La scuola riparte da Gaza
di Marina Polacco
1. Una sublime opera di fantapolitica: l’Agenda 2030
1. Non so quanti conoscono al di fuori del mondo scolastico l’Agenda 2030. In realtà non si tratta di un documento pensato per la scuola, ma di una dichiarazione politica di intenti: presentata come “programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità”, sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, l’Agenda 2030 è un capolavoro assoluto di fariseismo. Con impeccabile rigore indica diciassette obiettivi da realizzare entro il 2030, ovviamente sulla base dell’accordo e dell’azione condivisa di tutti i paesi firmatari: sconfiggere la povertà nel mondo; eliminare la fame; assicurare salute e benessere per tutti; garantire un’istruzione di qualità, equa e inclusiva; porre fine a ogni forma di discriminazione di genere; raggiungere la completa disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie; sostenere una crescita economica duratura e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva, un lavoro dignitoso per tutti; rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili; garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo; adottare misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze, promuovere società pacifiche e inclusive. Chi potrebbe avere qualcosa da ridire su un simile programma? Peccato che tutte le affermazioni siano completamente de-materializzate, avulse da qualsiasi contestualizzazione socio-politica ed economica, affidate genericamente al potenziamento di “buone pratiche” e di “spirito di resilienza”, prive di ogni riferimento ai dati di realtà (se non le statistiche che fotografano la situazione oggettiva di partenza), e quasi sempre in netta controtendenza rispetto alle reali politiche europee e internazionali. In definitiva, condividono lo stesso statuto immaginifico-fantastico delle letterine di buoni propositi indirizzate al bambino Gesù la sera di Natale. Eppure, per quanto del tutto estranea al piano della politica fattuale, l’Agenda 2030 è stata diffusamente adottata come punto di riferimento da scuole (e in seconda battuta da molte Università) per promuovere progetti di greenwashing e attività in linea con i diciassette obiettivi proposti.
In particolare, nelle scuole è diventata il cardine di molte proposte legate a coprire le famigerate ore trasversali di educazione civica: ma proprio lo statuto ambivalente del documento (tanto ambizioso in teoria quanto inconsistente nei fatti) lo trasforma in un’eccellente cartina di tornasole delle contraddizioni che la crisi palestinese sta invece mettendo a nudo.
2. Da una parte la scuola è chiamata sempre di più ad ‘aprirsi’ al mondo reale, da tutti i punti di vista: come modalità di studio e di apprendimento (compiti di realtà, problem solving, e via discorrendo), come investimento diretto nella formazione civica, sessuale, morale, stradale, ambientale dei nostri futuri cittadini, come disponibilità a collaborare in maniera sempre più integrata con il tessuto produttivo territoriale. Sempre più alla scuola viene richiesto di farsi carico di bisogni, fragilità e disagio di ragazzi e adolescenti che sembrano mancare di qualsiasi punto di riferimento: nella diatriba corrente tra ‘disciplinaristi’ e ‘non’, proprio l’urgenza di partire dal vissuto degli studenti è spesso utilizzata come argomento di rilievo contro la difesa dei contenuti e di una didattica presentata come ‘tradizionalista’. Ma questa apertura si basa sul presupposto che qualsiasi argomento possa essere presentato in maniera asettica, all’insegna di un moralismo di facciata che difficilmente regge alla prova dei fatti. L’Agenda 2030 risponde perfettamente a queste esigenze: una summa tanto pomposa quanto vacua, che permette di portare avanti la nostra opera educatrice senza fare i conti con la realtà, secondo una strategia complessiva ormai ben rodata che mira a depoliticizzare tutto, a rendere apolitico o impolitico qualsiasi contenuto latamente ‘impegnato’. A essere rimossa completamente è la nozione e la pratica del conflitto: la possibilità che esistano diverse visioni del mondo e che queste visioni implichino pratiche opposte e inconciliabili, e che ci possa essere necessità di scegliere tra posizioni divergenti; che non si tratta mai di formulette da applicare, ma di complessità da sviscerare, spesso in maniera drammatica[1]. Invece di aiutare a esplorare le radici comuni del malessere individuale, la scuola fa di tutto per derubricarlo a devianza isolata, reprimibile ed espiabile in quanto tale; invece di provare a discernere la base sociale di comportamenti violenti, dinamiche di branco, sessismo, abilismo e comportamenti omofobici, recrudescenze xenofobe e razziste, rinnovate forme di intolleranza religiosa, incoraggia a etichettare i singoli, e a farne dei casi esemplari (una definizione esemplare: “ero un bullo, ma poi mi sono pentito”). Il risultato è appunto una sorta di irrealtà ovattata e onnicomprensiva, in cui galleggiano astratti principi morali, dati come assoluti, inequivocabili e incontrovertibili – in definitiva inutili, del tutto avulsi dal vissuto di ragazzi e adolescenti.
3. La rimozione della natura intrinsecamente ‘politica’ di ogni scelta che si riferisca ai destini generali di una nazione (o dell’umanità intera) trasforma qualsiasi proposta didattica in una pratica sterile e retorica, alla resa dei conti inutile o persino controproducente. Come nota Laura Marzi nel suo romanzo in parte autobiografico La materia alternativa “il tentativo fondamentale, inevitabile, di ripulire, rimarginare, reprimere l’odio che aveva condotto alla Seconda guerra mondiale, al nazismo, all’antisemitismo, all’uccisione delle persone ritardate o menomate, dei Rom, degli omosessuali, si è esaurito” e negli sticker che riprendono slogan nazisti e battute del tipo “Mi piaci, farai la doccia per primo” o “Premio Nobel per la brace” ribolle “l’odio che le nostre istituzioni negli ultimi settanta anni hanno cercato di scacciare come il demonio”[2]. La violenza reale sembra crescere in maniera direttamente proporzionale ai progetti dedicati a combatterla:
Gli sticker sono il presente, sono la lava che ribolle nel vulcano della distruzione. C’è energia nel male, mentre non ce n’è più nelle lezioni sulla legalità, nei progetti del cyberbullismo, nel diario di Anna Frank, nelle poesie di Primo Levi. L’ho letta, Se questo è un uomo, in una classe, mi andava, ne avevo bisogno. L’ho sentita tanto, come sempre, mi ha fatto piangere, come sempre. Per loro era curioso guardare me, vedere uno che ha voglia di leggere una poesia.[3]
La fame nel mondo, il cambiamento climatico, la mancanza di un sistema di Welfare che garantisca istruzione, salute, lavoro dignitoso, la povertà estrema: non sono piaghe provenienti dal cielo, da combattere con resilienza e buona volontà, ma il portato di scelte e decisioni, a favore di alcuni gruppi sociali e a danno di altri, l’esito di una lotta di classe persistente per quanto misconosciuta. La completa dematerializzazione di questi concetti, la rinuncia a stabilire qualsiasi forma di nesso tra struttura e sovrastruttura, sono l’ultimo atto della progressiva depoliticizzazione che, oltre a rappresentare lo status individuale più comune tra le ultime generazioni, è divenuta un abito mentale a livello di prassi scolastica: fatte poche eccezioni, la scuola e gli insegnanti tirano avanti senza ‘occuparsi di politica’ e senza portare alcuna coscienza politica nel loro insegnamento. Non si tratta di rievocare lo spettro di adesioni partitiche ormai anacronistiche, bensì di richiamare il senso più profondo del termine: politica come visione del mondo, come chiave di analisi e interpretazione dei conflitti passati e presenti, ma anche come azione concreta indirizzata a quella visione e in linea con quella interpretazione. Del resto, tutti i tentativi di pacificazione della memoria storica, di equiparazione delle vittime di tutti i fronti vanno in questa direzione: dare l’impressione di una notte indistinta in cui tutte le vacche sono bigie e in cui tutte le scelte di campo hanno qualcosa di pericoloso – e, per contro, sono tutte al contempo comprensibili e giustificabili, mentre il male decontestualizzato diventa talmente astratto e mostruoso da perdere qualsiasi connotato riconoscibile.
4. Ground zero: la scuola alla prova di Gaza
1. Ed ecco che Gaza, all’improvviso, mette a nudo le nostre contraddizioni: per la prima volta dopo decenni c’è qualcosa di eccezionale che ci chiama alla politica con un’urgenza e una drammaticità da gran tempo inedite, che ci chiede di schierarci apertamente e di scegliere. Da una parte c’è la posizione di chi disconosce la natura ‘mostruosa’ (nel senso etimologico del termine) di quanto sta accadendo a Gaza (a cominciare dalla governance italiana ed europea), dall’altra c’è l’interpretazione contraria di ONG, organizzazione umanitarie, gruppi militanti, esperti internazionali, nonché dell’ONU stesso, la cui commissione apposita parla ufficialmente di “genocidio” (risoluzione del 16 settembre 2025). Dopo una lunga fase di incertezza diffusa, la brutalità dell’azione protratta in diretta streaming e in mondovisione ha provocato una vera e propria presa di coscienza collettiva, sempre più estesa e trasversale. La società civile in buona misura ha preso atto di questo cambiamento di scenario (tanto è vero che la partecipazione alle iniziative a favore della Palestina è esplosa: non si tratta più di piccoli gruppi di militanti politicamente agguerriti, come nella prima fase delle proteste, ma di intere città bloccate dai manifestanti – mentre le prime ‘acampade’ studentesche si sono svolte nell’isolamento più totale), seguita a ruota persino da buona parte degli opinionisti mainstream, che all’improvviso hanno smesso di fare troppi distinguo lessicali e hanno scelto di schierarsi senza ulteriori ambiguità. Sicuramente ci sono tantissime contraddizioni latenti nell’attuale movimento a sostegno della Palestina, per lo meno tante quante le anime politiche coinvolte (da chi rifiuta in toto la legittimità dello Stato di Israele a chi è mosso esclusivamente da ragioni umanitarie). Ma la complessità del quadro geo-politico mediorientale e delle possibili soluzioni a lungo termine è passata assolutamente in subordine rispetto all’enormità di quanto sta accadendo, in violazione di qualsiasi norma umanitaria, etica e giuridica. Un genocidio in diretta, appunto.
2. Eppure, contrariamente a questa presa di posizione collettiva, tutte le istituzioni ufficiali dello stato italiano e i rappresentanti delle forze politiche al governo si ostinano a sostenere la tesi dei due contendenti (da una parte lo stato democratico di Israele, dall’altra il virtuale stato terroristico di Hamas) e del diritto israeliano alla difesa, trincerandosi dietro anacronistiche e velleitarie proposte di mediazione e di scambi, in nome dell’alleanza ufficiale mai smentita e del sostegno incondizionato all’asse Israele-Stati Uniti. In maniera sempre più isterica (e con sempre maggiore protervia, proporzionale solo alla progressiva perdita di tenuta), su tutti i canali social, in tutte le trasmissioni televisive, i portavoce della posizione ufficiale governativa si arroccano sulla stessa posizione: non è in atto nessun genocidio, né alcuna violazione del diritto internazionale, perché si tratta solo della legittima risposta armata da parte di uno stato democratico messo in pericolo nella sua stessa esistenza da un’organizzazione afferente al terrorismo islamico, pronto a minacciare il resto del mondo civile se non verrò fermato con la forza (da qualcuno che si assume l’onore di compiere a difesa di tutti questo ‘sporco lavoro’).
3. Si è creata così una frattura evidente tra la società civile e le istituzioni che la dovrebbero rappresentare, perché, a cascata, tutti gli enti locali, gli uffici e gli ufficiali pubblici di ogni ordine e grado sono chiamati a seguire le direttive emanate in via gerarchica. In quanto istituzione pubblica e statale per eccellenza, la scuola si configura subito come luogo particolarmente critico, perché il rischio di sovrapposizione (e di collisione) tra presa di posizione individuale ed esercizio di pubblica funzione è evidente. La circolare riservata indirizzata ai dirigenti dall’USR Lazio il 3 settembre, probabilmente su sollecitazione del ministro stesso, compie un primo tentativo di marcare il territorio, con quella mistura di reticenza e ambiguità degna del comunicato Badoglio: non dice quello che bisogna o non bisogna fare, semplicemente esorta a utilizzare gli organi scolastici esclusivamente per funzioni interne legate all’avvio dell’attività scolastica. Riconosce genericamente la “rilevanza degli eventi geopolitici in corso” e invita a “garantire la massima serenità nell’organizzazione di occasioni di confronto e di dibattito nell’ambito delle occasioni didattiche”, ricordando tuttavia che gli organi collegiali devono occuparsi esclusivamente delle “tematiche relative al buon funzionamento dell’istituzione scolastica”. Anche il minuto di silenzio proposto per ricordare il genocidio il primo giorno di scuola è immediatamente oggetto di critiche in nome della sua parzialità – e viene infatti assunto e stravolto ad hoc da Valditara, universalizzato e dunque depotenziato a rito innocuo («È senz’altro positivo il minuto di silenzio che le scuole, nella loro autonomia, hanno deciso di dedicare alla commemorazione di tutte le vittime dei conflitti, di tutti i conflitti, in particolare i bambini, i giovani, che ogni giorno muoiono in tante zone di guerra nel mondo. La pace è un valore fondante della nostra civiltà»), secondo quella stessa logica depoliticizzante già descritta, che disinnesca qualsiasi rivendicazione. Nei giorni successivi da più parti ritorna la stessa invocazione al pluralismo come antidoto al rischio di indottrinamento: si reclama la necessità di un ambiente scolastico “equilibrato e inclusivo”, aperto al “pluralismo delle visioni” e al riparo da ogni forma di propaganda e di strumentalizzazione ideologica (sono parole di Valditara al convegno L’Italia dei conservatori); i docenti vengono messi in guardia dal governatore del Friuli Fedriga affinché non facciano “lezioni unilaterali, senza un punto di vista critico su uno o sull’altro punto di vista”, perché “chi lavora all’interno delle istituzioni e forma i nostri ragazzi non può utilizzare le ore di lezione per portare avanti una propria idea, come verità assoluta, senza un contraddittorio o senza capacità di critica”. A monte di tutto, il monito delle Comunità Ebraiche italiane che di fronte al proliferare di iniziative su Gaza, chiedono che venga garantita una trattazione del conflitto mediorientale che non ignori la complessità della situazione. La strategia è sempre la stessa: annacquare qualsiasi rivendicazione in un generico benaltrismo (tutti i bambini devono essere compianti allo stesso modo, tutti dovrebbero avere diritto al gioco e alla scuola), basato sulla sostanziale parificazione di tutte le cause e di tutte le vittime. In questa maniera non solo qualsiasi principio critico viene di fatto esautorato (perché la presentazione di punti di vista molteplici non è volta a raggiungere una sintesi, a scegliere, ma è fine a se stessa, puro esercizio retorico che in sé si esaurisce), ma per di più finisce con l’avallare perfettamente la tesi governativa, della sostanziale corresponsabilità dei due agenti in conflitto, palestinesi e israeliani. La tecnica è insomma la stessa dell’Agenda 2030, però applicata non a uno scenario di fantapolitica, bensì a un conflitto reale e drammaticamente in corso.
4. Quando un professore (o un gruppo di professori) abbraccia la versione opposta a quella governativa e sceglie invece di sostenere la categoria di genocidio, tutti gli appelli all’equità e al pluralismo possono veicolare un vero e proprio tentativo di coercizione, che tuttavia è legittimato da un obbligo oggettivo di fedeltà che riguarda tutti i dipendenti pubblici; obbligo che, per quanto non sancito da un esplicito giuramento (e non a caso si parla proprio in questo frangente di reintrodurlo, a dispetto delle battaglie e dei sacrifici sostenuti negli anni Settanta per abolirlo), è espresso comunque dall’articolo 54 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”). Nel momento in cui la Repubblica rappresentata dal Governo legittimamente eletto fissa delle leggi e detta le indicazioni di politica generale, qualsiasi presa di posizione a favore di Gaza e contro la posizione ufficiale del governo portata avanti non come singoli cittadini, ma come docenti, come gruppo di docenti o addirittura come scuola, viola questo giuramento di fedeltà e si pone automaticamente come obiezione di coscienza. Come sosteneva don Milani, “se le leggi non sono giuste, se sanzionano il sopruso, cioè il diritto del più forte”[4] allora bisogna battersi perché siano cambiate: “la leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza”. L’obiezione di coscienza, così come la intendeva Don Milani nel difendere i giovani che rifiutavano di prestare servizio militare, è appunto qualcosa che si paga sul proprio corpo, non un atto gratuito e formale:
A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati uomini che avevano obbedito. L’umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza. […] Bisogna avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto[5].
Anche nel caso della questione palestinese la scelta di campo pertiene la mia responsabilità individuale come privato cittadino (e in quanto tale sono libero (o dovrei essere libero, in una avanzata democrazia occidentale…) di professare le mie idee in tutte le forme che posso ritenere legittime e adeguate), ma diventa responsabilità pubblica se tale scelta viene portata avanti da un docente e nell’espletamento della funzione docente, che si assume la responsabilità di andare contro le indicazioni trasmesse per via gerarchica. Non si può gridare allo scandalo per quello che le istituzioni scolastiche non possono non fare, ma bisogna prendere atto della valenza di rottura della propria scelta disobbediente, e proclamarne apertamente l’irriducibilità. Gaza ci richiama all’obbligo oneroso della scelta e della libertà di coscienza, ci pone di fronte alla necessità di schierarsi, ci costringe a mettere in gioco il nostro corpo non solo in quanto individui, ma in quanto funzionari statali. In questo senso la scuola è veramente politica: dire che la scuola è politica significa riaffermare una volontà di rottura che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione delle competenze, con i compiti di realtà e con l’abolizione dei voti, ma si spinge molto più a fondo nella disarticolazione delle aspettative e nel tentativo di generare dubbio metodico e spirito critico.
3. Il banco di prova: manifestare per Gaza
1. La scelta di ‘stare dalla parte di Gaza’ ha significato mettere in atto una serie di azioni all’interno della scuola, tutte necessarie e significative allo stesso modo, ma ovviamente con gradi diversi di problematicità. Alcune iniziative non incidono direttamente sulla prassi didattica, ma rimangono nel campo della sensibilizzazione: ad esempio, l’iniziativa del “digiuno per Gaza”, così come le dichiarazioni di sostegno o solidarietà promosse da molti Collegi o da gruppi di docenti[6]. Più impegnativa è la partecipazione in qualità di docenti a scioperi, presidi e manifestazioni come quello organizzati a sostegno della Flotilla, per la natura stessa delle azioni in atto. Anche se il clima è stato sempre straordinariamente gioioso e con una partecipazione assolutamente trasversale (per età, collocazione politica, settore lavorativo) sta di fatto che lo slogan di riferimento (“blocchiamo tutto”) implicava fin dall’inizio la volontà di portare avanti un’azione di disobbedienza civile proiettata oltre i confini consueti delle ‘normali’ manifestazioni. Di fronte allo svolgimento pacifico di gran parte dei cortei, il tentativo di costruire e offrire al grande pubblico una contro-narrazione fittizia fatta di violenze ed eccessi a partire da episodi marginali come quello dei tafferugli alla stazione di Milano è risultata solo penoso e ridicolo[7]. Tuttavia, nella stessa veemenza con cui molti soggetti partecipanti hanno preso le distanze dalle derive ‘violente’ si cela un possibile equivoco. “Se toccano la flotilla, blocchiamo tutto” significa già, a priori, che siamo disposti a oltrepassare il limite, in tutti i sensi: “bloccare le armi non è un reato” è uno slogan, non un dato di fatto. La stessa missione della flotilla è stata condotta contro le disposizioni ufficiali dei governi (non solo quello italiano) che ne hanno disconosciuto la paternità e hanno più volte invitato i partecipanti a desistere – declinando di fatto ogni responsabilità sulle eventuali conseguenze. Quasi ovunque le manifestazioni che si sono svolte nelle principali città italiane hanno violato i percorsi stabiliti (o non avevano proprio un percorso concordato con la questura); quasi ovunque si sono svolte azioni più o meno lunghe e simboliche di blocco (stazioni, nodi stradali, caselli autostradali, varchi portuali, aeroporti). In tutti i casi la violazione è stata compiuta da un gran numero di partecipanti (se non la totalità), non da una minoranza di esagitati. Tutte le volte la situazione avrebbe potuto degenerare in violenza – e spesso l’unico fattore discriminante è stato rappresentato dal comportamento delle forze dell’ordine. L’azione della Flotilla e le manifestazioni che l’hanno accompagnata spostano il nostro limite, soprattutto se come docenti abbiamo portato nelle manifestazioni il corpo stesso della scuola: se le azioni di contrasto sia a livello di organismi internazionali sia a livello di pressione sui governi nazionali si sono rivelate del tutto inefficaci (giacché la posizione ufficiale non è cambiata minimamente), fin dove è lecito spingersi per sostenere le proprie ragioni? Di fronte alla spudoratezza con cui viene disinnescata e resa irrilevante qualsiasi forma di opposizione, fin dove siamo disposti ad arrivare? Esiste ancora una possibilità di disobbedienza civile percorribile? Certo, rispetto alla narrazione di regime che cerca di criminalizzare tout court la partecipazione proponendo una visione parziale e distorta degli eventi, la prima urgenza è quella di smontare queste distorsioni. Ma la questione di fondo rimane. Il pericolo è quello di restare incastrati in una divisione tra ‘manifestanti buoni’ e misteriosi manifestanti cattivi (infiltrati pronti solo a menare le mani), mentre la divisione potrebbe essere più realisticamente tra chi è disposto a mettere in gioco il proprio corpo e la propria fedina penale e chi invece non lo è. Si tratta di una divisione che indebolisce il movimento e rende facilmente perseguibili coloro che scelgono la prima strada: un conto è essere qualche migliaio a occupare stazioni e autostrade, un conto poche centinaia. E dov’è che un docente in quanto tale si deve fermare? Fino a dove si può spingere la disobbedienza civile? Di fronte alla reiterata impunità (violazione del diritto internazionale per quanto riguarda il blocco navale, la cattura e la detenzione degli attivisti) che non ha sollevata la minima reazione da parte dell’Unione Europea, cosa resta da fare?
2. Ma la mobilitazione più dirompente, anche se meno visibile, consiste nel portare veramente Gaza dentro la scuola. Per quanto a volte ‘protetto’ nel chiuso delle proprie aule, o veicolato da progetti apparentemente anodini, il punto di rottura è proprio questo: portare lo scandalo del genocidio nel proprio insegnamento. Non si tratta di mettere in campo azioni eclatanti, ma semplicemente di posizionare la questione palestinese al centro del proprio lavoro ordinario in classe. Parlare di Gaza, mostrare documentari su Gaza, stimolare l’attenzione e l’interesse, decostruire stereotipi, invitare esplicitamente a prendere posizione, ricostruire la storia troppe volte data per scontata, interrogarsi sulle decisioni degli organismi internazionali, sui rapporti di forza nei tavoli delle trattative, sui limiti del diritto internazionale può essere l’operazione che si mette meno in mostra, ma anche la più efficace. Esistono tanti argomenti in cui è possibile un contraddittorio, ci sono tante guerre con costi altissimi in termini di vite umane, e in qualsiasi di queste i due contendenti hanno sempre una parte di torto e una di ragione: ma un genocidio riconosciuto come tale, compiuto anno dopo anno davanti agli occhi di tutti, con il sostegno e il beneplacito delle principali potenze, a dispetto delle condanne reiterate degli organismi di giustizia competenti, nella persistente e impunita violazione dei diritti garantiti da qualsiasi convenzione (la salvaguardia di giornalisti e operatori sanitari per citare solo due aspetti) è qualcosa di assolutamente irriducibile. È nel chiuso della propria classe che si combatte la battaglia principale, anche se in maniera meno eclatante. Quanto più Gaza entra nel corpo vivo della lezione, tanto più la disobbedienza diventa reale, e potenzialmente pericolosa: infatti proprio su questa possibilità si appresta a calare la più oculata repressione governativa, nelle vesti del ddl Gasparri.
3. Il ddl, in questi giorni presentato per l’approvazione delle Camere, propone un’inquietante sovrapposizione – per non dire sostituzione – tra antisemitismo e antisionismo, fornendo così la cornice legale per reprimere qualsiasi forma di dissenso e di critica, con particolare attenzione a due campi ben precisi: scuola e università. Secondo quanto si legge, alla luce del “terribile attacco terroristico del 7 ottobre 2023, compiuto dall’organizzazione terroristica Hamas con altri movimenti alleati della galassia terroristica islamista, come il Jihad islamico palestinese”, si rende necessario aggiornare la definizione stessa di antisemitismo, per comprenderne l’estensione nella veste moderna di “antisionismo” e “odio contro lo stato ebraico e il suo diritto a esistere e difendersi” (diritto a difendersi ovviamente illimitato, non soggetto a regole, diritti, convenzioni). Per fortuna – prosegue la presentazione – “la risposta delle democrazie occidentali è stata ferma e rassicurante”, compresa l’Italia che ha reagito fermamente “contro l’antisemitismo mascherato da antisionismo”. Il gioco è fatto: la possibilità di esprimere qualsiasi critica radicale nei confronti di Israele è impedita per legge, usando come clava proprio lo spettro dell’antisemitismo – di cui ben pochi si sarebbero altrimenti interessati. Il decreto, oltre a prevedere l’istituzione presso le scuole di ogni ordine e grado, di corsi annuali di formazione per studenti sull’antisemitismo e l’antisionismo, impone l’immediata segnalazione di atti a carattere antisemita e antisionista e definisce sensazioni e procedimenti disciplinari nei confronti di docenti e ricercatori di scuola e università. Siamo molto vicini alle leggi fascistissime (per quanto il decreto millanti di voler difendere proprio dallo spirito che sostanziava quelle leggi, senza per di più tener conto alla grottesca ambivalenza per cui il firmatario della proposta viene dalle file politiche più vicine a quello spirito), ma tutto questo passerà in nome della difesa del pluralismo e della scuola democratica. La veste sfacciatamente illiberale del decreto in questione, che di fatto trasforma in reato una presa di posizione politica, ci fa capire quanto sia sensibile l’oggetto del contendere, e quanto importante la posta in gioco. L’approvazione del decreto segnerà un punto di non ritorno, resuscitando pratiche restrittive e liberticide, palesemente contrarie alla libertà di opinione e di insegnamento, che credevamo sepolte per sempre, e che di nuovo come un tempo pretendono di controllare e indirizzare la formazione e l’educazione dei più giovani. Nel momento in cui il corpo docente porta veramente la politica nella propria prassi, arriva repentina la repressione e l’invito (obbligo) a rimanere nel campo innocuo e inoffensivo delle battaglie da operetta per eliminare la fame nel mondo.
4. Ritorno a scuola e conclusione: cosa fare con l’Agenda 2030
1. Gaza e la questione palestinese ci ricordano così in maniera incalzante che è ancora possibile fare politica a scuola – in senso ben diverso dalla riduzione a partigianeria politica con cui si tenta di delegittimarla – e che anzi è sempre più necessario farlo. Non solo e non tanto per Gaza, non più per Gaza, ma per affrontare in maniera quanto più possibile critica e consapevole la realtà che ci attende – e, soprattutto, che attende i nostri studenti. Di fronte a chi preme perché la scuola diventi solo un nastro trasportatore dell’ideologia dominante, un ambiente ‘sereno’ e accogliente in cui ciascuno possa trovare la collocazione migliore in base ai suoi talenti per rimanere esattamente quello che è già, bisogna riuscire a trovare la pietra d’inciampo in tutte le occasioni possibili della nostra prassi quotidiana. C’è un bellissimo passo di Gert Biesta[8] che paragona un certo tipo di insegnamento all’addestramento dei robot aspirapolvere, i quali dopo essere stati messi più volte in contesti diversi imparano a svolgere sempre meglio la loro funzione. Alla stessa maniera, sembra che l’obiettivo principale assegnato alla scuola sia proprio quello di abituare i ragazzi ad adattarsi al meglio all’ambiente in cui si troveranno a muoversi (in primo luogo dal punto di vista lavorativo, ma non solo). Non bisogna pensare a come cambiare le cose quando è evidente che non funzionano, ma occorre sfruttare le proprie capacità adattive (o di resilienza) per imparare a convivere anche con ciò che non ci piace (sfruttamento, precarietà, assenza di certezze, violazione dei diritti umani). Riscoprire il valore di scandalo dell’insegnamento è un compito arduo al quale possiamo riprovare a tendere proprio a partire dalla questione palestinese. Non si tratta solo di affrontare l’emergenza in corso (che in questo momento rimane comunque obiettivo prioritario e imprescindibile), ma di sfruttare questa emergenza per mettere in discussione una serie di pratiche e di meccanismi ormai sclerotizzati nella formalizzazione burocratica delle tabelle Excel da compilare con asettico rigore. Di fronte allo svuotamento routinario dei percorsi di educazione civica o ‘di cittadinanza attiva’, incarnato esemplarmente nell’adozione dell’Agenda 2030 come punto di riferimento imprescindibile, bisogna cercare di riportare al centro il conflitto e la dissonanza che i nostri studenti (soprattutto la grande maggioranza che popola istituti tecnici e professionali, sui quali sta per abbattersi la mannaia della riduzione a quattro anni) già sperimentano ampiamente nella vita reale, all’esterno della dimensione scolastica: esistono altri mondi possibili ed è nostro dovere di insegnanti farne quanto meno prendere consapevolezza. Se la legge dice che non si devono soccorrere gli uomini in mare, che il lavoro sotto-pagato è l’unica prospettiva, che la precarietà dei contratti è il motore del mercato, che è lecito commettere un genocidio ‘per autodifesa’, sta a ciascuno di noi interrogare la propria coscienza e provare a “confondere le piste, le identità. Avvelenare i pozzi”[9]. Don Milani, ultimamente tirato a sproposito per sostenere qualsiasi tesi (persino un’idea di scuola ‘dei talenti e del merito’ radicalmente opposta a quella di Barbiana), dovrebbe essere ricordato invece proprio per aver difeso fino in fondo (affrontandone le conseguenze fisiche e legali) questo valore dell’insegnamento come scandalo, come educazione non all’obbedienza, ma al coraggio della disobbedienza. L’insegnamento – si legge nella celebre lettera di difesa indirizzata ai giudici – “è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, […] dall’altra la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico”[10]: è questo l’unico dovere dell’essere maestri, forse non varrà a salvare l’umanità – conclude don Milani – ma almeno è l’unica via per salvare l’anima. Per esercitare fino in fondo questa capacità, occorre avere gli strumenti per farlo, e la strategia suggerita è sempre la stessa: studiare tanto, in continuazione, apprendere tante parole, conoscerne l’etimologia e il significato, e imparare a usarle (“chiamo uomo chi è padrone della sua lingua”[11]). Di contro, l’impoverimento dei contenuti disciplinari, la riduzione della qualità della didattica, lo svuotamento degli insegnamenti storico-letterari, la sciatteria dilagante ammantata di modernità pedagogica, la divisione sempre più netta tra i diversi percorsi di studi sono il pericolo peggiore da cui occorre stare in guardia[12]. L’azione più politica che possiamo fare passa attraverso ciò che intendiamo come insegnamento: vogliamo robot o cittadini critici, magari inquieti, insoddisfatti, delusi, preoccupati, attivi, non resilienti?
2. Si avvicinano tempi bui – o forse è meglio dire che ci siamo già dentro fino al collo – e portare Gaza dentro la scuola è il punto di fuga da cui partire per problematizzare la nostra routine e a scardinare alcune categorie standardizzate che tornano puntualmente nel dibattito attuale sulla scuola, tra sedicente impulso all’innovazione, mode pedagogiche e falsi progressismi, che ritengono vangelo liberatorio le indicazioni su personalizzazione, competenze, apprendimento permanente e via dicendo, emanate come linee guida dalla governance europea neoliberale (la stessa che tace vigliaccamente sul genocidio e si rifiuta persino di mettere in discussione all’ordine del giorno la possibilità di condannare le reiterate violazioni del diritto internazionale da parte di Israele[13]). Anche se non abbiamo più alcuna certezza assoluta su cui fare leva per distinguere torto e ragione, possiamo sempre ripartire dalla necessità di provarci, di resistere a chi pretende di guidarci con dolcezza verso il niente: “Gli oppressi / sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa. // Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / gli uomini e le donne che con te si accompagnano / e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici / scrivi anche il tuo nome. Il temporale / è sparito con enfasi. La natura / per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”[14].







































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