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manifesto

Perché una sinistra senza aggettivi?

Alberto Burgio

Nei giorni scorsi (il 9 e il 17 settembre) Marcello Cini ha pubblicato su queste pagine un ampio intervento che mette a fuoco nodi teorici cruciali e dimostra come una riflessione autonoma e spregiudicata sia condizione necessaria affinché la sinistra torni capace di incidere sul piano politico e culturale. Si tratta di un contributo rilevante non soltanto per gli argomenti, esposti con la passione e la lucidità alle quali Cini ci ha da lungo tempo abituato, ma anche per l'implicito suggerimento che lo sottende.

O compiamo lo sforzo di cimentarci con le sfide della ricerca teorica, o non usciremo da questa gravissima crisi. O ci occupiamo, oltre che di cronaca, anche di storia, oppure verremo travolti da mutamenti che non saremo stati in grado di decifrare. La qualità di questo intervento raccomanda, credo, di non archiviare il discorso come una generica esortazione. Cini afferma cose impegnative e formula interrogativi pressanti, offrendo una preziosa occasione per avviare la riflessione, in effetti sempre più urgente, sui compiti della sinistra e sugli strumenti a sua disposizione. La tesi di fondo è incontrovertibile. Il capitalismo sta conducendo l'umanità e il pianeta verso la catastrofe.

Se la tendenza in atto non verrà rapidamente invertita, nel giro di venti, trent'anni al massimo ci troveremo con ogni probabilità in una situazione insostenibile, segnata dal collasso dell'ecosistema terreste, dalla drammatica scarsità di risorse vitali (acqua ed energia) e dall'esplosione di movimenti migratori e conflitti. Se non vuole scomparire, se, soprattutto, intende costituire un argine contro questi rischi estremi, la sinistra deve elaborare in tempi brevi un progetto alternativo all'attuale modello di sviluppo.

Un progetto che metta a valore le conoscenze e le attitudini accumulate dalla sinistra stessa nel corso della propria esperienza (pur insistendo sulla necessità di nuove proposte, Cini sottolinea che «non si parte da zero») e si misuri con i grandi mutamenti intervenuti in questi decenni sul piano ambientale (le devastanti conseguenze dell'effetto-serra e del costante aumento della temperatura globale del pianeta) e nella struttura dei processi produttivi (in particolare per ciò che attiene all'espandersi della produzione di merci immateriali e al riconfigurarsi dei nessi tra scienza, tecnologia e produzione). Anche sul piano metodologico i suggerimenti di Cini appaiono largamente condivisibili. Benché la strada che la sinistra dovrà percorrere sia «tutta in salita», nondimeno disponiamo di qualche strumento («pratiche, esperienze, forme organizzative») con l'ausilio del quale intraprendere il cammino. Consapevoli delle asperità, ma non per questo votati alla rassegnazione. Avere subito pesanti sconfitte non significa (ancora) essere fuori dal gioco. L'attuale fragilità politica e culturale della sinistra non giustifica la rinuncia a fare il possibile per evitare gli scenari più catastrofici e per favorire l'innescarsi di tendenze progressive. Non si vede come si potrebbe dissentire da tale diagnosi, a meno di rifiutarsi di guardare in faccia le trasformazioni che hanno letteralmente sconvolto i processi di riproduzione, il paesaggio sociale e i nostri stessi contesti vitali. E tuttavia, proprio riguardo al tema, decisivo, degli strumenti teorici e pratici in possesso della sinistra, la posizione di Cini meriterebbe forse qualche precisazione. Tanto più che l'incipit del suo contributo (con la ripresa di un lungo brano dell'intervento di Claudio Fava al congresso di Sinistra democratica) è marcato da una esplicita opzione politico-culturale che - salvo fraintendimenti da parte mia - lo sviluppo dell'argomentazione non sembra legittimare. Cini individua tre differenze essenziali che, ai suoi occhi, distinguono il capitalismo del XXI secolo da quello novecentesco.

Almeno una di queste (la crescente rilevanza della produzione di merci immateriali) - ma il discorso vale pure per l'intreccio tra scienza, tecnologia e sfruttamento economico dell'innovazione - sarebbe indecifrabile ove si prescindesse non soltanto dalla critica marxiana del modo di produzione capitalistico, ma anche dal vissuto collettivo del movimento operaio. Credo che Cini convenga sul fatto che senza Marx (senza partire da Marx) gli sarebbe impossibile descrivere la dinamica di estrazione di valore dalla produzione di «merci non tangibili» e coglierne le implicazioni relative al «consumo» e al rapporto tra capitale e lavoro vivo. Se poi pensiamo all'analisi marxiana della capitalizzazione delle forze produttive materiali e alle lotte per il controllo operaio, lo stesso si può dire a proposito della sempre più stretta connessione tra ricerca scientifica, sviluppo tecnologico e processo produttivo. La riflessione di Cini si colloca dunque, in buona misura, nel quadro del marxismo teorico e si giova di sviluppi analitici promossi dalle esperienze del movimento di classe. Senonché, nei confronti di questa vicenda e di questa linea teorica Cini formula giudizi quanto meno severi. Parla di «vetustà degli strumenti pratici e teorici» di socialismo e comunismo. E di una «cassetta degli attrezzi ereditata dal bisnonno». Ora, la questione non è se vi sia in tali giudizi un difetto di riconoscenza intellettuale. Il parricidio teorico è un diritto inviolabile, oltre che una condizione necessaria del progresso. Il punto è che - come testimoniano le vicende che hanno condotto alla dissoluzione del Pci e, ancor oggi, il travaglio della sinistra di alternativa - proprio in un problematico rapporto con Marx e con la storia intellettuale e politica del marxismo si genera un elemento di opacità gravido di conseguenze politiche: un passaggio irrisolto che comporta questioni non eludibili. Se si lavora (anche) con gli strumenti forniti da Marx, occorrerebbe dire perché e in che misura non si è (più) comunisti. Se si è tuttora convinti che l'impianto teorico via via elaborato dal movimento di classe costituisca un riferimento pertinente, bisognerebbe spiegare per quale motivo - che non sia il sacrosanto rifiuto del settarismo - si proclama la necessità di una «sinistra senza aggettivi»; perché si considera afflitto da manie identitarie (se non addirittura un relitto) chi si dichiari ancora comunista; e in base a quali ragioni si attribuisce efficacia antisistemica a proposte politiche (il mutualismo dei socialisti utopisti) difficilmente compatibili con l'analisi marxiana del processo di accumulazione. Con il suo intervento, Cini ha avuto il grande merito di rammentarci l'urgenza di un serio impegno teorico e di una ricerca libera da dogmi. Dobbiamo essergliene grati.

Ma un percorso autonomo e scevro da pregiudizi non può non muovere dalla comprensione delle proprie opzioni fondamentali e dall'esame critico dei loro presupposti.

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