Moneta, finanza e crisi. Marx nel circuito monetario
Marco Veronese Passarella*
Ricorre il 5 gennaio il secondo anniversario della morte di Augusto Graziani, uno dei più eminenti economisti italiani del novecento e padre del filone teorico eterodosso noto come teoria del circuito monetario. Per l’occasione, rendo qui disponibile la bozza preliminare di un mio contributo recente su teoria del circuito monetario, critica marxiana e finanziarizzazione. Per gli aspetti più tecnici della teoria del circuito, rinvio ad un secondo contributo (in lingua inglese) in uscita su Metroeconomica
1. Introduzione: l’altro Marx
Fin dalla pubblicazione postuma del Terzo Libro de Il Capitale, il dibattito “economico” attorno alla grande opera incompiuta di Karl Marx si è concentrato prevalentemente sul cosiddetto problema della trasformazione (dei valori-lavoro in prezzi di produzione), nonché sulla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. In altri termini, è soprattutto sulla possibile frizione tra Primo Libro e (prima e terza sezione del) Terzo Libro che si è storicamente focalizzata l’attenzione dei più, dentro e fuori le mura accademiche. Per contro, ad eccezione dei capitoli finali dedicati agli schemi di riproduzione,1 il Secondo Libro de Il Capitale è stato a lungo trascurato. Peggior sorte è toccata alla quinta sezione del Terzo Libro, dedicata al credito, al capitale fittizio ed al sistema bancario. In effetti, se l’analisi delle due forme – mercantile e capitalistica – della circolazione è stata solitamente sminuita a sorta di breve introduzione al problema dell’individuazione dell’origine del plusvalore (problema affrontato compiutamente da Marx nel Primo Libro), il ruolo della moneta, del credito e della finanza nell’ambito della teoria marxiana, laddove contemplato, è stato quasi sempre ridotto a quello di amplificatori del ciclo economico.2 Lungi dall’essere considerati elementi costitutivi del modo di produzione capitalistico, e dunque di ogni modello analitico che aspiri ad indagarne le leggi di movimento, moneta, istituzioni creditizie e finanza sono state di norma assimilate a “frizioni” nell’ambito di un modello fondato sull’interazione tra grandezze “reali”. Paradossalmente, si tratta di una visione non dissimile da quella che ha permeato il pensiero economico dominante a partire dalla fine del diciannovesimo secolo.
È proprio in opposizione a tale visione “a-monetaria” che, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del novecento, alcuni studiosi francesi ed italiani hanno concepito e poi portato a compimento, in modo pressoché indipendente, un nuovo sistema teorico fondato sul riconoscimento esplicito della natura essenzialmente monetaria delle economie capitalistiche. Il riferimento è alla cosiddetta “Teoria del circuito monetario” (TCM, d’ora in avanti), nota anche come “Teoria monetaria della produzione”.3 La TCM costituisce il punto di approdo di un insieme di teorie e riflessioni economiche piuttosto eterogenee per matrice socio-politica, ma accomunate dall’enfasi posta sul ruolo della moneta quale istituzione fondamentale del capitalismo. In Italia, è soprattutto all’opera di Augusto Graziani che si deve l’elaborazione di una visione teorica e di un modello analitico radicalmente alternativi al paradigma di teoria economica dominante fino alla metà degli anni ottanta, in cui la moneta era appena un velo posto esogenamente sulle grandezze reali.4 Benché la TCM sia stata a lungo relegata nei “sottomondi eterodossi” del pensiero economico, l’affermazione recente della modellistica “Nuovo-Keynesiana” (New Keynesian), in cui la moneta viene riguardata come grandezza creata endogenamente dal sistema economico, rappresenta un (sia pure implicito, tardivo e assai parziale) riconoscimento della proficuità delle riflessioni monetarie dei teorici del circuito e, in generale, delle scuole di pensiero economico critico.5 L’importanza di quelle riflessioni non è, peraltro, confinata al solo dibattito teorico tra macroeconomisti, passato e presente, ma investe direttamente l’analisi più generale delle leggi di movimento di un’economia capitalistica. Su questo piano, il legame della teoria di Graziani con la riflessione di Marx, benché non sempre immediatamente riconoscibile, è nondimeno assai profondo.6 Si potrebbe, anzi, argomentare che la TCM, per lo meno nella sua trasposizione “italiana”, rappresenti una declinazione compiutamente marxiana della metodologia degli aggregati sviluppata da Keynes e dai sui allievi a partire dagli anni Trenta del Novecento.
Proprio della fecondità di tale approccio come schema di re-interpretazione delle categorie macroeconomiche keynesiane in chiave marxiana, e soprattutto come strumento di analisi critica del reale, a partire dai processi di finanziarizzazione in atto, si cercherà di dar conto brevemente nelle pagine che seguono. La riflessione verterà, in particolare, sulla funzione logica dei mercati finanziari nel processo di creazione di valore sociale in una economia capitalistica (paragrafo 2) e sul ruolo paradossale da essi svolto nei paesi anglosassoni nell’ultimo ventennio quale causa ultima di fragilità finanziaria, instabilità e crisi (paragrafo 3). Seguiranno alcune considerazioni sul nesso tra finanziarizzazione e ridefinizione delle forme di sfruttamento del “lavoro vivo” nella sfera della produzione, nonché delle modalità di appropriazione del valore creato (paragrafo 4).
2. Circuito monetario, mercati finanziari e valore: una messa in ordine logica
Il principale punto di contatto dell’opera di Marx con la TCM è la concezione del sistema economico quale economia monetaria di produzione, ossia quale sequenza temporale di rapporti monetari concatenati di scambio e di produzione intercorrenti tra classi sociali portatrici di interessi contrapposti. In estrema sintesi, tale successione viene aperta dalla decisione delle banche (la classe dei capitalisti monetari) di accordare un’apertura di credito a favore delle imprese (la classe dei capitalisti industriali), per le quali tale flusso di liquidità (il capitale monetario) costituisce, al contempo, il potere d’acquisto necessario ad acquistare la forza-lavoro (nonché, ad un minor livello di astrazione teorica, gli altri fattori produttivi) da impiegare nel processo produttivo e un elemento non riproducibile internamente. Tale sequenza (o circuito) si chiude soltanto allorché le imprese, una volta realizzato in forma monetaria il valore sociale della produzione, estinguono il debito verso le banche, suddividendo il sovrappiù sociale (corrispondente al plusvalore) tra profitti d’impresa e interessi bancari.7
È questa, si badi, non la rappresentazione di una particolare configurazione storica o geografica del capitalismo. Non si tratta, cioè, della manifattura inglese di inizio Ottocento, ovvero del sistema di fabbrica italiano del secondo dopoguerra. Si tratta, invece, dell’esplicitazione dei nessi monetari necessari intercorrenti tra gruppi sociali contrapposti all’interno dello spazio capitalistico. Il livello di astrazione a cui i teorici del circuito si muovono è, infatti, se non quello massimo del capital en général (Primo Libro de Il Capitale), quello assai elevato della circolazione, rotazione e riproduzione del capitale (Secondo Libro de Il Capitale).8 Proprio l’adozione di tale livello di astrazione consente, inter alia, di mettere a fuoco il ruolo peculiare giocato dal sistema bancario, da un lato, e dai mercati finanziari, dall’altro, nell’ambito di un’economia monetaria di produzione. Spetta al primo, identificabile con la sotto-classe dei capitalisti monetari, il ruolo di “eforo” del sistema capitalistico.9 È, infatti, l’erogazione del finanziamento bancario che consente alle imprese di dare il via al processo di produzione e di scambio. Si noti, al riguardo, che in un’economia compiutamente capitalistica le banche non si limitano a trasferire risorse monetarie dai propri depositi ai capitalisti industriali, in forma di prestiti alle imprese.10 Ciò che contraddistingue le banche dalle altre unità socio-economiche è la loro capacità esclusiva di creare moneta-credito, mediante semplice annotazione contabile (ovvero mediante impulsi elettronici).11 Da un punto di vista logico, in assenza di tale atto di creazione ex nihilo, lo scambio “salario monetario verso forza-lavoro” non potrebbe darsi, e dunque l’intero processo di produzione e di scambio non potrebbe nemmeno essere avviato. Per contro i mercati finanziari rappresentano il luogo in cui le imprese, mediante emissione e collocamento di “titoli”, recuperano in tutto o in parte la liquidità (moneta bancaria) precedentemente immessa nel sistema in forma di massa salariale. Si tratta di due funzioni logicamente e temporalmente distinte, dato che l’una (la creazione di moneta bancaria) è precondizione per l’avvio del circuito dei pagamenti e, in presenza di razionamento del suo ammontare, concorre a determinare la scala della produzione, mentre l’altra (il rastrellamento dei risparmi dei lavoratori salariati tramite i mercati finanziari) segue logicamente tale processo ed è condizione per la chiusura del circuito.12 È questa la ragione per cui il flusso di moneta creato dalle banche a favore delle imprese in avvio di circuito viene solitamente denominato “finan-ziamento iniziale” (e corrisponde al “capitale monetario” di Marx), mentre la liquidità veicolata dai mercati finanziari alle imprese costituisce, assieme ai consumi dei lavoratori salariati, il “finanziamento finale” alle imprese (e costituisce la base del cosiddetto “capitale fittizio”). Quest’ultimo concorre a definire il grado di realizzazione monetaria, ossia di “validazione sociale” del valore creato nella produzione.13
In effetti, la TCM consente di far luce su alcuni aspetti controversi della teoria marxiana del valore. In primo luogo, tale approccio distingue chiaramente il momento dell’acquisto della forza-lavoro, quale prerequisito necessario per l’avvio del processo di produzione, da quello dell’acquisizione degli altri fattori produttivi che, come ogni acquisto di merci capitalisticamente prodotte, segue sempre logicamente tale processo. Si noti che è proprio nel procedimento di contabilizzazione dei fattori produttivi diversi dalla forza-lavoro (il cosiddetto “capitale costante” o, nel gergo degli economisti, i “beni capitale” o “intermedi”) nel valore delle merci prodotte che si annida quell’“errore”, imputato a Marx, che ha dato storicamente il via all’annosa diatriba sulla trasformazione. Eppure la TCM vale a chiarire che l’acquisto iniziale di beni capitale è appena un’“illusione ottica” generata, nella realtà, o comunque ad un minor livello di astrazione teorica, dalla concatenazione dei cicli produttivi. La parte di prodotto destinata a rimpiazzare i beni capitali consumati, ovvero ad investimento addizionale, viene sempre acquistata al termine di ciascun ciclo (per essere impiegata nel ciclo successivo). Ne deriva che il prezzo dei beni capitali corrisponde sempre al loro “prezzo di riproduzione”, e non al loro “costo storico”.14 Il problema della misura della quantità di “lavoro morto” cristallizzato negli elementi del capitale costante viene, dunque, svuotato di significato.
In secondo luogo, la TCM dà sostegno alla teoria di Marx sull’origine del plusvalore dallo “scambio ineguale” tra capitale e lavoro nella sfera della produzione, ove tale teoria venga correttamente intesa in termini macro-monetari. Il fatto è che, se si considera l’insieme delle imprese come un unico settore consolidato e aggregato (la classe dei capitalisti industriali), è evidente che nessuno scambio che avvenga al suo interno può contribuire alla valorizzazione del capitale anticipato. Detto diversamente, la compravendita di beni capitali rappresenta un gioco a somma zero, dal quale nessun plusvalore può derivare per le imprese (nel loro insieme). Come ribadito da Graziani, sulla scia di Marx, la “valorizzazione del capitale, per i capitalisti come classe, può derivare unicamente da scambi che i capitalisti effettuino al di fuori della propria classe, e quindi nell’unico scambio esterno possibile, che consiste nell'acquisto di forza-lavoro. Soltanto nella misura in cui i capitalisti utilizzano lavoro e si appropriano di una parte del prodotto ottenuto, essi possono realizzare un sovrappiù e convertirlo in profitto”. Ecco perché, per Graziani, come per Marx, il profitto dei capitalisti “può nascere soltanto dalla differenza fra quantità di lavoro totale impiegato e quantità di lavoro che torna al lavoratore sotto forma di salario reale”. Come poi il plusvalore sociale creato (in potenza) nella produzione si distribuisca tra le imprese dipenderà, di volta in volta, dallo specifico sistema di fissazione dei prezzi relativi “che riguarda esclusivamente i capitalisti nei loro rapporti reciproci”.15
3. Moneta, finanza e crisi
Come è stato argomentato, sin dalla fine degli anni Settanta la finanza sembra aver assunto un ruolo centrale nel processo di produzione e riproduzione capitalistica, in particolar modo negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Sembrerebbe, anzi, che in tali economie il ruolo dei mercati finanziari non possa essere più confinato alla funzione ancillare e passiva loro assegnata dalla TCM.16 Anzitutto, l’aumento dei profitti realizzati dalle grandi corporation multinazionali, a fronte di investimenti “produttivi” relativamente modesti (anche prima delle due crisi finanziarie recenti), ha lentamente trasformato tali soggetti in creditori netti, ossia in rentier a caccia dei maggiori rendimenti derivanti dall’“investimento” in attività finanziarie. D’altra parte, il collocamento di titoli azionari e obbligazionari sui mercati finanziari ha gradualmente rimpiazzato il ricorso al credito bancario quale fonte privilegiata di finanziamento.17 In secondo luogo, il risparmio dei lavoratori salariati (le famiglie) è crollato verticalmente negli ultimi due decenni. Il ricorso crescente a carte di credito, credito al consumo e mutui immobiliari ha, anzi, progressivamente trasformato i percettori di redditi da lavoro, un tempo risparmiatori netti (in veste di sottoscrittori di titoli), in debitori netti.18 Infine, il sistema bancario, specie quello di matrice anglosassone, ha lentamente spostato il baricentro della propria attività dal finanziamento alla produzione al credito ai salariati, fino alla fornitura di servizi finanziari a famiglie e imprese, ed alla gestione di operazioni e titoli finanziari fuori-bilancio (su cui lucrare laute commissioni) mediante società-veicolo.
È, perciò, sembrato che il tradizionale asse produttivo “banche-imprese” fosse destinato ad essere gradualmente rimpiazzato dall’asse speculativo “banche-mercati finanziari”. Nel “modello anglosassone” le banche concedono, infatti, un’apertura di credito non tanto alle imprese, quanto alle famiglie (sulla base del loro fondo di ricchezza). Queste, nella misura in cui destinano tali risorse a consumi, consentono alle imprese di conseguire extra-profitti da destinare ad investimenti finanziari. È, del resto, proprio attraverso il collocamento di prodotti sui mercati finanziari che il sistema bancario torna in possesso delle somme erogate in avvio di circuito. A sua volta, la crescita del valore di mercato delle attività finanziarie (e/o immobiliari) generata dall’afflusso dei “risparmi” delle imprese sostiene (temporaneamente) la solvibilità dei salariati, che sono così in grado di accedere a nuovi prestiti. Come detto, è questo il modello che si è progressivamente sviluppato nei paesi anglosassoni negli ultimi decenni. D’altra parte, se è vero che alcune tra le altre maggiori economie avanzate hanno mantenuto saldamente la propria vocazione industriale (è il caso del sistema tedesco) e che alcuni paesi emergenti si sono affacciati nell’ultimo ventennio come nuovi colossi manifatturieri (l’economia cinese è solo l’esempio più noto), la finanziarizzazione delle relazioni economiche è un processo che sembra aver avuto una dimensione globale.19
Il riconoscimento degli indubbi elementi di novità del “capitalismo finanziarizzato” di matrice anglosassone deve certamente portare ad un’analisi della ridefinizione delle modalità di valorizzazione capitalistica determinata dai processi di finanziarizzazione. Tale riconoscimento non deve, per contro, condurre ad accantonare l’analisi di Marx, o la TCM, quali raffigurazioni stilizzate del sistema manifatturiero prevalente nella Belle Époque o Golden Age del capitalismo industriale. La sequenza definita nel paragrafo 2 fornisce, infatti, la descrizione delle condizioni strutturali di riproducibilità, ad un tempo, reale e monetario-finanziaria (solvibilità), del sistema economico capitalistico – a prescindere, cioè, dalle funzioni di comportamento delle singole unità socioeconomiche (gli “agenti” individuali della modellistica economica dominante). Detto diversamente, lo schema del circuito continua marxianamente a dar conto delle relazioni necessarie intercorrenti tra le macro-classi sociali (e tra queste e i mercati del credito, delle merci e dei titoli) nello spazio capitalistico, a prescindere da qualsivoglia specifica declinazione geografico-temporale. In tal senso, pare possibile rinvenire nella doppia crisi finanziaria esplosa nel 2000 e nel 2007, con epicentro gli Stati Uniti d’America, il punto di rottura generato dal conflitto sotterraneo crescente tra il ruolo necessario (logico) di mercati finanziari e sistema bancario, da un lato, e la funzione storica paradossale progressivamente assunta da tali soggetti nelle economie anglosassoni, dall’altro. Dal conflitto, cioè, tra processi di creazione del valore e del plusvalore sociale, e processi di acquisizione-realizzazione monetaria del valore creato.
Se le cose stanno così, l’interrogativo di fondo con cui ci si deve misurare non è, dunque, perché vi sia stata una doppia crisi finanziaria negli anni Duemila, ma perché la deflagrazione borsistica del 2000 e la crisi che ne è seguita non si siano protratte più a lungo, ponendo anzi le premesse per la formazione di nuove bolle speculative e per lo scoppio della crisi finanziaria del 2007-2008. La ragione è che il circuito paradossale affermatosi nelle economie anglosassoni è, in linea di principio, temporaneamente sostenibile. Come è stato sottolineato, i consumi a credito dei salariati generano extraprofitti per le imprese. Queste possono re-investire tali somme nell’acquisto di prodotti finanziari che il sistema bancario crea utilizzando come base (il cosiddetto “collaterale”) proprio il rapporto di credito con i salariati. A sua volta, la crescita dei valori finanziari (e immobiliari) così generata sostiene la capacità di accesso al credito delle famiglie, le quali possono alimentare ulteriormente i propri consumi (anche in presenza di redditi da lavoro stagnanti o calanti), e così via.20 Naturalmente, si tratta di un equilibrio instabile. Shock esogeni ovvero mutamenti endogeni anche di modesta entità sono in grado di innescare una reazione a catena, in cui la caduta dei valori di mercato delle attività finanziarie (e immobiliari) abbatte la capacità dei salariati di ripagare i propri debiti proprio mentre il sistema bancario preme per un rientro immediato, con un effetto depressivo sulla domanda aggregata, e dunque sui livelli occupazionali e di reddito. Si tratta della sequenza di fasi che hanno scandito le due crisi recenti dell’economia statunitense e, sulla sua scia, delle economie europee. Così come lo sviluppo della finanza, nelle fasi ascendenti del ciclo economico, consente di accelerare senza pari il processo di estrazione di valore e plusvalore (sia mediante riduzione del tempo di turnover del capitale che mediante intensificazione dei processi di sfruttamento della forza-lavoro nella produzione), nelle fasi di crisi essa favorisce i processi di distruzione, nonché di concentrazione/centralizzazione, dei capitali.
4. Conclusioni
In questo breve saggio si è cercato di dar conto della fecondità della teoria del circuito monetario come schema di re-interpretazione delle categorie macroeconomiche keynesiane in chiave marxiana, e soprattutto come strumento di analisi critica del reale, a partire dai processi di finanziarizzazione in atto. In particolare, si è cercato di mostrare come la doppia crisi finanziaria degli anni duemila possa essere riguardata come il punto di rottura generato dal conflitto sotterraneo crescente tra il ruolo necessario di mercati finanziari e sistema bancario, da un lato, e la funzione paradossale progressivamente assunta dal settore finanziario nelle economie anglosassoni negli ultimi decenni. A questo proposito, appare interessante rilevare che mentre lo schema-base del circuito riserva ai mercati finanziari una funzione meramente redistributiva, nel capitalismo finanziarizzato di matrice anglosassone i mercati finanziari non si limitano a ripartire le risorse monetarie circolanti nel sistema, ovvero ad accelerare/decelerare il reinvestimento del capitale monetario.21 Essi, attraverso l’indebitamento delle famiglie, nonché tramite la partecipazione dei salariati alle “sorti” dei mercati finanziari (per esempio, mediante il dirottamento dei risparmi in fondi di investimento e fondi pensione), sono altresì in grado di incidere indirettamente sull’intensità di lavoro e dunque sul processo di creazione di valore e di plusvalore. Insomma, se, da un lato, rimane confermata l’intuizione marxiana secondo cui la finanza non crea valore sociale, dall’altro, i processi di finanziarizzazione sembrano aver ridefinito in profondità le forme della sua creazione nonché le modalità della sua appropriazione. La doppia crisi finanziaria del 2000 e del 2007-2008 emerge, in tal senso, come punto di frizione tra legge di produzione del valore e del plusvalore (che tutt’ora rimanda all’allargamento e all’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro nella sfera produttiva quali suoi prerequisiti necessari) e modalità di appropriazione privata del valore creato (ossia alle modalità storicamente date di fissazione dei prezzi relativi, incluso il rendimento delle attività finanziarie) nell’attuale capitalismo finanziarizzato. Ecco perché, in assenza di meccanismi di “repressione dei mercati finanziari” e di pianificazione dell’investimento sociale, l’instabilità e le crisi ricorrenti che hanno segnato le economie avanzate in questo inizio di ventunesimo secolo sono destinate a ripresentarsi, in forme nuove, anche nei decenni a venire.22