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Da dove nasce la voglia di manicomi

Nello Gradirà

Addio Basaglia, tornano i manicomi” titola in cronaca nazionale Il Tirreno di ieri, e dietro questo titolo sembra quasi di vederli sogghignare quei giornalisti che in tutti questi anni hanno lavorato sodo perché tutte le complesse tematiche del disagio e dell’emarginazione fossero ridotti a problemi di sicurezza e ordine pubblico.

Ce li ricordiamo tutti, gli articoli pubblicati in questi mesi, ributtanti per insensibilità e volgarità, del tipo “pazzo scappa e terrorizza un intero quartiere” o “l’ennesima evasione dal decimo padiglione”, come se un reparto ospedaliero, dove si dovrebbe assistere e curare persone che stanno vivendo una momentanea difficoltà, fosse un carcere di massima sicurezza con le torrette di guardia, il filo spinato e i cani lupo.

Li chiamano gli anni di piombo quegli anni ’70 in cui l’Italia sembrava diventato un Paese civile, e in particolare quell’anno d’oro 1978 in cui vennero approvate, oltre alla “Legge Basaglia”, anche la legge 194 sull’aborto e la legge 833 di riforma sanitaria.

Erano leggi approvate sulla spinta di un grande movimento di massa che metteva in discussione anche i rapporti di potere più consolidati: quelli che consideravano la salute come una merce, il corpo delle donne come una macchina da riproduzione e il pazzo come un’inutile peso per la società e per la famiglia.

La legge 180 presupponeva una società diversa, in cui la solidarietà e la capacità di accettare le diversità avrebbero fatto scomparire, se non il disagio mentale in quanto tale, almeno le sue conseguenze più terribili: l’emarginazione, il disprezzo, la devastazione delle relazioni affettive e sociali.

Una società che avrebbe dovuto creare servizi pubblici accessibili a tutti invece di ingrassare i baroni della medicina e le industrie farmaceutiche.

Non è superfluo ricordare che alla fine di quello stesso 1978 l’assemblea dell’OMS tenutasi ad Alma Ata aveva lanciato la parola d’ordine “salute per tutti nell’anno 2000”, e sembrava un obiettivo raggiungibile prima che la barbarie neoliberista riportasse il mondo qualche secolo indietro. E non è solo un modo di dire: oggi in alcuni Paesi africani l’aspettativa di vita, dopo la distruzione dei sistemi sanitari pubblici, è la stessa che c’era nell’Europa del Medioevo o addirittura all’epoca dell’antica Roma.

La società che sognava Basaglia, e con lui i giovani, gli operai, le donne che avevano dato vita a quello straordinario decennio, non si è realizzata, e nella grande restaurazione che ne è seguita anche ”il pazzo” è tornato ad essere quello che era sempre stato, il capro espiatorio ideale per le paure del “cittadino normale”.

Apparentemente c’è qualcosa di paradossale nel fatto che in questa società in cui le diagnosi di depressione e le prescrizioni di psicofarmaci sono schizzate alle stelle “la pazzia” non possa essere compresa ma solo criminalizzata. Ma è proprio la paura di esserne vittima che porta a consolidare la propria identità attraverso l’esclusione di altri. “Quelli sì che non sono normali, mica io”.

Ed è paradossale che si inviti a rinchiudere chi è un po’ troppo triste o un po’ troppo allegro in quest’estate in cui ogni giorno si legge di una donna uccisa dal suo ex, tutti uomini perfettamente “normali” e integrati che mai sarebbero stati catalogati come pazzi e costretti a qualche forma di ricovero coatto.

E poi c’è il darwinismo sociale: per cui il disoccupato, il pazzo, il malato, sono tali perché sono incapaci di adattarsi alla realtà, e quindi non dobbiamo sentirci responsabili, né obbligati a spendere per servizi che non meritano, e che sono inutili perché la radice del disagio è la loro incapacità irrimediabile, genetica magari, di vivere in un contesto sociale.

Il neoliberismo talvolta sembra una macchina perfetta: distruggendo tutte le reti di protezione sociale causa insicurezza, l’insicurezza provoca disagio e paura, la paura porta a chiedere una società più autoritaria, una società più autoritaria provoca isolamento e quindi un’ulteriore distruzione della sfera pubblica e del welfare.

Tutto ridiventa merce, e quindi anche il pazzo, l’anziano, il criminale possono riacquistare un loro valore sul mercato: ognuno nella loro istituzione totale affidata a un privato, come quelle carceri private statunitensi di cui parla Michael Moore nel suo ultimo film, i cui proprietari corrompevano i giudici perché condannassero gli adolescenti a lunghe pene detentive anche per piccole trasgressioni.

Che “il pazzo” venga rinchiuso spesso lo chiede la famiglia stessa: quando non trova risposte dai servizi pubblici ed è costretta a farsi carico di tutto il peso, economico e morale, dei problemi del proprio congiunto, in una società che anziché aiutare stigmatizza ed emargina, mentre la stampa soffia sul fuoco delle paure e inventa pazzi che terrorizzano interi quartieri, quando magari si tratta solo di persone che cercano di difendersi dall’ennesimo ricovero coatto.

Il politico fiuta il consenso e il circolo si chiude: è così che qualche anno fa per un’altra figura odiatissima, quella del tossicodipendente, furono inventate nuove istituzioni totali specifiche, quelle comunità che non hanno mai risolto alcun problema ma che hanno portato miliardi nelle tasche di preti e santoni di tutte le risme e dei loro protettori politici.  

Povero Basaglia.

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