanda, Polonia) o incorporati in imperi multietnici come l’austroungarico; 3) dalla resistenza di grandi nazioni asiatiche (India e Cina) alle aggressioni coloniali occidentali.

In questa cornice, come ricorda Barros, Marx ed Engels si interrogarono di volta in volta su chi appoggiare per dare vita a un nuovo Stato (anche assorbendo altre nazionalità), e risposero che occorreva sostenere i movimenti nazionali che più favorivano lo sviluppo delle forze produttive, accelerando la formazione della classe operaia e quindi le condizioni di una rivoluzione proletaria. In base a questo criterio sostennero in particolare l’irredentismo polacco e quello irlandese (3). Analizzando l’occupazione coloniale dell’India, Marx alimentò poi l’illusione – smentita dalla realtà storica – che essa avrebbe riscattato l’India dalla sua “arretratezza” (4) favorendone lo sviluppo industriale, civile e sociale. Infine Engels fu duramente contrario agli irredentismi slavi, sia perché li riteneva portatori di un’ideologia panslavista che li rendeva manovrabili dalla Russia zarista, rafforzandone il ruolo di gendarme d’Europa, sia perché avrebbero portato alla frammentazione dei Balcani in staterelli troppo piccoli per consentire un adeguato sviluppo delle forze produttive (vedi sopra), senza dimenticare la sua inclinazione verso sentimenti slavofobi non esenti da una sfumatura razzista (5).

Posizioni eterogenee come si vede, ma soprattutto posizioni che non mi pare dicano molto oggi, dopo un secolo e mezzo di trasformazioni radicali sul piano economico, socioculturale e geopolitico. Ci divide dallo scenario che ispirò le riflessioni di Marx ed Engels il lungo ciclo di lotte di liberazione dei popoli coloniali e post coloniali dal giogo occidentale, lotte che hanno avuto il pieno sostegno dei Paesi socialisti sulla base di una riformulazione teorica dei rapporti fra lotta di classe e lotta fra nazioni (riformulazione che ha implicato il riconoscimento in linea di principio del diritto all’autodeterminazione dei popoli). Ci divide il fallimento delle previsioni marxiane secondo cui la rivoluzione sarebbe avvenuta nei paesi industrialmente avanzati, laddove le sole rivoluzioni socialiste sono avvenute in paesi periferici e semiperiferici, ad opera di classi operaie in formazione alleate con le masse contadine. Ci divide la sconfitta del proletariato occidentale generata dalla rivoluzione liberale e dal processo di globalizzazione successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Ci divide l’attuale crisi dello stesso processo di globalizzazione e il prepotente ritorno di uno stato nazione dato per morto e sepolto, mentre riprendono i conflitti interimperialistici e la guerra fredda fra occidente capitalistico e Cina socialista.

Se già ai tempi di Marx era impossibile fissare criteri universalmente validi per rispondere alla domanda su quali lotte nazionali sostenere, oggi l’impresa è ben più ardua: è giusto sostenere l’irredentismo catalano anche se assume i connotati di un “separatismo dei ricchi” (6); è giusto appoggiare le rivendicazioni di tibetani, uiguri e abitanti di Hong Kong contro il governo centrale della Cina Popolare, anche se è alimentato e sostenuto dall’imperialismo occidentale e ha caratteri esplicitamente antisocialisti? E ancora: ha senso attribuire un significato progressivo all’integrazione europea in nome dell’accelerazione dello sviluppo economico, anche se il costo di tale sviluppo è la subordinazione e l’impoverimento delle nazioni (e delle classi subalterne!) mediterranee da parte della Germania? È giusto considerare ideologicamente regressivo il carattere patriottico delle rivoluzioni bolivariane dell’America Latina? Rispondere a ognuna di queste domande richiede di svolgere un’analisi concreta di tutti i fattori economici, socioculturali, storici e geopolitici implicati in ogni singola situazione, dopodiché l’unico fattore di cui tenere conto - in ultima istanza - per dare loro risposta resta a mio avviso quello della valutazione degli interessi di classe in campo; certamente non quello dello sviluppo delle forze produttive.


Note
(1) Cfr. V. I. Lenin, L’Europa arretrata e l’Asia avanzata. Sul diritto delle nazioni all’autodecisione; vedi anche L’imperialismo come fase suprema del capitalismo; vedi infine Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in Opere scelte (2 voll.), Edizioni in lingue estere, Mosca 1947/48.
(2) Cfr. G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, (4 voll.) PGRECO; Milano 2012.
(3) Barros ricorda che Marx cambiò radicalmente posizione sulla questione irlandese, scrivendo di avere a lungo pensato che l’Irlanda si sarebbe potuta liberare solo dopo il trionfo della classe operaia inglese, ma di avere finito per convincersi che, al contrario, la classe operaia inglese si sarebbe liberata solo dopo la liberazione dell’Irlanda. Questa autocritica è cruciale sia perché segna la fine della fiducia “ingenua” di Marx sulla vocazione “naturalmente” rivoluzionaria del proletariato, sia perché coincide con la sua presa di consapevolezza del ruolo soporifero del colonialismo nei confronti della coscienza operaia. In merito Barros ricorda che Marx a chi gli chiedeva cosa pensassero gli operai inglesi della politica coloniale rispondeva “lo stesso che pensano della politica in generale, cioè quello che pensano i borghesi”, e che questo avveniva in quanto “partecipano allegramente al festino del monopolio inglese sul mercato mondiale e coloniale”.
(4) In merito ai pregiudizi eurocentrici che Marx ed Engels manifestavano nei confronti delle civiltà asiatiche vedi quanto ho scritto in un altro post di questo blog https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021_02_14_archive.html dedicato all’antologia di scritti dei due fondatori del materialismo storico India, Cina, Russia (il Saggiatore, Milano 1960).
(5) A esprimere giudizi particolarmente duri su certe gaffe razziste di Engels è Hosea Jaffe in Davanti al colonialismo. Engels, Marx e il marxismo, Jaka Book, Milano 2007.
(6) Cfr. M. Monereo, H. Illueca, Por un nuevo proyecto de Pais, El Viejo Topo, Barcellona 2018; vedi anche M. Monereo, Oligarquía o Democracia. España, nuestro futuro, El Viejo Topo, Barcellona 2020.

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Loris Babuskin
Tuesday, 30 March 2021 16:54
"L’idea di assicurare a tutte le nazioni la possibilità di autodeterminarsi corrisponde per lo meno alla prospettiva di un regresso dello sviluppo dal livello di grande capitalismo a quello dei piccoli stati medievali o anche a quello di molto precedente il XV e XVI secolo” ( Lenin, Il proletariato e il diritto di autodeterminazione, p. 375, Opere, XXI )

“Il marxismo sostituisce a ogni nazionalismo l'internazionalismo, la fusione di tutte le nazioni in una unità superiore. (...) Il proletariato non può appoggiare nessun consolidamento del nazionalismo, anzi, esso appoggia tutto ciò che favorisce la scomparsa delle differenze nazionali, il crollo delle barriere nazionali, tutto ciò che rende sempre più stretto il legame fra le nazionalità, tutto ciò che conduce alla fusione delle nazioni” ( Lenin – 1914 , Opere - Editori Riuniti, 1976 - pag 289 )

“La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania, ecc.” ( Lenin – ivi pag 320 )
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Eros Barone
Tuesday, 30 March 2021 12:56
La questione nazionale non è “una patata bollente per il marxismo” ma, semmai, per il populismo sovranista di cui il Formenti è un esponente (sempre che questi, data la sua natura di intellettuale mercuriale, non abbia cambiato posizione nel frattempo). Orbene, vediamo di rimettere in piedi il tavolo che, com'è suo solito, l’autore di questo articolo ha posto con le gambe orientate verso il soffitto e il piano posato sul pavimento. Nel classico libro di Lenin “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” e in una serie di altri scritti del periodo 1913-1916, che si possono definire complementari a quel libro, vengono descritti la natura politica dell’imperialismo e il suo rapporto con la guerra e con l’assoggettamento delle piccole nazioni. Si tratta di scritti importanti anche riguardo alla questione nazionale, poiché non trattano solo dei problemi che si ponevano negli anni dieci del Novecento, ma affrontano anche questioni di principio quali l’analisi dei caratteri generali dell’imperialismo, il quale, pur mutando le proprie forme esteriori ed utilizzando tecniche diverse, resta invariato nelle sua sostanza. In questo senso, non ci sono due età imperialistiche, quella di Lenin e la nostra, ma due fasi dello stesso fenomeno storico. Se così non fosse, non avrebbe senso, se non da un punto di vista accademico, studiare Marx, Engels, Lenin e Stalin (autore, quest’ultimo, di un importante saggio intitolato “Il marxismo e la questione nazionale”, che forse il Formenti, condizionato com'è dalla sua formazione trozkista, non conosce). In sostanza va detto che negare la questione nazionale non è una posizione marxista, ma proudhoniana, e questo è ciò che hanno affermato Marx, Engels, Lenin e Stalin. Certo, la geografia politica di oggi è estremamente diversa da quella di un secolo fa, e la maggior parte dei paesi vittime dell’imperialismo è oggi formalmente indipendente. Ciò nondimeno, la teoria marxista-leninista ci fornisce gli strumenti per capire i mutamenti economici, politici e sociali intervenuti nel periodo attuale. Lenin in questi articoli non polemizza soltanto contro i socialsciovinisti alla Parvus e contro Kautsky ma anche con Radek, Piatakov, Bucharin e lo stesso Zinoviev, per non parlare di Trotsky. Fu nel corso di questa dura polemica interna al gruppo dirigente bolscevico che Lenin, fra l’altro, coniò l’espressione di “economismo imperialistico”, la cui matrice storico-politica era una corrente della socialdemocrazia russa, una variante del revisionismo bernsteiniano, sviluppatasi negli anni tra il 1894 e il 1902. L’economismo imperialistico era una forma di socialsciovinismo, poiché negava l’autodeterminazione delle nazioni, giustificando l’oppressione da parte delle potenze imperialistiche col pretesto del più alto livello di civiltà. Da questo punto di vista, gli scritti di Lenin sulla questione nazionale permettono di cogliere un errore teorico comune ai socialsciovinisti come Parvus e ai bolscevichi come Bucharin, Piatakov e Radek, nei cui confronti Lenin non ebbe alcun riguardo nella polemica che ebbe luogo. Gli errori teorici hanno una vita molto lunga (giusta la massima latina: “parvus error in initio, magnus error in fine”), e spesso si ripresentano, persino con le stesse denominazioni, a grande distanza di tempo e con la pretesa di rappresentare l’ultima parola nel campo della ricerca, mentre sono vecchi come il cucco. Il socialsciovinista Parvus, ad esempio, criticava il Manifesto di Zimmerwald del 1915, definiva illusoria «la lotta per il diritto inesistente all’autodeterminazione» e opponeva a ciò «la lotta rivoluzionaria di massa del proletariato contro il capitalismo», assicurando di essere contro le annessioni. In altre parole, escludeva ogni lotta per la liberazione dei popoli assoggettati, ai quali non offriva altra prospettiva se non quella consistente nell’attendere che i paesi avanzati si decidessero a passare al socialismo. In realtà, poiché i paesi avanzati già allora erano economicamente maturi per passare al socialismo, il maggiore ostacolo era proprio il dominio su altri popoli, che permetteva, con l’esportazione del capitale e il saccheggio delle materie prime, di contrastare il tendenziale calo del saggio di profitto, giustificava la presenza di giganteschi eserciti e flotte e consentiva il mantenimento della burocrazia parassitaria e dell’aristocrazia operaia. Così oggi il capitale, con l’aiuto dell’aristocrazia operaia e del riformismo, è riuscito a integrare i sindacati più importanti nello Stato, ma la crisi lo costringe a ridimensionare l’aristocrazia operaia, ed altri settori di lavoratori possono ricostruire sindacati combattivi. Inoltre, oggi la maggior parte degli Stati è dipendente dall’imperialismo, nonostante la formale indipendenza, cosicché il problema da affrontare è quello di combattere lo sciovinismo nei paesi imperialisti, e la parola d’ordine dell’autodeterminazione delle nazioni riacquista tutta la sua validità. Però non basta limitare l’attenzione ai paesi aggrediti militarmente, giacché occorre estendere l’analisi all’intero arco dei paesi dipendenti. E’ questo un lavoro collettivo che i comunisti dei paesi imperialisti devono compiere. Ad esempio, gli internazionalisti italiani devono approfondire il tema della Libia, che l’imperialismo italiano ha contribuito a distruggere, dandosi tra l’altro la zappa sui piedi. L’Italia, per la sua posizione geografica, rappresenta un trampolino verso l’Africa, e le sue basi sono state utilizzate per bombardare la Libia e il Vicino Oriente. In Sardegna si addestrano forze Nato e persino gli israeliani; dalla Sardegna partono anche le armi per l’Arabia Saudita, destinate a fare stragi in Yemen. Perciò è stato molto importante il blocco delle navi che trasportano queste armi per opera dei lavoratori portuali di Genova. In Italia circolano aerei militari sauditi, ed è stato impedito al personale degli aeroporti ogni controllo in merito. In Sicilia è entrato in funzione il MUOS, nonostante la lotta della popolazione che sconterà le conseguenze di questa installazione militare della NATO e degli USA sulla propria pelle. Ecco perché è giusto chiedersi quale fiducia possa avere un proletario (o un diseredato) libico in un comunista europeo che gli racconta che la questione libica non esiste e gli ripete, come Parvus, che l’unico problema è «la lotta rivoluzionaria di massa del proletariato contro il capitalismo». Ignorare questi problemi significa rinunciare a combattere il nemico che è in casa nostra, significa mettersi dalla parte dei sepolcri imbiancati che occupano il parlamento e infestano l’intera politica italiana, di governo e d’opposizione. La questione nazionale non è una patata bollente per il marxismo, ma per coloro che lo ignorano come i riformisti alla Letta o lo deformano come i populisti alla Formenti. Un nesso assai stretto ha sempre unito la questione nazionale al marxismo e, più in generale, al comunismo: non a caso la Prima Internazionale si costituì a Londra nel 1864 in occasione di un ‘meeting’ di solidarietà con la lotta della Polonia per l’indipendenza nazionale.
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