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sinistra

Perché il ’68 è stato sconfitto

di Eros Barone

862824 kFlB 835x437IlSole24Ore WebLa borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all'ovile.
Antonio Gramsci

Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva fra un ieri e un domani, un donde e un dove.
Franco Fortini

Un quesito che spesso mi viene posto dai giovani che conosco è quello concernente le ragioni della sconfitta del ’68. Proverò ad abbozzare una risposta nelle note che seguono.

In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc.

Da Berlinguer partì la proposta, rivolta alla Dc, della politica di ‘solidarietà nazionale’, che, nel nefasto triennio 1976-1979, si tradusse dapprima nella ‘non sfiducia’ al governo Andreotti e poi nell’ingresso diretto del Pci nella maggioranza governativa. La politica berlingueriana di ‘unità nazionale’ modificò profondamente i rapporti di forza tra le classi in Italia, indebolendo il proletariato e i movimenti antagonistici, rafforzando lo Stato borghese e la Dc, e creando le premesse per la controffensiva reazionaria scatenata, negli anni ’80, dal capitalismo contro il movimento operaio.

La progressiva trasformazione del Pci in senso revisionista e socialdemocratico (sfociata, da ultimo, nella liquidazione, ad opera di Occhetto e di Napolitano, di quello che era “il più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico”) è stata, quindi, un importante fattore soggettivo della involuzione e della sconfitta della “generazione del ’68”, che in tal modo restò priva di un punto di riferimento politico, culturale e strategico essenziale nella lotta rivoluzionaria diretta a trasformare in senso democratico e socialista gli assetti sociali esistenti. D’altra parte, i diversi tentativi che furono compiuti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia Operaia, gruppi marxisti-leninisti ecc.) per costituire un punto di riferimento alternativo al Pci attraverso la fuoriuscita dall’università e la ricerca di un rapporto con i nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, stretti come furono fra l’emergere della strategia della lotta armata e l’incombere della ‘strategia della tensione e del terrore’, non si rivelarono all’altezza del compito, che si pose con forza ed urgenza negli anni ’70, di realizzare quella ‘massa critica’ che avrebbe potuto dare ad un partito comunista di tipo nuovo una vasta base sociale e un peso significativo nello scontro di classe. In realtà, quei tentativi si risolsero in un ‘mixtum compositum’ di soggettivismo, volontarismo ed economicismo, e si rivelarono (non come il superamento ma) come l’espressione politica e ideologica dei limiti e delle contraddizioni interne del movimento di massa.

In secondo luogo, non bisogna dimenticare le conquiste che furono ottenute dai movimenti di lotta del ’68 e del ’69. Alcune di tali conquiste sono tuttora presenti nella costituzione formale e materiale del nostro paese: si pensi allo Statuto dei lavoratori (maggio 1970), una legge dello Stato che, per quanto gravemente intaccata dall’abolizione dell’articolo 18, garantisce alcuni fondamentali diritti sindacali e politici, tra i quali spiccano le 150 ore per il diritto allo studio dei lavoratori; al divorzio (dicembre 1970); alla cosiddetta legge Basaglia (legge 180 del maggio 1978), che ha abolito i manicomi (ancora oggi l’Italia è l’unico paese del mondo in cui non esistono formalmente istituzioni di questo tipo) e promosso l’integrazione dei malati mentali nella società, liberando, oltre ai ‘matti’, anche i mancini, gli adolescenti ai quali la scuola imponeva la regola della scrittura con la mano destra; alla legge 194 (anch’essa del maggio 1978), che ha depenalizzato e disciplinato le modalità di accesso all'aborto.

A partire dal 1973, con un’economia mondiale in piena recessione, ebbe inizio una fase di profonda ristrutturazione: nella grande industria furono automatizzati i processi produttivi e fu avviato il superamento dei modelli rigidi di organizzazione del lavoro di tipo fordista-taylorista; migliaia di lavoratori furono licenziati; fu esteso il decentramento della produzione, si ebbe una crescita della piccola e media impresa e si ampliò l’area del lavoro precario, sommerso, nero e a domicilio. Questo mutamento della base produttiva, congiunto all’espansione del settore terziario, genera il contesto economico e sociale in cui si afferma l’‘autonomia del politico’ (intesa come gestione, anche in forma consociativa, del potere politico-istituzionale), che troverà la sua espressione più caratteristica nella linea del ‘compromesso storico’, nel venir meno di un’opposizione di sinistra e nella progressiva riduzione della ‘rappresentanza’ a ‘governabilità’. È l’onda lunga della ristrutturazione, della ‘rivoluzione passiva’ e della svolta in senso neoliberista che, con Reagan e con la Thatcher, sfocerà nel 1980: l’anno della sconfitta storica del movimento sindacale alla Fiat, l’anno della ‘resistibile ascesa’ di Craxi, l’anno del ‘mistero’ di Ustica e della strage alla stazione di Bologna, che segna il culmine (e la vittoria) della ‘strategia della tensione e del terrore’ scatenata nel 1969. I rapporti di forza si sono radicalmente modificati a favore delle classi dominanti; la ‘grande paura’ del ’68 è finita; ha inizio il cosiddetto ‘riflusso’, cioè il passaggio da un’egemonia della sinistra ad un’egemonia della destra, che comincia ad affermarsi allora e, rafforzandosi sempre di più attraverso gli eventi e i processi epocali degli anni ’80 e ’90, giunge sino ai nostri giorni.

Dal punto di vista storico, in base al metodo comparatistico ci si può chiedere se esista un’analogia fra due ‘anni mirabiles’ della storia contemporanea: il 1968 e il 1848? Io ritengo di sì, confortato in questa convinzione da un classico della storiografia sul Quarantotto europeo, il bel libro dello studioso inglese Lewis B. Namier su La rivoluzione degli intellettuali (1957). Naturalmente, è scontato che vi siano molte differenze; è, tuttavia, vero che vi sono alcune analogie: innanzitutto, la presenza, sia nei moti quarantotteschi che in quelli sessantotteschi, degli studenti, anche fuoricorso, oltre che di un buon numero di intellettuali che, essendo ‘rivoluzionari per sé’ ma non ‘rivoluzionari in sé’ (per dirla con un linguaggio hegeliano), ben presto cercarono di porsi in rapporto con coloro che sono ‘rivoluzionari in sé’ ma non sempre ‘rivoluzionari per sé’: gli operai.

L’autonomia del soggetto sociale è stata un tratto distintivo del ’68. Il che significò, anticipando la pratica di liberazione delle femministe, che verrà dopo, esattamente questo: “i problemi ce li risolviamo da soli, con la nostra elaborazione collettiva e con la nostra azione collettiva”. Non vi è dubbio che un simile approccio ai problemi del movimento degli studenti (e, più tardi, degli operai) mettesse in difficoltà i partiti, e segnatamente il Pci, che erano i professionisti della mediazione politica. Ciò è vero sia per l’Italia che per la Germania, la quale espresse il movimento più simile a quello italiano, con una dinamica della soggettività che funzionò nella stessa maniera: autonomia del movimento e uso della democrazia diretta anche nella forma del delegato revocabile, basata, quindi, su un mandato imperativo. Tutto ciò si ritrova in qualsiasi movimento sociale di carattere antagonistico: non è una novità; appena c’è un movimento sociale, là c’è l’assemblea; appena c’è un movimento sociale, là ci sono i delegati e, ovviamente, l’insistenza sulla propria autonomia.

Sennonché la forza del ’68 non è stata nel chiedere, è stata nel fare, e in questo fare una generazione è cresciuta e ha modificato la vita civile e morale del paese. Non ha però modificato i partiti; anzi, i partiti sono nettamente peggiorati come conseguenza del ’68. Ecco un’altra analogia con il ’48. Basti pensare alla ‘seconda Restaurazione’ che seguì il ’48 in Europa, alla chiusura, in forme cinesi, delle istituzioni. Da questo punto di vista, occorre dire che sia François Mitterrand in Francia sia Bettino Craxi in Italia sono stati, con il loro verticismo oligarchico, espressioni di una reazione antisessantottesca. Nonostante i molteplici ostacoli frapposti dalle forze della conservazione e della reazione (presenti anche a sinistra), lo sbocco del ’68 è stato un profondo mutamento nelle relazioni civili e nelle relazioni sociali, una crescita culturale che, se raffrontata alla regressione attuale, sembra appartenere ad un’altra epoca.

L’episodio di Valle Giulia (primo marzo1968), in cui la polizia bastonò e cacciò gli studenti che occupavano la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma per protestare contro una legge di riforma che (esattamente come accade oggi) introduceva sbarramenti negli accessi ai diversi livelli di laurea, fu l’innesco del ’68, ma ebbe un valore simbolico straordinario, perché gli studenti risposero con una difesa attiva alle cariche della polizia. In altri termini, gli studenti, che venivano pestati, dissero una cosa molto semplice: “Basta! non ci faremo pestare più!”. Questo è il ’68.

Lo stesso marxismo mutilato e fossilizzato della sinistra storica (Pci e Psi, molto meno il Psiup) sarà oggetto, nel ’68, di una rivisitazione filologica e di un restauro critico, che spazieranno dagli scritti del Marx maturo, come la Critica al programma di Gotha, agli scritti del Marx giovane, e avranno come identico bersaglio l’ideologia economicista e riformista del movimento operaio. Un restauro e una rivisitazione che furono resi possibili anche da esperienze precedenti (come, ad esempio, quella dei “Quaderni Rossi” di Raniero Panieri) che avevano aperto la strada in questa direzione nuova.

Vale, infine, la pena di osservare che il ’68 è avvenuto in una società, dove i giornali teorizzavano che i giovani erano interessati soltanto al denaro e all’automobile fuoriserie, che sia gli studenti sia gli operai erano ‘integrati’ (nella società esistente). Qualche mese dopo è scoppiato, invece, un movimento gigantesco che si è andato sempre più estendendo come un’epidemia, per contagio, benché fosse partito da una minoranza. Anche oggi non è vero che i giovani siano geneticamente mutati. Non è così: sotto la cenere di un’apparente indifferenza cova il fuoco di un grande entusiasmo, che attende la causa giusta per divampare. I problemi sono fondamentalmente gli stessi, la fatica della rivolta è rimasta la stessa; sono soltanto cambiati i modi e le forme della comunicazione. La grande verità è sempre la stessa: per ribellarsi bisogna anche studiare, per ribellarsi bisogna compiere uno sforzo di argomentazione (la hegeliana ‘fatica del concetto’). I sessantottini sono cresciuti interrompendo le lezioni dei professori, impedendo che questi facessero lezione in una sola direzione, mettendo in difficoltà gli stessi professori con interventi critici argomentati, che finivano con il coinvolgere la massa, inizialmente ostile, degli altri studenti. I giovani militanti non devono, dunque, scoraggiarsi per il fatto di essere piccole minoranze che agiscono: il mondo è sempre andato avanti così. La cosa importante è cominciare ad agire, perché questa è la vera differenza: un’azione continua, organizzata, connessa ad una prospettiva strategica, che non si limita al fuoco di paglia della protesta di un giorno o alla ‘kermesse’ di una manifestazione variopinta che scorre per le vie della città come l’acqua sul marmo.

La riflessione sulle ragioni della sconfitta del ’68 ha anche un carattere autobiografico: chi scrive appartiene, infatti, alla “generazione del ’68”, una generazione che non intende assolutamente idealizzare né tantomeno contrapporre a quella odierna, anche perché ritiene che la sua generazione si possa dividere in tre parti: una parte che si è felicemente integrata nel sistema che aveva contestato; un’altra parte che ha fatto la scelta radicale della lotta armata contro il sistema, pagando con la morte o con il carcere il prezzo di tale scelta; una terza parte che è stata emarginata (o ha scelto di restare ai margini), rifiutando sia di comandare sia di obbedire in una società fondata sulla corsa al successo e sulla ricerca dell’arricchimento ad ogni costo. Chi scrive desidera sottolineare che è questa la parte cui si onora di appartenere, la parte che del ’68 conserva una consapevolezza talmente fondamentale per chiunque abbia a cuore la propria (e l’altrui) libertà, che ritengo doveroso evocarla attraverso uno slogan di rara potenza di quell’‘annus mirabilis’: “chi non fa politica la subisce”, indicandone anche l’autore, che è don Lorenzo Milani (giova qui ricordare che uno dei filoni ideali del ’68 è stato quello che faceva capo al ‘dissenso cattolico’ e alle ‘comunità di base’). Una consapevolezza che è fondamentale perché aiuta a comprendere che la libertà non è una concessione o un regalo, ma va conquistata pagando, se occorre, anche un duro prezzo.

Purtroppo, la “generazione del ’68”, ossia degli attuali ultrasessantenni, non è stata in grado, se non in misura assai modesta, di trasmettere la parte più valida e significativa della sua esperienza politica, ideale e morale alle generazioni successive, né il clima di restaurazione modernizzante che ha seguito quegli ‘anni formidabili’ ha reso più facile questo compito. È così accaduto che i ragazzi di oggi abbiano molti professori, ma ben pochi ‘maestri’, anche se i ragazzi di oggi sentono, e a volte esprimono in modo palese, il bisogno di ‘maestri’ (i ragazzi del ’68 li avevano e anche per questo poterono contestarli). Sia chiaro che qui non ci si riferisce ai guru o ai demagoghi, ma ai maestri autentici, quelli capaci di aiutare i giovani a scoprire il mondo in se stessi e se stessi nel mondo, risvegliando sotto la cenere della loro apparente indifferenza il fuoco dell’entusiasmo.

Sarebbe, poi, interessante fare una ricerca su dove siano finiti i sessantottini e vedere quanti dei protagonisti di quel moto hanno svolto un ruolo di crescita civile nelle scuole, anche di grado molto basso, nelle fabbriche, negli uffici, e quanti si sono invece inseriti in segmenti di classe dominante. Proprio Guido Viale, in un bel libro intitolato Il Sessantotto, uscito quarant’anni fa e recentemente ripubblicato, aveva posto (interrogandosi implicitamente anche sulla propria parabola politico-ideologica) il problema degli ex contestatori, in realtà modernizzatori, che in qualche misura sono stati premiati dal sistema.

La storia dell’Italia repubblicana dimostra, peraltro, che tutte le svolte del cinquantennio sono state segnate da un marcato protagonismo giovanile: così fu per la “generazione delle magliette a strisce” che, quando nel giugno del 1960 i nostalgici di un passato vergognoso rialzarono la testa, scese nelle strade e nelle piazze per contrastare quel rigurgito, dando vita ad una Nuova Resistenza e suscitando perfino lo stupore delle forze democratiche e antifasciste delle generazioni precedenti; così fu per la mobilitazione che vide accorrere la gioventù italiana a Firenze in uno slancio generoso e appassionato di solidarietà, quando nel 1966 l’alluvione colpì questa città, simbolo non solo della civiltà italiana ma della stessa civiltà mondiale (ed è impressionante, ma fortemente rivelatore dei moduli politico-ideologici della ‘rivoluzione passiva’, che la proposta di ripetere quel gesto di solidarietà per aiutare a risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti a Napoli fosse stata avanzata nel 2011, con enfasi demagogica, dallo stesso Berlusconi, contestualmente con la decisione di inviare migliaia di soldati in quel territorio); così fu ancora per il grande ciclo dei movimenti giovanili che ebbe le sue tappe fondamentali nel biennio 1968-1969 e poi nel 1977, prima che il massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e quindi arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dello yuppismo e del rampantismo da una società sempre più appiattita su un’immagine di edonismo e di futilità televisiva. Ma questa è ormai la cronaca degli ultimi decenni, quando la questione giovanile cessa di essere una questione nodale della emancipazione e tende a contrarsi nella problematica del disagio, della devianza e dell’emarginazione.

E siccome non credo, rileggendo queste note, di aver dato, di là da qualche spunto, una risposta precisa ed esauriente al quesito che mi è stato posto (c’è ancora molto da scavare, molto su cui riflettere, molto da chiarire), concludo questa specie di ‘apologia critica’ del ’68, trascrivendo come ‘explicit’ i versi stupendi (e stupendi perché giusti) di un poeta, di un saggista e di un intellettuale che è stato un interlocutore appassionato e partecipe delle vicende politiche, culturali e ideologiche della “generazione del ’68”: Franco Fortini.

La storia è andata così,

la vita anche.

Mutare il ribrezzo in lucidità,

la speranza in certezza.

E in impazienza.


Indicazioni bibliografiche

Mario Capanna, Formidabili quegli anni, Garzanti, Milano 2007

Franco Fortini, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, Mila no 2014

Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, Meridiani Mondadori, Milano 2003

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 2014 (Iª ed. 1975)

I due bienni rossi del Novecento 1919-20 e 1968-69 – Studi e interpretazioni a confronto, Atti del Convegno nazionale – Firenze 20-22 settembre 2004, Ediesse, Roma 2006

La strage di Stato. Controinchiesta (di Edgardo Pellegrini, Eduardo M. Di Giovanni, Marco Ligini), Odradek, Roma 2006 (ed. originale Samonà e Savelli, Roma 1970)

Umberto Levra, Il colpo di stato della borghesia - L a crisi politica di fine secolo in Italia, 1896/1900 , Feltrinelli, Milano 1975

Lewis B. Namier, La rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull’Ottocento europeo, Einaudi, Torino 1972

Franco Piperno,’68. L’anno che ritorna, libro-intervista a cura di Pino Casamassima, Rizzoli, Milano 2008

Guido Viale, Il Sessantotto tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano 1978

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Niko
Thursday, 20 December 2018 18:19
Oltre al fatto che sui frutti di quel periodo posso dire sia nata e si sia è sviluppata la mia coscienza di individuo (attraverso una irripetibile stagione musicale, il cinema d'impegno, quello della "new hollywood" ecc..prima di giungere in tempi molto più recenti a quella politica propriamente intesa), come classe 89 ho sempre avvertito un certo senso di fascinazione, di nostalgia e financo quasi di invidia nel non aver visto e vissuto quei tempi proprio per taluni aspetti qui evidenziati, e dico questo con la piena consapevolezza di quanto tali sentimenti possano per molti versi - anche giustamente - apparire oggi come malriposti se non del tutto fuori dal tempo per tutto quello che banalmente sappiamo e per il tutto il dibattito odierno che si anima in merito a quel periodo, alle istanze e agli strascichi che si è trascinato con sè. Dirò la più grande delle banalità, ma penso che un pò per ogni momento e movimento storico (e a maggior ragione se parliamo di 68 e dintorni) ci sia sempre un livello e un metro di giudizio su ciò che è stato e ciò che ha significato nei modi e nel contesto in cui si è svolto e - in seguito alle grandi trasformazioni avvenute - nelle conseguenze cui oggi è possibile ragionare in attraverso i suoi reflussi e i suoi detriti.
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Paolo Selmi
Thursday, 20 December 2018 00:29
Caro Eros,
grazie mille di questo tuo lavoro, che ti deve essere costato non poco perché da te vissuto in prima persona. E quando ciò accade, le ferite bruciano di più. Mi chiedo sempre cosa sarebbe successo se aveste vinto. "Se per esempio Corso Umberto si chiamasse Karl Marx Strasse"... toponomastica a parte, cosa sarebbe successo, probabilmente anche a livello internazionale, perché il mondo non era quel piattume capitalistico di adesso e, pur contestato, pur criticato da sinistra, ma anche il blocco dei Paesi socialisti non solo sarebbe sopravvissuto, ma avrebbe cercato percorsi di riforma in dialogo con nuovi, insperati, interlocutori. Fantascienza, perché la strategia della tensione aveva chiaramente mostrato i paletti oltre i quali chi toccava il filo restava fulminato. Ma il clima era comunque diverso. A parte i racconti di vita di mio padre, mi viene sempre in mente l'ambito artistico: la musica era permeata di rivoluzione. Non solo i cantautori storici, ma i gruppi, cantanti come Anna Identici che tornavano a cantare le canzoni delle mondine. Il cinema poi, non ne parliamo. Anche qui, senza scomodare Elio Petri tra i registi e Volonté tra gli attori, ma persino il western all'italiana risentì di un filone terzomondistico-rivoluzionario: la frase iniziale di Giù la testa tratta dal libretto rosso, eroi lumpenproletariat come Cuchillo (Thomas Milian) in Tepepa, o Django 2 (Franco Nero), quest'ultimo in pieno riflusso. Senza parlare di Sandokan, riletto da Sergio Sollima: l'eroe salgariano diventava l'icona dei popoli oppressi contro l'imperialismo britannico. Banalizzo, ma ho fatto in tempo a respirarlo io a dieci anni, quel clima. Un clima che oggi non esiste più. Per questo sono più pessimista sul ruolo delle minoranze (o avanguardie) oggi. Il ricordo del secondo dopoguerra, di quel clima di solidarietà, di quel modo di stare insieme e sentirsi "classe", oggi non c'è più. Guardo il mio quartiere di provenienza, dove mi ricordo ancora il giorno della prima comunione mio padre mi fece fare il giro completo della mia scala (19 famiglie) e in ordine sparso di altre 10 famiglie sulle altre scale a portare i confetti (giro che ho riprodotto in memoria di quel gesto quando mi sono sposato con chi non era scappato o non era nel frattempo deceduto) e lo rivedo oggi che è diventato un quartiere dormitorio, dove nessuno si conosce più. Il partito allora, il quartiere, il movimento, erano una scuola di vita dove nord e sud si univano: lombardi, veneti, campani, calabresi, pugliesi, laziali, siciliani, sardi, e tutte le regioni d'Italia erano unite nella stessa scala o nel giro di poche scale. Oggi non si ha più quella percezione di unione, pur negli sfottò reciproci. Ed è qui che fatico a vedere nel breve periodo un movimento di senso opposto, in questa dispersione, in questo clima frutto, come scrivi acutamente, del "massiccio spostamento dei giovani verso un’alternativa di sistema venisse intercettato e quindi arrestato con la diffusione altrettanto massiccia (e scientificamente pianificata) della droga e dei disvalori del qualunquismo, del consumismo, dello yuppismo e del rampantismo da una società sempre più appiattita su un’immagine di edonismo e di futilità televisiva". Oggi poi, con quell'affare di plastica che ciascuno si porta appresso, l'alienazione è pressoché totale. Non perdo però la speranza. Come cantava il carrettiere Mimmo Modugno in "Cosa sono le nuvole":
...il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro ma il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso...

Continuare a "ridere in faccia" a questa gente, sbugiardarli, farli sentire quello che sono, anche se non li seppellirà, forse aiuterà a far scoppiare la bolla delle false coscienze. E libererà energie sicuramente migliori e più fresche delle mie, magari per l'assalto decisivo.

Ancora tanti auguri e un buon 2019 ricco di anniversari e, speriamo, di nuovi traguardi!

Paolo
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