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lacausadellecose

La caduta del ponte e le mosche cocchiere

di Michele Castaldo

1534262244599 1534262255jpgLa domanda che l’uomo della strada si pone è: come mai cadono i ponti costruiti 50, 60 o 70 anni fa e restano in piedi quelli costruiti ben oltre 2000 anni fa? Eppure – si chiede ancora – le moderne tecnologie sono ben superiori a quelle dei millenni precedenti.

Provino, lor signori scienziati ed economisti di grido, senza cincischiare troppo, a rispondere con serietà. Non possono rispondere, perché

la domanda nasconde il vero dramma dell’umanità e cioè l’incapacità dell’uomo, come specie, di saper impostare un corretto rapporto con i mezzi di produzione e la natura, perché è totalmente preso dallo spirito di concorrenza delle merci.

Un ponte di collegamento est-ovest della città, una sorta di discesa al porto da est e ripartenza per ovest e viceversa. Un ponte costruito in cemento armato, nel cui dna è scritta la obsolescenza programmata. Cerchiamo di ragionare su due aspetti fondamentali: a) il ponte – che attraversava il torrente Polceverafu costruito in pieno boom economico, cioè in una fase di totale ubriacatura di “benessere” di cui – seppure a cascata - usufruivano tutte le classi sociali. Sicché tutti i rischi per un’opera del genere passavano in secondo piano, tanto è vero che quel ponteera chiamato (con una certa approssimazione) di Brooklyn. Si trattava di un’orrenda traversata aerea di pilastri di cemento armato su abitazioni che soltanto la foga del profitto poteva giustificare. Provino a immaginare un solo carico di materiale edile – sabbia, pozzolana, calce, cemento, ferro o altro – di un peso di 160tonnellate circa, a un’altezza di cento metri per più volte al giorno tutti i giorni, tutto il mese, tutti i mesi, tutto l’anno per oltre 50 anni. E’ da irresponsabile solo l’averlo pensato.

Chi scrive queste brevi note non è un ingegnere, o un architetto, ma ha lavorato come operaio in cantiere alcuni anni e sa che vuol dire cemento armato, per un verso, e logiche di appalti, per l’altro verso; senza voler poi considerare l’usura, il sovraccarico dei mezzi pesanti e il traffico decuplicato nel corso degli anni, dovremmo dedurne che Genova e chi ha attraversato continuamente quel ponte sono stati fin troppo fortunati ad arrivare dopo 50 anni alla tragedia del 14 agosto.

Chiediamoci: quante manifestazioni si erano svolte per evitare che il mostro volante si costruisse; e quante si sono svolte per sollecitare la sua demolizione? Nessuna, eppure tutti quelli che ci passavano si raccomandavano alla bontà del padreterno prima di attraversarlo. E’ questa la verità: l’incuria dell’uomo di rifugiarsi nel proprio individualismo e lasciar correre tutto il resto. Costruire in modo disordinato, magari sulle rive del torrente, perché fa chic,e pazienza se le abitazioni sono sovrastate da un mostro in cemento armato. E’ sicuro? Basta che non cada quando sono io in vita, per il resto si vedrà. La manutenzione? Beh qualcuno ci penserà. Può cadere? Non cade quello di Brooklyn perché dovrebbe cadere quello sul torrente Polcevera? E via di questo passo. Poi succede che crolla e allora si crea l’allarme, e le domande si sprecano: come mai, perché, di chi la colpa? Sempre di qualcun altro ovviamente, mai della nostra incuria. Vale per il crollo di Genova come per mille altri disastri prodotti dal modo d’agire dell’uomo con i mezzi di produzione. E se dei poveri scalmanati si affannano a denunciare i rischi di certe “grandi opere” c’è subito l’Angelo Panebianco di turno a rimbrottare dicendo: «ma allora siete contro il progresso e la società industriale». Anche la diga del Vajont era una grande opera di progresso industriale, come gli scoppi di cisterne nei porti o sulle autostrade, nelle industrie chimiche e metallurgiche, tutto è progresso dovuto allo sviluppo industriale, comprese le ultime due guerre mondiali e prim’ancora le aggressioni coloniali.

Negare la grandiosità cui è giunto l’uomo nel suo rapporto con i mezzi di produzione è come negare la luce del sole. Il punto non è questo, la nostra critica, di comunisti materialisti, è cheil modo di produzione capitalistico è un movimento impersonale e come tale sfugge al controllo dell’uomo e alla sua razionalità. Sicché l’alternativa non consiste nel negare la società industriale, ma nel combattere le leggi che ad essa soggiacciono. E per essere ancora più chiari diciamo che chiunque dovesse sostituire i vari gruppi dirigenti nei vari rami dell’industria o negli apparati dello stato in una singola nazione si troverebbe a gestire i rapporti con quelle leggi che regolano la società industriale a questo stadio di sviluppo. Ci appaiono pertanto ingenue, improntate alla buona volontà tutte quelle posizioni come quelle del M5S sulle nazionalizzazioni e perfino – ci si perdoni la magnanimità – dei Fratelli d’Italia, che non a caso sono abbastanza comprensivi nei confronti del governo Di Maio-Salvini, pensando magari ai bei tempi andati e alle grandi opere nazionalizzate del fascismo.

In che modo va posto il paragone – ammesso che la storia possa concedere di farlo – con il passato? Presto detto: un tempo si costruiva perché le opere durassero per tutta l’eternità, oggi si costruisce secondo il principio dell’obsolescenza programmata. Ecco spiegata la ragione per cui grandiose opere del passato reggono al passare dei secoli mentre quello che si costruisce dagli ultimi 50/60 anni in qua è a rischio decadenza programmata. Il punto in questione perciò non riguarda se costruire o meno le grandi opere, l’uomo si è da sempre cimentato e continuerà a farlo. La questione che va posta è che a questo stadio di sviluppo del movimento generale del modo di produzione capitalistico le grandi opere si caratterizzano quasi esclusivamente come fattore di accelerazione del processo di produzione e consumo delle merci (inanimate), trascinando nel loro circolo vizioso anche le merci animate, cioè gli uomini di tutte le classi sociali, seppurecon ruoli diversi di oppressori e oppressi, ma comunque complementari del vortice infernale. In tutta sincerità rabbrividiamo all’idea di cosa sarà Genova in termini di traffico e caos cittadino con la ripresa delle attività produttive, la riapertura degli uffici e dei negozi, l’attività portuale e così via, dopo le ferie di questa estate.

L'errore in cui l'uomo incorre con estrema facilità è di proporsidi fare così piuttosto che cosà, senza avvedersi che quel modo di fare obbedisce a leggi ed è impersonale (giusto per stare a Marx del Capitale), E noi comunisti, come corrente storica abbiamo pagato a carissimo prezzo la volontà di dirigere il capitalismo in modo diverso da come l'avrebbero diretto liberali e borghesi. E ancora oggi minuscoli gruppi si avventurano in ipotesi governative sempre con lo stesso spirito: riuscire a fare meglio, cioè in modo più razionale, quello che liberali e borghesi fanno in modo irrazionale, magari utilizzando gli istituti della democrazia rappresentativa. Poi finiscono nella spirale delle leggi del mercato, della concorrenza, dei prezzi ecc. e non sanno più come uscire e vengono stritolati. Purtroppo la storia è piena di questi esempi. Per essere ancora più chiaro ci esprimiamo con un esempio: un conto è essere costretti a organizzare una autogestione contro la chiusura di una fabbrica, per finire poi comunque nelle maglie del mercato, tutt'altra cosa è proporsi per la gestione dell'economia capitalistica, che ha leggi proprie di cui l'uomo è vittima più che artefice (sempre per stare a Marx).L’internazionalizzazione del mercato o la globalizzazione, che dir si voglia, cioè la circolazione delle merci non è il frutto di una mente malsana, ma la logica conseguenza cui è giunto il moto-modo di produzione capitalistico, dove la competizione non avviene sulla qualità e dunque sulla durata di un’opera, ma sulla riduzione dei costiche finiscono nelle maglie del mercato fatto di appalti e subappalti e di pescecani della finanza, di una guerra di tutti contro tutti. Come fa a reggere il cemento armato in simili meccanismi? Regge solo la pazienza popolare e lo spirito individualistico dell’uomo.

Che fare allora?

I comunisti materialisti dovrebbero innanzitutto separare le proprie responsabilità proprio da quelle leggi e sostenere la causa del proletariato in tutti i suoi aspetti sia dell'immediato che di prospettiva. E se il proletariato non si muove a maggior ragione non possiamo essere propositivi senza la sua forza d’urto. Proprio a Genova si è consumata un'esperienza che ci consegna un bilancio su cui riflettere, come quella dei camalli, cioè di una figura sociale ibrida, che alla lunga è svanita. Si trattava di una esperienza circostanziata in quegli anni ma che non è riproponibile in una fase in cui il modo di produzione capitalistico si globalizza e scatena una vera e propria guerra di concorrenza sia fra le merci inanimate che fra quelle animate, cioè i proletari.

Chi ha avuto modo di partecipare a qualche trattativa con le istituzioni sa bene che la prima cosa che chiede il funzionario governativo è: come pensate di risolvere la questione, fate una vostra proposta. A quel punto scatta immediatamente nel cervello del leader sindacale o politico la proposta. Ma una volta immesso sul terreno delle responsabilità, bisogna fare poi i conti con i costi delle leggi che il modo di produzione impone.E così anche il più brillante dei rivoluzionari finisce nelle secche del mercato e la frittata è servita. Per maggiori informazioni basta chiedere a Lenin, Trocky e Bucharin degli anni venti in Russia.

Tornando al ponte, adesso si discuterà della gronda sì, della gronda no ed essa si farà o non si farà sulla base delle necessità di accelerazione del trasporto delle merci perché il circolo vizioso-virtuoso, denaro-merce-denaro aumentato, deve essere velocizzato al massimo e Genova rischia il collasso con il ponte caduto e la gronda che non riesce a partire. Un’unica certezza abbiamo: che gronderà sangue proletario, autoctono e immigrato, sia il costo dell'abbattimento del mostro volante, che la costruzione della gronda o di essa alternativa, e i morti sul lavoro si conteranno a decine. Ed a maggior ragione l’insieme del capitalismo italiano per quel che dovrà spendere per Genova avrà bisogno degli immigrati come l’aria per respirare e Salvini potrà sbraitare quanto gli pare, ma sarà indotto a più miti consigli dalle “leggi dello Stato”, dalle “alte” cariche dello Stato, cioè dalle necessità imprescindibili per la nostra Italia di stare sul mercato come potenza europea. Basta guardare alla vicenda dell’Ilva di questo periodo, con la presa d’atto di Dio Maio: «Sull’Ilva è stato commesso un delitto perfetto. La gara è illegittima, ma non si può annullare». Poi ci saranno quelli che invocheranno la «sovranità nazionale», senza capire in che mondo viviamo.

Da comunisti materialisti difendiamo la causa del proletariato,se si mobilita, e quella del territorio,se si sviluppano mobilitazioni popolari vere, senza farci legare a logiche “concrete” di una diversa viabilità, in comitati che siconfrontino con le istituzione ecc. Una regola sola deve guidarci: l'avversione a questo sistema e la sollecitazione alla mobilitazione di massa.

In assenza di una reale mobilitazione va fatta la denuncia costante allo scopo dichiarato di separare le nostre responsabilità per i nuovi disastri che il modo di produzione capitalistico, in questa crisi, a Genova, andrà a provocare e sperare nelle mobilitazioni di massa. Saremmo perciò grilli parlanti? E' preferibile alle mosche cocchiere.

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clau
Sunday, 02 September 2018 18:19
Alla vicenda ponte Morandi , vorrei aggiungere alcune brevi considerazioni pratiche di poco conto.
Il Ponte Morandi è stato costruito eccessivamente alto e quindi più soggetto alle sollecitazioni dei forti venti che soffiano in zona. Farlo più basso era possibile, bastavano due rampe elicoidali agli estremi , come se ne vedono in gran quantità.
Non sono un tecnico del mestiere, ma rapportando l’enorme quantità di ferri usati per le fondamenta fatte decenni fa per un edificio al un unico piano, onde istallare le pompe di un acquedotto, in piazza Giusti, e i ferri che spuntano dalle enormi travi e piloni crollati, non c’è proprio alcun rapporto, quindi, o hanno esagerato a più non posso i primi, o data la mole, hanno scarseggiato e di gran lunga i secondi,.
Da articoli di stampa, risulterebbe che circa mille tir al giorno attraversassero il ponte per spostare container dal porto di Voltri a quello di Sampierdarena e viceversa, che distano meno di venti kilometri, alla faccia del caos del traffico e dell’inquinamento, mentre tutti gli altri porti usano normalmente chiatte o traghetti… Pertanto anche costoro e le autorità che glie lo hanno permesso, sono colpevoli.
Già nel 1979, il progettista, Riccardo Morandi, aveva lanciato un allarme sull’aggressione ai tiranti dei venti marini e suggeriva che gli stessi venissero protetti con resine impermeabili ad altissima efficienza. Ricoprirti col cemento, non ha rafforzati ma solo appesantito gli stessi tiranti. Inoltre il cemento offre scarsa resistenza alla trazione, lascia penetrare l’umidità e fa arrugginire i tiranti, accelerandone l’usura.
Successivamente al primo avvertimento del prof. Morandi, moltissime altre commissioni hanno suonato l’allarme al ministero delle opere pubbliche e alla società che gestisce le autostrade, ma senza alcun risultato tangibile. E’ evidente pertanto che la caduta, in fin dei conti, è stata voluta, in quanto se il logoramento è programmato, e poi se ne “dimenticano” volutamente i tempi, è ovvio che prima o poi accade il disastro.
In quanto alle privatizzazioni, ricordo che nel 1886 sono state privatizzate i vari tronconi delle ferrovie italiane, ma diciannove anni dopo, vedendo che i gestori puntavano soltanto a mungere la vacca, senza fare manutenzioni ed investimenti, per non lasciare andare la struttura in malora, nel 2005 hanno dovuto di nuovo nazionalizzale … Sarà un caso, ma le privatizzazioni fatte negli anni ‘70/90, grazie ai “nostri avveduti prenditori di puro profitto”, appoggiati dagli alterni governi, sono in gran parte fallite (vedi gran parte della vecchia industria automobilistica, industria siderurgica, azienda telefonica e banche), mentre quelli con una partecipazione pubblica (vedi industria navalmeccanica, Ansaldo, industria missilistica e degli armamenti, Eni, Enel, e così via, si sono affermate a livello mondiale, nonostante la continua opera dissolutrice dei vecchi e nuovi “boiardi” di stato.
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