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“L’essenza, per le fondamenta”

Intervista a Federico Fioranelli

IMMAGINE QUARTO EDITORIALE FIORANELLIAi suoi tempi, l’approccio di Marx all’economia e la sua critica all’economia politica fu senz’altro rivoluzionario. Potresti dirci se reputi che il pensiero economico di Marx sia valido ancor oggi?

Tutte le riflessioni di Karl Marx sono indispensabili per comprendere il funzionamento e le contraddizioni del modo di produzione capitalistico e, quindi, del mondo in cui viviamo.

Vi sono tuttavia alcuni aspetti dell’analisi marxiana che mostrano più di altri in modo chiaro e lampante i loro agganci con il presente.

Il primo è sicuramente quello che spiega l’origine del profitto, cioè lo sfruttamento del lavoratore.

Marx mostra che il modo di produzione capitalistico non è un processo del tipo M D M (dove M indica la merce e D il denaro), in cui la moneta serve solo all’intermediazione nello scambio delle merci, ma un processo del tipo D M D’, in cui si cede denaro per avere altro denaro e lo scopo è conseguire un profitto. Questo profitto si può però realizzare solo perché vi è una merce, la forza lavoro, che è fonte di valore.

Per forza lavoro, Marx intende la porzione del tempo di vita che il lavoratore, in cambio del salario, si trova costretto a vendere al capitalista per un motivo molto semplice: sopravvivere; dato che solo apparentemente il salariato esercita una libera scelta nel momento in cui cede la propria forza lavoro e che lo scambio sul mercato del lavoro, a differenza di tutti gli altri che avvengono all’interno del sistema economico, non è uno scambio tra pari, il capitalista può permettersi di pagare un salario più basso del valore che il lavoratore produce.

Una parte del valore del prodotto (plusvalore) non torna infatti al lavoratore salariato ma, in seguito alla vendita delle merci, si trasforma in profitto. Quest’ultimo, fatto proprio dai capitalisti, costituisce lo sfruttamento dei dominati (lavoratori che producono) da parte della classe dominante, che vive del lavoro altrui.

Dunque, Marx dimostra che le società capitalistiche si basano sullo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti. A quanto detto, dobbiamo però aggiungere che lo sfruttamento del lavoratore non è l’esito di un comportamento malvagio da parte del capitalista: lo sfruttamento è insito nel modo di produzione capitalistico per cui non può esistere un padrone buono che si astiene dallo sfruttare l’operaio; di conseguenza, lo sfruttamento del lavoratore può terminare soltanto con la fine del modo di produzione capitalistico.

 

Quindi la questione dello sfruttamento resta a tuo avviso il punto chiave…

Sì, la questione dello sfruttamento è tuttora centrale. Tuttavia, oggi, per cogliere le forme di sfruttamento che il rapporto tra capitale e lavoro genera, è necessario analizzare la prestazione del lavoratore non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche e soprattutto da quello qualitativo; capiremmo così che la prestazione lavorativa che viene venduta al capitalista è sempre più il risultato di un processo di apprendimento che ha riguardato buona parte della vita del lavoratore: questo significa che attualmente sul mercato del lavoro si scambia qualcosa di più del semplice tempo di lavoro perché si scambia parte della propria vita.

 

Quali altri punti chiave vorresti sottolineare?

Un’altra questione dell’analisi di Marx che merita attenzione è il fenomeno delle crisi economiche.

Se diamo uno sguardo alla storia economica, in particolare dall’Ottocento ad oggi, non possiamo negare che il capitalismo abbia quasi sempre vissuto qualche forma di crisi e non dare ragione a Marx quando sostiene che la condizione normale del capitalismo non è l’equilibrio ma la crisi.

La spiegazione ci arriva dal libro secondo de “Il Capitale”, nel quale Marx presenta gli schemi di analisi generale del sistema economico capitalistico; in tali schemi, sono considerate soltanto due classi, i capitalisti (proprietari dei mezzi di produzione) e i lavoratori (proprietari della forza lavoro). Inoltre, il sistema economico viene suddiviso in due sezioni, quella che produce i mezzi di produzione e quella che produce i beni di consumo (i quali, a loro volta, si distinguono in beni salario e beni di lusso).

Ogni sezione si trova in equilibrio soltanto se l’ammontare di valore delle sue vendite è uguale all’ammontare di valore dei suoi acquisti. Però, i mezzi di produzione non vengono acquistati solo dal settore che li produce ma da entrambe le sezioni, per il reintegro e per l’eventuale allargamento del capitale costante che vi è impiegato. Stessa cosa per i beni di consumo: non vengono acquistati solo dal settore che li produce ma da entrambe le sezioni.

Attraverso operazioni algebriche, Marx dimostra che i due settori dell’economia possono essere in equilibrio e quindi che il processo di produzione capitalistico può ripetersi (riprodursi) senza crisi se e soltanto se i due tipi di reddito, cioè salari e profitti, sono completamente spesi. Nel caso dei salari, supponendo che siano al livello di sussistenza, la probabilità che vengano interamente spesi in beni di consumo è altissima. Per quanto riguarda i profitti, i capitalisti possono impiegarli in due modi: nell’acquisto di beni di consumo o nell’acquisto di nuovi mezzi di produzione.

Se i capitalisti destinano tutti i loro profitti all’acquisto di beni di consumo, il sistema è in uno stato di riproduzione semplice: periodo dopo periodo, i livelli di attività produttiva restano invariati; se, invece, i capitalisti li utilizzano sia per acquistare nuovi mezzi di produzione (compresa nuova forza lavoro) sia per acquistare beni di consumo, il sistema si riproduce in stato di riproduzione allargata.

Il tasso di crescita del sistema dipende dalla percentuale di profitto investita in mezzi di produzione. Infatti, la riproduzione allargata è massima e il tasso di crescita del sistema è massimo se i capitalisti investono tutti i profitti in nuovi mezzi di produzione. Nello schema di riproduzione allargata (o di accumulazione), periodo dopo periodo, crescono sia i lavoratori impiegati nel processo produttivo sia i mezzi di produzione.

L’obiettivo che Marx persegue attraverso l’utilizzo dello strumento analitico degli schemi di riproduzione allargata (o di accumulazione) è di mostrare che, sotto certe condizioni, l’equilibrio è possibile e il sistema economico capitalistico può crescere all’infinito.

 

Questo in teoria. Ma quali sono le ragioni che, sempre secondo Marx, fanno sì che in realtà il sistema economico capitalistico non riesca praticamente mai a raggiungere l’equilibrio?

Tuttavia, Marx afferma che l’equilibrio capitalistico è un caso perché il processo di riproduzione capitalistico si manifesta quasi sempre attraverso le crisi; infatti, ai fini della riproduzione del capitale, è necessario che le merci siano realizzate, cioè vendute: in caso contrario, il plusvalore, rimanendo incorporato nelle merci invendute, non si trasforma in profitto e, quindi, il sistema non si riproduce.

Nella visione di Marx, vi sono diverse ragioni alla base della mancata riproduzione del sistema.

Una ragione per cui è possibile che non tutte le merci prodotte vengano vendute ha a che fare con il tesoreggiamento. Ci sono infatti delle circostanze in cui gli agenti economici non spendono il denaro di cui dispongono e preferiscono trattenerlo in forma liquida o impiegarlo in attività finanziarie: non spendendolo nell’acquisto di merci, hanno luogo crisi di realizzazione.

Un’altra riguarda invece la distribuzione del reddito. Nel momento in cui viene ridotto il livello del salario per poter ottenere un saggio di profitto più elevato, si riduce il potere d’acquisto dei lavoratori. Dato che il grosso della domanda aggregata viene dai lavoratori, inevitabilmente molte merci rimangono invendute: prendono così forma le crisi di realizzazione.

 

Per concludere con quest’argomento, ci sono altri elementi della teoria economica marxiana che vorresti sottolineare?

L’ultima questione dell’analisi di Marx che sottolineerei, necessaria per comprendere le dinamiche del capitale e spiegare l’attuale fase monopolistica del capitalismo, è quella della centralizzazione del capitale. Essa si verifica quando capitali già esistenti si riuniscono sotto la direzione di un gruppo capitalistico unitario, per cui viene a formarsi una nuova impresa di maggiori dimensioni.

Per Marx, il modo di produzione capitalistico è caratterizzato da un elevato numero di imprese che hanno come fine l’ottenimento del massimo profitto possibile. Tra queste imprese si sviluppa un’aspra concorrenza nel mercato, dove ciò che conta non è il valore d’uso del bene prodotto ma il suo valore di scambio, anzi un valore di scambio nel cui ambito è massima la quantità di plusvalore.

Il processo di centralizzazione del capitale conduce ad un rapido aumento della dimensione d’impresa e conduce alla fase monopolistica del capitalismo.

Dal momento che le imprese di dimensioni maggiori sono in grado di conseguire delle economie di scala e di produrre a costi medi inferiori rispetto a quelli delle imprese più piccole, la concorrenza tra le prime e le seconde conduce alla scomparsa delle imprese più piccole: dalla forma di mercato di prevalente concorrenza, si passa alla concorrenza monopolistica, all’oligopolio e al monopolio.

Di solito, nei momenti di crisi, la tendenza alla centralizzazione dei capitali registra una notevole accelerazione. In queste fasi, infatti, si moltiplicano sia gli accordi, le unioni e le fusioni di imprese, sia la sparizione delle imprese più deboli della cui quota di mercato si impadroniscono le più forti.

 

Cambiamo argomento. Dato per assunto che Keynes agisce all’interno del sistema capitalista con l’intento di salvarlo dai suoi stessi eccessi e contraddizioni, ritieni però che alcune delle sue idee possano essere di una qualche utilità all’interno di un processo di transizione verso il socialismo?

“Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve, non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi”.

Con queste parole, John M. Keynes mostra di non amare il capitalismo; nonostante questo, non vede alternative ad esso. Pensa inoltre che il sistema capitalistico non sia in grado di salvaguardare la propria esistenza. Dal suo punto di vista, se non venisse governato e se non si rimuovessero i suoi difetti e le sue colpe gravi, verrebbe prima indebolito e poi smantellato.

I difetti e le colpe gravi del capitalismo che Keynes mette in risalto sono l’incapacità di provvedere alla piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Senza dimenticare comunque che il principale veicolo di incertezza e di instabilità in un sistema capitalistico è costituito dalla moneta, in quanto elemento attivo che interagisce sulle dinamiche reali dell’economia.

Keynes parte dal presupposto che i livelli di produzione, di reddito e di occupazione di un Paese sono determinati dalla domanda effettiva, la quale dipende dalle aspettative di breve periodo degli imprenditori nei confronti della domanda aggregata, cioè la domanda complessiva dei beni e servizi nazionali: se le imprese sono ottimiste circa la domanda di beni e servizi, producono di più e assumono più lavoratori; se sono pessimiste, producono di meno ed impiegano meno lavoratori.

La domanda aggregata ha due componenti: il consumo indotto, che richiede di aver percepito un reddito prima di essere effettuato, e le spesa autonoma, che non dipende dal reddito e che è costituita dai consumi autonomi, dagli investimenti, dalla spesa pubblica e dalle esportazioni.

Secondo Keynes, l’incipit di tutto è la spesa autonoma. Gli investimenti effettuati dalle imprese, ad esempio, producono e distribuiscono redditi, sia sotto forma di salari ai lavoratori che di profitti agli imprenditori. Infatti, se salgono gli investimenti, salgono anche la produzione, il reddito e l’occupazione. I redditi, poi, vengono in parte spesi in beni di consumo e in parte risparmiati.

I consumi e i risparmi sono così una componente indotta del reddito: sono il risultato del processo messo in moto dagli investimenti.

In termini matematici, un certo ammontare di investimenti (I) genera un reddito (Y) e quindi un ammontare di consumi (C). Il reddito genera anche un ammontare di risparmi (S = Y C) che finisce con il corrispondere all’ammontare degli investimenti (I) risultante dalle decisioni degli imprenditori (I = S). Dato che il risparmio è il prodotto tra la propensione al risparmio e il reddito (S = s Y, dove s è la propensione al risparmio e Y è il reddito), si ricava che Y = (1 / s) I.

Da questa formula si ottiene il moltiplicatore del reddito, cioè quel coefficiente moltiplicativo che si applica al livello degli investimenti per ottenere il reddito: esso è pari all’inverso della propensione al risparmio (1 / s). Dato che la propensione al risparmio è pari alla differenza tra 1 e la propensione al consumo (c), esso può essere definito anche in questo modo: 1 / (1 c).

Tuttavia, nelle società capitalistiche, il livello degli investimenti deciso dagli imprenditori non è mai quello che genera un livello di produzione e di reddito tale da assicurare la piena occupazione di lavoro e impianti.

 

E quindi? Quali sono le soluzioni possibili?

Dunque, come si fa a risolvere il problema della disoccupazione, che Keynes stesso definisce sistemico e con un carattere involontario? Certamente non attraverso una diminuzione del livello dei salari, che a suo avviso non determinerebbe necessariamente una modifica delle aspettative e quindi delle decisioni degli imprenditori, dalle quali dipende poi il volume dell’occupazione.

Ciò che permetterebbe di ridurre la disoccupazione è invece la spesa pubblica, che, come gli investimenti, costituisce una voce di spesa autonoma. Essa ha il ruolo di colmare il gap lasciato vuoto dagli investimenti privati. Keynes ritiene che la spesa pubblica sia utile indipendentemente dai suoi contenuti: addirittura suggerisce di far svuotare e poi riempire le buche stesse ai disoccupati.

Naturalmente la logica del moltiplicatore non si applica solamente agli investimenti privati ma a tutte le voci della spesa autonoma (A), quindi anche alla spesa pubblica (G). Per questo, il moltiplicatore del reddito, detto appunto “keynesiano”, viene definito come quel coefficiente moltiplicativo che si applica al livello delle componenti autonome della domanda per ottenere il reddito e la produzione. Questi ultimi diventano così pari alla spesa autonoma moltiplicata per il moltiplicatore: Y = A / (1 c).

Secondo Keynes, inoltre, la disoccupazione può essere ridotta anche attraverso una distribuzione del reddito più equa. Dal momento che le classi che risparmiano di più sono quelle più abbienti, una redistribuzione del reddito a favore delle classi lavoratrici genera una riduzione della propensione al risparmio (s). Di conseguenza, se la quota di risparmi sul reddito (la propensione al risparmio) diminuisce, la quota di consumi sul reddito (c) aumenta. Così, in seguito all’aumento del moltiplicatore, la produzione, il reddito e l’occupazione finali risultano maggiori.

Gli interventi che Keynes propone per risolvere i problemi di funzionamento del sistema capitalistico, rimuovere i suoi difetti e le sue colpe gravi e garantirne la tenuta si possono sinteticamente distinguere in politiche di breve e di lungo periodo.

Nel breve periodo, lo Stato può intervenire, soprattutto nelle fasi di recessione, attraverso un aumento della spesa pubblica e una riduzione delle imposte (politica fiscale espansiva), per innalzare la domanda effettiva, la produzione, il reddito e l’occupazione ad un livello più alto di quello che altrimenti si avrebbe con i soli consumi e investimenti privati. Ovviamente è preferibile un aumento della spesa pubblica perché il moltiplicatore della spesa pubblica [1 / (1 c)] è più elevato di quello delle imposte [c / (1 c)].

La banca centrale, invece, può ad esempio intervenire acquistando titoli e mettendo in circolazione una quantità abbondante di moneta (politica monetaria espansiva) allo scopo di ridurre il tasso di interesse e innalzare, di conseguenza, gli investimenti, la domanda effettiva, la produzione, il reddito e l’occupazione; Keynes dichiara, a riguardo, che una politica monetaria espansiva non produce alcun effetto sui prezzi finché vi è disoccupazione.

 

E nel lungo periodo?

Gli strumenti proposti da Keynes per il lungo periodo sono invece: la redistribuzione della ricchezza e del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e imposte di successione elevate); l’eutanasia del rentier (la lotta a chi lucra guadagni importanti, come la rendita, sfruttando la scarsità del capitale, da condurre attraverso le imposte dirette sul capitale); una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento “una sempre maggiore responsabilità nell’organizzare direttamente l’investimento” da parte dello Stato).

 

Messa in questo modo, parrebbe che in Keynes si possano trovare tutte le soluzioni necessarie al problema della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza. Ma è proprio così?

Certamente no. Infatti, se da un lato le politiche keynesiane concorrono a raggiungere la piena occupazione e una distribuzione equa della ricchezza e del reddito, dall’altro, anziché rafforzare il capitalismo, contribuiscono a spostare i rapporti di forza tra lavoro e capitale a favore del primo e a minare alcune delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico.

Per questi motivi, gli strumenti e le politiche proposte da Keynes, intaccando gli effettivi rapporti di potere e alterando la struttura dell’economia, possono senza ombra di dubbio essere presi in considerazione in un processo di transizione verso il socialismo.

 

Oggi assistiamo ad una crisi strutturale provocata dall’estrema concentrazione del capitale, dall’acutizzarsi del militarismo imperialista degli Usa e dei suoi alleati e dall’attuale crisi pandemica: quali sono a tuo avviso i rischi ma anche le opportunità che questa situazione ci presenta?

Il militarismo, la finanziarizzazione dell’economia, la globalizzazione, l’unificazione europea, l’ampliamento della polarizzazione tra le classi sociali e il rafforzamento economico (e politico) delle oligarchie sono tutti fenomeni che hanno visto una forte accelerazione nell’attuale fase monopolistica del capitalismo, la quale è il risultato dei processi di centralizzazione dei capitali.

In questa fase del capitalismo, che non segue i principi della concorrenza perfetta, il sovrappiù, cioè la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo, tende ad aumentare nel tempo sia in cifra assoluta sia come quota della produzione complessiva.

Tuttavia, è evidente che, pur avendo la tendenza a generare quantità sempre maggiori di sovrappiù, quello che Paul M. Sweezy definisce “capitalismo monopolistico” non riesce sempre a creare gli sbocchi di consumo e d’investimento necessari per assorbirle. Ne consegue che un sistema di questo tipo sia caratterizzato da crisi e dalla tendenza a cadere nella stagnazione. Infatti, il mancato assorbimento del sovrappiù crea un vuoto di domanda che rende potenziali e non reali i profitti, genera perdita di reddito e impedisce la piena utilizzazione del lavoro e degli impianti produttivi.

Diventa così necessario mettere in campo degli strumenti per stimolare la domanda effettiva; una prima soluzione, tra le preferite dalle classi dominanti, è rappresentata dalla finanza. Infatti, le imprese, nel tentativo di risolvere i problemi di realizzazione, possono indirizzare una parte crescente del prodotto dello sfruttamento verso le attività finanziarie.

A tal proposito, la crescita negli Stati Uniti della spesa delle imprese per le attività finanziarie, a partire dagli anni Ottanta, ha messo in moto un processo di finanziarizzazione dell’economia, ha condotto ad una crescita incredibile dei mercati finanziari e ha spostato il centro del potere dai consigli di amministrazione dei grandi gruppi industriali ai vertici delle banche e delle società finanziarie. In questo modo, i manager delle banche e delle società finanziarie sono entrati a pieno titolo nell’oligarchia, aggiungendosi ai capitalisti dei grandi gruppi industriali.

Un’altra modalità per stimolare la domanda effettiva, che sempre negli Stati Uniti ha preso corpo durante la presidenza Reagan ed è divenuta dominante nei primi anni Duemila fino allo scoppio della crisi del 2007-2008, si fonda sull’indebitamento privato, in particolare quello delle famiglie.

Essa è il risultato della politica monetaria espansiva da parte della banca centrale, una politica di denaro facile che spinge, grazie ai bassi tassi di interesse, anche i lavoratori con bassi salari ad indebitarsi per reperire risorse finanziarie ed incrementare così i consumi privati. È una tipologia di politica economica perfettamente compatibile con gli interessi privati delle élite: pur non modificando la struttura dell’economia e non redistribuendo il reddito, essa spinge comunque le classi più povere a consumare, colmando così i vuoti di potere d’acquisto che altrimenti sfocerebbero in una grande crisi di domanda effettiva e impedirebbero la realizzazione dei profitti.

Anche lo Stato, in particolare nelle fasi più acute di una crisi, può intervenire attraverso l’aumento della spesa pubblica, che può essere suddivisa principalmente in due componenti: civile e militare.

Tuttavia, l’oligarchia finanziaria e industriale, essendo la principale fonte di mezzi finanziari e quindi di potere politico, ha la forza di imporre agli Stati i criteri da adottare nelle politiche di sostegno alla domanda effettiva. Di conseguenza, la direzione e l’entità dell’intervento pubblico devono essere compatibili con gli interessi, i privilegi e l’ideologia di questa élite.

Prendiamo sempre, come esempio, il Paese più evoluto in termini di sviluppo capitalistico, gli Usa.

Nonostante il contributo diretto di uno Stato al funzionamento e al benessere della società sia quasi per intero compreso nelle spese civili (ad esempio, istruzione e sanità), i governi degli Stati Uniti, sia a guida democratica che repubblicana, privilegiano la componente militare della spesa pubblica.

L’oligarchia, infatti, preferisce tenere a freno la spesa pubblica civile e incoraggiare l’espansione della spesa militare perché, a differenza delle attività destinate a soddisfare i bisogni collettivi, le attività pubbliche nella sfera militare non implicano né concorrenza con gli interessi privati né danno ai privilegi dell’oligarchia stessa. La spesa militare, a differenza di quella civile, non redistribuisce reddito e non altera la struttura dell’economia. Anzi, la creazione di un gigantesco apparato militare è compatibile con l’accumulazione e la creazione dei profitti: le grandi corporation ricevono sussidi governativi e contratti lucrativi dal Pentagono per le forniture militari. Inoltre, una cospicua spesa militare contribuisce a rafforzare nella società l’ideologia dominante e a creare l’atmosfera nella quale l’oligarchia sente che la sua autorità morale e la sua posizione materiale sono sicure. Infatti tale tipologia di spesa favorisce la militarizzazione e quindi tutte le forze reazionarie presenti nella società mentre ostacola tutto ciò che è progressista e rivoluzionario.

Se la giustificazione per l’incremento delle spese militari da parte del governo americano, dopo la Seconda guerra mondiale, venne offerta dall’ascesa dell’Unione Sovietica, dopo la sua scomparsa hanno preso forma nuove minacce che hanno giustificato gli interventi armati e la spesa pubblica militare in continua espansione. Attualmente, i principali fattori che servono a tenere viva la tensione internazionale e a spiegare il potenziamento dell’apparato militare Usa e dei suoi alleati sono l’ascesa della Cina e il consolidamento della collaborazione tra Russia, Cina e Iran, che si sviluppa non solo sul terreno economico, ma anche politico e militare.

 

E per ciò che concerne la crisi pandemica?

Per quanto riguarda la crisi pandemica, le restrizioni adottate per contenere il contagio hanno provocato in tutto il mondo una forte contrazione sia dell’offerta aggregata che della domanda aggregata, soprattutto a causa del blocco di una parte significativa delle attività produttive e della scomparsa dei redditi generati da quelle attività.

A livello europeo, ad esempio, i dati del 2020 relativi alla riduzione del Pil e dell’occupazione sono peggiori di quelli registrati in seguito alla crisi del 2007-2008.

Tuttavia, a differenza del 2007-2008, le classi dominanti europee ora hanno la consapevolezza che una crisi grave, dal loro punto di vista rischiosa in quanto capace di minare le basi del loro stesso potere, può essere superata solamente con politiche monetarie e fiscali fortemente espansive, anziché con l’austerità.

Per questo hanno accolto favorevolmente il lancio, da parte della Banca Centrale Europea, del PEPP, un programma straordinario di acquisto di titoli di Stato emessi dai Paesi europei sul mercato secondario per 1.850 miliardi di Euro, e hanno sostenuto il NGEU, uno strumento da 750 miliardi di Euro che viene finanziato attraverso l’emissione di titoli europei e che comprende sia prestiti (360) sia sovvenzioni (390) agli Stati membri.

 

Ma perché hanno preferito queste misure ad altre, come ad esempio il finanziamento monetario della spesa pubblica, che avrebbero senz’altro dato una maggiore spinta espansiva all’economia?

Il motivo è che, ad eccezione delle sovvenzioni del NGEU che non prevedono un rimborso, tutti gli altri finanziamenti dell’Unione Europea non sono contributi a fondo perduto ma prestiti che devono essere completamente rimborsati e che quindi concorrono ad incrementare disavanzo e debito pubblico. Così, dopo aver accettato l’espansione della spesa pubblica, esigendo comunque, in cambio dei fondi, riforme di struttura a loro favorevoli e la compatibilità della stessa spesa pubblica con i loro interessi, le élite europee potranno, con la fine dell’emergenza, con la riattivazione dei vincoli istituzionali di bilancio nel 2023 e con la crescita inevitabile del debito pubblico, mettere di nuovo in campo piani di aggiustamento fiscale e pretendere, con ancora più forza, i tagli alla spesa sociale, le privatizzazioni, i licenziamenti e ogni forma di macelleria sociale.

Sono dunque evidenti, in Europa e nel mondo, i segni del rafforzamento economico e politico delle oligarchie industriali e finanziarie e di tutti gli altri fenomeni che vedono sempre una forte accelerazione in seguito al processo di centralizzazione dei capitali.

Nonostante questo, vorrei brevemente accennare ad un aspetto dell’attuale fase storica che in prospettiva potrebbe anche esercitare una funzione positiva. La fase monopolistica del capitalismo, infatti, necessariamente contribuisce ad accrescere le dimensioni complessive delle classi subalterne portando al loro interno, oltre ai lavoratori salariati, anche gli artigiani, i piccoli commercianti e le piccole-medie imprese non inserite nel processo di globalizzazione.

Questo non significa, parafrasando Hilferding, che in questo modo si sta avvicinando la fase di transizione al socialismo, ma che le condizioni per il conflitto sociale diventano più favorevoli.

 

Concludendo, mi piacerebbe chiederti quali sono a tuo avviso i punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva comunista in Italia.

L’esigenza di riproporre, nel Ventunesimo secolo, la questione del superamento del modo di produzione capitalistico e la prospettiva del socialismo richiede necessariamente, volendo ricordare Gramsci, la presenza di un “moderno Principe”, cioè un partito comunista che sia protagonista nella lotta culturale e ideale al fine dell’affermazione delle classi subalterne e di un nuovo sistema economico.

L’obiettivo può essere raggiunto solo se il partito comunista mostra un’adeguata conoscenza delle dinamiche specifiche della società capitalistica contemporanea e se, allo stesso tempo, è in grado di stabilire un rapporto critico con la storia del movimento comunista, in modo da trarre insegnamento sia dai suoi successi che dai suoi errori.

Oggi, in Italia, un partito comunista deve avere l’ambizione di esercitare un’influenza di massa. Anche se inizialmente piccolo in termini di iscritti e di voti, deve cercare di organizzare una presenza efficace dei suoi quadri e militanti nei luoghi di lavoro, nei territori in cui si vive il conflitto sociale e sui mezzi di comunicazione di massa.

Pur essendo pienamente consapevole che nell’attuale fase di sviluppo capitalistico non sono certo gli intellettuali marxisti a dare le carte, credo che i programmi e le iniziative politiche dei comunisti debbano partire dal riportare al centro del dibattito economico e politico la questione salariale, innanzitutto per unire e cementare una classe lavoratrice oggi purtroppo frammentata e atomizzata anche a causa dell’ideologia neoliberista che cerca di sostituire dei lavoratori che hanno interessi in comune con degli individui in competizione perenne tra di loro.

Il risultato della vittoria delle classi dominanti è che oggi una buona parte dei lavoratori pensa che, nell’era della globalizzazione, sia possibile mantenere il posto di lavoro solo attraverso la deflazione salariale e la precarizzazione delle condizioni di lavoro. È necessario invece far prendere loro coscienza che il rapporto tra capitale e lavoro non è armonico ma conflittuale, che lo scambio sul mercato del lavoro non è uno scambio libero tra pari, in quanto esiste il problema dello sfruttamento, e che l’andamento dei salari non dipende dalla produttività del lavoro ma unicamente dai rapporti di forza tra le parti sociali.

Solo una classe lavoratrice unita può avere l’ambizione di lottare per spostare i rapporti di forza tra lavoro e capitale a favore del primo e aumentare la quota dei salari sul Pil per riprendersi quella parte di torta che le è stata sottratta dalle scelte compiute in nome degli interessi delle classi dominanti.

Soltanto in questo modo può iniziare a rivendicare cose semplicissime ma oggi rivoluzionarie: la piena occupazione, la riduzione dell’orario di lavoro e un consistente aumento della retribuzione di base.

Insieme a quello del lavoro, un altro tema che una forza marxista dovrebbe, a mio avviso, sollevare, è quella dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dall’Unione Monetaria Europea.

L’Euro, in particolare, non è una conquista della classe lavoratrice. Nasce infatti dalla convergenza degli interessi delle élite europee, principalmente tedesche ma anche italiane, in un contesto caratterizzato dall’allargamento del mercato capitalistico attraverso l’abbattimento o la riduzione delle barriere statali alla libera circolazione di merci e capitali.

Per quanto riguarda l’Italia, l’adesione allo Sme, e successivamente all’Euro, è servita per creare un vincolo esterno che risolvesse il conflitto distributivo a vantaggio della classe padronale ed evitasse che i governi potessero regolare tale conflitto con la spesa pubblica.

Questo non significa che l’uscita dell’Italia dall’Euro non possa presentare delle difficoltà.

Ad esempio, un problema potrebbe nascere dal fatto che, dal 2013, l’Italia ha accettato di introdurre, nelle nuove emissioni di titoli di Stato con oltre un anno di scadenza, una clausola di azione collettiva per cui, se almeno il 25% dei possessori di quei titoli si dovesse opporre, la ridenominazione del debito pubblico nella nuova moneta nazionale non verrebbe effettuata.

Limitando i movimenti di capitale e tenendo sotto controllo i prezzi, la svalutazione rimarrebbe comunque entro dei limiti accettabili in quanto i Paesi esportatori concorrenti dell’Italia avrebbero tutto l’interesse a fare in modo che sia contenuta.

L’uscita dall’Euro rappresenta in ogni modo una condizione necessaria ma non sufficiente.

Infatti, dopo aver ripreso in mano la sovranità monetaria e fiscale, sarà possibile mettere al centro del dibattito pubblico la questione più importante: quella relativa alla messa in discussione del modo di produzione capitalistico basato sul profitto e sulle disuguaglianze.

In altri termini, solo dopo aver recuperato l’autonomia fiscale e la possibilità di stampare moneta, potrà iniziare la transizione verso un sistema economico socialista, che promuove valori legati all’uguaglianza e alla solidarietà tra i popoli e si pone come obiettivi il soddisfacimento dei bisogni degli uomini, la piena occupazione e la giustizia sociale.

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