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ilcovile

Non più e non ancora

Carlo Formenti e Alexis Escudero

di Armando Ermini

Due opere recenti mostrano come il pensiero critico e anticapitalista cominci a ad uscire dalla gabbia dell’omologazione progressista

Pasolini Pietà Roma 2015 6 MediumIl libro di Formenti (Carlo Formenti, La variante populista, lotta di classe nel neo-liberismo, Comunità Concrete, Roma 2016)

Con questo testo Carlo Formenti intende prendere qualche distanza dal progressismo di sinistra genericamente inteso, partendo dalla constatazione che dagli anni settanta-ottanta del xx secolo, «le culture di sinistra (socialdemocrazie, nuovi movimenti sociali, femminismo, ambientalismo, movimenti per i diritti civili, ecc.)» hanno subito una mutazione sociale, politica, antropologica, cosí profonda da essere diventati «soggetti attivamente impegnati nella gestione dei nuovi dispositivi di potere», il progetto egemonico che definisce ordoliberista, teso alla costruzione di un uomo nuovo, conforme su tutti i piani all’ideologia del capitalismo globalizzato.

È da qui, dalla ricerca delle cause del fenomeno, e dall’analisi delle trasformazioni del capitalismo, che l’autore sviluppa una serie di ragionamenti che lo portano, come vedremo, a ripensare la categoria marxiana di general intellect ma anche a spostare l’identificazione dei soggetti politici anticapitalistici dalla classe operaia dei paesi sviluppati, incarnanti il punto piú alto di contraddizione fra rapporti di produzione e forze produttive, a quegli strati sociali che vivono ai «margini del sistema», quali le masse operaie super-sfruttate dei paesi in via di sviluppo, i migranti, le classi medie precipitate «nell’inferno del terziario arretrato», i precari, i sottoccupati, in generale «gli esclusi e gli emarginati di ogni regione e di ogni settore produttivo».

E di conseguenza cambia anche la classica modalità di opposizione al capitalismo. Occorre per ciò riconsiderare il concetto di partito di classe a direzione operaia, e soprattutto accettare il fatto che «l’unica forma politica che appaia in grado oggi di unificare la galassia» dei soggetti rivoluzionari è il populismo cosí come interpretato, con diverse sfumature, nei movimenti anticapitalistici del Sud America, il che implica un evidente slittamento della contraddizione principale da quella operai versus capitalisti, a quella ben piú generica fra alto e basso. È dunque necessario riappropriarsi dell’esecrata (dai marxisti di ogni tendenza) idea di popolo, e delle forme di democrazia diretta e partecipativa, affinché l’egemonia su questo variegato arcipelago di ceti e classi «stia nelle mani di chi sta in basso e non in quelle dei ceti medi». Ma, nella misura in cui il capitale diventa sempre piú sovranazionale, il recupero della sovranità popolare non può che implicare quello corrispondente di sovranità nazionale. La lotta di classe, dato il mutamento del capitalismo classico in capitalismo globalizzato e deterritorializzato, tende oggi infatti a presentarsi 

come conflitto fra flussi globali di segni di valore, informazioni, merci e manager da un lato, territori e comunità locali che si oppongono alla colonizzazione da parte dei flussi dall’altro.1

In tal senso, «la lotta anticapitalista, nel nostro continente, passa inevitabilmente dalla lotta contro l’Europa».

Questo, a grandi linee, lo schema interpretativo. Procedendo ad analizzare il testo nella sua articolazione, evidenzieremo le parti che piú ne illustrano la pertinenza alla nostra rassegna «Marxisti antimoderni».2

 

Le quattro mosse della strategia del capitale

Per «aumentare la quota di profitti e rendite tanto sul PIL mondiale quanto su quello delle singole nazioni» la strategia del capitale si fonda su quattro punti:

la finanziarizzazione dell’economia; una rivoluzione culturale finalizzata a indurre una radicale trasformazione della mentalità individuale e collettiva; l’affossamento della democrazia rappresentativa; una ristrutturazione tecnologica in grado di modificare l’organizzazione produttiva in modo tale da annientare l’unità e la capacità di resistenza delle classi subalterne.3

Ci sembra utile soffermarci sulle argomentazioni relative al secondo e al quarto punto, che più contengono elementi di novità.

· Rivoluzione culturale (Ordoliberismo)

Seguendo le argomentazioni di due studiosi francesi, Pierre Dardot e Christian Laval,4 Formenti rileva nelle sinistre radicali l’incapacità di capire che il progetto neoliberista, con lo smantellamento

di politiche, istituzioni, pratiche, principi e valori su cui si era fondato il compromesso fra capitale e lavoro del trentennio glorioso,5

non è un impazzimento del capitalismo o il tentativo stupido, in quanto alla lunga controproducente per il sistema stesso, di tornare all’ideologia ottocentesca del laissez faire, ma un preciso progetto economico, culturale e antropologico, alla base del quale c’è l’ambizione di

cambiare l’uomo stesso, di trasformare l’individuo al punto da indurlo a percepire sé stesso come un’impresa, come capitale umano da valorizzare indefinitamente.6

Per ciò, lungi dall’essere il deleuziano soggetto desiderante, il nuovo fulcro della contraddizione fra capitale e lavoro, capace — per Deleuze e i postoperaisti —

di ergersi come potenza antagonista di fronte a un capitale ridotto a svolgere un ruolo puramente parassitario,7

il desiderio stesso ad essere inglobato nella logica del capitale, anzi a costituirne in certo senso il motore, in quanto il soggetto è indotto a interiorizzare «le nuove forme di efficienza produttiva», ossia a trasformarsi in una «sorta di prolungamento dei dispositivi di controllo del comportamento». Processo d’altra parte già teorizzato — osserviamo — quarant’anni or sono da Jean Baudrillard e da Jacques Camatte.8

La fase capitalistica attuale - prosegue Formenti - non è un puro e semplice ritorno al laissez faire; ma ha in sé la necessità di reinquadrare il ruolo dello Stato - altra incomprensione teorica della sinistra radicale: non si tratta di ricostituire gli equilibri spontanei e naturali del mercato, bensí di costruire la spontaneità tramite un sistema di diritti e sanzioni che vietino ogni ostacolo alla concorrenza e contribuiscano soprattutto a modellare un tipo umano che spontaneamente aderisca all’ideologia del capitale. Non si vuole la sparizione dello Stato ma la ridefinizione del suo compito, oggi quello di

plasmare i rapporti sociali ed economici e di formare individui adatti alle nuove logiche economiche,9

È lo Stato che deve garantire giuridicamente l’ordine culturale fondato sul diritto privato divenuto vera e propria religione, oltre ogni logica di interesse nazionale, come empiricamente dimostra la legislazione europea vietando ad esempio ogni aiuto di stato anche a settori economici strategici.

· La (contro)rivoluzione digitale

Alla ottimistica vulgata corrente secondo cui la perdita di posti di lavoro dovuta all’innovazione tecnologica sarebbe piú che compensata sia dalla creazione di nuove professioni sia dall’alleggerimento dell’uomo da lavori duri e usuranti, Formenti oppone tre argomenti. Classici i primi due, secondo cui il riallineamento statistico avviene al costo dell’espulsione irreversibile di minoranze sprofondate nel sottoproletariato da un lato, e dall’altro al costo di disuguaglianza crescenti fra strati superiori e inferiori della forza lavoro. Ci sono oggi, però, altri due elementi che smentiscono l’ottimismo: la rapidità di evoluzione delle tecnologie e il fatto che le nuove macchine intelligenti sono sempre piú in grado di svolgere mansioni anche ad elevato contenuto cognitivo, mettendo a rischio anche i ceti impiegatizi, che negli USA sono stati quelli a pagare il prezzo piú alto in termini di disoccupazione, redditi, peggioramento delle condizioni di vita. L’obbiettivo finale è quello di eliminare il piú possibile forza lavoro. Secondo uno studio del 2015 della Banca d’Inghilterra, sarebbero a rischio, in un futuro prossimo, ben quindici milioni di posti di lavoro di ogni livello, compreso quello dirigenziale. Da qui originano le richieste, ormai generalizzate da destra e da sinistra, di ovviare al dramma tramite forme di reddito universale garantito.

Sembra dunque, scrive Formenti, che il Luddismo avesse ragione anche contro Marx e i progressisti (oltre che ovviamente contro i liberali) che lo tacciarono di resistenza conservatrice e corporativa, e merita di essere rivalutato. Non sorprende perciò che gli accelerazionisti (Formenti preferisce chiamarli postoperaisti) vedano nell’innovazione tecnologia la conferma delle loro tesi sul «comunismo del capitale» e sulla possibilità che il lavoro sia semplicemente abolito.

Ma la terza rivoluzione tecnologica produce anche un’altra conseguenza che incide sull’idea di Marx che nel futuro del capitalismo la produzione di plusvalore relativo avrebbe sostituito quella di plusvalore assoluto a causa dell’aumento della produttività del lavoro da un lato e dall’altro dei limiti dettati dalla fisiologia umana all’estensione oltre un certo limite della giornata lavorativa. Non solo perché le nuove tecnologie consentono il decentramento produttivo in paesi che offrono bassi salari e turni di lavoro massacranti, ma anche perché nel centro del capitalismo si va sfrangiando sempre di piú il limite fra tempo di lavoro e tempo di vita, che tendono a coincidere fino agli esperimenti in Usa (per ora limitati al settore militare) tesi a immunizzare le persone dal fastidio fisiologico del sonno per potersi interfacciare di continuo con la Rete, che ignora ogni limite spazio-temporale. Come i capitali finanziari sono costantemente alla ricerca di valorizzazione, cosí deve essere anche per il capitale umano.

Scrive Formenti descrivendo uno scenario futuro da incubo:

Dopo aver abbattuto i confini fra Sacro e profano, naturale e culturale, meccanico e organico, e dopo aver mercificato tutte le necessità fondamentali della vita […] vedremo dunque il capitale andare all’assalto dell’ultima barriera che si oppone al suo dominio totale, quella fra sonno e veglia?10

Formenti usa il termine «Taylorismo digitale» a significare che anche

le tecnologie digitali — soprattutto il software — sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro ‹creativo› non meno di quanto la catena di montaggio riuscisse a fare nei confronti del lavoro fordista (con il non trascurabile vantaggio di provocare assai meno resistenza).11

La differenza è che il controllo diviene ora interno, una sorta di autocontrollo o autoanalisi della propria vita quotidiana che metterebbe in grado il soggetto di migliorarsi, divenire cioè piú performante, e confrontare direttamente il proprio livello con quello altrui, che diviene automaticamente un concorrente da superare.

 

Il ruolo dei movimenti politici e sociali: fra antagonismo e integrazione

Se quelle tratteggiate sopra sono le coordinate generali del capitalismo attuale, come agiscono i movimenti politici e sociali? La risposta a questa domanda evidenzia tutti i limiti della ricerca di Formenti: nel testo troviamo un elenco di forze, care alla sinistra d’antan, ma ormai residuali, mentre non si accenna a dimensioni e ragioni dello schieramento maggioritario della classe operaia americana con Trump, come di quella francese con Le Pen o quella settentrionale italiana con la Lega. Ma procediamo con qualche esempio.

· I movimenti antagonisti 

Formenti, seguendo le argomentazioni di Luc Boltanski ed Eve Chiapello,12 tenta di ricostruire le origini, la genealogia culturale e l’evoluzione dei movimenti nati intorno al fatidico 1968, in cui nota la convivenza contraddittoria di due tipi di opposizione al sistema, la «critica sociale» e la «critica artistica». Mentre la prima si poneva nel solco della tradizione dei sindacati e dei partiti operai, semmai denunciandone l’approdo al riformismo e la rinuncia all’uguaglianza sociale, la seconda era orientata da una domanda di libertà ed «autenticità».

La prevalenza del secondo tipo di critica si spiegherebbe non solo e non tanto con l’origine di classe del movimento, come pensava Pasolini, ma con la combinazione di piú elementi.

L’innalzamento del livello medio di istruzione e

la cultura antiautoritaria dei giovani studenti in rivolta contro le gerarchie accademiche, familiari e di genere, cioè contro ogni forma di paternalismo e di patriarcato,13

acevano apparire anacronistico e intollerabile il modello organizzativo gerarchico vigente tanto nel settore privato che in quello pubblico. Di per sé, tali idee non sarebbero state incompatibili con la critica sociale, se non avessero incontrato l’ostilità e la resistenza degli apparati sindacali e partitici, incapaci di capire e valorizzare, accogliendole, quelle energie; ciò che li fece apparire come «emblemi di una cultura non meno conservatrice e oppressiva di quella di destra».

Quando cade il muro di Berlino e con esso l’ultimo, seppure ormai screditato, riferimento possibile ad un’alternativa di sistema,

la mutazione antropologica avviatasi nel 1968 appare del tutto compiuta, nel senso che una larga maggioranza dei rivoluzionari di vent’anni prima si sono trasformati in adepti del credo neoliberale: le culture giovanili degli anni Settanta, con le loro pratiche di fuga volontaria dal lavoro salariato, sono prima passate — nella seconda metà degli anni ottanta— attraverso l’adesione alle narrazioni sul ruolo progressivo del lavoro autonomo, per approdare infine all’esaltazione neoliberista dell’individuo «imprenditore di sé stesso».14

Inevitabile che le generazioni successive fossero destinate a percepire come di destra tutto ciò che si oppone ai desideri individuali, sdoganati come «norma di condotta di sinistra». Tutto ciò che si richiama ai concetti di autorità e comunità, compreso il comunismo reale, viene percepito come di destra e oppressivo, ma ciò comporta l’abbandono definitivo

della critica sociale e delle richieste di uguaglianza economica e di sicurezza sociale per le fasce sociali piú deboli,15

quando esse possano contrapporsi

alle rivendicazioni di autonomia e creatività individuali, di riconoscimento meritocratico e di emancipazione da tutti i vincoli burocratici e gerarchici.16

Contemporaneamente anche il modello organizzativo d’impresa da rigido, gerarchico e autoritario, cangiava in cooperativo, responsabilizzante le persone, fautore di stili di vita liberalizzati. Per Formenti:

Il capitalismo non si è adattato alla cultura sessantottina, né l’ha manipolata per trasformarla in uno strumento di seduzione nei confronti della nuova forza lavoro, l’ha piuttosto integrata a un punto tale da renderla tutt’uno con i propri dispositivi di funzionamento, controllo e dominio.17

L’integrazione capitalistica della cultura antiautoritaria e libertaria dei movimenti antagonisti, fa propendere Onofrio Romano18, e Formenti mi sembra condividerlo, per l’uso del termine orizzontalismo piuttosto che liberismo, piú completo nel descrivere il capitalismo attuale. Il rifiuto di ogni ordine gerarchico, la mistica dei diritti come potere incondizionato su se stessi (e quindi la concezione individualistica del soggetto) caratterizzano tanto il capitalismo quanto i movimenti, che per questo non rappresentano alcuna alternativa al liberismo. Fra di essi, Formenti si sofferma sul

· Femminismo di regime

Dopo aver sottolineato come anche dal mondo femminile si levano voci che negano il mito di un femminile ontologicamente orientato alla pace, alla non violenza, alla non discriminazione, alla cooperazione ed anche alla sorellanza oltre le discriminazioni di classe, Formenti si pone alcune domande: 1) tutto il femminismo è divenuto alleato oggettivo del neoliberismo? 2) È vero che il femminismo è stato una rivoluzione mancata? 3) I fattori personali in politica, valorizzati dal femminismo, hanno spinto verso la società intimista in cui il conflitto politico assume i connotati del conflitto fra personalità? 4) La nozione del personale come politico usata per decostruire la frattura pubblico-privato ed evidenziare il potere sessuato, ha avuto come esito l’incapacità di creare un sé collettivo in modo tale che politica e conoscenza rimangono sempre ancorate all’esperienza personale?

Domande a cui Formenti risponde con un secco sí, «se parliamo del femminismo maggioritario, ma anche di larghi strati del femminismo accademico». In tal senso né il femminismo dell’uguaglianza inteso come piena attuazione dei principi formali della borghesia progressista (libertà, uguaglianza e fratellanza), né quello della differenza che intende liberare la donna non piú attraverso la contestazione dei rapporti sociali ma attraverso l’azione sull’ordine simbolico, preoccupano minimamente il capitalismo, cosí che lottare per i diritti delle donne è diventato non solo socialmente ammissibile nonché politicamente corretto, ma «parte integrante dei dispositivi di dominio del sistema neoliberale». Formenti discute però anche di un altro femminismo, che ha mantenuto legami col marxismo. Come quello di Andrea Ines D’Atri, la cui critica al femminismo si appunta sulla «mancata saldatura fra lotta al patriarcato e lotta al capitalismo», o come Nancy Fraser, che richiamandosi ai già citati Boltanski e Chiapello, sostiene che la discriminazione di genere non è un fattore meramente culturale, antropologico, ma affonda le sue radici nell’organizzazione capitalistica del lavoro. Dimenticandolo, anche questo femminismo avrebbe perduto la capacità di tenere insieme a critica sociale e quella artistica.

· Ecologismo

I movimenti ecologisti «sono movimenti single issue» concentrati su un’unica tematica ambientale mentre la composizione sociale è costituita da soggetti istruiti di classe medio alta. Poco interessati ai temi sociali, sono fortemente influenzati dai valori del femminismo, e dai paradigmi teorici «di cultural gender studies». Nel momento in cui non pensano che il capitalismo vada rovesciato ma lo si possa cambiare a partire da sé, essi non sono antisistema. In tal modo però, rimuovono le cause dei danni ecologici, ossia

il fatto che viviamo in un mondo in cui gli interessi di politica, tecnologia e finanza sono talmente integrati che solo una rivoluzione - comunque la si voglia e possa immaginare- può rovesciare i rapporti di forza che hanno determinato l’interminabile sequenza di fallimenti dei vertici mondiali sull’ambiente.19

 

Operaismo e postoperaismo

La crescita del general intellett, l’insieme delle conoscenze scientifiche e tecnologiche accumulate dall’individuo sociale [...], è il fattore decisivo su cui Marx fonda la convinzione che nella società capitalistica possano svilupparsi elementi di socialismo20

Per Negri da ciò discende che «le forze produttive […] sviluppate dal capitale siano neutre»,21 e su tale presupposto individua già il comunismo negli sviluppi estremi del capitalismo, e quindi intende accelerarne tutti i processi, al termine dei quali la questione si ridurrebbe semplicemente alla loro gestione rivoluzionaria da parte del potere politico.

Tuttavia le rivoluzioni tecnologiche successive alla prima, quella del tempo in cui Marx elaborava la sua teoria, hanno dimostrato che non esistono forze produttive, né strumenti tecnologici neutri, ossia indipendenti dall’ambiente

complesso che incorpora nella propria costituzione materiale, nella propria forma e nelle proprie funzionalità un complesso di dispositivi di comando e controllo in grado di selezionare comportamenti, conoscenze ed attitudini individuali e di gruppo.22

Una società postcapitalistica dovrebbe trasformare radicalmente, e non semplicemente ereditarlo, l’apparato produttivo e, ove non fosse possibile, sostituirlo con tecnologie del tutto nuove. In altri termini, il tipo di sviluppo dipende dai rapporti di produzione. Quindi

1) il capitalismo non contiene

un principio immanente che lo guida inesorabilmente verso la sua negazione/superamento, che coinciderebbe col raggiungimento di un livello di sviluppo delle forze produttive incompatibile con l’attuale modo di produzione,23

2) Non è vero che si possa separare l’attuale sviluppo tecnologico dal capitalismo ed usarlo, ridisegnato, per scopi altri che non siano quelli del capitale.

3) Non è vero che

le nuove forme di lavoro immateriale liberano le potenzialità creative degli individui permettendo loro di esprimere liberamente la propria personalità.24

Queste negazioni smentiscono il credo del postoperaismo accelerazionista di cui Toni Negri è uno dei piú noti esponenti. Quelle di Negri e compagni sono teorizzazioni che non solo stanno in un orizzonte concettuale simile a quello dell’anarcocapitalismo (smaterializzazione della moneta permessa dalle tecnologie come chance per liberare il mercato sia dal controllo statale sia da quello delle grandi corporation), ma a causa della fede mistica nella tecnologia finiscono per fondersi con le filosofie del transumanesimo o del postumano. Nate fra gli intellettuali della Silicon Valley, esse implicano una mutazione antropologica profondissima in cui si realizzi una commistione fra corpo (hardware) e mente (software). Sono in definitiva pseudo religioni gnostiche, in cui il corpo finisce per essere considerato una prigione da cui emanciparsi attraverso la tecnologia per realizzare la promessa di immortalità umana e di felicità e ricchezza illimitata per tutti. Un’umanità, per ciò, disincarnata e ridotta «allo stato di pura informazione».

Se in Marx la questione del rapporto fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione presenta elementi di contraddizione non risolti (nel Capitolo VI inedito scrive infatti che anche il lavoro cooperativo è solo un modo particolare di esistenza del capitale), il postoperaismo supera di slancio queste incertezze presupponendo un sociale che genera autonomamente ricchezza che, come pensava Proudhon, viene rubata dal capitalismo. Ma, proprio secondo Marx, «la produzione in quanto tale è già presieduta dalla ricerca del profitto», ossia è già produzione specificamente capitalistica.

Formenti si chiede cosa rimane, nei postoperaisti, dei concetti espressi oltre cinquant’anni or sono nell’opera fondamentale dell’operaismo italiano, Operai e capitale, di Mario Tronti.

Secondo l’operaismo classico

1) esiste una stretta relazione fra le trasformazioni dell’organizzazione produttiva del capitale, la sua composizione tecnica, e gli orientamenti strategici dei vari strati di classe (composizione politica);

2) le lotte operaie sono il motore dello sviluppo capitalistico, ovvero

lo sviluppo è il prodotto della reazione del capitale alla resistenza operaia allo sfruttamento, dal che segue che la composizione tecnica segue la composizione politica;25

3) l’operaio massa, figura egemone del modo di produzione fordista rappresenta il soggetto che esprime, nelle sue lotte, l’immediata politicità dei comportamenti del lavoro vivo;

4) Il compito del partito non è tanto quello di trasformare la coscienza spontanea della classe (tradunionista) in coscienza socialista, ma di organizzare tatticamente la strategia rivoluzionaria spontanea degli operai.

Nel postoperaismo, di tutto ciò resta la forma, ma quasi nulla della sostanza. Sparisce la distinzione fra composizione politica e tecnica, traducendosi direttamente quest’ultima in composizione politica (operaio sociale, lavoro terziarizzato, lavoro immateriale, cognitivo etc.). La determinazione dello sviluppo capitalistico da parte delle lotte operaie viene distorta fino a proclamare l’autodissoluzione del capitale stesso, divenuto mero «contenitore formale di un processo produttivo sempre piú socializzato e autogovernato», rimuovendo sia la funzione di comando del capitale sul lavoro vivo, sia l’incorporazione della stessa funzione nel nuovo sistema a rete, che produce esso stesso il tipo di soggetto lavorativo. Infine, attraverso, la categoria di moltitudine è il concetto stesso di composizione di classe a svanire, «rimpiazzato da una visione del corpo sociale come sommatoria di singolarità deleuziane». Il soggetto, o meglio la sua vita «messa al lavoro» sarebbe per la sua sola esistenza in antagonismo col capitale. Di fronte al declino dell’operaio fordista classico, il postoperaismo immagina una nuova operaità sociale e le attribuisce le prerogative dell’operaio fordista. Ma trascura, o semplicemente attribuisce ad un difetto di interpretazione del fenomeno, il fatto che, lungi dal rappresentare la nuova avanguardia di classe, nei nuovi soggetti emersi col capitalismo postfordista, l’autonomia operaia si è convertita in lavoro autonomo, e l’autovalorizzazione in autoimprenditorialità.

L’analisi di classe e della sua composizione necessita dunque, per Formenti, di nuove categorie interpretative, a partire dalla smentita del mito «del ruolo rivoluzionario dei lavoratori autonomi e cognitivi».

 

Dentro e fuori

Inizia cosí a delinearsi un quadro complessivo, fulcro del quale sono a) la negazione del concetto di «fine della storia», e b)l’emergere di un Dentro e di un Fuori rispetto allo sviluppo capitalistico. Riguardo alla fine della storia, scrive Formenti, vanno negate entrambe le versioni di destra e di sinistra. Di destra in quanto conferma dell’insuperabilità del modo di produzione capitalistico, di sinistra in quanto l’attuale sarebbe 

l’esito terminale di un processo evolutivo che porterebbe il capitale a negare sé stesso, rendendo possibile una transizione al comunismo praticabile per linee interne.26

L’Impero negriano sarebbe l’espressione massima e insuperabile di tale esito; dominando esso l’intero globo, la sovranità non sarebbe piú frammentata fra diverse entità statali, ridotte a semplici articolazioni amministrative, ma concentrata in quella imperiale. Perciò non dovremmo piú parlare di guerre ma solo di operazioni di polizia internazionale, e non ci sarebbero piú

soggettività rivoluzionarie esterne al rapporto di capitale ma solo forze evolutive immanenti a tale rapporto.27

L’evoluzione in corso smentisce l’assunto di Negri: la guerra torna ad essere guerra nel senso tradizionale del termine, ossia conflitti diretti (o indiretti, combattuti per conto) fra Stati per il controllo di territori, come in Ucraina, Siria e Libia.

D’altro canto, siamo sempre piú obbligati a riflettere sulla questione dei confini e sulle resistenze sempre piú forti alla libertà dei flussi migratori. L’Europa, oggetto della rivendicazione da parte delle masse in migrazione di «una quota delle risorse di cui l’imperialismo europeo le sta depredando da secoli»28 si mostra «incapace» di gestire tali flussi «col metodo della governance, filtrando e regolamentando gli accessi in base alle esigenze del mercato internazionale della forza lavoro»29 e passa alla risposta militare (muri, esercito, aree territoriali in cui tornano a vigere le regole dello stato d’eccezione, ecc.).

Sulla questione, Formenti, osserva che

i processi di globalizzazione finanziaria, tecnologico-comunicativa e politico-istituzionale hanno ridisegnato i confini, i quali assumono l’aspetto d’una pelle di leopardo: il conflitto non è piú solo fra aree regionali, o solo fra nord e sud del mondo: diviene un conflitto fra spazio dei flussi e spazio dei luoghi, fra uno spazio dei flussi che coincide con le metropoli del mondo e le immense periferie degli esclusi che le assediano.30

Esclusi e periferie che sono il fuori, un fuori però anche interno al centro del capitalismo e che fa concludere31 a Formenti che:

1) Il capitalismo non può riprodursi senza aggredire ininterrottamente tutto ciò — risorse naturali, società, culture, forme di vita, relazioni umane, comunità, idee, conoscenze, ecc. — che sta fuori dai suoi confini; 2) questa spinta alla colonizzazione non si esercita solo contro il fuori geografico ma anche — e sempre di piú — contro il fuori antropologico e culturale che sopravvive all’interno delle aree integrate nel sistema capitalistico.32

Cambia la forma del conflitto globale, non i protagonisti: da un lato l’insieme delle persone oppresse e sfruttate dal capitale, dall’altro l’insieme globale di questo capitale.33

 

Elogio dell’arretratezza

Entriamo con ciò nel vivo dei motivi per cui, con quest’ultimo libro, Formenti può in qualche modo essere catalogato fra quelli che abbiamo definito Marxisti antimoderni. Intanto registriamo il riconoscimento del fatto che alcune forme di produzioni precedenti il capitalismo, segnatamente le comunità rurali andine o quella russa (Obscina), erano «non solo precapitalistiche ma anche anticapitalistiche». Precapitalistiche nel senso che erano società comunitarie ai cui membri risultava incomprensibile il concetto di proprietà privata, cosí come l’attribuzione alla terra di un valore astratto scambiabile «contro una ricchezza simbolica». Anticapitalistiche perché queste forme sociali hanno sempre tentato di resistere al tentativo di farle evolvere, anche con la forza, verso forme di produzione moderne e di trasformare quei contadini in piccoli proprietari o fittavoli, o come in URSS in operai agricoli. Non si trattava di residui feudali destinati a lasciare il passo al capitalismo, ma «autonomi modi di vita dominanti». Per usare le parole del vicepresidente boliviano Linera, erano

una forma di socializzazione fra le persone e la natura, un modo di produrre la ricchezza come di concettualizzarla, di rappresentare i beni materiali come di consumarli, una tecnologia produttiva come una religione, una forma di individualità commisurata al comune, un modo di commercializzare il prodotto ma anche di preservarlo per usi personali, una visione del mondo, in definitiva una modalità di umanizzazione antitetica a quella del capitale.34

Per Formenti, se il marxismo avesse dato continuità all’intuizione del Marx degli anni settanta dell’ottocento che, influenzato dai populisti russi, non escludeva affatto la possibilità che la comunità rurale russa potesse evolversi verso forme di socialismo vero e proprio senza passare dalle forche caudine del capitalismo, si sarebbe aperta «la possibilità della loro continuità in forme nuove». Anche la resistenza contadina alla collettivizzazione forzata in URSS non fu «manifestazione di conservatorismo piccolo borghese, ma conservatorismo di significato».

Non si tratta però di tessere l’elogio dell’arretratezza, bensí, anziché inseguire il capitale sul terreno dell’innovazione tecnologica e della modernizzazione delle relazioni sociali,35 di

valorizzare l’apporto di idee, valori, comportamenti, sistemi di relazione e pratiche che vengono da fuori (non solo come altrove geografico ma anche come sfera delle forme di vita non compiutamente colonizzate che vivono negli anfratti delle società capitalistiche),36

ossia

valorizzare le relazioni comunitarie concepite come alternative alle relazioni astrattamente sociali fra individui. Un tema tabú per la cultura di sinistra, che associa il pensiero comunitario all’ideologia di destra.37

 

Il populismo

Se fra le mosse strategiche del capitalismo c’è l’affossamento della democrazia in quanto spazio del compromesso fra capitale e lavoro e come perdita di sovranità popolare, se la contraddizione principale a cui dà luogo tende a spostarsi da quella fra capitale e lavoro a quella fra alto e basso o dentro e fuori, se la società liberal/liberista produce un deficit «d’identità, di appartenenza, di legame e solidarietà sociale e collettiva», diventa allora consequenziale che l’opposizione al sistema si esprima come populismo, ossia come tentativo di unificare la disomogeneità del terreno sociale di cui si compongono il fuori o il basso. Il populismo è etichettato dalla sinistra tradizionale come movimento di destra per i temi che agita (comunitarismo, identità culturale ed anche sovranità nazionale), ma per Formenti questi stessi temi possono essere declinati anche con modalità di sinistra. Populismo di destra e di sinistra, in sostanza, agiscono sullo stesso terreno, mettono in luce gli stessi conflitti, offrendo però risposte diverse.

Tralascio di riferire, per forza di cose, il racconto e l’analisi delle esperienze populiste concrete di sinistra sudamericane, ed anche delle loro contraddizioni e difficoltà che purtuttavia indicano, secondo Formenti, la possibilità di un’alternativa alla globalizzazione capitalistica; anche a costo, scrive, di apparire antimoderni, conservatori o addirittura reazionari agli occhi di quella sinistra che illudendosi di depurare la globalizzazione dai suoi effetti negativi ne esalta quelli positivi in termini di progresso civile, liberalizzazione dei costumi ecc.

Prima di concludere è necessario, perché esemplificativo, riferire il pensiero di Formenti sulle ultime vicende presidenziali in USA. Bernie Sanders ha sbagliato nell’accodarsi alla Clinton perché cosí ha, in nome di un’opposizione ideologica al trumpismo, rinunciato di fatto alle sue posizioni. Avrebbe dovuto, invece, tentare di recuperare la base sociale di Trump rilanciando il suo programma a chiamandosi fuori dalla competizione.

Ritornerò piú avanti sulla debolezza di queste posizioni che si ostinano a ragionare ancora con le categorie di destra e sinistra.

 

Qualche primo rilievo

Un lavoro, quello di Formenti, che apre, senza tuttavia addentrarvisi, ad un ripensamento peraltro ormai piú che maturo. Presentiamo qui qualche osservazione; su una di queste tornerò in chiusura perché comune con l’altro autore che poi passeremo a esaminare.

· Sul populismo

Non si può non notare, prima di tutto, l’assenza di qualsiasi riferimento ad uno studioso marxista, Costanzo Preve, che al tema, ed a quello collegato del Comunitarismo, dedicò piú libri.38 Il fatto è, a mio parere, che Preve aveva rinunciato definitivamente ad ogni distinzione fra destra e sinistra, categorie che considerava obsolete e incapaci, se mai lo siano state, di dare conto delle contraddizioni che attraversano il capitalismo globalizzato. Anche dal punto di vista storico la sinistra è stata sempre espressione della borghesia illuminata, ossia della sua parte piú moderna e piú capace di aderire al carattere rivoluzionario del capitale, non solo sul terreno economico ma anche su quello culturale e antropologico.39

Del resto alcune aree comuniste-rivoluzionarie si sono sempre rifiutate di identificarsi nella categoria di sinistra, necessariamente equivoca per la sua storia e i suoi sbocchi. Insistervi significa necessariamente aderire ai suoi dogmi laicisti e relativisti, costringendo a sofistici e inconsistenti distinguo: sulla definizione di identità culturale e sessuale, sul razzismo, sul significato dei termini progresso civile e diritti, sul fenomeno religioso, e cosí via.

Formenti, quando accetta il rischio di essere accusato di oscurantismo reazionario, ne sembra in qualche modo consapevole, ma non ne trae le conclusioni logiche. Rimane, per cosí dire, paralizzato in mezzo al guado.

Stessa cosa si può osservare anche per l’altrettanto significativa assenza di qualsiasi riferimento alla Russia di Putin. Eppure, dal punto di vista culturale e politico, è proprio la Russia a costituire oggi l’alternativa piú forte e piú credibile all’ordoliberismo.40 Accanto a politiche tese a limitare le divaricazioni economiche insite nell’economia capitalista (come è anche quella russa), Putin difende le tradizioni culturali del suo popolo alleandosi strettamente con la Chiesa Ortodossa, insiste sull’identità e sulla sovranità nazionali ma è alieno dal nazionalismo aggressivo; in sintesi, contro il progetto del capitalismo ordoliberista di forgiare un essere umano a propria immagine, Putin intende difendere e anzi valorizzare, su ogni piano, i tratti culturali, umani e sociali, tradizionali, e proprio per questo è stato accusato di oscurantismo dalla grande maggioranza della sinistra; ed anche da parte di quella parte nettamente minoritaria che non si è associata al coro, le riserve non mancano.

· Su femminismo, sessismo, patriarcato

Quando Formenti discute di questi concetti41 anch’egli, come in genere tutta la sinistra, manca di definire compiutamente il concetto di patriarcato, considerato genericamente come categoria socioeconomica e quindi assimilabile di volta in volta a quello di potere maschile, di sessismo, di divisione sessuale del lavoro etc.; ma ciò da luogo ad alcune evidenti contraddizioni e confusioni.

Se, come scrive, anche per lui capitalismo e patriarcato sono concetti scindibili al punto che il capitalismo può benissimo essere antipatriarcale come oggi è effettivamente, e se, d’altra parte, la lotta al mai ben definito patriarcato fonda ogni femminismo, allora anche quello marxista di Nancy Fraser e Ines D’Atri, cade in contraddizione con sé stesso. Dal momento in cui il patriarcato precede largamente, per comune ammissione, l’emergere del modo di produzione capitalistico, non ha senso alcuno la critica al femminismo maggioritario come «mancata saldatura fra lotta al patriarcato e lotta al capitalismo» (D’Atri), o sostenere che la discriminazione di genere affonda le sue radici nell’organizzazione capitalistica del lavoro (Fraser). La discriminazione di genere la precederebbe largamente. Anzi, intendendo come discriminatorio ogni riconoscimento della differenza sessuale (e quindi anche dell’organizzazione sociale concreta che da essa non può prescindere), sarebbe proprio il capitalismo ad aver inferto alla discriminazione il colpo piú duro. In effetti, se concordiamo sul fatto che la logica profonda del capitale è solo nel profitto e nella sua valorizzazione, questi tratta ogni altra istanza (di genere, religiosa, etica, morale) secondo convenienza, assumendola o rigettandola in ogni periodo storico in funzione della funzionalità alla sua logica. Siamo quindi in presenza di una contraddizione irrisolvibile se non mettendo in discussione sia il significato del termine patriarcato, sia quello di discriminazione sessista che si intreccerebbe con quella di classe, ad essa sovrapponendosi, cosí che il proletario maschio sarebbe sí discriminato, ma a sua volta discriminerebbe la proletaria femmina, istituendosi fra i due una gerarchia di oppressi. Tutto il capitolo sul femminismo è d’altra parte attraversato da ambivalenze, come quando accredita l’opinione diffusa dai media mainstream che le donne, a parità di lavoro, sarebbero retribuite meno degli uomini.42 Ma sono, queste, riflessioni ancora lontane dall’orizzonte culturale della sinistra, anche di quella, com’è per Formenti, critica sugli esiti antropologici e culturali del neoliberismo orizzontalista.

· Sulla critica «artistica» al capitalismo e le resistenze delle organizzazioni operaie

Chi ha vissuto quel periodo può testimoniare che quello che scrive Formenti sulla diffidenza delle organizzazioni operaie (partito e sindacati) e sulla loro resistenza alle istanze di libertà personale e autenticità dei giovani sessantottini è senza dubbio vero. Ma a distanza di ormai quasi cinquant’anni non si può non osservare che al di là delle critiche ideologiche al PCI e alla CGIL, quella diffidenza non era ingiustificata. Dietro le parole d’ordine sull’unità fra studenti e operai, dietro l’affermata volontà di rovesciare il sistema, l’autorità, la gerarchia, era già possibile leggere una sorta di anarchismo individualista, non già la richiesta di un’organizzazione autenticamente rivoluzionaria che non scivolasse nel riformismo socialdemocratico, ammesso che fosse possibile. Del resto, ciò che non avvenne nell’immediato è poi accaduto nel tempo, ad abundantiam. Partito e sindacato sono stati via via sempre piú permeati da quelle istanze di tipo, per usare il linguaggio di Boltanski e Chiapello, artistico, fino ad esserne colonizzati completamente, come dimostrano le loro attuali posizioni sui cosí detti diritti civili, che altro non esprimono se non le istanze individualistiche del soggetto desiderante. La narrazione dei due autori attribuisce alle istanze artistiche cosí come si esprimevano una valenza positiva, ma, posto che i motivi di disagio erano reali e quelle energie generose, la critica dovrebbe vertere proprio sulla forma che allora presero e che, come vedremo, rese possibile il suo uso da parte del capitale. Ne deduco, come nel caso del femminismo, che critica sociale e critica «artistica» si elidono a vicenda. Quest’ultima, raccontata da Boltanski e Chiapello in termini di libertà personale e rifiuto di ogni ordine gerarchico riferito sia alle relazioni fra persone sia a quello fra principi e valori, non è affatto una critica alla filosofia del capitale, ma solo ad una sua manifestazione contingente, e si risolve intrinsecamente, infine, nell’invito pressante ad esplicare fino in fondo il suo begriff. Non può esistere autentica libertà senza limiti che la definiscano e questi sono sempre limiti sociali fondati su concezioni antropologiche condivise ma soprattutto fondate sull’ontologia dell’essere umano. È il capitale che li vuole sovvertire.

· Dentro e fuori

Formenti critica le concezioni secondo le quali la fuoriuscita dal capitalismo potrebbe avvenire a partire da un mutamento soggettivo nello stile di vita e nei costumi. Quand’anche si tenti di esportarlo su un piano collettivo (ad esempio il Commercio equo e solidale), questo tentativo sarebbe destinato a fallire perché privo di un orizzonte, un progetto politico complessivo, l’unico che può agire sul piano decisivo del determinismo sociale. Questa critica contiene un aspetto di verità, ma ne trascura un altro altrettanto importante. Quando individua un dentro e un fuori intendendo con quest’ultimo termine le masse degli esclusi, tanto interne che esterne ai paesi capitalistici sviluppati, dimentica che nessun progetto anticapitalistico può avere speranze di successo se anche chi sta fuori pensa e agisce come fosse una particella di capitale. Tuttavia non esiste alcuna condizione di classe oggettiva o ontologica che garantisca automaticamente dalla colonizzazione delle menti e del modo di pensare/pensarsi degli esseri umani che finiscono per identificarsi coi suoi paradigmi antropologici. Proprio Formenti, insieme a Tronti, concorda sul fatto che una delle cause del fallimento delle rivoluzioni del Novecento è stata proprio l’aver inseguito la modernità capitalistica e l’aver pensato di condurre la guerra sul suo terreno. Terreno, oggi lo vediamo con chiarezza, che non è solo economico-politico, ma prima di tutto antropologico e culturale, com’è ovvio che sia e proprio in forza del legame complesso e bidirezionale fra struttura e sovrastruttura. Se lo si riconosce, allora le parole di Camatte sulla necessità di «abbandonare questo mondo», acquistano un senso che non è quello di ritirarsi a vivere materialmente in eremitaggio. Evocano piuttosto Ernst Jünger, che ne Il trattato del ribelle (Adelphi 1990), perorava il «passaggio al bosco», una condizione interiore di estraneità alla società tecnologico-industriale, sia pure abitandoci, anche nelle sue metropoli piú mostruose, anche dovendo, in nome del principio di realtà, conviverci.43 Cosí come l’estraneità soggettiva non basta senza che sia organizzata politicamente, cosí la sola organizzazione politica delle istanze di chi sta materialmente fuori non è sufficiente se quel fuori non è anche e soprattutto interiore, cioè senza dare concretezza soggettiva in senso psichico, culturale e per quanto possibile anche concreto e relazionale, al concetto di «abbandono di questo mondo». Quando Camatte dice «io non ho nemici», non disconosce la dinamica delle classi e il dominio oppressivo di alcune su altre, e nemmeno teorizza il pacifismo assoluto. Intende dire soltanto che se le classi e le loro dinamiche conflittuali nelle diverse forme storiche assunte nel tempo hanno origine nel fenomeno capitale; per evidenziare le contraddizioni che genera e per uscire dal suo dominio che prevede e ingloba anche la lotta di classe, occorre provare a vivere come se ne fossimo già fuori. Ciò ha ovviamente un prezzo, ma si pone al polo esattamente opposto al soggetto desiderante (anche nella sua versione collettiva o di classe) che abbiamo visto essere in definitiva il carburante antropologico che alimenta il meccanismo sociale del capitale. Il problema complesso è, semmai, come fare ad organizzare l’estraneità, ma questa rimane condizione necessaria. Non basta essere fuori materialmente se prima non lo si è anche antropologicamente e psichicamente, appunto come le antiche comunità rurali andine o russe. Fra le cause del fallimento dei tentativi novecenteschi c’è anche questo deficit; lo stesso è accaduto a quelle esperienze comunitarie nate in occidente a cavallo fra gli anni sessanta e settanta del XX secolo come alternative ai rapporti capitalistici, spesso degenerate fino a riproporne amplificati i meccanismi oppressivi e repressivi in una gigantesca e apparentemente inspiegabile eterogenesi dei fini.

In generale, ciò che mi sembra manchi o non siano sufficientemente approfondite, sono le implicazioni ultime sul piano culturale in generale, ed antropologico in particolare, del totalitarismo ordoliberista che pure Formenti critica. Che ne è, nel nuovo soggetto plasmato dal capitale, delle credenze religiose, delle norme morali da queste veicolate, del concetto di natura umana e del tipo di relazioni intersoggettive che vi sono connesse? Devono essere combattute come eterne manifestazioni dell’oscurantismo religioso, oppure recuperate in un quadro di socialità comunitaria? Su questo Formenti glissa, anche quando discute del rapporto struttura-sovrastruttura per criticare il meccanicismo del marxismo volgare e il suo rovesciamento, operato da Dardot e Laval: per loro il ‹giuridico› non è solo una sovrastruttura che esprime od ostacola l’economico, ma è parte, «fin da subito» dei rapporti di produzione, fino ad affermare che

la forma del capitalismo e i meccanismi della crisi sono l’effetto contingente di alcune regole giuridiche e non la conseguenza necessaria delle leggi dell’accumulazione capitalistica.44

Formenti critica questo rovesciamento, abbracciando piuttosto le tesi di Lukács per il quale

nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva […] né uno sviluppo storico privo di leggi e irripetibile, né un dominio meccanico «per legge» dell’economico astratto puro.45

Benissimo, ma torna allora la domanda: tutto ciò di cui il capitalismo ordoliberista si è disfatto, usi, costumi, credenze, che evidentemente non gli sono consustanziali, dovrà essere recuperato, e in che forma, in una futura società comunista, o non ce ne sarà alcun bisogno? Quando il vicepresidente boliviano Linera parla nei termini che abbiamo visto delle comunità rurali andine come forme autonome di concettualizzazione del mondo antitetiche a quelle del capitale, in esse è compreso il modo di produrre ma anche i rapporti sociali, il rapporto con gli oggetti ma anche quello fra persone codificato in specifiche forme giuridiche, ed infine il rapporto col cosmo in un intreccio inscindibile fra ciò che Marx definisce struttura e sovrastruttura. Credo che l’elogio dell’arretratezza, benvenuto quando riguarda il modo di produrre e di consumare, non possa non comprendere anche il modo di pensare con quel che ne consegue in termini di concezioni antropologiche, anche in una futura società comunista.

Ed ancora, qual’è la vera causa della degenerazione della sinistra (marxista e non) in quello che Del Noce definí radicalismo di massa? Detto in altri termini, davvero si sarebbe potuto tenere insieme critica sociale e critica artistica, o invece le culture antiautoritarie sessantottine rappresentavano già le istanze di un capitalismo ormai insofferente di ogni limite, anche di quelli della vecchia borghesia, e quindi la critica artistica era destinata inevitabilmente a soppiantare la prima? Del Noce individuava la causa della degenerazione nel cuore della filosofia marxista, nel suo ateismo razionalista, nel rifiuto di ammettere l’esistenza di una verità che trascende l’uomo, e cercò di dimostrarlo con argomenti filosofici di non poco conto. Si può concordare o meno, naturalmente, ma non si può rifuggire dal problema.

 

Il libro di Escudero (Alexis Escudero, La riproduzione artificiale dell’umano, Ortica Editrice, Aprilia 2016.)

Alexis Escudero è un giovane studioso che vive in Francia, partecipando attivamente ai movimenti di critica alle tecnologie;46 il libro che presentiamo brevemente è stato edito per la prima volta in Francia, nel 2014.

A rigore, non so se Escudero possa essere definito marxista, ma sicuramente si sente di sinistra e anticapitalista. Le ragioni per cui parliamo del suo libro in abbinamento a quello di Formenti, sono di triplice ordine, e vanno al di là della diversità di spessore teorico dei due lavori, l’uno che intende entrare anche nel merito di alcune concezioni teoriche del marxismo, l’altro che invece è un brillante e graffiante pamphlet contro il politicamente corretto imperante nel campo della sinistra. La prima è che il libro di Escudero approfondisce un tema lasciato un po’ in ombra da Formenti, per precisione i riflessi del neoliberismo capitalista sulla concezione dell’umano, la concezione totalitaria che sottende e le sue conseguenze di tipo antropologico ma anche concreto. La seconda è che entrambi dirigono i loro strali polemici contro il progressismo in generale, ma anche contro la sinistra sedicente antagonista, diventata il principale veicolo di penetrazione dell’ideologia del capitale nelle classi popolari. Entrambi tessono l’elogio dell’arretratezza intesa come rifiuto del progresso a prescindere dal suo impatto sulla terra e sulle persone. Infine, i due lavori sono accomunati, non casualmente, da una reticenza significativa.

Escudero capisce bene che non esiste soluzione di continuità fra riproduzione artificiale, manipolazione genetica, eugenismo scientifico, artificializzazione del vivente, transumanesimo, medicalizzazione di ogni aspetto della vita da un lato, e le rivendicazione del «matrimonio per tutti» e annessi corollari di diritto per tutti alla PMA (Procreazione Medicalmente Assistita), compresi coppie o individui omo e transessuali, dall’altro. Gli è chiaro che confondere l’uguaglianza con l’identità, come puntualmente fanno femministe, sinistra liberal e radicale, non solo significa sdoganare il progetto totalitario del neoliberismo che maschera la ricerca dell’identico e dell’omologazione sotto la foglia di fico della tolleranza e del valore delle differenze, ma anche, in realtà, incentivare oltre ogni limite le disuguaglianze sociali fra ricchi e poveri. La sua inequivocabile parola d’ordine è «PMA per nessuno», tanto che certe sue pagine potrebbero essere state scritte da un cattolico integralista, e non sono casuali i suoi riferimenti a Ivan Illich.

Esiste un circolo vizioso per cui la tecnologia capitalistica, responsabile dell’avvelenamento della terra che è causa della crescente infertilità, soprattutto ma non solo maschile, si propone, appunto con la PMA, anche come rimedio del male da essa stessa causato. E lo fa introducendo nel circuito commerciale, quindi nella valorizzazione del capitale e delle occasioni di immensi profitti, campi dai quali era sempre stato escluso come, appunto, quello della nascita e della casualità nel succedersi delle generazioni.

Il capitalismo, argomenta, si è sempre espanso non solo tramite lo sfruttamento del lavoro, ma anche, come sostiene il geografo marxista americano David Harvey (tornano qui le idee di Rosa Luxemburg) tramite spossessamento. Scrive Escudero:

L’idea è semplice: per assicurarsi nuovi mercati e nuovi sbocchi il capitalismo spossessa gli uomini e le comunità di tutti i beni di cui disponevano fino ad allora gratuitamente e se ne appropria. Li trasforma allora sia in merce che in capitale. Tutto quello che era gratuito diventa a pagamento e fonte di profitto: l’acqua, le foreste, le terre comunali, i fiumi o ancora le culture popolari.47

Colonizzato l’intero globo terracqueo, e in attesa di espandersi su altri mondi e pianeti, «la riproduzione umana è, ora, il suo nuovo terreno di gioco». «Mutilati dalla loro capacità di riprodursi, gli umani sono costretti a pagare per avere dei figli».

 

Costumi della tribú

Dopo un’impressionante viaggio nelle cliniche della riproduzione artificiale, con annessi procedure e protocolli, problematiche legali, complicazioni internazionali, costi pubblicitari e tariffe commerciali fra le quali l’inevitabile diversificazione di costi, razzista in sé ma dettata dalle leggi dello scambio commerciale, a seconda che si scelga come donatrice, per esempio, una donna indiana piuttosto che di tipo caucasico, Escudero passa ad esaminare le tre diverse posizioni in materia della tribú della sinistra.

1) Un’accettata ed entusiastica adesione al mercato dell’umano

Costoro sono, in genere, esponenti della «sinistra culturale che si è costituita sulle macerie del dopo ’68». Escudero cita Pierre Bergè, multimilionario attivista LGBT e azionista di Le Monde e di Le Nouvel Observateur, per il quale non esiste differenza fra «affittare la propria pancia per fare un bambino o affittare le proprie braccia per lavorare in fabbrica», la giurista femminista Marcella Iacub per la quale l’utero in affitto da un lato libererebbe le donne dalla schiavitú della maternità per potersi consacrare alla carriera, e dall’altro inventerebbe un nuovo mestiere (partorire per altre donne) con indubbi vantaggi in termini di PIL e crescita economica, e il direttore del Centro Nazionale di Ricerca Scientifica, Ruwen Ogien, ispiratore del partito Socialista e di ministri quali Najat Vallaud Belkacem, fautrice della distruzione di ciò che si oppone alle devastazioni della mercificazione (famiglia, barriere morali, idea di dignità). Per lei il fenomeno della mercificazione del proprio corpo «è il piú coerente e il piú promettente dal punto di vista delle sfide politiche e morali della bioetica». Questi personaggi hanno almeno il pregio della franchezza, esprimendo le loro idee in modo crudo, e nel gioco delle parti hanno il compito di preparare il terreno facendo risaltare la moderazione dei dirigenti dei partiti di sinistra, l’elettorato dei quali non è ancora pronto ad accettare novità sconvolgenti. Moderazione che consiste in qualche distinguo, ma nella sostanziale accettabilità circa l’impostazione dei problemi, se non altro per «individuare un certo numero di false certezze e di posizioni morali, alla fine, poco progressiste» come ebbe modo di dire la stessa Najat Vallaud.

2) Denunciare la mercificazione per farla accadere

Qui entriamo nel pieno clima orwelliano del «doppio pensiero» ove si oscilla fra falsa coscienza, allorché si credono contemporaneamente valide opinioni che si annullano a vicenda, e mistificazione volontaria del linguaggio. Accade infatti che il commercio del corpo venga presentato come gesto di altruismo, di generosità interessata, addirittura si parla di «etica del dono», come la solita Vallaud che in contributo a Terra Nova, il think thank del Partito Socialista scrive:

Riflesso di una società consumista dove ogni relazione è per natura commerciale, specchio di una società individualista, gli oppositori alla GPA [Gestazione Per Altri. (N.d.A.)] ignorano soprattutto la parte di umanità e di libertà eminente che risiede indubbiamente in questo atto di generosità […] Tra i difensori di una GPA gratuita e strettamente controllata […] si trovano persone responsabili che non scherzano con la mercificazione del corpo umano e ancor meno con la dignità umana.48

La realtà, oppone Escudero, è che sostenere la GPA e la PMA significa

sostenere il commercio degli ovuli e dello sperma, lo sfruttamento delle donne del terzo mondo e in definitiva il principio maestro del capitalismo secondo cui tutto si vende e tutto si compra.49

Dietro il rifiuto apparente della commercializzazione, è proprio ad essa che si mira, come fa René Frydman, membro della Commissione nazionale consultiva dei diritti dell’uomo, che su Le Monde del 27 novembre 2006 ebbe a scrivere

Senza cadere nella posizione ultraliberale che prospera a Cipro o in alcuni paesi dell’Est, dove possiamo veder svilupparsi una forma di commercio del corpo umano su catalogo, dobbiamo uscire dal sacrosanto principio della gratuità del dono d’ovocita.50

Insomma, chiosa Escudero, egli milita per la remunerazione del dono.

3) Silenzio e vigliaccheria

Sono queste le prerogative in materia della «sinistra della sinistra», che rivendica di essere antiliberale ma che, timorosa di essere associata alla destra reazionaria, tace e si allea alla sinistra liberale. Per essa il timore della deriva commerciale nasconde concezioni reazionarie e di destra, e giammai la sinistra vorrebbe essere confusa con la reazione. Ma il fatto è che proprio per questa paura, «la destra cattolica ha ormai il campo libero per invadere questi territori abbandonati dalla critica». Sul senso di questa frase torneremo nel commento finale.

 

Dal bestiame animale a quello umano

Le tecnologie liberalcapitaliste procedono dalla riproduzione dei bovini a quella che Escudero definisce «riproduzione del bestiame umano», usando e perfezionando tecniche inventate per gli animali con, alla fine, lo stesso scopo di selezione genetica per migliorare il soggetto e standardizzare le mandrie in base a criteri di produttività industriale, ed a scapito della diversità delle razze. Per gli uomini è la stessa cosa, e già oggi i donatori di sperma sono attentamente selezionati in base a diversi criteri che ne assicurino una buona competitività sul mercato (età, stato civile, titolo di studio, QI, professione, caratteristiche fisiche) ed ammessi dopo un attento studio sulla qualità dello sperma. Cyros Bank, la banca danese leader mondiale nello sperma business, ad esempio, dal 2011 non accetta piú lo sperma di uomini coi capelli rossi, poco appetiti dal mercato. Tuttavia questa selezione, nonostante protocolli e visite, non mette al riparo da rischi, ad esempio di malformazioni dalla nascita. Ed allora si punta ad ammettere il test genetico dei riproduttori umani, esattamente come per gli animali. Ma ancora non basta, perché il vero obbiettivo è la diagnosi sugli embrioni e la loro selezione, in modo da offrire alle coppie o ai singoli clienti il prodotto migliore o quello piú corrispondente ai loro desideri.

Siamo già, dunque, in pieno eugenismo, non quello imposto dallo Stato nazista o quello ancora rudimentale della Svezia. Nel capitalismo liberale il miglioramento della specie sarà liberale, democratico, deciso in piena autonomia. E pazienza se qualche cliente sconsiderato desidererà un figlio con qualche stranezza o handicap: anche questo è un diritto di libertà; scrive il bioetico Nicholas Agar,

gli eugenisti autoritari sopprimevano le libertà ordinarie di procreazione. I liberali, al contrario, propongono di estendere radicalmente queste stesse libertà.51

È solo perché, come sostiene Laurent Segalà, abbiamo alle spalle duemila anni di cultura giudaico-cristiana che ci scandalizziamo ancora di fronte alla libertà e i desideri soggettivi. È certo, tuttavia, che la stragrande maggioranza si adeguerà alle norme sociali, economiche ed estetiche alla moda. Anzi, di fronte alla prospettiva di poter avere un figlio perfetto, chi oserà piú procreare in modo naturale?

In questa discussione non poteva mancare l’evocazione della libertà femminile; come l’aborto deve essere un diritto insindacabile, cosí per il bioetico americano J. Hughes, altrettanta libertà dovrebbe essere concessa alla donna nella scelta del tipo di bambino. Libertà che per certe femministe comprende, come per gli oggetti, quella di distruggerlo. Alcune di costoro riunite nel Collectif, riporta Escudero, riflettendo nel 2009 sull’infanticidio, scrivono che il bambino «esiste solo se la donna che lo porta lo fa esistere come tale», ma se non lo vuole diventa

un guaio, un problema, una catastrofe, ma non un bambino. La donna in tal caso non è madre, non uccide un bambino, risolve un problema.52

«Qui si vede - chiosa Escudero - che l’espressione ‹liberal-libertaria› non è una parola vana».

Nonostante gli avvertimenti di un filosofo niente affatto reazionario come Jurgen Habermas, per il quale la determinazione da parte dei genitori del genoma del loro futuro bambino è contraria alla sua libertà e genera una inuguaglianza di fatto all’interno della comunità umana fra chi esercita tale determinazione e chi la subisce, già oggi, per il Consiglio di Stato francese l’eugenismo liberale può essere accettato come «risultato collettivo di una somma di decisioni individuali convergenti».

 

Uguaglianza versus identità

Messa da parte ogni attenzione all’uguaglianza tradizionalmente intesa in senso economico, e data per questo come scontata la perdita della rappresentanza politica delle classi popolari, la sinistra si è ormai avviata a un altro tipo di uguaglianza che, in quanto centrato su quelli che, a mio avviso travisandone il senso, chiama «valori», finisce per sconfinare in richiesta di omologazione biologica. Si legge nel già citato pensatoio socialista Terra Nova

La ricomposizione della sinistra in corso si fa sui valori […] La nuova sinistra ha il volto della Francia di domani: piú giovane, piú femminile, piú varia, piú istruita, piú urbana. […] è unificata da valori culturali, vuole il cambiamento, è tollerante, aperta, solidale, ottimista, offensiva.53

Di questo mutamento valoriale fa parte il sostegno entusiasta al matrimonio gay come simbolo, appunto di uguaglianza, che tuttavia nasconde altro, come dice anche Jean-Claude Michéa. E cioè il desiderio di destabilizzare tutto ciò che ancora si oppone alla mercificazione di ogni rapporto, e in specie della famiglia nell’ambito della quale prevale ancora la logica del dono piuttosto che quella dello scambio commerciale.

Dietro il «belato ugualitario» si difende in realtà l’uniformazione biologica degli individui e l’emancipazione politica cangia in ode al transumanesimo.

Gli uomini nascono diversi, è una constatazione elementare, e l’uguaglianza, sostiene Escudero, è sempre stata il frutto di una volontà politica che intende, nella vita pubblica, prescindere dalle differenze biologiche. Cyberfemministe, transumanisti, filosofi postmoderni, «ossessionati dall’idea che ogni differenza è necessariamente disuguaglianza» vogliono abolire la prima approdando all’identità attraverso l’arma delle biotecnologie. Ovviamente, la madre di ogni differenza biologica da eliminare è quella fra uomo e donna. Ed ecco allora i farmaci per ritardare la menopausa, ecco la maternità a sessant’anni e oltre, ecco l’utero artificiale che, combinato con le tecniche di fecondazione, consentirà a coppie omosessuali o maschi singoli, di avere un figlio senza l’intervento fisico di una donna (cosí come può fare la donna con la fecondazione in vitro, senza l’intervento fisico maschile).

L’ossessione per l’uguaglianza intesa come identità, non può non portare all’odio per i corpi e per la carne, e in ultima analisi per la natura, che quei corpi genera. E non può non spingere verso l’emancipazione da quelle prigioni, ossia verso il transumanesimo, ma non riduce affatto le disuguaglianze sociali e di ricchezza in forza delle quali ci sarà sempre chi potrà permettersi di accedere alle nuove tecnologie e chi ne sarà escluso.

In verità tutto ciò non è cosa nuova, scrive Escudero. Già il manicheismo, religione gnostica del terzo secolo D.C., e successivamente il catarismo, sostennero che la materia, uomo compreso, è una creazione del male. L’uomo, per liberare la propria anima e raggiungere le sue origini divine, deve liberarsene attraverso un ascetismo estremo che lo porti ad annientare la sua corporalità.

Odio per la carne, per lo strofinamento dei corpi. Odio e rifiuto di tutto ciò che ci radica nel mondo fisico.54

Il corpo è vissuto come una prigione da cui conviene liberarsi grazie alla tecnologia. In questo sogno convolano post-femministe e transumanisti, presto seguiti da tutto il gregge progressista.55

L’ideale, il sogno dei transumanisti, è un corpo virtuale, in cui la parte biologica perderà importanza. Leggiamo su Digital Journal56 che

in effetti abbiamo bisogno di un corpo, la nostra intelligenza è diretta verso un corpo, ma quest’ultimo non ha bisogno di essere questo corpo biologico cosí fragile, che è vittima di ogni sorta d’incapacità.57

Cosí, scrive Escudero,

Ridotto allo stato di bit, di 1 e di 0, un umano non ha piú sesso, genere, razza. […] non ha piú nessun difetto, né handicap, né malattie. Eccolo emancipato dalle costrizioni naturali che pesavano su di lui e asservito alle costrizioni tecnologiche che lui stesso si è dato.58

Dalle tecniche di fecondazioni artificiale al transumanesimo non esiste soluzione di continuità, come capisce Silvia Agacinski che scrive a proposito dell’utero artificiale:

dietro tutto ciò si profila l’idea che il carnale, sempre associato al femminile, sia inferiore, e che il progresso consista nell’eliminare questa dimensione del corpo. Alla fine, sotto aspetti molto avanguardisti, quest’idea raggiunge il vecchio sogno cristiano di disincarnazione e di mascolinizzazione dell’umanità,59

che Escudero chiosa limitandosi a correggere cristiano con manicheo, ma non sottolineando il fatto che tanto poco il Dio cristiano vuole la disincarnazione da essersi incarnato in un corpo umano, e di essere voluto nascere da un corpo di donna.

 

I cattolici e la famiglia

Per meglio chiarire le posizioni complessive ed il contesto culturale in cui agisce Escudero, concludiamo riportando qualche passaggio del dialogo col «Collettivo Resistenze al nanomondo», che si trova in appendice al libro. La prima domanda entra subito nel merito dei rapporti coi cattolici, evocando il rischio di venire associato ad aree cattoliche, di destra, omofobe. La risposta di Escudero, che si dichiara libertario e luddista, mira a prendere le distanze da quest’area e tracciare confini precisi.

le nostre posizioni su altri argomenti fondamentali sono inconciliabili: aborto, uguaglianza uomo-donna, libertà di scegliere e di vivere la propria sessualità, rifiuto di subordinare le nostre scelte politiche alla religione. Io non critico la riproduzione artificiale nel nome di un ordine naturale fantasticato o del rispetto della creazione divina ma per anticapitalismo. Critico le devastazioni inflitte ai nostri corpi, alle nostre vite e al pianeta da parte di un sistema economico alienante, iniquo e distruttivo. Su queste questioni la Manif pour tous non mi seguirà mai, dato che si leva contro la mercificazione dell’umano soltanto quando riguarda gli omosessuali [cosa che a me non risulta. (N.d.A)]60

Del resto, già nel corpo del libro aveva espresso, usando il termine ahimè, tutto il suo rammarico per il fatto che a guidare la marcia contro il matrimonio per tutti fosse l’omofobo arcivescovo di Parigi.

Ancora, dopo aver tenuto a precisare di non essere contro il femminismo in quanto tale, ma solo contro certe deviazioni dal suo scopo originario, l’uguaglianza fra uomini e donne, Escudero viene interrogato sulla famiglia. Dapprima dà ragione all’interlocutore nell’ammettere che la famiglia è

il luogo delle violenze e degli stupri coniugali, delle disuguaglianze nella suddivisione delle faccende domestiche, dell’educazione differenziata fra ragazzi e ragazze,61

poi però deve ammettere che fino ad ora non si è trovata una valida alternativa e che in Occidente costituisce ancora «uno scudo contro l’atomizzazione e la precarietà degli individui in seno al capitalismo».

 

Qualche osservazione critica

Valgono per Escudero molte osservazioni già fatte per Formenti, sia pure scontando i diversi obbiettivi dei due libri. Accanto alla durissima condanna di queste sinistre, tutte, persistono confusione e indeterminatezza circa i concetti di patriarcato, di sessismo, di potere maschile etc., il cui significato è dato per acquisito ma mai spiegato, e sono considerati termini intercambiabili. E dire che, se avesse davvero letto Ivan Illich, a cui si richiama piú volte, avrebbe dovuto aver chiare le differenze, ed avrebbe dovuto sapere che proprio nel capitalismo il cosí detto sessismo può ripresentarsi rovesciato.

Escudero, giustamente, insiste poi moltissimo sulla naturalità delle differenze e si oppone all’omologazione voluta dal capitalismo, ma non ne trae conclusione alcuna in termini di analisi, ad esempio, della cosí detta divisione sessuale del lavoro che avrebbe da sempre discriminato le donne. La biologia, quindi la natura, stabilisce una differenza fra i corpi sessuati maschili e femminili. Questa differenza deve o meno riflettersi anche concretamente nella vita sociale? Se lo deve, come si fa a sostenere l’eterna discriminazione patriarcale di ogni civiltà passata? La differenza di compiti e attribuzioni fra maschi e femmine, sempre riscontrabile quantunque non identica dappertutto, ma sempre accompagnata da un carico di obblighi e aspettative sociali ben diversi, non potrebbe semplicemente essere il riflesso di quella diversità data in natura e delle difficoltà ambientali di vario genere che l’umanità ha dovuto affrontare per sopravvivere? Si può sostenere, certamente, che ci sono stati eccessi, che la politica in mano maschile troppo poco ha fatto per mitigarli; scendiamo allora nel concreto, nel reale, discutiamo, ma non si può affermare, dandolo per scontato, che sia stata il frutto di sessismo patriarcale. E se al contrario la differenza sessuale non deve riflettersi in modo alcuno nella vita sociale, per cui compito della politica e delle tecnologie dovrebbe essere quello di eliminarla, dove sta lo scandalo delle PMA, GPA, matrimoni omosessuali, selezione degli embrioni, ecc.? È quello che si sta facendo, anzi che sta facendo il capitalismo. Stesso discorso vale per la famiglia. Stupri coniugali a parte, perfetta banalità perché se non ci fosse famiglia ci sarebbe stupro ma non coniugale, a parte ancora dare lo stesso peso alla violenza e alla divisione dei lavori domestici come se gli uomini fossero fannulloni, il che mi sembra un errore in tutti i sensi, che senso ha reclamare un’educazione identica per ragazzi e ragazze, che la biologia ha voluto diversi? Non si tratta, ovviamente, di educare gli uni al dominio e le altre alla sottomissione, ma trovare il modo affinché ragazze e ragazzi crescano in sintonia con sé stessi. Altrimenti perché polemizzare con i costruttivisti per i quali ogni differenza è solo culturale, e quindi ingiusta e da eliminare con l’educazione?

Escudero critica la riproduzione artificiale, ma rifiuta l’esistenza di ogni ordine naturale che sarebbe, dice, fantasticato. La critica perché infligge devastazioni ai corpi e alle vite di tutti noi. Ma se i corpi non sono il frutto di un ordine naturale che trascende la volontà umana, e da questo ricavano la loro intangibilità, come si può parlare di devastazione e non semplicemente di mutamenti migliorativi della natura consentiti dalla tecnica e dal capitalismo, come fanno i transumanisti? Capisco si possa sostenere che non di miglioramenti si tratta ma di peggioramenti, ma allora delle due l’una. O quell’ordine esiste ed è buono, oppure è soltanto questione di tecniche imperfette.

· Sull’omofobia

In diversi passaggi del suo libro, Escudero accredita senz’altro la convinzione che la maggioranza dei cattolici di Manif pour tous siano omofobi, ma non chiarisce cosa significa quel termine.

Anche se non tutti i manifestanti sono omofobi, molti di quelli che protestano contro il matrimonio, l’adozione omosessuale, la PMA o la GPA sfilano in realtà contro l’omosessualità62

Ora, prescindendo dai giudizi morali, è necessario chiarire una cosa importante. Tutte le società, da sempre, hanno normato il matrimonio fra uomo e donna perché potenzialmente fecondo; ossia perché è sempre stato interesse sociale, oltre che della prole, che i figli avessero un padre e una madre come natura vuole, in un ordinato succedersi delle generazioni. Gli interessi economici (patrimonio, eredità etc.) sono solo un corollario, ma mai lo scopo principale dell’istituzione, tanto che anche le società piú tolleranti verso l’omosessualità non si sono mai sognate di regolarla giuridicamente, lasciando quel tipo di unioni alle libere scelte degli individui. La richiesta del cosí detto matrimonio per tutti, stravolge totalmente questo criterio. In ottica di interesse sociale, se il fondamento del matrimonio risiedesse solo nel sentimento non ci sarebbe nessun bisogno di normarlo, se fosse solo un’obbligazione patrimoniale sarebbe sufficiente un contratto fra privati. Ne consegue che la richiesta di matrimonio omosessuale è un non senso e l’opposizione ad esso si spiega benissimo senza ricorrere alla categoria dell’omofobia. La morale non c’entra, e d’altra parte nessuno, neanche nell’oscurantista Russia, intende impedire la convivenza fra persone dello stesso sesso adulte e consenzienti. La richiesta di matrimonio per tutti ha perciò solo lo scopo, simbolico e perciò concretissimo, di rendere forzatamente identico ciò che non lo è, né in natura né dal punto di vista dell’interesse sociale, con ricadute importanti ed a quel punto necessitate, in termini di adozioni, accesso alla PMA ecc. Se è giusto vietare la PMA a tutti, e per me lo è perché un figlio non è un diritto, è altrettanto giusto vietare il matrimonio omosessuale perché unione intrinsecamente diversa da quella fra uomo e donna, indipendentemente dal giudizio morale che se ne possa dare. L’omofobia non c’entra nulla. Far propria, come fa Escudero, l’opinione dei progressisti, dei movimenti omosessuali e LGBT, significa in ultima analisi confondere le cose, come fa quando, nella risposta sulla famiglia di cui ho già discusso, accenna a diverse tipologie di famiglia che superino l’unica fino ad oggi conosciuta.

· Vade retro, Cristo!

Un’altra analogia con Formenti è, come abbiamo visto, la preoccupazione costante in tutto il libro di prendere le distanze dalla destra omofoba e reazionaria, in specie cattolica. Poiché il socialcomunismo conquistato dai massoni e divenuto «sinistra», come spiega J. C. Michéa,63 si è posto come antagonista principale del Cristianesimo, c’è da capire il terrore che li invade al pensiero di esserne accomunati; da qui i contorcimenti dialettici e i distinguo sofistici, da qui, in Escudero, la sottolineatura del suo disaccordo coi cattolici sull’aborto, come se anch’esso non rappresentasse lo sdoganamento dei desideri individuali elevati a diritti insindacabili anche a costo di negare, fra di essi, il primo e fondamentale, quello di vivere. Da qui, alla fine, quella comune omissione con Formenti, di cui parlavo all’inizio, gravida di conseguenze.

 

L’Omissione

I due libri sono, come già detto, pregevoli sotto molti aspetti. Mettono in rilievo il pericolo della mutazione antropologica perseguita dal capitale, il progetto totalitario e antidemocratico di cui quella mutazione è parte fondante e che ci restituirebbe un’umanità manipolata ed asservita anche mentalmente alle sue logiche. Inchiodano la sinistra tutta alla responsabilità di aver rinunciato alla critica sociale ed essere diventata il veicolo culturale e politico per mezzo del quale trasferire al popolo quelle logiche, ma non hanno il coraggio di pronunciare una verità troppo indigesta.

Sulla questione antropologica, sull’attacco della modernità tecnocapitalstica alla vita per risucchiarla nel circuito commerciale della riproduzione allargata del capitale, la destra reazionaria, la chiesa oscurantista, il cristianesimo tradizionalista, hanno pienamente ragione. Ma non solo. Sono gli unici coerenti, che hanno scorto da subito quelle derive che solo pochi a sinistra e in area marxista, molto isolati, ora denunciano con giusta veemenza. Non si tratta solo di rivendicare una primazia, che sarebbe cosa un po’ meschina. Si tratta invece di aver chiaro che la posta in gioco è enorme, consistendo nelle basi antropologiche elementari su cui si fonda ogni società umana, prima ancora delle sue forme sociali. Quelle questioni hanno una valenza non isolabile in sé stessa e trattabile separatamente dalla questione sociale. Nessuna resistenza all’erosione dei diritti collettivi è possibile, nessuna giustizia sociale è concepibile, se non comprende, anzi se non inizia dal tener fuori la vita, il suo divenire generazione dopo generazione, dal terreno degli interessi economici e del profitto, salvaguardandola come bene prezioso e irrinunciabile, costi quel che costi. Tutto il resto viene dopo in quanto a ordine gerarchico, comprese le contraddizioni e le aporie che anche dalla parte di quelle forze che per prime hanno viste i pericoli non mancano. Anzi, proprio per stimolarle a superarle, necessitano di aiuto, che sarebbe prezioso, anche da parte di chi, situato in un campo tradizionalmente loro opposto, ha tuttavia altrettanto afferrato il nocciolo della questione.

Si tratta di un solo passo, ma decisivo. Lo si faccia, infine, con coraggio. E presto, prima che anche quelle forze, inopinatamente, si adeguino allo spirito del tempo. Se ne vedono già i segnali.


Note
1 Ivi.
2 Vedi www.ilcovile.it/marxisti.htm.
3 Ibidem, p. 14.
4 Pierre Dardot, Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.
5 Carlo Formenti, cit., p. 30.
6 Ibidem, p. 33.
7 Ivi.
8 Di Camatte vedi Il capitale totale e altri lavori con Gianni Collu, allorché ripresero il concetto marxiano di antropomorfosi del capitale, e di conseguenza sottolinearono l’incapacità del marxismo ufficiale a spiegare il suo divenire e il suo costituirsi in comunità materiale.
9 Ibidem, p. 32.
10 Ibidem, p. 55.
11 Ibidem, p. 57.
12 Luc Boltanski, Eve Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014.
13 C.F., cit., p. 86.
14 Ivi.
15 Ibidem, p. 87.
16 Ivi.
17 Ibidem, p. 92.
18 Onofrio Romano, The Sociology of Knowledge in a Time of Crisis. Challenging the Phantom of Liberty, Routledge, New York and London 2014.
19 Ibidem, p. 112.
20 Ibidem, p. 130.
21 Ivi.
22 Ibidem, p. 131.
23 Ibidem, p. 134.
24 Ibidem, p. 135.
25 Ibidem, p. 139.
26 Carlo Formenti, cit., p. 178.
27 Ivi.
28 Ibidem, p. 185.
29 Ivi.
30 Ivi.
31 Mi vedo costretto a sorvolare sulla pure importante dissertazione sulle tesi di Rosa Luxemburg circa la spinta inevitabile del capitalismo all’espansione e alla colonizzazione.
32 Ibidem, p. 193.
33Ivi.
34 A. G. Linera, La potencia plebeya. Accion colectiva e identitades indigenas, obreras e populares en Bolivia, Clacso/Prometeo libros, 2013. Citato in Carlo Formenti, cit., p. 195.
35 Si veda, sull’«impossibilità di essere piú moderni del capitalismo», anche Mario Tronti, Dello spirito libero, Il Saggiatore, Milano 2015.
36 Carlo Formenti, c it., p. 199.
37Ivi.
38 Costanzo Preve, Il popolo al potere, il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna Editrice, 2006; ed Elogio del comunitarismo, Controcorrente, 2006.
39 Si veda «Ha ancora senso, e perché, parlare di destra e di sinistra?», Il Covile n. 863.
40 Si veda «Russia & Usa. Solo una questione geopolitica?», Il Covile, n. 832
41 Ne accenna a piú riprese, e segnatamente alle pp. 37, 43, 78 e 86.
42 Una ricerca del 2009 dell’Università Bocconi, a cui era preposta proprio una donna, smentisce questa tesi e dimostra che a parità di mansioni non esiste in pratica differenza retributiva fra i sessi. Del resto, in Italia qualsiasi contratto collettivo di lavoro che prevedesse differenze retributive secondo il sesso sarebbe illegale. Quanto alle minori chances di carriera, è evidente che è un tema del tutto diverso, con spiegazioni che attingono ad altri argomenti che non siano quelli della discriminazione, a meno che non si aderisca alle teorie costruttiviste secondo le differenze fra i sessi sono di solo ordine culturale.
43 Jünger pubblicò per la prima volta il libro nel 1951, esito di un percorso intellettuale che da cantore della potenza prometeica della tecnica moderna, condensata nella figura del’Operaio (Der Arbeiter), lo conduce a riflettere sul progressivo distacco della civiltà tecnico industriale dal mondo della natura, che nelle società tradizionali è anche quello del Sacro. Il Ribelle è, per Jünger, colui che passa al Bosco, inteso come lo spazio delle forze naturali e selvatiche in cui l’uomo può identificarsi con la sua natura piú antica e vitale, che include e fa comprendere l’esperienza della morte e della perdita, esperienza che invece angoscia e attanaglia l’uomo moderno influenzato dalle teorie materialiste, convinte che tutto finisca con la fine della vita. Per Jünger come per Camatte, sebbene da sponde culturali diverse, dunque, si tratta di ristabilire, per uscire dalla privazione e dalla paura, la continuità con la natura che vive nell’uomo. Anche per Jünger, tuttavia, il Ribelle non fugge dal mondo; sta sulla nave (il Titanic, simbolo della civiltà tecnologica dei consumi, che è un dato di realtà) ma contemporaneamente sceglie anche di passare al Bosco. Questa spinta vitale è ineliminabile ed eterna nell’uomo, anche quello prodotto dalle civiltà che piú intendono fondarsi esclusivamente sulle forze materiali. Al tempo in cui scriveva l’URSS appariva agli occhi di molti come il futuro del mondo, ma Jünger già allora ne scorgeva le contraddizioni. Se in quanto bolscevico il russo è sulla nave, questo il suo concetto, in quanto russo è nella foresta. Parole che oggi, a oltre ses-sant’anni da quando furono scritte, appaiono altamente profetiche se si pensa alla dissoluzione dell’Unione sovietica e alla rinascita spirituale del popolo russo. Ci sarebbe semmai da riflettere su chi sia, da questo punto di vista, l’Urss di oggi.
44 P. Dardot, C. Laval, cit., citato in Carlo Formenti, cit., p. 38.
45 György Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Pgreco Edizioni, Milano 2012, citato in Carlo Formenti, cit., p. 263.
46 Vedi: www.resistenzealnanomondo.org.
47 Alexis Escudero, La riproduzione artificiale dell’umano, Ortica Editrice, Aprilia 2016.
48 Ibidem, p. 84.
49 Ibidem, p. 86.
50 Ibidem, p. 87.
51 Nicholas Agar, Eugenismo liberale: per il miglioramento dell’umano, Blackwell, 2004. Citato in Alexis Escudero, cit., p. 132.
52 Alexis Escudero, cit., p. 134.
53 Ferand Olivier, Jeanbart Bruno, Prudent Romain, Gauche: quelle majorité elettorale pour 1012?, Rapport de la fondation Terra Nova, 2011. Citato in Alexis Escudero. cit., p. 158.
54 Alexis Escudero, cit., p. 188.
55 Ibidem, p. 183.
56 Vedi: John Thomas Didymus, «Google’s Ray Kurzweil: ‹Mind upload› digital immortality by 2045» in Digital Journal, 20 giugno 2013.
57 Citato in Alexis Escudero, cit., p. 190.
58 Ivi.
59 Vedi: www.marieclaire.fr/, cheri-mon-bocal-a-accouche,20161,323.asp.
60 Alexis Escudero, cit., p. 218.
61 Ivi.
62 Ibidem, p. 17.
63 Jean-Claude Michéa, I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza editore, 2015.

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