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Solo una divagazione? Dal “dono” di Mauss al Codice di Hammurabi. Cronache marXZiane n. 11

di Giorgio Gattei

Senza titolongvb1. Insomma, sul pianeta Marx, questo inedito corpo astronomico comparso nel cielo dell’economia politica sul finire del XVIII secolo, si producono sia grano che tulipani e la loro contemporanea presenza ne modifica in maniera indelebile il paesaggio. Ma dettagliamo: mentre il grano è “merce-base” (secondo la nomenclatura introdotta da Piero Sraffa) perché serve alla produzione di ogni altra merce essendo l’alimento dei lavoratori impegnati nelle loro produzioni, il tulipano è invece “merce non-base” dato che non vi partecipa (a che serve un tulipano se non a rimirarlo?) e che noi considereremo, facendo nostra una esagerazione sraffiana, che non entri nemmeno nella produzione di se stesso, così da «non trovarsi fra i mezzi di produzione di nessuna industria». E a questo proposito Sraffa ha fatto il caso, in una corrispondenza privata, degli elefanti bianchi, mentre in Viaggio di merci per merci pubblicato nel 1960 ha indicato le uova di struzzo e i cavalli da corsa (cfr. H. D. Kurz, Neri Salvadori, White elephants and other non-basic commodities: Piero Sraffa and Krishna Bharadwaj on the role and significance of the distinction between basics and non-basics, “The Indian Economic Journal”, June 3, 2021). Però a me è piaciuto prendere il tulipano a tipo ideale di “merce non base”, anche perché nel XVII secolo in Olanda è stato fatto oggetto della prima speculazione finanziaria della storia moderna (vedi l’immagine ch ho posti in apertura: Il trionfo di Flora/Tulipano di Hendrik Pot, circa 1640). E a chi venisse da sorridere su simili esempi strampalati, basterebbe ricordargli che anche gli armamenti sono “merci non base” e che un carro armato non serve alla produzione di alcunché, men che meno di se stesso, eppure lo si produce e fa danni.

Ma ipotizziamo di muoverci in quella estrema periferia del pianeta Marx in cui, per ulteriore esagerazione sraffiana, s’impiega lavoro ma non si pagano salari, così che il saggio del profitto ricavabile nelle due produzioni di grano e tulipano risulta essere il massimo possibile (R > r). In una Cronaca precedente ho mostrato come la presenza del tulipano “spiazzi” il saggio di crescita (o di “riproduzione”) g del grano, dato che se ne dovrà distoglierne una parte verso l’altra produzione, rispetto al saggio di crescita massima G che sarebbe possibile se il tulipano non ci fosse (g < G), così che la differenza misurerebbe il “sacrificio” che il produttore del grano deve sopportare se vuol consentire alla produzione del tulipano di esistere. E se poi il produttore di grano intendesse affidare la produzione del tulipano ad un altro diverso da sé, gli dovrebbe prestare il grano necessario facendosi pagare un tasso d’interesse positivo (i > 0) per il prestito, che risulterà comunque minore del saggio massimo del profitto che avrebbe guadagnato se avesse prodotto lui stesso il tulipano (i < R) dovendo lasciare la differenza (R – i) nella disponibilità del produttore del tulipano.

Ma perché il produttore di grano dovrebbe prestare il proprio grano ad un altro se ci rimette? Forse perché manca la tecnologia per produrre il tulipano oppure perché non ama il giardinaggio ma l’agricoltura? O forse perché prestare ad un altro gli conferisce un senso di superiorità che lo appaga soggettivamente? Lasciando per ora la questione irrisolta, affrontiamola da un altro aspetto, e cioè dal fatto, ormai storicamente accertato, che la prima azione economica intercorsa tra gli esseri umani non è stato il baratto (del tipo: io dò una cosa a te e tu dai una cosa a me), bensì il dono, proprio come quello biblico generosamente concesso da Eva ad Adamo quando gli ha permesso di dare un morso alla sua mela (e sulla “natura” di questa mela le interpretazioni maliziose si sono sprecate, autorizzate peraltro dalla stessa Bibbia che racconta come, dopo avere “consumato” quella mela, i due si accorsero di essere nudi, se ne vergognarono ed inventarono… il perizoma («cucite insieme delle foglie di fico, se ne fecero delle cinture»)!

 

2. Come che siano andate le cose nel Paradiso terrestre (da cui siamo stati cacciati proprio per colpa di quella mela), non c’è dubbio che ad investigare al meglio l’originaria “economia del dono” è stato l’antropologo Marcel Mauss (1872-1950) nel Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche pubblicato nel 1923-24. È uno scritto mostruoso per dimensione di note e bibliografia che parte dalla constatazione che «la storia economica e giuridica corrente è in grave errore quando… nelle società primitive concepisce solo il regime del baratto, in quelle più avanzate la vendita per contanti e la vendita a credito nella fase superiore della civiltà, dato che in effetti il punto di partenza è altrove. Esso risiede in una categoria di diritti che i giuristi e gli economisti lasciano da parte, disinteressandosene. Si tratta del dono, fenomeno complesso soprattutto nella forma più antica» e di cui Mauss prova a ricostruire la struttura logica sulla base delle testimonianze raccolte dagli antropologi presso le popolazioni più primitive. È così che è arrivato a riconoscere nel dono un «valore di legame societario» ben più importante del “valore di scambio” del mercato, dato che chi ha ricevuto un dono si sentirà poi legato al donatore, mentre gli scambisti se ne vanno via indifferenti ognuno per la propria strada (e nel caso di quel “commercio silenzioso” descritto da Erodoto gli scambisti nemmeno s’incontrano fisicamente).

Sono tre i momenti topici che Mauss ha ritrovato nella “economia del dono”, e cioè che si deve «dare, ricevere, ricambiare», dove l’inizio sta in una sorta di “obbligazione a donare” dato che, per testimonianza di un melanesiano riportata nella introduzione di Marco Aime al Saggio sul dono (Einaudi, Torino, 2002) «per essere un uomo prestigioso bisogna “avere”, certo, come dappertutto, ma il prestigio sta nel donare, donare molto e donare dappertutto, il contrario del mondo capitalista!». Questa necessità di donare magnificamente si manifestava nell’antichità classica con l’obbligo del “trionfo pubblico” (corteo, spettacoli, giochi e banchetti) offerto alla popolazione a proprie spese dal potente di turno in occasione di un qualche suo successo militare, come quello memorabile concesso dall’imperatore Vespasiano al figlio Tito nel 71 d.C. per aver conquistato (e saccheggiato) Gerusalemme.

La seconda condizione è che «non si ha il diritto di respingere un dono», anche se non è gradito, anche se non interessa, perché sarebbe come rifiutare la “sfida” a cui il dono costringe, dato che il suo terzo momento è quello di dover ricambiare, prima o poi, con qualcosa di equivalente e che Mauss riconduce al fatto che «la cosa donata non è una cosa inerte: animata, spesso individualizzata, essa tende a rientrare nel suo focolare di origine o a produrre, per il clan e il suolo da cui è uscita, un equivalente che la sostituisca». Proprio per questa giustificazione a Mauss è valso la critica di aver attribuito all’oggetto donato una “essenza spirituale” facendolo precipitare in una sorta di “animismo” inaccettabile per gli antropologi, ma la critica si supera facilmente se si considera il dono come un prestito, ossia come uno scambio differito nel tempo (del tipo: oggi do una cosa a te che domani mi restituirai) essendo, per stessa ammissione di Mauss, «natura peculiare del dono proprio quella di obbligare nel tempo». Per questo nel ricevere un dono si avverte sempre una sensazione d’imbarazzo, trovandosi in qualche modo legati al donatore, almeno finché non si è ricambiato con un “contro-dono”, così che il prolungamento temporale mantiene attiva l’obbligazione che si è instaurata l’origine tra chi ha fatto il dono e chi l’ha ricevuto. Certamente può sembrare improprio equiparare il dono ad un prestito, dato che il primo è pur sempre un atto volontario di generosità (il donatore non si aspetta di essere ricambiato), mentre il secondo è egoistico e vincolante, ma se anche per Mauss «l’obbligo di ricambiare degnamente è imperativo», dove sta la differenza? È per questo che i doni circolano, ma «accompagnati dalla certezza che saranno ricambiati, dove la garanzia è insita nella cosa donata, che è essa stessa questa garanzia».

Ma c’è pure dell’altro, dato che quando si ricambierà lo si dovrà fare «ad usura», ossia con “dono di ritorno” superiore per importanza a quello ricevuto così da rovesciare a proprio vantaggio il rapporto di donazione. Economicamente la differenza costituisce l’interesse, ossia il guadagno che si aspetta di ricevere nel futuro chi ha donato, ed è proprio la presenza di questo vantaggio, ovvero interesse, a condurre l’economia del dono ad essere la premessa del successivo sviluppo ad economia del credito e di cui lo stesso Mauss sembra consapevole quando annota frettolosamente che «il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito», ma senza insistervi più di tanto. Solo in una nota svilupperà questo argomento riportando una lunga citazione di un altro antropologo (Franz Boas, 1858-1942) a proposito del significato ultimo da assegnare alla paradossale cerimonia tribale del potlàc che quello aveva investigato e che conteneva tanta rivalità da spingere il donatore alla distruzione delle proprie ricchezze pur di guadagnare la supremazia sugli altri componenti della collettività. Ed ecco la citazione, lunga ma rivelatrice: «il sistema economico degli Indiani della colonia britannica è basato largamente sul credito, come quello dei popoli civili. In tutte le sue iniziative l’Indiano si affida all’aiuto degli amici ed egli promette di pagarli per tale aiuto a una data successiva. Se l’aiuto fornito consiste in cose di valore, che gli Indiani misurano in coperte come noi le misuriamo in denaro, egli promette di restituire il valore del prestito con gli interessi. L’Indiano non possiede sistemi di scrittura, e di conseguenza per dare sicurezza alla transazione la si fa pubblicamente. Contrarre debiti da una parte, pagare debiti dall’altra, questo è il potlàc… Occorre comprendere che un Indiano, il quale invita tutti i suoi amici e vicini a un potlàc e in apparenza sperpera i frutti accumulati in lunghi anni di lavoro, si pone due obiettivi che non possiamo non riconoscere saggi e degni di lode. Il suo primo scopo è quello di pagare i debiti, il che avviene pubblicamente con molta pompa e alla maniera di un atto rogato dal notaio. Il secondo scopo è quello di investire i frutti del proprio lavoro in modo da trarre il maggior profitto per sé e per i propri figli. Coloro i quali ricevono dei regali in questa festa, li ricevono come prestiti da utilizzare per le loro attuali iniziative e da restituire, dopo un intervallo di qualche anno, insieme con gli interessi, al donatore o al suo erede».

A questo punto che altro rimaneva a Mauss se non riconoscere, essendo perfino il potlàc una manifestazione di credito, che «è da un sistema di doni, dati e ricambiati a termine, che sono sorti da una parte il baratto, per semplificazione, per avvicinamento di tempi prima separati, e dall’altra l’acquisto e la vendita, quest’ultima a termine e in contanti, ed anche il prestito? Nulla prova, infatti, che qualcuno dei sistemi giuridici che hanno oltrepassato la fase che stiamo descrivendo (in particolare, il diritto babilonese) non abbia conosciuto il credito, che tutte le società arcaiche, sopravvissute intorno a noi, conoscono».

 

3. Il rinvio al “diritto babilonese” era ovviamente al Codice di Hammurabi inciso a caratteri cuneiformi su una stele di diorite nera ritrovata nel 1902. Sono 282 articoli di legge emanati dal sovrano di Babilonia (che regnò dal 1792 al 1750 a. C.) che ci introducono nella costituzione giuridica di quella antico regno mesopotamico ed in cui, a differenza degli egizi che con le loro piramidi e mummie parevano più interessati ai problemi dell’aldilà (la sopravvivenza dopo la morte), Hammurabi intendeva legiferare sulle questioni dell’al di qua allo scopo, come veniva detto nell’epilogo del codice, di «stabilire un ordine e una buona condotta» per i suoi sudditi. Era pur vero che la sua intenzione era di confermare la feroce e primitiva “legge del taglione” per cui ad una offesa doveva corrispondere una pena identica, ma essa veniva ammorbidita per i ceti subalterni (come si direbbe oggi) con l’alternativa di un risarcimento pecuniario, così che se in un articolo di legge si stabiliva che «qualora un uomo cavi un occhio ad un altro, gli sia cavato un occhio», il successivo affermava che, se il danneggiato era «un uomo liberato, si pagherà una mina d’oro». Il Codice conteneva articoli che oggi si direbbero “di buon senso” («se la moglie di un uomo desidera lasciarlo, qualora il marito le offra il rilascio, lei se ne può andare per la sua strada e lui non le darà alcunché come dono di rilascio», oppure che «qualora un uomo sposi una donna che gli partorisce dei figli, se poi questa donna muore, la dote appartiene ai figli di lei»), ma la sorpresa più straordinaria stava nel fatto che, accanto alle sanzioni per violazioni alla proprietà (comprensiva degli schiavi), alla famiglia e alla persona, c’erano penalità pure per le violazioni alle “obbligazioni di debito”. Purtroppo per una lacuna nel testo l’argomento è appena introdotto con «… interesse per il denaro, tanto quanto ne ha ricevuto, gli sia pertanto dato una nota ed il giorno stabilito paghi al mercante», ma da ciò pur s’intuisce che siamo alle prese con un prestito di denaro dato ad interesse, e comunque già in precedenza si era legiferato che nel caso di prestito in denaro di un “mercante” per far coltivare un campo altrui a frumento o sesamo, il raccolto spettava al proprietario del campo che avrebbe dovuto restituire quel denaro al mercante «e qualora non abbia denaro per rifondere, pagherà in frumento o sesamo al posto del denaro per il prestito che ha ricevuto dal mercante secondo la tariffa reale» (che s’immagina stabilisse l’equivalenza del denaro con una certa quantità di sesamo o di frumento).

Gli articoli successivi trattano invece degli obblighi di un eventuale mediatore (“agente”) che si ponesse tra chi prestava denaro e il mercante che riceveva il prestito, così che, «se l’agente è poco accurato e non prende una ricevuta per il denaro che ha dato al mercante, non può considerare come proprio il denaro di cui non ha ricevuta». L’obbligo di restituzione del prestito era tassativo al punto che «chiunque manchi di adempire un debito, deve vendere se stesso, sua moglie, suo figlio e la figlia per denaro o cederli per lavoro forzato: lavoreranno per tre anni nella casa dell’uomo che li ha comperati ma nel quarto anno saranno rimessi in libertà») ed era prevista la responsabilità in solido dei coniugi («se entrambi hanno contratto un debito, entrambi debbono pagare il mercante»), ma comunque ai contratti si doveva dare forma scritta e con testimoni, perché «qualora qualcuno dia ad altri argento, oro o qualsiasi altra cosa da tenere senza testimoni o contratto, e l’affidatario lo neghi, egli non avrà alcun diritto».

Però prima dei Babilonesi di Hammurabi non erano stati i Sumeri ad aver dato vita, 5000 anni fa e in quello stesso lembo di terra compreso tra il Tigri e l’Eufrate, ad una intera economia fondata sul prestito ad interesse? E con quali conseguenze? Di tutto questo dirò nella mia prossima Cronaca MarXZiana.

Comments

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renato
Monday, 12 June 2023 09:48
Non ho capito il motivo, o il nesso tra marx , la critica dell'economia capitalistica e le forme di scambio protocapitaliste o assolutamente ignare e non fondative del modello di vita successivo e a noi contemporaneo. Sarò poco attento e so poco su questi aspetti antropologici e storici, ma mi è sembrato che dalle righe qui scritte salti fuori quasi un filo logico consequenziale tra dono, scambio, reciprocità , prestito , credito quindi poi un attimo dopo come preparato dalla storia su di un piatto bello pronto , il valore di scambio il suo separarsi da quello d'uso e voila la naturalità del capitalismo. Ripeto , è molto probabile che non abbia capito nulla dell'articolo , aspetto i prossimi e intanto mi rileggo questo.
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