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lostraniero

Michéa e una sinistra sedotta dal capitale

Marco Gatto

quarteirao 2 800x571Jean-Claude Michéa ha il merito di riportare le questioni che affronta alla radice, senza mai dissimulare il rischio di ridurre all’osso i problemi, e anzi insistendo sull’aperta complessità delle sue argomentazioni. Ne viene fuori una forma di saggismo militante che il nostro paese ha da molto tempo accantonato per rifugiarsi in una pamphlettistica di mercato spesso vacua quanto politicamente innocua. Si può forse riassumere in una duplice argomentazione il nocciolo di I misteri della sinistra (Neri Pozza, pp. 128):

1) la crisi del progetto socialista di emancipazione si spiega attraverso l’accettazione – non solo ideologica, ma etica e comportamentale – del modello di pensiero unico imposto dalla società capitalista, in grado di attribuire alla sinistra una funzione solo fintamente contrastiva, e anzi pacificamente coesistente con le ragioni del libero mercato;

2) tale accettazione si fonda sullo sbilanciamento della sinistra verso un orizzonte di senso in cui l’elemento fondamentale non è più la collettività, ma l’individuo, colto nel suo diritto solipsistico alla libertà (e, dunque, al consumo) – individuo che la sinistra ha trasformato nell’unica ragione di mantenimento di un supposto progetto emancipativo, a scapito, come scrive Michéa, “della difesa prioritaria di coloro che vivono e lavorano in condizioni sempre più precarie e sempre più disumanizzanti”.

Non si tratta della solita lamentazione nostalgica. Il docente e filosofo francese articola le due tesi che abbiamo appena menzionato ricostruendone la ragione d’essere attraverso un’analisi ideologica delle recenti politiche socialiste in Europa. Avvalendosi delle tesi di Christopher Lasch sul narcisismo di massa e sull’ascesa dell’egoismo consumistico, Michéa non cede all’esternazione di un sociologismo elementare: semmai, cercando di collegare l’analisi sociale alla critica dell’economia, insiste su un concetto puramente marxiano – una lettura che la sinistra ha volontariamente dimenticato e rimosso dal suo alfabeto – in virtù del quale il capitalismo “si presenta ormai come un fatto sociale onnicomprensivo, ovvero come una totalità dialettica della quale tutti i momenti sono inseparabili (siano essi economici, politici e culturali) e richamano, a loro volta, una critica radicale”. E ciò non è semplicemente, come qualcuno potrebbe pensare, il credo di un attardato marxista hegeliano. Michéa suggerisce, al contrario, che – anche per effetto di un’egemonia filosofica fin troppo duratura acquisita da foucaultismi e decostruzionismi vari – non si possa pensare più la realtà sotto la forma della microfisica del potere, del dettaglio, dell’autonomia, della parcellizzazione, beandosi magari della felicità raggiunta dalla garanzia di potersi esprimere liberamente e senza vincoli o verifiche, una ilarità, insomma, del tutto fedele a un liberalismo culturale in cui tutto è possibile purché dipenda dal gioco mobile del capitalismo. Perché – e Michéa qui non sbaglia – il capitalismo è in grado di unificare sotto il suo dominio tutti i comportamenti sociali e culturali (assicurando loro un’apparente indipendenza espressiva), avvalendosi di un perenne sradicamento degli individui, di una coazione al movimento, alla flessibilità o alla mobilità continua – una sorta di vera e propria rivoluzione permanente che non permette l’orientamento, l’attenzione, la capacità di comprendere e analizzare situazioni e contesti. Ragione per cui, a parere dell’autore francese, la sinistra dovrebbe ripartire da un lavoro di senso che restituisca al radicamento (qualcosa che la cultura sessantottina ha fatto passare come elemento destrorso), ossia alla comprensione effettiva della realtà che circonda gli individui e che ne influenza le modalità di comprensione, la sua validità teorica e politica. Del resto, quello dell’inappartenenza, di una neutralità raggiunta, della perfezione che sta solo nell’apolide – suggerisce Michéa – è un mito liberalistico, che si sposa perfettamente con il culto capitalistico del mercato globale e senza frontiere.

Sul piano filosofico, la neutralizzazione della sinistra ha segnato, poi, a parere del saggista francese, un oblio di Marx e delle fondamentali acquisizioni del Capitale. La fortuna accordata a una nozione iper-positivistica come quella di general intellect – che fonda la sua ragione d’essere nella credenza che lo sviluppo tecnologico favorisca l’implosione del capitalismo, mediante la creazione di forze contrastive all’interno dei suoi apparati – spiega come l’idea marxiana del capitale come accumulazione di merci sia stata barattata con un potenziamento delle merci stesse e della loro capacità seduttiva. Badiou e Negri dimenticano, per Michéa, un dato di fatto essenziale: per il liberalismo è il mercato a essere la sola istanza di socializzazione – una socializzazione, beninteso, che trova il suo fondamento nell’individualismo assoluto. Ed è dunque questa capacità che il capitale possiede di generare fasulle istanze di socializzazione a segnarne la vittoria, perché la sinistra, che ne ha incamerato le logiche persino a livello filosofico, ha reagito a tale dominio con forme di radicalità fondate sulla sola e unica rivendicazione egoistica dei diritti, dimenticando di pensare la propria posizione rispetto al sistema unificante del capitale. E in Francia, riporta Michéa non senza ironia, ciò è palese: il militante radicale ritiene che “essere di sinistra non significhi nient’altro che doversi mobilitare in ogni circostanza – e se possibile davanti alle telecamere del sistema – per difendere quel diritto liberale di ogni monade isolata a un principio di vita particolare e a uno scopo particolare”. Vale a dire che per il militante di sinistra – quella specie antropologica che oggi in Italia, orfana di una reale mediazione politica, assume, di volta in volta, le sembianze del più vacuo sovversivismo piccolo-borghese – vige, ancor più che per gli accondiscendenti cantori del neoliberismo, quella che Michéa chiama “dipendenza quotidiana degli individui rispetto agli irrazionali movimenti del mercato e agli obblighi alienanti delle sue nuove tecnologie”: un potente narcotico che impedisce lo sviluppo della coscienza critica.

Nulla da dire sulla lettura dell’avvenuto inglobamento della sinistra nelle maglie ideologiche del capitale. Nulla da dire, inoltre, sulla necessità di ripensare il culto positivistico della modernizzazione – in ragione del quale la pratica socialista ha ritenuto giusto impiegare le sue energie per opporsi al sistema attraverso la rete, parlando di supposte moltitudini che per partenogenesi (quanto misticismo c’è nei discorsi di certi profeti della rivoluzione!) creerebbero il dissenso – e ancor meno da dire sulla necessità di “riuscire a mettersi d’accordo, una volta per tutte, su una critica della logica capitalistica che infine risulti filosoficamente coerente”, vale a dire una critica che metta insieme quelle minoranze in grado di lottare contro il dominio, riformulando magari un lessico capace di arrivare al senso comune. Ciò che forse Michéa avrebbe dovuto sviluppare – proprio in virtù della possibile ambiguità che un discorso così spinoso produce – è un’intuizione che troviamo serpeggiare fra le pagine del libro: il fatto che la critica al capitale possa oggi tradursi nel recupero di certi valori tradizionali irrimediabilmente sentiti – anche per effetto di una cultura di sinistra che ha insistito sulla loro essenza conservatrice – come arcaici o desueti. Fra questi, “lo scrupolo di proteggere un certo numero di tradizioni”, fra cui rientrerebbe anche la famiglia, o forse persino certi modelli di vita che potremmo definire pre-urbani. Il punto, però, è che il recupero di certe forme d’esperienza “popolari” possibilmente aliene dal contesto capitalistico va giocato forse diversamente: cioè non insistendo sulla loro differenza (che ha prodotto il mito antistorico della decrescita o il vagheggiamento poetico di età passate), che è poi sinonimo di neutralità, ma sul modo in cui il liberalismo capitalistico ne ha decostruito i connotati, offrendoli allo sterile discorso della sinistra come possibili oggetti di polemica e come arnesi per costruirsi un’identità (dettata appunto dalle logiche del capitale).

Quel che conta, allora, come nel caso dell’importanza da accordare a una prassi territoriale, a un lavoro politico e culturale che si innesti sulla conoscenza reale e diretta dei problemi, è che, una volta reintrodotti nel lessico della sinistra, certi valori – che l’ortodossia ufficiale ha sentito come lontani da un’ideologia di classe – obbediscano a logiche non più particolaristiche, ma mirino a un progetto di liberazione il più possibile universale. Lo dice bene Michéa: prima che il capitale se ne serva per i suoi fini distruttivi e immorali, è il caso che la sinistra si appropri di questioni e problemi che un certo culto per la modernizzazione a tutti i costi (e per la fondazione di un aggiornato soggetto rivoluzionario) ha accantonato e messo da parte.

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