Print Friendly, PDF & Email
header micromega

Il freddo inverno della sinistra italiana

Marco Revelli/Alessandro Dal Lago Emiliano Brancaccio

Ci sono almeno due milioni di elettori orfani – quelli che alle ultime europee hanno votato per le due liste che gli avversari definiscono di sinistra radicale – senza contare i tanti astenuti. Un patrimonio andato sprecato per l’insipienza delle classi dirigenti, che non hanno saputo mettere in campo un progetto concreto e credibile. Tre intellettuali a confronto per provare a uscire dal lungo e freddo inverno della sinistra

pc 65Marco Revelli:

Se proprio devo fare outing, ammetto la mia colpa. Prima delle elezioni avevo dichiarato che questa volta non sarei andato a votare. Devo confessare che però, purtroppo, non ho mantenuto fede al mio proposito. Ho votato Rifondazione comunista, «facendomi pena!» – questa è l’espressione giusta – e tuttavia l’ho votata, con un voto di autentica disperazione, legato solo al desiderio (molto egoistico, me ne rendo conto) di non sentirmi troppo male con me stesso il giorno dopo di fronte ai risultati.

Considero comunque il mio voto un «errore» da un punto di vista strettamente politico. Perché credo che la stupidità in politica non debba godere dell’immunità. Che chi compie degli atti stupidi sia giusto che paghi. E quello che è stato posto in essere dalla sinistra, dalle diverse componenti della sinistra cosiddetta radicale negli ultimi mesi, nessuna esclusa, è sicuramente un comportamento segnato da profonda, grave dissennatezza politica.

Non voglio distribuire le responsabilità, che a mio avviso sono pari nelle diverse componenti. L’uscita dal parlamento a seguito delle elezioni politiche del 2008 poteva apparire come il risultato di una sorte ingenerosa, ma i mesi successivi, le vicende del congresso di Rifondazione, le scelte compiute dai gruppi dirigenti delle diverse anime di quella sinistra, hanno ampiamente giustificato la «sentenza di morte» emessa allora dall’elettorato (Sartori parlò di giusta cancellazione dei «nanetti», e sinceramente, col senno di poi, bisogna dire che non aveva torto).

Credo che non si possa ripartire dai gruppi dirigenti. Da «quei» gruppi dirigenti. I cocci non si possono rimettere insieme; con i cocci si può fare una buona esegesi delle fonti, se vogliamo, si può costruire una realtà museale, si può persino fare dell’estetica politica, ma non si rilancia un progetto. Con queste culture politiche, così come sono incarnate dai due gruppi dirigenti – parlo della sinistra radicale prevalente – non si può ripartire.

Diverso è il discorso sui due milioni di voti – espressione di una parte generosa e consistente della nostra società – che queste liste hanno comunque raccolto in occasione delle ultime elezioni europee. È da questi due milioni di voti che si dovrà ripartire, perché due milioni di orfani politici sono una realtà, un patrimonio che non deve essere disperso. Ma si dovrà ripartire, io credo, con linguaggi, riferimenti culturali, progetti, programmi e persone totalmente diversi.

Alessandro Dal Lago:

Anche io come Revelli avevo annunciato che non sarei andato a votare. Ovviamente la cosa non aveva importanza se non per me; tuttavia mi piaceva pensare che nel mio piccolo avrei contribuito a lanciare un messaggio. E devo dire che io ho tenuto fede al mio impegno. Aggiungo che non me ne sono pentito affatto.

Il messaggio che alcuni di noi volevano dare – e in questo sono assolutamente d’accordo con quanto ha appena detto Revelli – era diretto a gruppi dirigenti affetti – non solo da quest’anno, ma direi almeno dai tempi del governo Prodi – da stupidità politica oggettiva e recidiva. Il messaggio era chiaro: «andatevene». Un elettore qualunque, un cittadino qualunque di sinistra come io mi reputo, non ne può più di questi gruppi. E da questo punto di vista io sono abbastanza soddisfatto dell’esito delle elezioni. Naturalmente la mia è una soddisfazione amara, acre, anche perché non credo che il messaggio sarà accolto.

L’impressione che traggo da ciò che sto leggendo in questi giorni successivi alla tornata elettorale è che i vertici dei partitini continueranno tranquillamente con questi risibili giochetti politici, con queste aggregazioni fantasmatiche o divisioni totalmente insensate. E le responsabilità di tale situazione non possono essere addebitate a una sola persona o a un solo gruppo, ma vanno distribuite equamente.

Il ceto politico della sinistra radicale – ma sarebbe meglio definirla sinistra «sociale» – non mi pare abbia minimamente colto la gravità della fase e i messaggi che gli sono stati lanciati dal proprio elettorato.

Tuttavia non possiamo trascurare il fatto che due milioni di voti segnalano la persistenza di un bacino elettorale non piccolo in attesa di trovare una degna rappresentanza. È un dato rilevante anche perché io credo che questo bacino elettorale sia potenzialmente molto più ampio, se si considerano quelli che, come me, non sono andati a votare e i tanti che hanno scelto Di Pietro per una valutazione contingente e tattica legata a una sua maggiore visibilità in chiave antiberlusconiana. Sommando i voti raccolti dalle liste di sinistra, gli astenuti (che sono stati moltissimi sia alle elezioni del 2008 sia alle ultime europee) e i tanti elettori di sinistra che hanno scelto Di Pietro, si raggiunge una quota che secondo me si attesta attorno al 15 per cento dell’elettorato. Ed è una valutazione che ritengo molto, ma molto cauta, se si pensa che fino a poco tempo fa la sinistra sociale raccoglieva tranquillamente il 12 per cento dei voti e nel frattempo sono intervenuti mutamenti che potenzialmente ne accrescerebbero in modo rilevante la capacità di attrazione. Parliamo dunque di una fetta consistente di società, che se solo riuscisse a esprimere un progetto all’altezza riuscirebbe a incidere profondamente sugli equilibri politici del nostro paese.

Che cosa ci riserva il futuro? La mia impressione è che ci sia non solo un problema di classi dirigenti autistiche, chiuse nelle loro stanze e nei loro discorsi autoreferenziali, ma anche un problema più generale di struttura stessa della rappresentanza politica. Penso per esempio alle figure che periodicamente vengono presentate alle elezioni: non c’è nessun rapporto tra queste personalità e la società che dovrebbero rappresentare. Nessuno riesce mai a verificare il loro operato.

Io non sono contrario alle elezioni per motivi di principio: ovviamente la cosa ha un senso se è funzionale a un progetto politico. Ma la sinistra sociale non può rapportarsi al problema della rappresentanza in modo identico a quello degli altri partiti, se no viene meno la sua stessa ragion d’essere. Per dotare di maggiore concretezza il mio discorso posso citare l’esempio della stessa città in cui vivo, Genova, che è storicamente una città di sinistra. Beh, in questi anni io non mi sono mai accorto che Rifondazione o altre formazioni della sinistra esistessero, se non nei periodi elettorali o in qualche dibattito o polemica comunale. Ma tra un’elezione e l’altra nessuno chiama mai i cittadini a fare una discussione, a partecipare, a interloquire con i propri rappresentanti eccetera.

Ecco, io credo che il problema sia esattamente questo: la gente si è stufata di essere rappresentata da un personale politico del genere.

 

Emiliano Brancaccio:

Alle elezioni ho votato per la lista di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani, e ho sottoscritto l’appello al voto per questa lista. Per esser sinceri fino in fondo, credo di averlo fatto con il sentimento di chi va verso una specie di «plotone d’esecuzione» politico. Infatti, dopo la discutibile scissione a opera di alcuni degli sconfitti di Chianciano, e con un partito che in questi anni è stato irresponsabilmente sradicato dal territorio e che di fatto ancora non dispone di un preciso progetto di costruzione del consenso, nutrivo dei dubbi sulla possibilità di raggiungere la soglia del 4 per cento. Ma il punto è che se anche la lista avesse raggiunto quella soglia, le cose in realtà non sarebbero cambiate moltissimo. Penso infatti che i problemi di fronte ai quali ci troviamo vengano da lontano e siano profondissimi. Anche per questo, se permettete, credo che per affrontare correttamente un discorso su quale futuro attenda la sinistra in Italia occorra sviluppare una breve analisi preliminare.

Il dato da cui penso sia necessario partire è che le ultime elezioni hanno confermato una tendenza già ben visibile da molti anni: i lavoratori subordinati – soprattutto i lavoratori con minori tutele che operano nel settore privato e con mansioni esecutive – hanno da tempo abbandonato i partiti socialisti e comunisti, cioè i partiti eredi più o meno legittimi della tradizione del movimento operaio, e hanno indirizzato sempre di più il loro voto verso le destre, specialmente verso le destre populiste. Questa tendenza è in atto in Europa e in Italia da circa un quarto di secolo, e non sembra minimamente arrestarsi. Anzi, secondo i dati di cui disponiamo, pare addirittura che stia rafforzandosi.

Ora, questi stessi lavoratori appaiono oggi particolarmente sensibili alle rivendicazioni legate alla difesa degli interessi territoriali e nazionali. Potremmo dire che nella loro visione il vecchio conflitto di classe svanisce, e viene soppiantato dal conflitto territoriale. Questo spostamento delle rivendicazioni dalla classe al territorio si compie in modo istintivo, ma non è né casuale né irrazionale. Questi lavoratori infatti percepiscono che l’apertura internazionale dei mercati e la conseguente maggiore circolazione mondiale dei capitali, delle merci e in parte anche dei lavoratori – in una parola la cosiddetta «globalizzazione capitalistica» – ha alimentato una guerra sempre più feroce tra i lavoratori. È una guerra mondiale tra poveri che deteriora le condizioni di lavoro, intensifica lo sfruttamento, comprime i salari e lo stato sociale, e crea quindi anche i presupposti per la crisi economica.

Ebbene, per difendersi da questa guerra i lavoratori evidentemente cercano risposte politiche. E bisogna ammettere che al momento essi trovano risposte soltanto a destra. Infatti, soprattutto a seguito della crisi, le destre (non soltanto le destre populiste e xenofobe, anche le destre tradizionalmente conservatrici) hanno accentuato i loro propositi di difesa dei capitali nazionali, si sono votate al protezionismo commerciale e hanno sempre di più insistito sul blocco dell’immigrazione quale valida risposta al conflitto tra i lavoratori che viene oggettivamente alimentato dalla globalizzazione.

Ora, è noto che una classica alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione consiste nel blocco dei movimenti di capitale. Vincolare questi movimenti significa infatti impedire ai capitali di scorrazzare liberamente da un capo all’altro del mondo a caccia dei massimi rendimenti, cioè delle maggiori possibilità di sfruttamento del lavoro. Significa quindi impedire ai capitali di mettere in sfrenata concorrenza i lavoratori a livello globale. Il problema è che oggi si parla di continuo di blocco dell’immigrazione ma non si spende nemmeno una parola sul blocco dei movimenti di capitale. E questo silenzio è uno dei numerosi sintomi della situazione di totale «imbambolamento» nel quale versano le sinistre.

Ma perché c’è questo silenzio? Come si spiega questo imbambolamento? Riguardo ai partiti socialisti europei, la risposta a mio avviso è che essi in questi anni non hanno semplicemente assecondato la globalizzazione capitalistica. In Europa i socialisti sono stati i principali fautori dell’apertura dei mercati. E hanno cercato di giustificare questo loro pieno sostegno alla globalizzazione sulla base di un totale travisamento dei fatti. Alcuni esponenti del socialismo europeo sono stati addirittura capaci di spacciare l’odierno internazionalismo del capitale (l’odierna apertura dei mercati) come una variante aggiornata del vecchio internazionalismo operaio (cioè del solidarismo internazionale che caratterizzava il movimento dei lavoratori). E invece bisognerebbe ricordare che i due movimenti sono in irriducibile conflitto, poiché se esiste l’internazionalismo del capitale allora la competizione globale tra lavoratori si intensifica e quindi l’internazionalismo operaio inevitabilmente deperisce e muore. Per quanto riguarda poi le sinistre comuniste, anticapitaliste e cosiddette «radicali», abbiamo troppo spesso assistito a comportamenti grotteschi, dettati da ignoranza e furbizia. Nel periodo di massimo splendore del movimento altermondialista, vi fu in effetti l’opportunità di lanciare una reale sfida per l’egemonia ai partiti socialisti, che all’epoca celebravano entusiasti le grandi virtù del liberismo. Accadde invece che ci si perse attorno a una serie di proposte folkloristiche e risibili, come ad esempio quella di contrastare la globalizzazione creando piccole comunità di autoproduzione e autoconsumo, magari nel nostro quartierino.

Ecco, secondo me in quella fase si sono perdute delle occasioni importanti. E in parte ciò è dipeso anche dal fatto che i gruppi dirigenti della sinistra «radicale» non hanno mostrato alcun interesse verso la possibilità di fare piazza pulita del folklore, per contendere realmente l’egemonia ai partiti socialisti. Invece sono apparsi più interessati a tenersi le mani libere per conquistare di tanto in tanto qualche contentino, qualche prebenda da quegli stessi partiti. Dunque, se i dirigenti della sinistra «radicale» se ne devono andare, un buon motivo per farlo è che hanno avuto delle occasioni storiche e le hanno malamente sprecate.

 

Revelli:

Dico subito che sono in radicale dissenso con quanto ha appena detto Brancaccio. In particolare sull’affermazione secondo la quale la chiusura dell’azione politica – e in particolare delle politiche economiche – entro i confini dello stato nazionale avrebbe potuto rappresentare la risposta vincente di una sinistra radicale rispetto alla resa delle sinistre socialiste e tradizionali alla globalizzazione e al liberismo.

Io non credo che si possa inseguire la destra sul terreno della rinazionalizzazione del confronto e del conflitto. Non è un caso che buona parte delle destre, anche quelle che sono state iperliberiste fino a ieri, riscoprano la dimensione nazionale. Certo, è una logica che forse paga dal punto di vista elettorale, ma è un dato di fatto che i neonazionalismi o i neoregionalismi abbiano tutti un segno di destra, siano ispirati da logiche di recinzione dell’identità, di costruzione più o meno artificiale di un «noi», di un’identità collettiva che si esprime nel rifiuto dei flussi provenienti dall’esterno, dell’«altro» in ogni suo aspetto, in primo luogo dei flussi di persone, di migranti, ma poi anche dei flussi di capitale. Non credo che si possa inseguire su quel terreno la destra perché ogni volta che si sono affermate logiche di recinzione nazionalistica, protezionistica, incentrate sull’identità nazionale, si è aperta la strada a soluzioni catastrofiche dal punto di vista politico: a dinamiche aggressive, belliciste, autoreferenziali, di cui il nazionalsocialismo è stata l’espressione estrema e più abominevole.

A me preoccupa moltissimo il segno con cui si stanno connotando le dinamiche politiche nella crisi; mi preoccupa moltissimo l’atteggiamento che una parte del mondo del lavoro sta assumendo nella ricerca di politiche di difesa. E che la questione della «difesa sociale» di quello che è stato il tradizionale insediamento di massa della sinistra, cioè del «mondo del lavoro», non sia una priorità assoluta. Una sfida per molti aspetti drammatica, e oggi in gran parte perduta. Rifiuto però nettamente l’idea che ciò possa passare attraverso una rinazionalizzazione del conflitto e della politica. Cioè attraverso un forzato e artificiale ritorno alle condizioni del secolo scorso, quello che a buona ragione poté effettivamente essere definito il «secolo del lavoro».

D’altra parte quando parliamo del mondo del lavoro, di comportamenti dei lavoratori, dobbiamo tener presente che anche in questo siamo anni luce distanti dal Novecento maturo, dal Novecento centrale. Non esiste più un mondo del lavoro omogeneo, unificato; le sue componenti sono estremamente frammentate, differenziate all’interno dello stesso mondo del lavoro subordinato, del lavoro dipendente, ma anche in rapporto alla galassia del lavoro autonomo. Così come sono diversificate le politiche di difesa che vengono selezionate e individuate. C’è una parte del mondo del lavoro che si difende dall’ipercompetitività della globalizzazione, dall’integrazione dei mercati del lavoro, dalla concorrenza del lavoro straniero con risposte di tipo leghista e di chiusura delle frontiere; ci sono altre parti del mondo del lavoro che si difendono cercando di rafforzare le garanzie tradizionali, gli ammortizzatori sociali, con pratiche neocorporative o micronegoziali, lasciando fuori ampi settori cresciuti all’esterno di quel sistema di welfare; ce ne sono altre che praticano il «si salvi chi può» individuale, moltiplicando gli straordinari, accettando condizioni indecenti, piegando la testa…

Siamo di fronte a un caleidoscopio all’interno del quale, d’altra parte, la qualifica di «lavoratore» non è più identificante. Se vogliamo, la crisi attuale ci mette di fronte a un mix costituito da una parte da bisogni postmaterialistici, così come sono stati definiti, e quindi da nuovi atteggiamenti nei confronti degli stili di consumo, dei beni «simbolici», delle pratiche di status, e dall’altra parte da un ritorno di bisogni crudamente materialistici, di reddito, di servizi essenziali, di protezione dall’impoverimento. Questi due elementi si intrecciano fortemente e determinano umori, sentimenti, atteggiamenti difficili da codificare, impossibili da ricondurre a un linguaggio politico razionale e coerente (come era abituata a fare la sinistra), e proprio per questo terribilmente pericolosi in politica, perché hanno tutti all’origine un elemento di invidia sociale, di rancore, di risentimento e di aggressività.

Ora, io credo che una sinistra adeguata a questo tempo debba imparare a misurarsi con questi nuovi veleni e costruire degli antidoti. Con umiltà. Sapendo che non ci sono ricette consolidate. Soluzioni già sperimentate. Che bisogno inventare, privilegiando l’ascolto di ciò che si muove nel sociale, prima di dare la stura ai proclami. È vero che la micropolitica dell’altermondialismo appare insufficiente rispetto alla dimensione dei problemi, ma la grande politica del neoprotezionismo non è la risposta adeguata.

 

Dal Lago:

Sì, anch’io non sono del tutto convinto dal discorso sul nazionalismo. Qualche settimana fa sono stati diffusi dati interessanti sul fatto che i salari italiani sono praticamente i più bassi d’Europa. È un dato che si riferisce a un ciclo lungo, che comincia probabilmente alla fine degli anni Novanta e continua fino a oggi. Questa tendenza si intreccia però con quello spostamento, a cui già si è fatto cenno, dai conflitti di classe a quelli territoriali, nonché a ciò che Revelli chiama i bisogni postmaterialisti. Io ho l’impressione che la destra vinca in tanti modi, ma soprattutto perché, rivolgendosi a questi segmenti differenziati di lavoratori, è stata capace di trasformare le rivendicazioni materiali in rivendicazioni simboliche.

Si è parlato molto dello sfondamento delle destre, e soprattutto della Lega, nei settori popolari e operai. Ma io vorrei sapere in che misura questi lavoratori trovano nelle destra la risposta a una condizione salariale che è fra le peggiori d’Europa. E parlo dei lavoratori dipendenti, figuriamoci se interpellassimo anche il vasto mondo del precariato… Questa contraddizione non è nuova nella storia. Penso ad esempio alla lotta politica nella Germania degli anni Venti e Trenta, quando prima dell’ascesa al potere di Hitler i comunisti e i nazisti si disputavano in gran parte uno stesso elettorato. Quindi siamo di fronte a un fenomeno pericoloso, ma che ha degli antecedenti storici. Io sono convinto che su questa contraddizione la sinistra radicale non è stata capace di intervenire e non solo per il carattere «micrologico» delle rivendicazioni altermondialiste, il vago solidarismo del consumo equo e solidale, le iniziative alla José Bové e tutte le cose simili, che alla fine hanno avuto – a mio avviso – un effetto di ottundimento generalizzato. Non è stata capace di intervenire su quella contraddizione perché ha fatto un discorso puramente ideologico, senza intercettare alcun tipo di istanza, né materiale né simbolica.

Un altro esempio che potrei fare da questo punto di vista è il problema del radicamento territoriale dei partiti. È assolutamente naturale e comprensibile che partiti come quello berlusconiano o lo stesso Pd non abbiano bisogno di radicarsi sul territorio e abbiano dunque abbandonato questo modello. Ma nel caso della sinistra radicale la cosa non ha assolutamente senso, perché non disponendo di mezzi economico-mediatici, la territorialità non può non essere uno degli elementi fondamentali dell’azione politica.

E questo è ciò che più è mancato alla sinistra radicale. È cominciato a mancare secondo me all’epoca di Bertinotti con i discorsi generici, puramente astratti, sul movimento no global eccetera; e continua a mancare con l’incapacità delle piccole élites locali e nazionali di questi partiti a intervenire sulla contraddizione fondamentale fra ordine materiale e ordine simbolico. Ritengo che qui vada individuato uno degli elementi essenziali dell’attuale crisi. Resta nondimeno il fatto che, come dicevo prima, c’è ancora una consistente fetta di elettorato disponibile a, come dire, non «nazionalizzarsi», a non «territorializzarsi» in senso leghista. Questo elettorato, questo settore sociale che si esprime anche attraverso le elezioni, continua a fare delle domande a cui nessuno risponde.

 

Brancaccio:

È positivo che Revelli abbia espresso il proprio dissenso in maniera netta. I grandi problemi di fronte ai quali ci troviamo hanno bisogno di prese di posizione chiare, e la mia posizione è alternativa rispetto a quelle da tempo sostenute da Revelli.

Io non condivido innanzitutto la sua analisi della frammentazione intervenuta nel mondo del lavoro. Non dimentichiamo che le divisioni che hanno investito il lavoro sono state determinate in misura rilevante da una serie di scelte politiche. Queste scelte hanno contribuito a determinare una profonda differenziazione nei salari, nelle condizioni di lavoro e nelle tutele. È una differenziazione che ha accentuato la guerra tra lavoratori di cui parlavamo prima: privati contro pubblici, precari contro stabili, giovani contro anziani, e adesso soprattutto nativi contro immigrati. E oggi vi è chi gioca e specula su queste fratture tra i lavoratori, alimentando ulteriormente il conflitto tra di essi. Del resto, sono proprio queste grandi differenze tra i lavoratori ad aver creato le condizioni per una sconfitta generale del lavoro sia nei processi di distribuzione del reddito, sia nella scelta dei metodi e dei ritmi produttivi, sia nel tipo di produzione che si voleva realizzare.

L’accenno ai bassi salari italiani che ha appena fatto Dal Lago è utile all’interno della nostra conversazione. È l’ulteriore dimostrazione che la globalizzazione capitalistica non favorisce la convergenza tra i paesi, come dicono i liberisti, ma produce divergenza a tutto tondo. A questo riguardo l’Italia è uno dei paesi che ha maggiormente arrancato in Europa, e che ha quindi subìto un pesante distanziamento in termini di redditi e di salari rispetto alle aree centrali dell’accumulazione capitalistica europea.

Dunque il punto di fondo è questo: se noi continuiamo a manifestare una certa pruderie, una certa inquietudine nei confronti della proposta di bloccare i capitali e di ridurre l’apertura dei mercati, rischiamo di cadere in un equivoco colossale. Mi spiego: io sostengo che un’epoca di rinnovata coesione e protagonismo del movimento dei lavoratori a livello globale, un’epoca di nuovo «internazionalismo operaio», potrà fiorire solo in seguito a un processo di rinnovata segmentazione e divisione dei mercati, partendo dai mercati finanziari per arrivare eventualmente anche ai mercati delle merci.

Quando si dice di temere una «deriva nazionalista» secondo me si cade in un equivoco, perché occorre riconoscere che sul piano storico il movimento dei lavoratori si sviluppa a livello internazionale proprio in relazione a dei processi di segmentazione e di irrigidimento dei mercati finanziari e delle merci, non certo grazie a una loro apertura. Quando si è verificato un processo di apertura globale dei mercati finanziari e delle merci, la competizione è diventata sfrenata e il movimento internazionale dei lavoratori ha ripiegato su se stesso, fino a implodere.

Questo è un punto molto importante, nel senso che o capiamo questo fatto ed esigiamo una presa di posizione precisa su questo problema, oppure continueremo a essere vittime di esponenti politici che attraverso una pletora di chiacchiere cercheranno di coprire le peggiori nefandezze. Tanto per fare un esempio, legato alla contingenza politica più spicciola, subito dopo le elezioni ho sentito l’ex segretario di Rifondazione Franco Giordano parlare di grandi scenari, grandi prospettive e così via, e immediatamente dopo chiedere a Linda Lanzillotta – una delle esponenti del centro-sinistra che più si è distinta per subalternità al pensiero unico liberista nonché fra i principali sostenitori della privatizzazione dei servizi pubblici – se vi fosse un po’ di spazio per Sinistra e libertà nelle future strategie del Partito democratico, senza nemmeno chiarire i termini di un eventuale accordo. Ecco, io credo che questo iato spaventoso tra dichiarazioni roboanti e pratica politica effettiva sia un altro sintomo della profonda crisi nella quale ci troviamo immersi. Se non facciamo muro, avanzando analisi e proposte politiche precise e alternative, secondo me non ne usciremo mai.

 

Revelli:

I termini del dissenso con Brancaccio si sono fatti espliciti. È un dissenso molto forte, molto netto, molto polarizzato. Io non credo assolutamente che la metamorfosi radicale dell’universo del lavoro a cui abbiamo assistito nell’ultimo quarto di secolo sia ascrivibile solo a scelte e a ragioni politiche. Ci sono delle dinamiche profonde, tecnologiche, organizzative, di «paradigma» vorrei dire, che hanno determinato tutto questo. Indubbiamente ci sono degli imprenditori politici che hanno quotato alla borsa del consenso i risultati di questo processo e hanno enfatizzato gli aspetti torbidi che esso implicava. Penso al fenomeno della xenofobia e al modo in cui la Lega utilizza la paura e la competizione fra lavoratori. Ma la politica non è l’unico fattore esplicativo di ciò che è accaduto nella società.

Dal 1980 a oggi io ho visto la mia città, Torino, mutare faccia dal punto di vista della sua composizione sociale per effetto di potentissimi processi tecnico-organizzativi. Ho visto la Fiat Mirafiori svuotarsi, passare da 60 mila operai (con 130 mila dipendenti complessivi di Fiat Auto) a 10 mila… Tutto questo non è solo il prodotto di scelte politiche, ma ha a che fare con le trasformazioni profonde nel corpo del capitale. Non credo quindi che sia «politicizzando» radicalmente la questione che noi ne veniamo a capo.

Così come continuo a essere convinto che la segmentazione su base nazionale dei mercati, come Brancaccio la propone, sia un’operazione devastante, in primo luogo per quanto riguarda la ricaduta di ciò sulle «culture politiche» implicate nell’operazione, e sugli atteggiamenti di massa, le dinamiche simboliche, le mentalità collettive che dovrebbero necessariamente essere mobilitate in quest’operazione di intervento massiccio sulle strutture economiche e finanziarie. Risegmentare mercati che si sono integrati significa costruire barriere, fratture, confini attraverso l’impiego di valori simbolici aggressivi, perché la rinazionalizzazione implica identità omogenee, coese, territorialmente radicate e obiettivamente fascistoidi. Vuol dire un impiego massiccio della logica «amico-nemico», l’invenzione di una qualche tradizione e di una qualche antitesi negativa, un’alterità attraverso cui simbolizzare un esterno che non c’è più, ma di cui c’è necessità se si vuole «recintare» il noi…

Il tentativo di ricondurre a logiche nazionali il primo processo di globalizzazione ha prodotto veleni a destra e a sinistra: ha prodotto il nazismo e la degenerazione della rivoluzione russa in nazionalbolscevismo. Sono assolutamente terrorizzato dall’esito che potrebbero avere tentativi di questo tipo oggi, con la potenza assunta dagli apparati di comunicazione.

Io credo che alla globalizzazione un merito possa essere riconosciuto. Non sono fra quelli che l’hanno criticata e contrastata in tutti i suoi aspetti: l’apertura dei confini asfittici delle dimensioni nazionali è stata a mio avviso un vantaggio per l’umanità. Pone ovviamente dei giganteschi problemi di governance, di gestione politica del processo, ma non possiamo rifiutare queste opportunità e queste prospettive in quanto tali. La sinistra non è stata capace di nuotare in questo nuovo mare senza andare a ricercare ricette vecchie, ricette novecentesche. Cerchiamo di evitare che naufraghi l’intera, fragile, umanità presente e futura.

Dal Lago:

Da quando i fenomeni migratori (e le problematiche a essi connesse) hanno conquistato una certa importanza in questo paese, all’interno di una certa sinistra si è diffuso il concetto di «guerra fra poveri», che secondo me è fondamentalmente sbagliato. Cerco di spiegarmi: il conflitto a cui si fa riferimento con questa espressione è in larga parte un conflitto immaginario, non un conflitto reale. L’operaio che decide di votare Lega o Pdl è comunque uno che in un paese come l’Italia ha un salario basso: parliamo di un salario che oscilla fra i 700 e i 1.200 euro al mese ed è – come si è detto prima – fra i più bassi d’Europa. L’elemento di riterritorializzazione – che prenda la forma di una regionalizzazione oppure di una nazionalizzazione della sua identità – ha un valore di supplenza evidente; ma se poi torniamo a guardare all’aspetto eminentemente materiale, al lato degli «interessi», questa territorializzazione non porta alcun tipo di vantaggio.

Negli anni scorsi abbiamo tanto criticato un approccio esclusivamente economicista e materialista da parte della sinistra, ma tenendo fede a quell’approccio è facile rendersi conto che gli «interessi» non c’entrano con la paura nei confronti della moschea del quartiere o degli immigrati in generale, paura che poi si materializza in cose orripilanti come i respingimenti in mare, che altro non sono che «omicidi preventivi» di esseri umani.

Non esiste un conflitto tra segmenti diversi del mondo del lavoro, non esiste un conflitto reale, perché stiamo parlando di immigrati che per lo più hanno salari risibili e sono impiegati in settori del tutto diversi da quelli in cui sono impiegati gli italiani. Un italiano non accetterebbe mai il salario di 400 euro di un rumeno al quale magari quei soldi sembrano molti se comparati ai 150 euro che guadagna in Romania.

In queste forme di chiusura che sfociano nell’intolleranza e nella xenofobia io vedo piuttosto l’esito del disagio – a cui hanno contribuito tanto le scelte politiche del centro-destra quanto quelle del centro-sinistra – dovuto alla marginalizzazione del lavoro nella società contemporanea. Disagio che, filtrato da determinati processi di «simbolizzazione», si sfoga contro gli immigrati e i «diversi» in generale.

Ma se le cose stanno così oggi, non sono date così per sempre e sono quindi in qualche misura modificabili. Dove purtroppo io scorgo il fallimento decisivo della sinistra, chiamiamola così, «di classe» è nell’aver ignorato il problema con discorsi molto astratti oppure nell’aver assecondato spinte di tipo – lo dico tra molte virgolette – «neoxenofobe». La priorità che la sinistra sociale dovrebbe porsi è dunque quella di tornare a intervenire su tali questioni, riscoprendo la riflessione sugli interessi ma anche lavorando sui simboli.

Anche io condivido quanto detto da Brancaccio sullo iato incredibile fra dichiarazioni roboanti come quelle di Giordano seguite da richieste pigolanti di collaborazione rivolte al Pd, ma qui siamo di fronte a un più generale problema di qualità scadente di questo ceto politico. È gente che è rimasta indietro di vent’anni, che non è assolutamente in grado di capire la nuova situazione che si è venuta a creare e soprattutto che difende le proprie posizioni acquisite. Per esempio nelle tentazioni di ritorno all’Unione che nelle giornate postelettorali sono filtrate con evidenza da Sinistra e libertà io vedo semplicemente il disperato tentativo di questi microgruppi politici, di trovare comunque una collocazione, a tutti i costi.

 

Brancaccio:

La posizione di Revelli è sbagliata. Ed è una posizione, io dico, superata, nel senso che la traccia sviluppata da Revelli ha ispirato negli ultimi anni tutta una serie di ricerche teoriche e iniziative politiche che sono state al centro del dibattito e non mi pare che abbiano dato risultati particolarmente positivi. C’è una generica propensione globalista da parte della sinistra cosiddetta radicale che è il frutto di uno spaventoso equivoco, equivoco in cui lo stesso Revelli mi pare cada pesantemente.

Nel momento in cui si accetta l’impianto interpretativo proposto da Revelli e sostenuto da numerosi, vecchi esponenti della sinistra radicale, il flusso di voti dei lavoratori e delle fasce popolari che si indirizza verso la destra – soprattutto quella populista e xenofoba – è destinato a diventare inarrestabile.

Ha ragione Dal Lago nel sostenere che esiste una dimensione «simbolica» che forze come la Lega riescono a proporre con estrema efficacia, ma, adottando una chiave interpretativa storico-materialista aggiornata, credo che questa scissione concettuale tra dimensione materiale e dimensione simbolica debba essere superata. Il conflitto simbolico infatti da solo non può sussistere. Esso prospera solo se esistono tendenze materiali potenti che lo sostengono. E queste tendenze ci sono. Da un punto di vista economico, la tesi che porta avanti Dal Lago è in fondo la tesi della «segmentazione del mercato del lavoro». È una interpretazione che tra gli economisti ha avuto un certo seguito negli anni passati. Secondo questa lettura gli immigrati non concorrono con i nativi perché si collocano in segmenti del mercato del lavoro diversi, non concorrenziali.

Purtroppo però dobbiamo rilevare che oggi il mercato del lavoro è sempre meno segmentato ed è sempre più fluido, e quindi i diversi lavoratori sono sempre più fungibili tra loro. Insomma, per usare un’espressione marxiana, il lavoro si fa «astratto». Questo significa che la competizione tra lavoratori nativi e immigrati si sta effettivamente realizzando, nel senso che l’apertura dei mercati – dei capitali e delle merci in primo luogo, ma anche l’accelerazione dei flussi migratori – sta determinando una convergenza verso il basso dei salari, delle condizioni lavorative e dello stato sociale. E sta anche determinando un conflitto per l’occupazione degli spazi metropolitani.

I dati purtroppo ci dicono questo. E allora insisto sul punto che ho introdotto nel mio primo intervento. Se noi vogliamo trovare una credibile alternativa di sinistra al blocco dell’immigrazione che la destra propone con tanto successo in questa fase, allora dobbiamo proporre un altro tipo di blocco, che sia innanzitutto blocco dei movimenti di capitale. In estrema sintesi, io dico: se vogliamo «liberare» i migranti, dobbiamo «arrestare» i capitali.

Se invece insistiamo su una concezione tutto sommato favorevole al globalismo, temendo che un approccio alternativo possa essere foriero di chissà quali pericoli nazionalisti e guerrafondai, secondo me ribaltiamo in modo del tutto erroneo i termini del problema: cioè non ci rendiamo conto che il blocco dei capitali è proprio la necessaria risposta di sinistra a un futuro di violenza nazionalista, fascista e guerrafondaia verso il quale stiamo drammaticamente scivolando.

 

Revelli:

Le divergenze che sono emerse nel nostro dialogo ci mostrano quanto siano profondi i problemi che abbiamo di fronte e quanto di fatto la sinistra, che ha ormai perso le proprie stelle polari, abbia necessità di essere completamente ripensata.

Dovendo però tirare le somme rispetto alla questione primaria sulla quale siamo stati chiamati a discutere – ovvero il futuro della sinistra radicale in Italia – vorrei solo proporre un paio di considerazioni. Quale sarà lo scenario nel quale ci si muoverà nei prossimi mesi, nei prossimi anni? Io credo che con le ultime elezioni sia stata sconfitta innanzitutto una tendenza che era alla base del recente processo di riorganizzazione del sistema politico italiano, ovvero la tendenza al bipartitismo. L’idea di un sistema politico strutturato su due grandi partiti egemonici è saltata completamente, sia sul versante del Pdl, sia sul versante del Pd, perché gli unici che si sono rafforzati sono coloro che stavano fuori da quello schema, cioè la Lega e Di Pietro.

L’altro elemento – collegato al precedente – che le recenti elezioni ci restituiscono è il fallimento del progetto di autosufficienza perseguito dal Partito democratico, l’archiviazione della sua «vocazione maggioritaria». Il Pd ha raggiunto a malapena la metà dei consensi che dovrebbe ottenere per poter avere una risicata maggioranza. Questo significa che nei prossimi mesi, nei prossimi anni ci muoveremo in un ambiente totalmente liquido dal punto di vista dei soggetti politici, perché i due partiti attorno ai quali doveva essere ridisegnata la nostra impalcatura istituzionale non hanno retto l’urto delle spinte centrifughe. Tutto ciò rende ancora più drammatiche le considerazioni che facevamo prima, sia per quanto concerne il conflitto tra segmenti del mondo del lavoro a cui faceva cenno Brancaccio, sia per quanto riguarda il timore di soluzioni neorazziste e neoautoritarie.

Credo che questo dovrebbe però richiamare a un senso di responsabilità chiunque oggi si muova nel nostro universo politico. Non abbiamo di fronte una primavera tranquilla; abbiamo di fronte, come diceva Weber all’inizio degli anni Venti, un freddo inverno, rigidissimo, in cui ognuno dovrà assumersi responsabilità pesanti.

 

Dal Lago:

Prima di concludere vorrei tornare in maniera molto rapida sulla questione del blocco dei capitali. In realtà questa strategia di un capitalismo «nazionale» il governo di destra italiano l’ha in qualche modo praticata, almeno a parole.

Pensiamo alle vicende Alitalia e Fiat.

In ogni caso, tornando a quanto diceva Revelli sull’inverno assai lungo che abbiamo di fronte, cerco di sforzarmi di intravedere qualche elemento che possa non farci disperare del tutto. Sono d’accordo sul fatto che la situazione sia in movimento, soprattutto grazie all’evidente battuta d’arresto subita dal progetto di controllo bipartitico sulla geografia politica italiana. Aggiungo anche che la fluidità dell’assetto a cui siamo per adesso approdati è accresciuta dal carattere a mio parere occasionale e provvisorio – per quanto il ciclo possa non esaurirsi in tempi brevissimi – di fenomeni politici come quello che vede protagonista Antonio Di Pietro.

In realtà la situazione è molto più fluida e complicata di quanto non si pensi. La stessa affermazione della Lega – per quanto giudichi terrificante il fatto che un partito del genere si attesti al 28 per cento in Veneto e abbia consensi enormi in tante altre zone del Nord – non credo possa proiettare questa formazione in una dimensione nazionale come qualche osservatore ha affermato subito dopo le europee, commentando la penetrazione appenninica del partito di Bossi in Emilia e Toscana.

Che fare allora all’interno di un quadro dai contorni così incerti? Secondo me le cose essenziali per la sinistra sono due. In primo luogo occorre ripensare il rapporto tra elettorato e rappresentanza. Insisto su questo perché i meccanismi che si sono affermati negli ultimi dieci anni e che hanno accompagnato la partecipazione delle varie formazioni di sinistra ai governi si sono dimostrati fallimentari. Inoltre ritengo esista una questione di leadership politica, di qualità della leadership, di rapporto tra i leader e la propria base elettorale o sociale, che non può essere più aggirata. I personaggi che anche nei giorni successivi all’ultima, ennesima sconfitta elettorale abbiamo visto ricominciare coi soliti giochetti politicisti devono, secondo me, essere buttati fuori. Se ne devono tornare a casa, dal primo all’ultimo, tutti i leader nazionali. Non ci sono alternative.

La seconda questione che ritengo sia essenziale per una rifondazione della sinistra anche localmente rimanda alla necessità di allargarsi al contributo del mondo del lavoro, della società civile, degli intellettuali, di chi è impegnato nelle associazioni e nei movimenti territoriali. Attraverso questo coinvolgimento allargato è forse possibile ricominciare a ragionare in termini di interessi concreti e di appropriate rappresentazioni simboliche, magari dotandoci di strumenti analitici e riferimenti nuovi, senza perdersi in discorsi del tutto autoreferenziali. Ho trovato ad esempio penosi questi dibattiti sulla «falce e martello sì», «falce e martello no» ai quali è sembrato ridursi il confronto politico a sinistra negli ultimi mesi. Sono chiacchiere che non hanno veramente più nessuna importanza, sono al di fuori di qualunque senso della realtà. Credo che il problema della rappresentanza e quello dell’identificazione delle motivazioni fondamentali dell’agire politico siano i due campi dai quali si deve ripartire.

 

Brancaccio:

Mi pare che almeno su un punto siamo tutti d’accordo, e cioè che sarà lungo e freddo l’inverno che ci attende. Prima però di affrontare la questione del futuro della sinistra italiana, devo rispondere a Dal Lago sul blocco dei capitali. Questo governo non sta agendo nella direzione del controllo dei capitali. Anzi, questo governo in realtà latita in un momento nel quale effettivamente le destre tradizionali europee si sono mosse a protezione dei capitali nazionali: il caso Fiat-Chrysler-Opel è indicativo proprio della latitanza del governo nazionale su questo versante, con rischi occupazionali elevatissimi dei quali ci accorgeremo a breve.

Aggiungo anche un altro chiaro esempio del fatto che al momento non c’è alcun blocco dei capitali. Poiché i mercati finanziari sono completamente globalizzati, i paesi relativamente deboli come il nostro sono tutt’ora esposti al rischio di un attacco speculativo sui titoli nazionali, cioè di una fuga di capitali all’estero. Si tratta di un attacco che questa volta potrebbe avere ripercussioni ancora più violente di quelle che si ebbero nel 1992 e che oltretutto decretarono una sconfitta pesantissima della sinistra sindacale e politica. Ovviamente, se venisse introdotto un meccanismo di blocco dei movimenti di capitali, il rischio di un attacco speculativo potrebbe essere scongiurato. Ma di blocchi al momento non si vede traccia, e quindi il pericolo è sempre in agguato.

Per quanto riguarda le prospettive di una ricostruzione politico-organizzativa della sinistra in Italia, dico con franchezza che non sono interessato a progetti politici che non si pongano come obiettivo chiave quello di invertire il flusso di voti che abbandona i partiti eredi (più o meno degni) della tradizione del movimento operaio e che si indirizza verso le destre populiste e xenofobe. La sinistra dovrebbe in primo luogo tentare di riconquistare la fiducia di quei lavoratori in condizioni di estremo disagio, che oggi in Italia, purtroppo, sono moltissimi, e che le hanno da tempo voltato le spalle. Se non lo fa allora è spacciata.

Add comment

Submit