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Proteste, agricoltura e ambientalismo: una finestra per l’agroecologia (e per il possibile)

di Barbara Bernardini

Riprendiamo un articolo uscito nell’ultimo numero della newsletter Braccia Rubate

meric tuna CE1OvMrZumQ unsplash 640x420.jpgQueste settimane di proteste hanno come primo merito l’aver portato all’attenzione un aspetto messo costantemente ai margini nei discorsi sulla transizione ecologica: tutta la filiera agroalimentare è sempre sembrata solo uno dei tanti fronti della sfida posta dalla crisi ambientale e, anzi, dal peso che le viene dato nelle varie COP, nell’informazione e, spesso, anche dai movimenti ambientalisti, uno dei fronti secondari.

Come abbiamo fatto a relegare il cibo a questione marginale? Quanto dovrebbe invece essere più importante evitare che gli effetti della crisi climatica rendano sempre più elitario l’accesso a un’alimentazione sana? Quanto è più importante assicurarsi che una, necessaria, transizione ecologica nel settore agroalimentare non ricada per intero né sulle spalle degli agricoltori né su quelle dei consumatori, ma venga condivisa in modo equo e giusto?

Anche nel mezzo della confusione e dei tentativi della politica di appropriarsi dei temi e mistificare le proteste – un nuovo, sempre più feroce, attacco all’ambientalismo che come al solito sfrutta rabbia, ansia e paura delle persone –, e al netto della prevalenza di un certo mondo che viene dritto dai forconi e dall’estrema destra, non si possono ignorare i punti critici che stanno mettendo in luce i trattori scesi in strada. Non possiamo prendere tutto e metterlo nel calderone del populismo, perché fare di questa la protesta univoca e compatta contro le misure ecologiche, come ci viene raccontato e come fa molto comodo e chi è sempre stato contro quelle misure, è pericoloso.

L’agricoltura è il settore più colpito dagli effetti della crisi climatica: siccità, eventi meteorologici violenti, caldo estremo o gelate tardive diminuiscono, stagione dopo stagione, le rese, moltiplicano i danni, a volte distruggono intere coltivazioni; di fronte a questa evidenza, non si può lasciare che gli agricoltori affrontino da soli le conseguenze di una crisi sistemica, anche perché il loro è un settore fondamentale, non si tratta di salvare delle aziende o dei posti di lavoro, ma l’accesso al cibo di tutti.

Anche i negazionisti della crisi climatica sanno che non possono negare i suoi effetti davanti agli agricoltori, perché chi coltiva la terra sa benissimo cosa sta accadendo. Lo misura anno dopo anno, lo vede nelle rese sempre più basse, nella mancanza d’acqua, nelle invasioni di insetti e di patologie nuove, nelle grandinate violente e nelle alluvioni, nelle stagioni impazzite.

Ad aggiungersi a questi danni ci sono gli aumenti delle materie prime – il gasolio e i fertilizzanti chimici, su tutti – senza che a questi aumenti delle spese siano corrisposti degli aumenti dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli, che anzi sono rimasti troppo bassi e non stabiliti da chi produce quei prodotti ma dalla grande distribuzione e, per certi beni che hanno smesso di essere cibo reale ma sono diventati delle commodity, dalla borsa.

Il risultato è che nel comparto agricolo i redditi sono fra i più bassi e che, solo nel nostro paese, mezzo milione di aziende agricole sono scomparse fra il 2010 e il 2020 (sì, eh, non ho sbagliato: 500.000, secondo il 7° censimento generale dell’agricoltura dell’Istat).

Se potessimo seguire la logica lineare di un problema di geometria della scuola media, la soluzione sembrerebbe intuitiva: favorire una filiera corta, le aziende di piccole dimensioni e pratiche che limitano l’uso del gasolio e dei prodotti chimici, per ridurre la dipendenza degli agricoltori dalle oscillazioni dei prezzi di queste materie prime, e che sarebbero utili anche a limitare, col tempo, gli effetti dei cambiamenti climatici, perché si ridurrebbero le emissioni non solo della CO2 ma anche del protossido d’azoto, gas 310 volte più impattante, la cui presenza nell’aria è dovuta principalmente all’uso dei composti azotati in agricoltura (in compenso, è il gas esilarante, perciò, insomma, sì, probabilmente sarà dovuta a lui La Famosa Risata Che, eccetera eccetera).

Ma il mondo politico-economico reale non somiglia a un problema di geometria, somiglia più a John Travolta che balla il Ballo del qua qua in mezzo a degli adulti vestiti da papera gialla.

Perciò la soluzione lineare non la stiamo prendendo, e ci stiamo incartando in un misto di demenzialità e consapevole sfruttamento politico del malcontento in vista delle elezioni europee.

Bisogna dire anche che la transizione (agro)ecologica ha un costo e nonostante la PAC, la politica agricola comune europea, preveda fondi per 386 miliardi di euro che dovrebbero servire anche a sostenere il green deal in ambito agricolo – in particolare nelle due linee strategiche principali, la farm to fork e quella di protezione della biodiversità – il sistema di ripartizione di questi fondi da un lato (in cui vengono privilegiate le aziende più grandi), e gli obblighi da assolvere per accedere ai sussidi dall’altro (e la trafila burocratica imponente), la rendono oggetto di forti (e giuste) critiche: è una politica che privilegia la produttività, le grandi dimensioni, la grande agroindustria, e non risolve le questioni relative alle storture della filiera e delle politiche del prezzo.

Quei fondi dovrebbero servire proprio per sostenere una transizione e per garantire la sicurezza alimentare mentre questo cambiamento avviene, sono il capitolo di spesa più importante dell’unione europea, può essere perfezionato il metodo di ripartizione, ma non si può pensare che rimangano i sussidi senza gli obblighi, anche perché, con un parallelo abbastanza facile con il fondo loss&damage – cioè quel fondo che dovrebbe coprire i danni e le perdite causate dagli effetti dei cambiamenti climatici – se non si lavora anche alla mitigazione, e quindi in questo caso, se il sistema agricolo non esige solo sussidi senza lavorare alla transizione in modo da cambiare rotta, non ci saranno mai abbastanza fondi per coprire i danni di un clima totalmente fuori controllo.

Se gli argomenti contro l’Europa piacciono molto alla destra che sta provando a strumentalizzare queste proteste per indirizzarle contro le politiche ambientali, c’è un punto che rimane il cuore e che dovrebbe essere quello su cui possono convergere anche i movimenti ambientalisti: la crisi del settore agricolo è una crisi sistemica che racconta la fine di un modello produttivo basato sull’iperproduzione e l’iperconsumo, con la riduzione all’osso dei costi e dei redditi da lavoro (c’è da segnalare che in altri paesi, come la Francia, quella convergenza sembra più possibile che da noi).

Il lavoro va pagato il giusto prezzo, perché pagare il giusto per il lavoro significa poi che quegli stipendi renderanno possibile alle persone pagare il giusto prezzo per il cibo (insieme a una politica per un reddito universale garantito). Ci siamo invece avvitati in un circolo disastroso per cui stipendi sempre più bassi permettono di vendere il cibo – e gli altri prodotti e servizi – a prezzi sempre più bassi, che sono gli unici che puoi permetterti con uno stipendio basso (di nuovo, eccolo, c’è John Travolta con le papere).

Rimandare ancora le misure ecologiche, come la riduzione dei fitofarmaci o le pratiche a tutela del suolo, per contenere dei costi già ridotti all’osso significa continuare a ignorare che i costi ambientali ci sono lo stesso, e se non li mettiamo nel prodotto ma li scarichiamo sull’ambiente, presenteranno il conto come stanno facendo.

Inoltre, è illusorio pensare che continuare a limare marginalmente i costi e tenendo alta la produttività di breve periodo grazie alla chimica permetta di risolvere il problema più grande che, di nuovo, è come viene distribuito il valore del cibo in una filiera troppo lunga e dove gli agricoltori sono l’anello più debole. Anche nel discorso per Sanremo, scritto da alcuni dei rappresentanti delle proteste, c’è un attacco irrazionale alle politiche green nelle prime righe (peraltro totalmente in contrasto con le ultime, che forse a cercare una chiusura d’effetto, dicono che le proteste sono portate avanti anche per “lasciare un mondo migliore ai nostri figli”, ma insomma, non si può avere tutto, c’è sempre quel problema di logica che non riusciremo a risolvere), la parte centrale e più corposa si dedica proprio alle politiche di prezzo e alle storture di una filiera che non tutela l’inizio e la fine della catena: produttori e consumatori.

Quello che dicono queste proteste è che quel tipo di modello economico è finito, è insostenibile, è basato su un’abbondanza illusoria e ipocrita, e che andare a trasformare radicalmente questo sistema è l’unico modo per salvare non solo il settore agricolo, ma la stessa vivibilità del pianeta.

E mentre stiamo discutendo di rimandare le misure ambientali per contenere i costi della produzione agricola, la GDO – la grande distribuzione organizzata – continua ad aumentare i ricavi (+6,8% nel 2023 rispetto all’anno precedente). Mentre stiamo dicendo che forse se continuiamo a dare sussidi per il gasolio utilizzato in agricoltura e se rimandiamo ancora per qualche altro anno l’obbligo di destinare il 4% della superficie coltivabile al ripristino degli ecosistemi forse forse i grandi gruppi di supermercati potranno continuare a comprare sottocosto i prodotti agricoli rivendendoli anche a dieci volte il prezzo d’acquisto, potranno continuare a mandare avanti un modello agroindustriale che schiaccia i piccoli, schiaccia l’ambiente, schiaccia la nostra salute, quella dei suoli, gli ecosistemi, la disponibilità di acqua dolce, il nostro futuro. Quanto può durare ancora? Gli allarmi lampeggiano da decenni, stiamo mantenendo in vita un sistema che è morente grazie ai sussidi, al lavoro sottopagato e allo sfruttamento estremo delle risorse naturali. Il malcontento degli agricoltori può essere indirizzato per ottenere un’ultima proroga a quest’accanimento terapeutico, oppure può convergere con chi vuole avviare una transizione vera – certo gradualmente, certo con il supporto di fondi appositi – che non solo cambi i metodi, che non preveda solo misure specifiche, ma che sia l’input per un cambiamento sull’intera filiera, sull’intero sistema economico.

Quel che è stato per anni un modello di agricoltura industriale partito dalla rivoluzione verde – c’è mai stato un nome tanto disonesto? – mostra i suoi limiti e il suo volto più feroce come, insieme, lo sta mostrando la globalizzazione spinta verso cui ci siamo buttati senza paracadute.

Ora la destra di casa nostra sta provando a prendere i temi di chi lotta contro l’agricoltura industriale – la Via Campesina e il mondo contadino organizzato in generale – e di chi protestava contro la globalizzazione, scimmiottandoli e prendendo la sovranità alimentare dei primi e riducendola a una specie di slogan del marketing del Made in Italy, e il concetto di giustizia globale contro il liberismo spinto della finanza dei secondi, che diventa un protezionismo autarchico antieuropeo.

Quei temi vanno riportati al loro valore originario, pieno, democratico, giusto.

Perché la transizione necessaria non è solo “aggiustare” le singole pratiche in un’ottica più sostenibile – dimezzare l’uso dei pesticidi, decidere quale percentuale dei campi vada o no coltivata, mandare i trattori a biocarburante invece che a gasolio – ma accettare che c’è un cambiamento improrogabile, di cui ciascun settore deve farsi carico e che può comportare anche stravolgimenti radicali per alcune attività. Gli allevamenti intensivi sono insostenibili, non basterà agitare lo spauracchio della carne coltivata, dei “cibi sintetici” o della perdita delle nostre Sacre Tradizioni (io amo le tradizioni, amo la memoria, sono una nostalgica, e no, dei maiali stipati dentro dei capannoni imbottiti di antibiotici non fanno parte di alcuna memoria contadina, e no, non ne fa parte nemmeno quell’abbondanza di carne incellophanata venduta anche a 4,99 euro al chilo, messa a tavola ogni giorno).

Manca l’acqua, stiamo attraversando una crisi idrica senza precedenti, che la scorsa estate è stata meno critica grazie alle provvidenziali piogge di maggio ma che non potrà che peggiorare di anno in anno, non possiamo più permetterci coltivazioni ad alto fabbisogno idrico – come il mais – e di quel che ne deriva, come i mangimi per gli allevamenti e, quindi, gli allevamenti intensivi (che non possiamo più permetterci anche per tutta una serie di conseguenze ambientali, di emissioni e di smaltimento dei liquami, sanitarie, per il costante rischio pandemie, senza nemmeno entrare nelle questioni etiche). Tutto questo, indipendentemente da quello che vogliamo fare o meno. Non possiamo continuare a coltivare in modo intensivo ignorando che lo sfruttamento estremo del suolo comporta la sua desertificazione e compromette le possibilità future di produrre cibo, non possiamo quindi calcolare la resa su base annua senza considerare la resa possibile in un arco di tempo molto più lungo; non possiamo ignorare che distruggere gli ecosistemi comporta conseguenze su tutti, umani e non; e non possiamo continuare a considerare le politiche ambientaliste come orpelli inutili, voluti da gente che vuole sentir cantare gli uccellini e raccogliere fiori in campagna: le politiche ambientaliste servono a mantenere aperta la possibilità di un pianeta vivibile. Mantenere aperta la possibilità della sopravvivenza. Di fronte a una questione di pura sopravvivenza, non c’è protesta dei trattori che tenga: è chiaro che chi vede crollare un certo mondo, il suo, si agiti e si opponga, ma la scelta è fra far crollare un certo tipo di mondo o assistere al crollo del mondo di tutti.

Al tempo stesso, l’ambientalismo e la parte di politica più sensibile a quei temi (non si sa bene nemmeno più come chiamarla) non possono più ignorare il comparto agricolo, la filiera del cibo, e le questioni che pone. Gli agricoltori possono essere la chiave di un cambiamento davvero radicale, se ancora lo crediamo possibile, possono passare a essere veramente i custodi di alcuni servizi ecosistemici. Il nostro ambiente non è più naturale, non è più incontaminato, non lo è da decenni, non abbiamo foreste vergini, non abbiamo territori che non hanno mai conosciuto la mano dell’uomo. Abbiamo territori in cui convivono attività umane e ambiente naturale, gli agricoltori possono farsi garanti di una collaborazione virtuosa, sostenibile, possono avviare una gestione sana dell’acqua, soprattutto con lo spettro incombente della siccità, estate dopo estate, del suolo, della biodiversità. Gli ambientalisti hanno bisogno degli agricoltori, e gli agricoltori hanno bisogno che le lotte ambientaliste non subiscano ulteriori rallentamenti, hanno anzi bisogno che la lotta ai cambiamenti climatici proceda spedita, se vogliono avere una minima possibilità di continuare a coltivare la terra, tenendo l’aumento delle temperature sotto la soglia del collasso.

In questa collaborazione si intravede una soluzione – non lineare come la risposta a un problema di geometria, ma nemmeno imbarazzante come un siparietto sanremese – una soluzione che contiene in sé il continuare a credere che la finestra per il possibile sia ancora aperta.


Per approfondire, oltre ai link inseriti nel pezzo, rimando alla rassegna stampa che sta raccogliendo l’associazione Terra!.

Comments

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Michelangelo Tumini
Saturday, 17 February 2024 00:15
L'unica colpa sta nel "temporeggiare" sull'attuazione di scelte necessarie non solo per l'Europa ma per tutto il resto del mondo per non affrontare la vera giusta richiesta del mondo agricolo, che quello di poter dare il giusto valore alle derrate prodotte, invece di vedersi imporre i prezzi, tanto al momento in cui si acquistano i semi, le piante, i mezzi per lavorare i terreni e per curarli, che quando devono vendere i loro prodotti. Dare una risposta a tale interrogativo può favorire la serie di scelte funzionali alla sostenibilità del sistema mondo, tanto sul piano ambientale, ma anche economico finanziario se nel contempo si desse corpo anche al tema della produzione delle armi e della sua commercializzazione proponendo la riconversione in contemporanea dell'industria bellica. Non è utopia, ma pura capacità di scelta a cui è chiamata la POLITICA, tanto di chi Governa che di sta all'opposizione.
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