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Per salvare l’Italia Monti faccia cose di sinistra

Niccolò Cavalli intervista Giorgio Lunghini

Applicando la ricetta individuata da Keynes nell’ultimo capitolo della Teoria generale, l’Italia potrebbe crescere in 5 anni del 2,5% in termini reali. Ne è convinto Giorgio Lunghini, ordinario di Economia politica all’Università di Pavia e accademico dei Lincei. Per l’economista l’azione del Governo Monti, improntata a una politica “dei due tempi”, è per definizione fallimentare: «È vero che il vincolo di bilancio è un problema reale, ma l’equità e la crescita lo sono altrettanto, anche perchè le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l’economia non cresca da almeno 10, 15 anni».

Il 6 febbraio Giorgio Lunghini, professore di Economia Politica all’Università di Pavia e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, ha tenuto con Stefano Lucarelli una conferenza sulle Teorie economiche di fronte alla crisi, terzo incontro nell’ambito delle 10 lezioni sulla crisi alla Casa della Cultura di Milano.


«La teoria economica oggi dominante - la teoria neoclassica
– si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto dell’attività umana», ha spiegato Lunghini. «Essa sembra essere riuscita in un’impresa che sinora la fisica ha mancato: la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza. Di certo, essa è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche». «Tuttavia», nota Lunghini, «un economista non deve conoscere soltanto un metodo e una sola teoria, ma deve partire dalla consapevolezza che la teoria neoclassica è solo uno tra i molti modi di guardare alla realtà economica e sociale». «Leggere i classici», continua l’economista, «non è solamente un esercizio di storia del pensiero economico, ma è l’unico modo per acquisire quegli strumenti di comprensione e di critica che la teoria mainstream non è in grado di fornire. I classici sono molto più vivi di molti degli economisti che oggi scrivono su riviste e quotidiani».
 

Professor Lunghini, in cosa consiste la teoria economica neoclassica?

Al contrario dell’economia politica a essa precedente, l’economia neoclassica considera l’individuo, e non le classi sociali, quale oggetto della propria analisi, un individuo che è caratterizzato e studiato come un essere perfettamente razionale e con una conoscenza perfetta del futuro, intento a massimizzare la propria funzione di utilità. Questo individuo si muoverà, nello spazio astratto di un mercato in cui la moneta non conta nulla, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dalle strategie degli altri individui, fino a che tale interazione non condurrà all’equilibrio.

Anche quando l’analisi neoclassica viene problematizzata, tentando di integrarla con asimmetrie informative, aspettative razionali, o distinguendo tra breve e lungo periodo, l’impostazione di base rimane quella ora descritta.
 

E che cosa c’è che non va in questa impostazione?

Il mondo neoclassico è dominato dall’armonia invece che dal conflitto, dalla razionalità invece che dall’incertezza, dall’equilibrio invece che dalla crisi: chiunque può rendersi che non si tratta affatto di una descrizione realistica della realtà in cui viviamo. È significativo che l’economia neoclassica non abbia una teoria delle crisi, ossia non preveda la crisi come possibile esito endogeno del sistema. Questo, alla luce dei fatti, dovrebbe già essere un motivo sufficiente per abbandonarla; ed è politicamente preoccupante che le ricette proposte per uscire dalla crisi non facciano altro che ispirarsi proprio alla sua filosofia, che è quella del laissez faire. Il mercato del lavoro, ad esempio, è concepito come inefficiente quando sindacati troppo potenti impongono un salario più alto di quello d’equilibrio: per la teoria neoclassica, la soluzione consiste nell’indebolire i sindacati e creare maggiore concorrenza tra i lavoratori, così da eliminare gli attriti artificiali e determinare un saggio salariale più basso, di equilibrio, in corrispondenza del quale non vi sarà disoccupazione involontaria, così che la produzione che ne risulta sarà interamente venduta. È questo l’impianto ideologico che giustifica l’idea di eliminare l’articolo 18, e diminuire le tutele ai lavoratori.


Cosa direbbero, invece, i classici?


David Ricardo era giunto, al termine di un ragionamento analitico molto rigoroso, a dimostrare una cosa che sembrerà molto semplice, ossia che se i salari sono alti, i profitti saranno bassi, e viceversa. In una società divisa in classi, il prodotto sociale non andrà tutto ai lavoratori, ma viene diviso tra i percettori di rendita, i capitalisti e i lavoratori stessi. In quest’ottica, nella sfera della distribuzione non vi è armonia, come sostiene la teoria neoclassica quando si concentra sulla “produttività marginale”, ma vi è conflitto: tra i rentiers e i capitalisti, e tra i capitalisti e i lavoratori. Piero Sraffa riprese questo punto, mostrando ineccepibilmente, e con un inconfutabile apparato matematico, che l’armonia distributiva postulata dalla teoria neoclassica non è dimostrabile: non esiste nessun livello “naturale” del salario, e non esiste nessuna configurazione “di equilibrio” nella distribuzione del prodotto sociale, poiché esso sarà distribuito, oltre che in base alle condizioni tecniche della produzione, in funzione dei rapporti di forza e delle variabili monetarie e finanziarie. Il risultato di questa critica è però stata la damnatio memoriae caduta su Sraffa e su tutto il suo lavoro.


Tra gli autori classici, lei cita anche Marx.


Marx è l’unico autore che fornisce una teoria della crisi, eppure è proprio lui a mostrare che il capitalismo potrebbe anche riprodursi senza incontrare crisi, ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare situazioni in cui i redditi sono troppo bassi per sostenere la domanda, ossia quando la distribuzione della ricchezza viene spostata dai salari ai profitti. Marx parlava in questo senso di “crisi di sovrapproduzione”; il che però non significa che “abbiamo prodotto troppo”, poiché si tratta di una sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni della società, che sono anzi spesso frustrati proprio da questo meccanismo di mercato, che lascia le parti non abbienti della popolazione in stato di privazione. L’altra condizione individuata da Marx era che moneta, banca e finanza avrebbero dovuto essere funzionali soltanto al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dare invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Se le merci non si vendono, infatti, è anche perché la ricchezza viene tesaurizzata oppure utilizzata per attività speculative. Keynes condivise con Marx quest’analisi.


Ma Keynes non era convintamente antimarxista?


Da buon liberale inglese nato nell’Ottocento lo era, certo, ma d’altronde lo stesso Marx dice di sé je ne suis pas marxiste. Il punto su cui Keynes si trovò in accordo con Marx è la critica alla teoria standard, che considera neutrale la moneta, cioè vede la moneta come un semplice mezzo per lo scambio di merci, mentre nella realtà capitalistica la moneta viene domandata di per sé stessa. Questo potrebbe essere considerato un comportamento irrazionale: perché mai detenere moneta, così rinunciando all’utilità derivante dall’acquisto di un bene oppure all’interesse fornito dall’acquisto di titoli? Solamente Paperon de’ Paperoni ama il denaro in quanto denaro! In realtà, spiega Keynes, nel mondo reale è perfettamente razionale detenere moneta in forma liquida, poiché viviamo in un mondo incerto, e la domanda di moneta tende a crescere con l’aumentare della nostra percezione di incertezza, così come tenderà in questo caso a crescere il tasso di interesse, ossia il premio che chiediamo per separarcene. Ma il tasso di interesse, unito all’incertezza circa il futuro, sono proprio le due determinanti delle scelte di investimento da parte degli imprenditori, che potranno dunque prendere decisioni non ottimali e far sì che il sistema economico in cui viviamo resti in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo. Ecco il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza; e ecco la necessità di un intervento dello Stato, se del sistema economico in cui viviamo si vogliono eliminare i difetti principali: la disoccupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito.


E come si può intervenire per eliminare questi difetti?


Nell’ultimo capitolo della Teoria generale, Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello Stato nell’economia. La ricetta keynesiana è, di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale, come la sanità o l’educazione. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, il suo compito è proprio quello di svolgere efficacemente quelle attività che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, senza sovrapporsi ad essi. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.


Come giudica in questo senso l’azione del governo?


La politica del governo è stata sino ad ora improntata a una politica dei “due tempi”: si tratta di una strategia per definizione fallimentare. Il vincolo di bilancio è un problema reale, certo, ma non è l’unico: l’equità e la crescita sono altrettanto importanti, e si doveva agire simultaneamente nei confronti di questi due aspetti – anche perché le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l’economia non cresca da almeno 10, 15 anni. Pierluigi Ciocca, che è stato il primo a parlare, già nel 2003, di un “problema di crescita dell’economia italiana”, ha di recente ha suggerito tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore, equità e crescita.


Di quali misure stiamo parlando?


Ciocca individua tre voci di spesa su cui intervenire: i trasferimenti alle imprese, che sono spesso forme d’inefficienza se non di illegalità e corruzione, e che alimentano un sistema imprenditoriale affetto da nanismo, con bassi standard tecnologici e scarsa propensione all’innovazione. Questi trasferimenti dovrebbero diminuire almeno di 2 punti percentuali. Gli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione andrebbero poi centralizzati e ridefiniti, ricontrattando i prezzi fuori mercato, riducendo complessivamente le uscite dal 6 al 9%. Infine, la spesa per il personale potrebbe diminuire circa del 10% con un parziale turnover, tenendo fermi i salari unitari. Assieme ad alcune misure a sostegno della produttività (dagli interventi per le infrastrutture e per la diminuzione della pressione fiscale alla revisione del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo) e della domanda (attraverso una spending review dei conti pubblici, per individuare le spese improduttive e tagliarle, aumentando al contempo le spese produttive), queste misure potrebbero portare ad una crescita in 5 anni del 2,5% in termini reali.


Eppure il presidente Monti ha promesso una crescita del 10% con le liberalizzazioni e ha dichiarato che, rispetto alla crisi, siamo a metà del guado
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Sarebbe utile, intanto, spiegare in quanto tempo è prevista questa crescita. In ogni caso, non si risolvono problemi strutturali con 500 notai in più e il doppio dei taxi o delle farmacie. Occorre piuttosto rendersi conto che la crisi non è affatto a metà del guado, e chiunque conosca l’andamento dell’export e della crescita ne è perfettamente consapevole. Senza contare l’occupazione, che va malissimo: è oggi all’8-9% e, facendo i conti veri, cioè conteggiando cassaintegrati, scoraggiati e inattivi, è plausibile che questa cifra possa essere stimata attorno al 12%. A questo va aggiunto che la quota di giovani disoccupati è altissima, quasi al 40%, e che, quando i giovani lavorano, sono lavoratori temporanei, precari, e sono sempre i primi a essere licenziati. Si tratta di una condizione drammatica di crisi economica e politica, che coinvolge un’intera generazione e, con essa, tutto il Paese.


Professore, ma come siamo finiti in questa situazione?


Negli ultimi anni si è avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte, la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali, la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.


Che cosa intende per “senato virtuale”?


Il “senato virtuale”, secondo una definizione che Noam Chomsky mutua da Barry Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente - poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa - in forme di populismo autoritario. Con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie.

 

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