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Guerra di movimento

Appunti sulla crisi politica italiana

di Augusto Illuminati

Dalla guerra di posizione, descritta nelle note precedenti, siamo alfine passati alla guerra di movimento. Le rotture annunciate si sono compiute – all’interno del centro-destra ma anche con la fuoriuscita non irrilevante di Rutelli dal Pd – e la maggioranza berlusconiana è venuta meno alla Camera (ma non al Senato). Guerra aperta, con fratture non più tamponabili, tanto meno reversibili. Tuttavia, per paradosso, con un esito di stallo. Berlusconi non intende certo farsi cucinare a fuoco lento per un triennio di continui insuccessi parlamentari, per di più privato della corazza del legittimo impedimento ormai in corsia di abrogazione o scadenza, e vorrebbe recuperare la maggioranza indicendo nuove elezioni con la vigente legge elettorale. E’ quasi sicuro di stravincere sull’unico terreno in cui la sua demagogia funziona grazie all’impreparazione e alla pochezza dei suoi avversari, ma (a parte le prevedibili resistenze di Napolitano) proprio il porcellum rende improbabile una sua maggioranza al Senato, stante la distribuzione della somma di finiani e centristi nelle regioni meridionali. Gli avversari di Berlusconi puntano a un governo di transizione con i più improbabili programmi (cui da ultimo ha offerto da sinistra un pensoso contributo Asor Rosa) ma in sostanza solo per cambiare nel frattempo la legge elettorale, non si sa bene come. Peccato che, al momento, abbiano una risicata maggioranza alla Camera (che perderebbero con elezioni anticipate), ma non al Senato (proprio a quel Senato che, se invece si votasse, li vedrebbe al contrario prevalenti).

Anche qui disco rosso. Dico al momento, perché di qui all’autunno potrebbero maturare nuovi smottamenti, di voti e di leader (Pisanu, tanto per fare un nome), o riacquisto di dissidenti a prezzi adeguati. Particolarmente comico l’imbarazzo del Pd, terrorizzato dal voto anticipato, che lo vedrebbe in caduta libera rispetto ai centristi e all’Idv dipietrista, ma allo stesso tempo consapevole che più si aggrappa al mantenimento di una legislatura paralizzata più si logora di fronte al corpo elettorale e rischia pure di perdere la componente cattolica a favore del nuovo centro. Segnaliamo incidentalmente che l’ineffabile ex-pieddina Binetti ha già cominciato a criticare Fini per eccesso di laicismo! Ben più grave l’equilibrio correntizio del Pd: elezioni vogliono dire primarie (ignorarle sarebbe uno strappo esiziale) e primarie significano spaccatura fra tre candidati, due interni (Bersani e Chiamparino) e uno esterno (Vendola), tutti e tre improponibili per una coalizione che si allarghi oltre Di Pietro e perciò possa aspirare al premio di maggioranza.

Ogni schieramento ha le sue aporie, ma Berlusconi, tutto sommato, è quello che rischia di meno, finché la Lega ha convenienza a sorreggerlo. Perciò alle elezioni si finirà con l’andare entro la primavera 2011. E la cosa peggiore sarebbe farcisi trascinare in pianto.

Finora abbiamo descritto il piano di superficie, andiamo adesso a vedere il piano sottostante, il laboratorio della produzione e della scansione dei rapporti sociali. Chiarendo 1) che non immagino una gerarchia fra i due piani, in cui quello strutturale sottostante determina quello sovrastante superficiale, 2) che entrambi sono governati da una logica di conflitto strategico per cui sono poco rilevanti, nel breve-medio periodo, nozioni quali interesse generale, razionalità, profitto. Il fatto che l’attenzione mediatica si concentri sulla superficie e che partiti e giornali si dividano su di essa mentre concordano a schiacciante maggioranza sul sottosuolo dei rapporti di classe non significa che i movimenti della superficie siano un mero riflesso e non contino niente. Proprio la mescolanza di tempo di vita e tempo di lavoro, l’essere diventata la quotidianità del corpo il luogo dello sfruttamento e della produttività, rende desuete certe abitudini classificatorie.

Cosa è avvenuto, con sonoro consenso e ridotta attenzione, nel sottosuolo della produzione? Niente meno che la cancellazione del sistema di relazioni industriali organizzato, a fordismo declinante, nello Statuto dei diritti dei lavoratori e pigramente riprodotto nei contratti collettivi di lavoro, seppure di fatto svuotato nelle pratiche locali e sopratutto disapplicato o inapplicabile nel sempre più vasto settore del lavoro precario. Con gli ultimatum di Marchionne, la messa in opera della delocalizzazione Fiat nell’Europa dell’Est, Messico (segmenti bassi) e a Detroit (segmenti alti), la non-iscrizione della newco di Pomigliano all’Associazione industriali di Napoli, le deroghe al contratto nazionale metalmeccanici e la minaccia di uscire dalla Confindustria e di imporre, complici Cisl, Uil e sindacati gialli, un nuovo contratto di lavoratori dell’auto (un supercontratto aziendale, visto che nessun altro sforna veicoli in Italia) viene di fatto affossata la contrattazione collettiva e si sbriciola anche la differenza formale fra lavoro garantito e non garantito. Noi non siamo difensori a oltranza del primo, riteniamo anzi che il terreno di lotta sia proprio la riformulazione radicale dei diritti e del welfare nell’ambito postfordista, ma è chiaro che l’operazione Fiat e la sua giuridificazione nel progettato nuovo Statuto dei lavori proposto dal velenoso ministro Sacconi vanno esattamente nella direzione opposta: eliminare le garanzie residue per le imprese medio-grandi e, per riprendere un’espressione di Luciano Gallino (il solo cervello dissenziente rispetto al pensiero unico neoliberista, anzi il solo cervello tout court che abbia accesso alla grande stampa), abbassare tutele e salari dei lavoratori occidentali al livello di quelli dei paesi emergenti restando così competitivi. Infatti lo sbrego Fiat è stato subito imitato da altri gruppi industriali, diventando lo standard di un nuovo sistema di deregolazione sociale e contrattuale.

Non senza difficoltà, beninteso. In primo luogo per le resistenze della Fiom, spalleggiata con scarso entusiasmo dalla Cgil e apertamente sabotata dal Pd (in primis Ichino e Fassino). Non dimentichiamo Pomigliano e il flop del referendum. In secondo luogo, nell’ambito di una crisi di cui ancora non si vede l’uscita e di una ripresa asmatica e senza occupazione (quindi senza mance con cui gratificare i sindacati complici), la Fiat vede crollare (-35%) le proprie vendite e crescere il differenziale rispetto alla caduta di un settore auto comunque maturo (-25%). Va meglio negli Usa, ma questo sarebbe un valido motivo per tirarsi fuori dall’Italia. La Serbia è una risorsa passabile, ma prima o poi vorrà entrare nella Comunità europea e a quel punto dovrà rinunciare agli aiuti di Stato e alla defiscalizzazione, che oggi costituiscono buona parte del vantaggio per gli investimenti delocalizzati. Insomma, in termini solo di profitto, la Fiat non ricava molto dai selvaggi ritmi imposti nelle officine e rischia di riempire i magazzini senza smercio. Con qualche aggiuntivo inciampo legale –vedi la recentissima sentenza che ha reintegrato i licenziati di Melfi. Ma, appunto, si tratta di un progetto strategico: rompere le ossa a sindacati e lavoratori garantiti, poi si vedrà. Proprio come fanno Berlusconi, Tremonti e Maroni, che se ne fregano di nazione, legalità e sviluppo, e usano federalismo, tagli, migranti e giustizia solo per consolidare un assetto di potere. Struttura e sovrastruttura, disciplina aziendale e biopolitica (si pensi alle clausole su turni, malattie e pause pasto) si mischiano in un gioco perverso di rimandi, in cui l’unica irrazionalità sostanziale è quella della cosiddetta sinistra, di volta in volta giavazziana, marchionniana, tremontiano-colbertista, tremontiano-euroliberista, finiana, casapoundiana...

Non siamo in grado di proporre una strategia alternativa complessiva, cominciamo con il riconoscerlo anche per evitare di riscoprire l’acqua calda –tipo l’astensione asorrosiana di protesta, perché non allora l’annullamento della scheda con scritte rivoluzionarie, come quando eravamo giovani e pimpanti? Pezzi di alternativa, però, sì. Solidarietà alla Fiom, difesa dell’universalità del contratto e dell’art. 18, certo, ma anche andar oltre alla tutela corporativa della garanzie, presa d’atto della doppia assimilazione fra lavoratori relativamente stabili e precari, fra salari italiani, polacchi, serbi e cinesi, con l’obbiettivo di paghe e diritti europei e Usa comparto auto (la Volkswagen e la Chrysler non ci farebbero mica schifo). Solidarietà attiva con Szengen, Tychy e Kraguievac. La studiosa cinese Pun Ngai studiando i differenziali fra lavoratori stabili e migranti e in generale l’effetto impoverimento in Cina constata che le basse retribuzioni di studenti e ricercatori sono determinate dal livello dei salari medi operai e che dunque un loro innalzamento sarebbe per i lavoratori intellettuali qualcosa di più che una generosa solidarietà. Non ci dice nulla questo, sul reddito di un dottorando o di un ricercatore, sullo scivolamento verso il basso del salario operaio italiano, sul ruolo depressivo del lavoro nero e della mancanza di diritti dei migranti? Un nuovo internazionalismo non avrebbe basi materiali plausibili? La lotta contro la riforma Gelmini e la smobilitazione degli enti di ricerca non sarebbero un cuneo che spariglierebbe lo stallo parlamentare autunnale, lo sfruttamento degli stages per non pagare i lavoratori dei servizi nella de-industrializzata Italia non ha nulla a che vedere con l’utilizzo degli stages per reclutare gli studenti in fabbrica nell’iper-industrializzata Cina?

La rivendicazione di qualche forma di reddito incondizionato diventa allora un prezioso strumento di raccordo (ben più efficace della Cig o delle ridicole indennità di disoccupazione) per coinvolgere su una piattaforma rivendicativa comune salariati fissi, precari, disoccupati e inoccupati (comprese tutte le figure stagiste e “volontarie”). La paziente ricostruzione di un’alternativa dal basso comincia di qui e dalle battaglie sui beni comuni e sull’ambiente. Per non parlare di una netta posizione per il disimpegno dall’Afghanistan. Visto che tanto alle elezioni ci andremo, tempo pochi mesi, contenti o scontenti.

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