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Lo stato sociale non solo redistribuisce, ma produce ricchezza

di Alfonso Gianni

Sono volati gli stracci fra il Quirinale e palazzo Chigi a proposito del Milleproroghe. Il presidente della Repubblica in una dura nota inviata al Parlamento ha stigmatizzato il contenuto eccessivamente miscellaneo (un decreto “salsiccia” diceva a suo tempo Pietro Ingrao) del decreto Milleproroghe, la sua dubbia costituzionalità e il ricorso continuo al voto di fiducia. Il governo, seppure con toni più smorzati del solito – tanto evidenti erano gli argomenti portati da Napolitano – ha aggirato l’ostacolo con un nuovo maxiemendamento e ulteriori voti di fiducia. Non varrebbe neppure la pena di citare questo ennesimo strappo alla democrazia parlamentare operata dalla maggioranza di governo, se non per tornare su alcune norme particolarmente significative in senso negativo contenute nel provvedimento governativo.

Mi riferisco in particolare alle norme relative alla reintroduzione della cosiddetta social card, spacciata per grande misura di contrasto alla povertà. Il punto di partenza del nostro paese è uno dei più bassi. Spendiamo, per misure esplicitamente volte alla lotta alla povertà, solo lo 0,1% del reddito nazionale, quasi 13 volte in meno degli altri paesi della Ue, new entry dell’Est compresi. Eppure di poveri ne abbiamo tanti.

Stando solo alle stime sulla povertà assoluta relative al 2007 – quindi prima del dilagare della crisi economica mondiale – in Italia i poveri erano più di tre milioni. Da allora ad oggi le cose non possono che essere peggiorate, visto che in questo periodo il reddito medio procapite degli italiani è sceso del 5%.

D’altro canto, malgrado che in Europa si spenda come ho già detto molto di più che in Italia, la situazione è peggiorata anche nel resto del continente europeo, proprio in conseguenza della crisi. Tanto è vero che il Parlamento europeo, a differenza di quello italiano completamente inerte e trascinato da un voto di fiducia all’altro, ha recentemente varato una importante risoluzione per attivare politiche di contrasto alla povertà, tra le quali ne spicca una che è completamente assente nel nostro paese, ovvero l’istituzione di un reddito di base pari non superiore al 60% della retribuzione mediana di ogni singolo paese membro dell’Unione.

Se si vuole combattere la povertà è precisamente questo che bisogna fare. Non misure caritative, ma universalizzazione della protezione del reddito, ovvero una grande riforma del nostro stato sociale. E’ quindi importante che si dia corso a quella iniziativa, di cui vari proponenti si stanno facendo carico anche nel nostro paese, di raccolta di firme nei paesi della Ue per trasformare la risoluzione in direttiva, rafforzando così l’obbligo per i paesi membri di osservarla.

L’attuale maggioranza e il suo governo si muovono invece in direzione diametralmente opposta alla riforma dello stato sociale. Non si tratta solo di tagli operati alle spese che lo sostengono e che sono indispensabili al suo minimo mantenimento. E’ proprio un’altra concezione di stato e di società che viene avanti. Proprio il testo dl Milleproproghe ce lo dice con chiarezza. La social card non viene data in mano ai cittadini bisognosi, ma a enti caritativi che decidono loro chi ne ha effettivamente bisogno. Dice infatti il testo governativo: “La norma identifica come beneficiario non già il destinatario ultimo della carta, ma l’associazione che si impegna a distribuirla”. L’utilizzatore finale, in questo caso il povero, è quindi escluso da un rapporto diretto con la struttura pubblica. Questo è mediato da un “ente caritatevole”, del tipo , per intenderci, di un Pio Albergo Trivulzio - che la Milano bene, che ne ottiene i favori, chiama confidenzialmente Pat – che non si aggiunge, ma si sostituisce allo stato.

In altre parole il principio di sussidiarietà, già di per sé ricco di ambiguità, viene curvato nel suo significato più negativo, quello di sostituire le funzioni del pubblico attraverso enti di carattere privatistico. Non siamo di fronte ad una attivazione della società civile organizzata che si aggiunge alle funzioni dello stato, ma, come direbbe il premier inglese conservatore David Cameron, ad una big society che serve per continuare l’opera del neoliberismo thatcheriano di affossamento dello stato sociale.

Con quest’ultimo non sparirebbe soltanto la possibilità di fare fronte in qualche modo a quel gigantesco processo di impoverimento di massa, che coinvolge anche i cosiddetti ceti medi, ma anche di utilizzare una leva formidabile per riavviare uno sviluppo di nuovo tipo, socialmente ed ecologicamente compatibile. Solo questo ci potrà permettere di uscire senza un massacro sociale dalla più grande crisi economica dagli anni Trenta in poi.

Questo è l’elemento spesso sottovalutato in tutte le discussioni. Quando si parla di stato sociale si valorizza soltanto il suo ruolo primario di sostegno alla vita materiale dei cittadini e di applicazione dei principi, esplicitamente citati nella nostra carta costituzionale, di eguaglianza, di pari dignità, di giustizia sociale. Al welfare sono attribuiti i compiti, cioè, di quella parziale ma decisiva redistribuzione sociale della ricchezza prodotta che non può avvenire per via contrattuale diretta, data la diseguaglianza intrinseca fra chi possiede i mezzi di produzione e chi solo la propria forza lavoro, sia essa intellettuale o manuale, e il proprio tempo di vita, che con il dilagare della precarietà, è diventato esso stesso una merce.

Mentre invece viene completamente sottovalutato il ruolo che lo stato sociale ha storicamente avuto – e ancor più potrà e dovrà avere – nella produzione stessa della ricchezza. Non si tratta di un’utopia o di trovare la società comunista nelle pieghe di quella capitalista, ma di sapere leggere correttamente la storia economica e sociale del secolo che abbiamo alle spalle. Aiuta molto in questo senso il grandioso e insuperato affresco storico di Karl Polanyi sulla grande trasformazione intervenuta nel mondo capitalistico negli anni Trenta, dopo l’ascesa e la caduta della pura economia di mercato. Come pure la riconsiderazione del lavoro di lord Beveridge, l’inventore del welfare state postbellico, che portò a compimento le premesse teoriche abbondantemente presenti nella Teoria generale di Keynes. Non caso questi sono gli autori contro cui si scaglia il pensiero economico neoliberista e neoclassico.

Ma anche se più modestamente osserviamo lo sviluppo economico italiano del dopoguerra possiamo ritrovare gli stessi tratti comuni. In sostanza non avremmo avuto i cosiddetti trenta anni gloriosi del capitalismo mondiale, durante i quali, crescendo il capitale, cresceva anche la forza dei suoi antagonisti storici, in primis la classe operaia, senza un formidabile intervento pubblico diretto nell’economia e la costruzione di uno stato sociale capace di soddisfare bisogni diventati diritti esigibili dei cittadini.

Si è insomma realizzata una produzione di beni nei quali contava il valore d’uso da parte dei cittadini, per i quali veniva impiegata una rilevante quantità di spesa pubblica in funzione non ancillare nei confronti delle lacune della iniziativa privata, ma in modo potenzialmente alternativo a questa. Infatti fin da subito fu chiara la lotta tra lo spazio dell’economia pubblica e quello dell’economia privata. Per converso, con la svolta reazionaria del neoliberismo, quei rapporti vengono radicalmente capovolti. Ma se la produzione di beni, non a caso prevalentemente immateriali, che avviene all’interno delle strutture e delle istituzioni dello stato sociale, come sanità e istruzione pubbliche ad esempio, persegue non la realizzazione del profitto attraverso lo scambio di valore per avere sempre più denaro, ma la soddisfazione di diritti che si allargano irresistibilmente alla totalità della popolazione e comprendono sempre maggiori e più raffinate esigenze, si può allora correttamente parlare di un modo di produzione statuale, come ha osservato acutamente Luigi Cavallaro. Il che porta con sé anche un processo di deprezzamento del denaro, ovvero dello strumento principe di misurazione del valore di scambio nel sistema capitalistico, poiché dalla produzione scaturiscono beni fruibili collettivamente e diritti concretamente esigibili, ridimensionando drasticamente il ruolo della intermediazione monetaria. Avere scambiato tutto questo per inflazione quale nemico principale da combattere; avere trasformato il tema del pareggio del bilancio pubblico in un mantra assoluto; avere ridotto il tempo volontariamente spendibile in socialità e in libero accrescimento delle singole personalità a sostituzione di attività pubbliche, sono le armi che hanno permesso al neoliberismo di condurre la sua grande rivoluzione conservatrice. Cui ha contribuito l’insipienza teorica e la subalternità culturale della sinistra. La sua ricostruzione dipende dalla capacità di smontare definitivamente questo armamentario.

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