Print Friendly, PDF & Email

Le magnifiche sorti progressive dei Supermario*

di Alfonso Gianni

Che il governo Monti da tecnico si sia ipso facto trasformato in un autorevole governo politico, dotato per di più di una certa abilità comunicativa basata sulla sobrietà – cioè l’esatto contrario della tattica usata dal precedente – è giudizio ormai largamente condiviso. D’altro canto non si tratta in sé di una novità, anche se autorevoli intellettuali credono di sì, come si desume dalla lettura del lunghissimo articolo pubblicato da Asor Rosa su il Manifesto a metà gennaio. Già il governo Dini, che subentrò al primo Berlusconi e resse le sorti del paese dal 17 gennaio del 1995 al 17 maggio dell’anno successivo, quando ebbe inizio la nuova legislatura, era formalmente un governo tecnico, poiché, seppure con la rilevante eccezione di Lamberto Dini, era composto da ministri non parlamentari. Non fu un caso che quel governo riuscì a fare cose dove altri, partiti con ben altri venti in poppa, fallirono.

Mi riferisco ovviamente in primo luogo alla radicale modifica della legislazione pensionistica, di cui si parlava da diversi lustri ma che solo il “rospo”, come era dipinto Dini nella fortunata iconografia di Il Manifesto, riuscì a condurre in porto. E forse non è affatto una casuale coincidenza che il nuovo governo Monti sia partito nella sua attività legislativa proprio dal completamento di quella riforma delle pensioni avviata sedici anni prima.

Come vedremo più oltre non si tratta dell’unica analogia che lega il governo Dini a quello attualmente in carica. In entrambi i casi tuttavia la autorevolezza e la credibilità politica del governo - particolarmente evidente sullo scenario internazionale, almeno nel caso di Monti - devono le loro ragioni a quel velo, quell’infingimento di tecnicità di cui si ammanta la sua sostanza politicamente tutt’altro che neutra.



Per tutte queste ragioni il governo Monti nasce da subito con l’intenzione di durare fino alla fine della legislatura. Le dichiarazioni dei suoi massimi protagonisti, nonchè quelle del capo dello Stato che ne è uno dei padri nobili, avendo concretissimamente operato per la destituzione di Berlusconi e per la nascita del nuovo Esecutivo, non lasciano dubbi al riguardo. La richiesta che il governo Monti facesse in fretta il “lavoro sporco” per fronteggiare l’emergenza dei mercati e poi lasciasse il più in fretta possibile spazio a elezioni anticipate e al ritorno in grande stile della politica, era fin dall’inizio ingenua o peggio poco sincera.


La proiezione politica del governo Monti

La sostanziale “politicità” del nuovo Esecutivo non si arresta all’’autorevolezza dei suoi atti istituzionali, ovvero della sua effettiva capacità di “governo”, ma trasla anche sul terreno della politica pura, ovvero dei rapporti tra le forze politiche. Senza neppure troppo nasconderlo il governo Monti allude alla creazione di un nuovo quadro politico, certamente in primo luogo alla scomposizione delle attuali alleanze di centrodestra e di centrosinistra, i cui effetti sono già molto evidenti, almeno per quanto riguarda il deciso passaggio all’opposizione della Lega. Non vi è solo una parte destruens, ma sullo sfondo si intravede anche quella construens, rappresentata dalla spinta alla creazione di un nuovo grande centro attraverso un processo rapido di rimescolamento e fusione dei maggiori partiti, o di parte rilevanti di essi, che avevano fin qui animato e guidato i due poli. In questo senso si può dire che l’attuale governo ha l’ambizione di proiettare la propria ombra al di là della fine della legislatura. Come tutte le ambizioni essa dovrà essere messa alla prova e diversi sono gli scogli che dovrebbe superare per inverarsi.

Ma non si tratta di una forzatura analitica. Questa intenzione è ben presente all’interno delle forze che sostengono il governo Monti. In una intervista giornalistica Enrico Letta, il vicesegretario del Pd, ha dichiarato che niente rimarrà come prima dopo Monti, né a destra nè a sinistra. Vi è chi si è spinto più in là, come il senatore D’Ubaldo, dello stesso partito che ha dichiarato la necessità di arrivare se non a un partito unico di centro a una “federazione strutturata” capace di raccogliere il Pd, il terzo Polo e lo stesso Pdl, ovvero una formazione che marginalizzi l’estrema destra e l’estrema sinistra e si candidi a un governo di lunga durata del paese.

Per ora il Pdl si mantiene più cauto, anzi in preda a una sorta di impasse stregico-tattica. Persino Berlusconi appare più riflessivo e meno onnipresente. Si ha cioè l’impressione che a destra, oltre che a tamponare gli effetti dell’estremizzazione populista delle posizioni leghiste, si sia piuttosto occupati a condurre una riflessione sulle prospettive strategiche, dopo la seppur fin troppo morbida caduta di Berlusconi.

Dal canto loro Casini e il Terzo Polo si godono gli effetti di una vittoria politica che non solo loro identificano nella nascita stessa del governo Monti. Come a dire che da quelle parti, la soddisfazione del presente fa per ora agio su ogni ansia per il futuro.


Si riaffaccia l’ipotesi di una riforma elettorale

La sorte del quadro politico è ovviamente intrecciata con le diverse ipotesi di riforma elettorale. La prevedibile sentenza della Corte Costituzionale ha riportato il dibattito al punto di partenza. La tesi, caldeggiata con grande energia ma scarsa forza argomentativa dal solo Di Pietro, secondo cui in ogni caso il Parlamento dovrebbe, se ne fosse capace, legiferare solo nella direzione voluta dai referendari, essendo stati questi ultimi surrogati da centinaia di migliaia di firme (anche limitandosi, come in effetti si dovrebbe, a quelle accertate dalla Cassazione, non sono poche), ossia nella direzione di una ricostituzione del “mattarellum”, non ha ovviamente fondamento alcuno.

Per quanto assurdo sia il sistema che la legge sui referendum impone, posponendo il giudizio di ammissibilità della Corte Costituzionale alla avvenuta raccolta delle firme, una volta che esso è intervenuto inibisce che si possa fare riferimento alla volontà dei firmatari di un referendum costituzionalmente illegittimo. Per quanto questo parlamento dia poco o nulla affidamento, per quanto distanti attualmente appaiano le proposte di riforma elettorale dei vari partiti, non bisogna sottovalutare né la decisa pressione che il capo dello stato ha già attuato in direzione di una modifica legislativa della legge elettorale vigente, né il possibile maturare di convenienze su alcune modifiche che per quanto minimali potrebbero comunque incontrare un certo favore popolare diffuso, quali l’introduzione di almeno una preferenza e l’innalzamento della soglia di voti necessari per fare scattare un premio di maggioranza, che in questo caso si ridurrebbe sensibilmente.

Insomma non è da escludere una correzione degli aspetti più smaccatamente e odiosamente maggioritari, quelli che hanno fatto delle camere un parlamento di nominati e messo in mano a esili maggioranze di coalizione la possibilità di moltiplicare il proprio peso parlamentare ben al di là di tutte le precedenti leggi elettorali con cui il nostro paese ha votato nel secolo scorso.

Una miniriforma di questo tipo può prendere corpo solo se nelle forze politiche maggiori prevale la spinta centrista e allo stesso tempo la realizzazione della prima sarebbe un formidabile stimolo alla implementazione della seconda. Non è un vezzo se alcuni sondaggi televisivi delle ultime settimane – come quello di La7 condotto il 19 e 20 gennaio - pongono agli intervistati la domanda sul gradimento di una eventuale coalizione elettorale formata dalle forze politiche dell’arco montiano (ossia Pdl, Pd, Psi, Terzo Polo) contrapposte a quelle riconducibili alla sinistra (Sel, Idv, Verdi e Fed) e alla Lega. Per inciso va notato che in un quadro simile – ma solo se venisse realizzato nella sua integrità, in questo senso improbabile - ogni premio di maggioranza sarebbe superfluo, poiché la coalizione di partiti che regge l’attuale governo supererebbe la maggioranza reale dei votanti.


La bonaccia e la turbolenza

Quanto finora detto sulla possibile evoluzione della situazione politica italiana poggia quindi su un presupposto, quella della tenuta e della durata del governo Monti. Bisogna quindi verificare l’attendibilità di tale presupposto. In altre parole domandarsi se questo governo ha la forza per giungere a fine legislatura e soprattutto da dove questa gli deriva.

Ricorrendo a una facile metafora metereologica si potrebbe anticipare la tesi analitica che qui si vuole sostenere. Il governo Monti gode i favori di una evidente bonaccia sul piano internazionale, soprattutto a livello delle relazioni politiche e istituzionali, malgrado che la crisi economica abbia ora, nella forma di crisi del debito sovrano, il suo epicentro in Europa e che sia sempre a rischio di un’ulteriore precipitazione, come in effetti potrebbe rapidamente avvenire nel mese di marzo se, a seguito di un non accordo sulla ristrutturazione del suo irrimborsabile debito, la Grecia dovesse andare incontro a un default tecnico, quindi uscire dall’Euro e se un simile accadimento dovesse provocare un disastroso effetto di contagio nei confronti delle altre economie e paesi più a rischio, fra cui ovviamente il nostro.

Sul piano interno invece il viaggio di Monti incontra diverse turbolenze. Queste si sviluppano essenzialmente a livello sociale, mentre a livello politico i colpi sono in partenza attenuati dall’ampio arco di forze che reggono le sorti del governo e dalla esplicita tutela esercitata con costanza e determinazione degne di miglior causa dal Presidente della Repubblica. Nell’attuale quadro parlamentare il governo Monti incontra praticamente solo l’opposizione della Lega, essendo quella di sinistra non rappresentata nelle aule parlamentari, mentre quella dell’Italia dei Valori resta ancora ondeggiante tra una posizione iniziale favorevole alla nascita del governo e un voto contrario alle prime misure economiche da esso adottate.


Mario Monti e Mario Draghi: i due super Mario che devono salvare l’Europa

Non stupisce il favore di cui Monti gode a livello europeo. La sua storia politica e personale non lascia ombra di dubbi al riguardo. Monti è uomo dell’elite politico economica che governa l’attuale Unione europea. La sua compenetrazione con quel gruppo dirigente è profonda, ancora di più di quanto lo fosse quella di Romano Prodi che almeno in un raro momento di sincerità definì stupido il patto di Maastricht per i vincoli di bilancio che ci ha posto. Se Prodi è stato l’uomo di governo che, assieme a Ciampi, ha garantito l’ingresso del nostro paese nell’Euro, Monti è quello che ne sta gestendo la sopravvivenza in una acutissima crisi economica mondiale, secondo linee del tutto interne a quella “austerità espansiva”, dominata dal primato delle esigenze dell’economia e dello stato tedeschi, come nell’ironico ossimoro coniato da Paul Krugman.

La definizione che ne ha dato Martin Wolf , il famoso editorialista del Financial Times, merita di essere riportata per intero per la precisione con cui coglie le caratteristiche politiche di Mario Monti: “E’ un rispettato uomo di Stato con una salda visione europeista e una forte simpatia per l’inclinazione tedesca alla concorrenza e alla stabilità finanziaria” A differenza di Berlusconi e Tremonti, Monti non ha dovuto agire sotto dettatura quando si è trattato di por mano alle manovre economiche, essendo lui stesso parte dirigente nel processo decisionale.

Sempre secondo l’autorevole Martin Wolf la figura di Monti esce ulteriormente rafforzata sul piano europeo quando viene accostata a quella dell’altro Mario, cioè Draghi il capo della Bce. Ai due super Mario sarebbe quindi affidato quell’esile e nondimeno esistente filo di speranza di portare l’Europa fuori dalla crisi senza troppi danni. Un’uscita da destra.

C’è anche un terzo italiano collocato in una posizione di rilievo nelle istituzioni europee, dopo le ovvie e nondimeno forzate dimissioni di Lorenzo Bini Smaghi dal board della Bce. Si tratta di Andrea Enria, posto dal gennaio dell’anno scorso a capo dell’European Banking Authority (Eba) , ma è assai meno considerato sia perché i poteri reali dell’organismo che dirige sono posti in dubbio, sia perché le sue specifiche decisioni sono violentemente contrastate in tutta Europa e in primo luogo dallo stesso Draghi, in quanto inopportune nei tempi e nei contenuti. Si fa ovviamente riferimento alla decisione di imporre alle banche europee una ricapitalizzazione che giustamente viene considerata una misura pro ciclica, poiché comporta di fatto una stretta sul fronte strategico della concessione del credito.


L’Europa più che vittima della crisi lo è delle regole che si è data

L’azione fin qui svolta da Mario Draghi si è collocata tutta all’interno della massima ortodossia e dei limiti statutari della Bce. Tuttavia si è mossa in una direzione attiva nei confronti della crisi, con le note decisioni di ridurre i tassi di interesse e di aprire il rubinetto dei prestiti alle banche. Secondo Draghi è il massimo che si può fare. Ma ciò ha qualche fondamento solo se si considerano inamovibili le attuali regole.

Nell’attuale sistema infatti è possibile per gli stati aiutare le banche, ed è quanto è accaduto in misura enorme, mentre è impedito alle banche di aiutare gli stati. Per quanto riguarda la Bce ciò è inibito esplicitamente dal Trattato di Maastricht. Le nuove decisioni che in questi giorni le autorità europee si apprestano a prendere – il famoso “fiscal compact”- peggioreranno ulteriormente la situazione.

L’azione di Draghi non è di per sé sufficiente dal momento che l’apertura del rubinetto centrale, in quantità illimitata e per tre anni, non garantisce che l’intero sistema sia irrorato. Prova ne sia che in mancanza di reciproca fiducia tra gli istituti bancari e in assenza di politiche economiche votate effettivamente alla crescita, le banche europee, in particolare quelle italiane che sono subito accorse ai rubinetti aperti della Bce, si sono ben guardate di aprire poi il credito alle imprese e alle persone e anzi hanno riposizionato quote consistenti di quei prestiti presso la Bce, malgrado che ciò frutti loro solo lo 0,25% di interesse con una perdita quindi dello 0,75%.

Tuttavia è anche vero che la mossa ha in parte aiutato l’acquisto di titoli soprattutto a breve da parte delle banche, permettendo alcune inversioni di tendenza, come nel caso italiano, ove assistiamo al fatto che il rendimento dei titoli a breve, che era aumentato più di quello sui decennali, è ridisceso più rapidamente, conferendo un ordine più logico ai valori sul mercato finanziario

Che tutto ciò possa salvarci da una crisi dai caratteri sistemici quale quella attuale, è ovviamente cosa destituita di ogni fondamento. Qui interessa però cogliere un punto specifico. Anche le voci critiche verso le scelte della attuale dirigenza della Ue affidano le loro pur tenui speranze di potere addolcire la rigidità tedesca alla capacità di iniziativa sia di Mario Monti che di Mario Draghi. In tal senso si è anche espresso un “guru” della finanza mondiale come George Soros.

Più che avere un fondamento realistico, questa speranza appare una proiezione dei propri desideri. E tuttavia esiste e fa opinione a livello europeo, contribuendo quindi ad avvolgere il governo Monti non solo di un manto protettivo, ma anche ad affidargli il ruolo di chi avendo accesso alle segrete stanze – quello che Wolf chiama “l’inclinazione tedesca” di Monti - può ricondurre a più miti consigli l’attuale sovrano, cioè la Merkel. Anche perché, essendo Monti a capo di un paese che ha un debito assai elevato in proporzione al prodotto interno lordo europeo, ha dalla sua una parte del manico del coltello, nel senso che effettivamente – a differenza della Grecia – il fallimento dell’Italia provocherebbe sicuramente e immediatamente l’implosione dell’Europa tutta.

Intanto Monti ha incassato il sostegno esplicito del parlamento italiano alla sua azione in Europa – che vale più di un normale e formale voto di fiducia - , sulla base di una mozione unitaria presentata dalle forze che sostengono il governo, che si è concessa anche il vezzo di fare proprio un emendamento della Lega sulle radici cristiane dell’Europa, apponendo quindi quel suggello ideologico di destra che negli anni precedenti il Parlamento aveva esplicitamente accantonato. La politica economica europea, terreno di aspre dispute e duri scontri in tutto il mondo, diventa invece da noi il luogo quasi naturale della ricomposizione unitaria. E’ amaro dirlo, ma torna in mente, rovesciato di senso, il detto di marxiana memoria “ben scavato vecchia talpa”!


Monti alle prese con la protesta diffusa

Diverso è il clima che si respira in patria. Ma per cogliere la turbolenza in atto dobbiamo guardare verso il basso, al livello della società, perché il cielo della politica non pare in preda a grandi turbamenti.

Anche qui la realtà ci appare per alcuni versi del tutto paradossale. Il primo provvedimento economico del governo Monti ha inciso pesantemente sulla condizione dei pensionati e sulle legittime aspettative dei pensionandi. Le lacrime della ministra Fornero non hanno lavato l’onta alla condizione di chi si vede improvvisamente prolungare la vita lavorativa, quando già vedeva il traguardo del ritiro a portata di mano o di chi perde pezzi del valore reale della propria pensione a causa della mancata indicizzazione. Eppure tali misure hanno sollevato una protesta sociale assai inferiore per impatto sull’opinione pubblica di quanto non succeda nel caso delle varie categorie che si sentono, a torto o a ragione, direttamente colpite dalla nuova tornata di liberalizzazioni.

Diversi anni fa si ragionava a sinistra sul fatto che per attuare uno sciopero veramente incisivo in una grande fabbrica diffusa si sarebbe dovuto oramai bloccare le tangenziali delle grandi città più che i cancelli della fabbrica, per impedire il flusso delle varie componenti. Oggi bastano una manciata di Tir messi di traverso all’imbocco dei caselli autostradali da parte di autotrasportatori in lotta, anche nei confronti della propria rappresentanza sindacale, per determinare la sospensione delle produzioni alla Fiat e la conseguente messa in cassa integrazione dei lavoratori.

In queste settimane è montata una protesta diffusa, vivace e ambigua. A scatenarla è stato il provvedimento sulle liberalizzazioni. Un’enorme lenzuolata che ha messo assieme i taxisti con i notai, i farmacisti con i lavoratori delle ferrovie. Un’operazione ideologica che, al di là del significato e dell’effettiva incidenza dei singoli provvedimenti, viene fatta nel nome della modernizzazione, del rilancio della concorrenza, dello sviluppo della competitività, dell’affermazione di una concezione liberale dell’economia, secondo la mirabile sintesi fatta da uno dei suoi agiografi, Massimo Giannini su Repubblica. In questo senso si tratta di un’operazione necessaria e conseguente per chi punta a sfruttare l’azione del governo Monti per tentare la costruzione di un nuovo grande partito borghese e liberista di massa.


Singoli fuochi non fanno un incendio

Il progetto è molto ambizioso e non può non scontrarsi con quella intelaiatura corporativa che costituisce lo scheletro della società civile italiana così come si è venuta storicamente strutturando, che tutto sommato ha supportato quel blocco di potere su cui il berlusconismo aveva fondato le sue fortune e che invece, più per colpa della crisi economica che del declino di quest’ultimo, si era venuto sfarinando in tempi anche abbastanza rapidi e bruschi.

Intere categorie e settori si sentono – e in buona parte lo sono effettivamente – oltre che schiacciati verso il basso della piramide economica – come ha messo in luce l’ultima indagine sulla ricchezza delle famiglie italiane resa nota da Bankitalia - deprivati da punti di appoggio nel sistema politico. Avvertono che la sostituzione del berlusconismo con un’altra forma specifica di dominio, ancora più lontano e impersonale, strettamente legato alle politiche dominanti europee, quello appunto inverato nel governo Monti, annovera anche loro tra le vittime, persino più sensibili, perché, a differenza di chi era abituato a occupare gli ultimi posti dei gradini sociali, avevano ancora qualcosa da perdere. Al contempo nessuna di queste categorie gode di particolare popolarità, né è in grado di costruire con le altre una rete di solidarietà. La frammentazione estrema – si pensi alle 27 sigle dei tassisti romani – della loro rappresentanza sindacale toglie alla medesima qualunque autorevolezza.

Si accendono perciò fuochi qua e là, anche in punti finora impensati della geografia sociale, ma senza che tutto questo diventi un grande incendio.

Il populismo di destra cerca di approfittare della situazione. Il cosiddetto movimento dei forconi è forse l’esempio più inquietante di questa presenza. Ma nel caso italiano tali forme di populismo hanno avuto forza e continuità solo quando hanno potuto poggiare su una solida, anche se denegata, rete di relazioni con il mondo politico dominante, quando cioè il populismo stesso rappresenta una componente essenziale di un sistema di creazione di consenso e di governo. Questo era del tutto vero durante la lunga egemonia berlusconiana. Non lo è invece, o lo è in misura non tale da erigersi a sistema, con il governo di Monti, che differisce da quello passato proprio per avere allentato il connubio fra liberismo e populismo, scegliendo con molta determinazione la pratica integrale del primo. La turbolenza di cui soffre il governo Monti sembra perciò non travolgerlo, più che per la intrinseca inattaccabilità del suo disegno, per le divisioni, le debolezze e anche evidenti contraddizioni interne al fermento sociale.


L’assenza della sinistra politica

Arriviamo quindi al vero punto di forza del governo Monti: l’assenza di un’opposizione politica alla sua sinistra. Non mi riferisco solo al fatto che essa non è rappresentata in parlamento. L’Italia dei Valori infatti potrebbe anche essere annoverata a tratti come forza di opposizione, specialmente dopo il varo della prima manovra economica montiana, ma essa stessa insorgerebbe se venisse inquadrata come forza di sinistra. Mentre le forze che si richiamano espressamente al nome e al concetto di sinistra sono fuori dalla massima istituzione del paese. Ma appunto non si tratta solo di questo. Il quadro è più grave.

Anche nel campo del pensiero della sinistra che non rinnega questo nome e ciò che ha rappresentato, si è verificato una sorta di effetto rinculo dopo la caduta di Berlusconi. Non è la prima volta. Era già accaduto con Dini, il famigerato rospo da baciare. Il sollievo per l’uscita di scena del cavalier tiranno è tale da fare velo su qualunque giudizio critico. Dagli articoli di Marco Revelli alle sterminate dissertazioni di Asor Rosa, pur con il dovuto rispetto delle differenze e della qualità degli interpreti, emergono posizioni che vanno dalla esplicita accettazione di una sorta di transizione neobadogliana rappresentata da Monti, alla celebrazione delle vette di saggezza di quest’ultimo che mal nascondono una sostanziale dichiarazione di impotenza, quando non addirittura una fascinazione. Naturalmente non manca le versione un po’ cinica di questo atteggiamento – anche questa non è una novità, anzi si ripresenta periodicamente – del tipo “meglio che il lavoro sporco lo faccia Monti, poi costruiremo un’alternativa sul pulito”.

Anche nelle forze strutturate e di tipo partitico della sinistra, le posizioni e i comportamenti oscillano tra una sorta di continuità – come se Monti fosse la stessa cosa di Berlusconi – o, più spesso, un’ambiguità sostanziale rispetto alla propria collocazione politica, al punto che la parola “opposizione” è quasi bandita, e trionfa il principio del “valutiamo dai fatti”, come se la nascita di questo governo non fosse un fatto in sé. Ogni scelta appare condizionata dalle opzioni tattiche di schieramento in vista delle elezioni, malgrado che sia senso comune che esse non potranno tenersi prima della scadenza naturale della legislatura.

Il confronto e lo scontro entro il centrosinistra assume, sia nei momenti di bonaccia che in quelli più tempestosi, toni prettamente politicisti, quando addirittura non puramente comportamentali, come se la sopravvivenza di ciò che il governo Monti programma esplicitamente di distruggere, cioè l’alleanza di centrosinistra, possa realizzarsi solo sulla base del bon ton dei suoi membri.

Se infatti è perfettamente comprensibile e necessario agire nella direzione di non favorire questo processo, di non darlo per scontato e concluso, quindi di cercare di tenere assieme un’opposizione di qualità – visto che non siamo più ai tempi dei nani e delle ballerine di berlusconiana memoria – con il recupero di una possibile alleanza di centrosinistra, è allo stesso modo e per le stesse ragioni del tutto suicida chiudere gli occhi di fronte al processo di ridisegno del quadro politico consustanziale all’esperienza montiana. In altre parole la ricerca dell’alleanza a sinistra non dovrebbe fare agio sulla necessità di sviluppare un’opposizione convincente e vincente al governo Monti. Se invece quest’ultimo sfonda nel senso comune e nell’immaginario collettivo della maggioranza delle persone, salvo marginali fuochi resistenziali, anche il centrosinistra è finito, cioè diventa centro tout court.

Mario Tronti, inserendosi nel dibattito fra Asor Rosa e Rossana Rossanda, ha avanzato l’ipotesi che l’evoluzione della situazione italiana potrebbe prendere una piega del tutto diversa rispetto a un bipolarismo centrodestra-centrosinistra, ovvero verso la costruzione di un grande centro, una marginalizzazione delle destre estremiste e populiste e la nascita di una sinistra capace di unità tra le sue diverse sparse membra. Quindi la rinascita di una sorta di “bipolarismo virtuoso”, i cui protagonisti essenziali sarebbero una grande centro e una sinistra non marginale, poggiato, se ho bene inteso, su un sistema proporzionale corretto, più o meno alla tedesca. Potrebbe essere un’uscita più che onorevole dall’attuale impasse, ma in ogni caso un simile quadro richiede la ricostruzione della sinistra, il che non avviene certo naturalmente.

La sfida è alta e poggia essenzialmente sulla capacità di costruire una credibile politica economica alternativa che disegni un percorso di uscita dalla crisi senza massacro sociale. Il che comporta necessariamente, visto il carattere sistemico di quest’ultima, la delineazione di elementi di profonda trasformazione del modello di sviluppo e della organizzazione sociale. Nonché una simbiosi non acritica e non demagogica con i movimenti reali, a partire da quello operaio, che nella Fiom trova oggi il suo punto massimo di coscienza e organizzazione. Se la sinistra perde questa sfida, e non iniziarla nemmeno è il modo peggiore di farlo, certifica la sua inutilità. A quel punto discutere di alleanze non avrebbe alcun senso.


*Pubblicato nel n. 20 di Alternative per il Socialismo

Add comment

Submit