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La teoria del capitale a cinquant’anni dal dibattito tra le due Cambridge

di Saverio M. Fratini

Pubblichiamo una introduzione di Saverio Fratini al dibattito sulla teoria marginalista del capitale pubblicata sulla gloriosa rivista Critica Marxista*, che ringraziamo unitamente all'autore. Il tema è molto difficile (anche per me!), ma Fratini ci aiuta a farcene un'idea. Per i più giovani, l'invito è a cimentarsi con questa tematica, a mio avviso la ragione (analitica) più forte per non dirsi marginalisti. Fratini è docente a Roma 3

Catalogo Sraffa FotoRicorre quest’anno il cinquantesimo anniversario del simposio “Paradoxes in Capital Theory”, pubblicato nel 1966 sul Quarterly Journal of Economics, nel quale furono presentati i risultati di una controversia scientifica che era in realtà iniziata alcuni anni prima, con la pubblicazione, nel 1960, del libro di Sraffa Produzione di Merci a Mezzo di Merci.

Nel suo libro, Sraffa aveva mostrato che, facendo riferimento ad una situazione caratterizzata dall’uniformità del tasso del profitto in tutti i settori e dalla stazionarietà dei prezzi relativi,[1] il legame tra i prezzi delle merci e le variabili distributive—saggio del salario e tasso del profitto, in particolare—può essere complesso e imprevedibile, tanto che a fronte della variazione della distribuzione in una stessa direzione, ad esempio un continuo aumento del tasso del profitto, il prezzo relativo di due merci può crescere e diminuire a tratti alterni. Ciò, di fatto, svuotava di significato l’idea che diversi metodi di produzione di una certa merce potessero essere ritenuti a maggiore o a minore intensità di capitale,[2] come se si trattasse di una proprietà di natura tecnica. Infatti, dipendendo i prezzi dei beni capitale dal saggio del salario e dal tasso del profitto, l’ordinamento dei metodi di produzione sulla base dell’impiego di capitale per unità di lavoro sarebbe, in generale, cambiato al variare della distribuzione del reddito: il metodo inizialmente a più bassa intensità di capitale può diventare quello a maggiore intensità di capitale per un diverso livello delle variabili distributive.

Veniva quindi meno una delle fondamenta su cui la teoria neoclassica o marginalista della distribuzione era stata costruita, l’idea secondo la quale il capitale doveva essere visto come un fattore produttivo, ovvero un input, sullo stesso piano del lavoro, tanto da giustificare una spiegazione simmetrica—in termini di equilibrio tra domanda e offerta—del tasso del profitto (o dell’interesse[3]) e del saggio del salario, intesi entrambi come prezzi di fattori produttivi. Con ciò il marginalismo intendeva infatti contrapporsi rispetto alla teoria degli economisti classici—di Ricardo e di Marx in particolare—secondo cui, invece, i redditi dei capitalisti avevano natura residuale, trattandosi di un sovrappiù o plusvalore del prodotto rispetto ai costi necessari per il suo ottenimento.[4]

 

Samuelson e il capitale-gelatina

Ai risultati presentati nel suo libro da Sraffa—che si trovava a Cambridge nel Regno Unito—aveva risposto due anni dopo[5] Samuelson—che si trovava invece all’MIT, cioè a Cambridge in Massachusetts. Partendo da un modello di economia in cui uno stesso bene di consumo avrebbe potuto essere ottenuto attraverso l’impiego di molte tecniche diverse e alternative, ciascuna caratterizzata dall’impiego di beni capitale di tipo specifico, Samuelson aveva tentato di argomentare l’esistenza di una “gelatina” in grado di prendere la forma fisica dei diversi tipi di beni capitale e tale che, cambiando la tecnica adottata e quindi il tipo di beni capitale usati, la variazione del prodotto finale ottenuto per unità di lavoro potesse essere vista come dovuta al cambiamento della quantità impiegata di questa gelatina relativamente al lavoro.

Poiché la tecnica che le imprese hanno convenienza ad adottare si dimostrava dipendere dal livello del tasso dell’interesse, l’argomento di Samuelson avrebbe tenuto qualora si fosse potuto dimostrare che una diminuzione del tasso dell’interesse avrebbe inevitabilmente condotto all’adozione di tecniche che, a parità di lavoro, impiegano una maggiore quantità di gelatina e danno un maggior output. Proprio in questa direzione sembrava andare il contributo[6] di Levhari—un allievo di Samuelson—secondo cui una tecnica che era stata scelta e poi scartata in seguito ad una riduzione del tasso dell’interesse, non sarebbe potuta tornare in uso ad un livello del tasso dell’interesse ancora più basso. Tuttavia, come fu inequivocabilmente stabilito proprio nel simposio[7] di cui ricorre il cinquantenario, il teorema di Levhari era falso. Pasinetti e Garegnani—due economisti della scuola anglo-italiana che faceva riferimento a Sraffa—oltre a Morishima e Sheshinski, erano stati in grado di dimostrare, attraverso opportuni controesempi, che il “ritorno delle tecniche” (o re-switching), contrariamente a quanto Levhari aveva tentato di dimostrare, era possibile.

La possibilità del ritorno delle tecniche era sufficiente a far crollare la costruzione di Samuelson. Il fatto che una stessa tecnica di produzione del bene finale potesse essere adottata, cioè risultasse ottimale per le imprese, in corrispondenza di due diversi livelli del tasso dell’interesse, ma non per alcuni livelli compresi tra di essi, dimostrava definitivamente l’infondatezza dell’idea dell’esistenza di un fattore produttivo capitale, da impiegare insieme al lavoro in proporzioni variabili, e, quindi, del tasso dell’interesse come il prezzo da pagare per il suo uso. Come Samuelson stesso ammise nello scritto conclusivo di quel simposio, la parabola neoclassica secondo cui la riduzione del tasso dell’interesse avrebbe condotto all’adozione di tecniche “più indirette”, “più produttive” o in qualunque senso “a maggiore intensità di capitale”, non può essere ritenuta valida.

 

L’inizio di una nuova fase della controversia

Stabilito ciò, qualora gli economisti neoclassici avessero voluto perseverare nel ritenere il tasso dell’interesse come un prezzo che si stabilisce tramite domanda e offerta di capitale,[8] avrebbero incontrato il problema della possibile “inversione dell’intensità capitalistica” (o reverse capital deepening), ovvero della diminuzione, invece che dell’aumento, della domanda di capitale (a parità di lavoro) a fronte di una riduzione del tasso dell’interesse, con il conseguente rischio di instabilità dell’equilibrio.[9] Questo argomento fu utilizzato per la prima volta in un articolo di Garegnani pubblicato nel 1970.

Quest’articolo può essere visto come una sorta di spartiacque tra la fase iniziale e una nuova fase del dibattito.[10] Infatti, in primo luogo, per la prima volta il ritorno delle tecniche e l’inversione dell’intensità capitalistica della produzione venivano indicati come possibili cause di instabilità degli equilibri neoclassici tra domanda e offerta. Tema questo che, come diremo in seguito, sarebbe stato poi ripreso in altri contributi di vari studiosi. In secondo luogo, Bliss, nel suo commento pubblicato insieme all’articolo di Garegnani, pose l’attenzione sulle moderne versioni della teoria neoclassica del valore, quelle neo-walrasiane,[11] nelle quali le merci sono distinte anche per data di consegna, così che i prezzi relativi possano cambiare con la data di consegna delle merci, e i mercati per consegne a pronti e a termine sono, per ipotesi, aperti contemporaneamente.

Il riferimento agli equilibri neo-walrasiani è caratteristico di questa nuova fase del dibattito, nella quale il lato neoclassico non veniva più rappresentato da Samuelson e dagli altri economisti dell’MIT, ma da Bliss e Hahn—due studiosi inglesi[12]—seguiti più recentemente da Mandler.

Bliss, nel suo libro del 1975, e poi Hahn, negli articoli del 1975 e del 1982, mostrarono che nei modelli di equilibrio intertemporale neo-walrasiani, partendo da date dotazioni iniziali di merci e supponendo mercati a termine completi ed aperti simultaneamente alla data iniziale, si poteva giungere alla determinazione del sistema dei prezzi (a pronti e a termine) sulla base dell’equilibrio di domanda e offerta, senza alcuna necessità di aggregare i beni capitale né in termini di valore, né tramite qualche fantomatica gelatina. Quindi, secondo Hahn, gli argomenti critici utilizzati dagli economisti da lui chiamati neo-ricardiani—cioè, essenzialmente, gli studiosi che facevano riferimento a Sraffa—si rivolgevano a versioni ingenue della teoria neoclassica, quelle destinate agli studenti di primo anno, in cui per semplicità si aggrega, ma non alle versioni più raffinate, quelle neo-walrasiane appunto.

 

Il cambiamento della nozione di equilibrio

Bliss e Hahn avevano quindi cercato di difendere la spiegazione dei prezzi e della distribuzione in termini di equilibrio tra domanda e offerta sulla base della concezione neo-walrasiana dell’economia che, secondo questi studiosi, sarebbe stata immune dai problemi emersi relativamente all’idea del capitale come un fattore produttivo, che è in effetti assente in tale impostazione. La reazione di Garegnani—e di alcuni economisti a lui vicini—a questa tesi si sviluppò attraverso due argomenti distinti. Il primo, di cui ci occuperemo tra poco, riguardava il significato delle nozioni di equilibrio neo-walrasiane. Il secondo, per il quale rinviamo al prossimo paragrafo, intendeva invece mostrare la necessità che vi fosse, anche nei modelli neo-walrasiani, un mercato specifico, quello dei risparmi e degli investimenti, di fatto analogo, almeno per ciò che riguarda i problemi che da esso possono scaturire, al mercato del fattore capitale presente nelle versioni tradizionali della teoria neoclassica.

Come si è accennato all’inizio (si veda, in particolare, la nota 1), le teorie del valore hanno tradizionalmente rivolto l’attenzione verso un sistema dei prezzi che potesse essere visto come il centro attorno al quale orbitano, nel tempo, i prezzi a cui effettivamente avvengono gli scambi. Quest’idea ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il solo possibile legame tra la realtà, costituita ad esempio dai prezzi che si formano in ogni seduta della borsa merci di Chicago, ed una delle parti più astratte dell’analisi economica, come la teoria del valore. Se però adottassimo l’impostazione neo-walrasiana e quindi supponessimo che l’equilibrio non determini il livello centrale attorno al quale i prezzi effettivi possono gravitare nel tempo, ma piuttosto i prezzi delle merci per ogni possibile data di consegna, quel legame tra teoria e realtà si spezzerebbe.

Nella concezione tradizionale, i prezzi teorici e quelli effettivi, osservati alle diverse date, sono generalmente diversi e ciò è perfettamente compatibile con la tendenza di quest’ultimi ad orbitare attorno ai primi. Se invece, come avviene nell’approccio neo-walrasiano, l’equilibrio è formato dai prezzi delle merci consegnate in ogni periodo, allora non c’è nessuna possibilità di aggiustamento o di tendenza dei prezzi effettivi verso quelli teorici. O i prezzi effettivi delle merci consegnate ad una certa data, diciamo nel momento t, corrispondono, per un qualche caso fortunato, con quelli inizialmente determinati dall’equilibrio per consegne a quella data, oppure si passerà alla data successiva, t+1, e i prezzi effettivi e teorici alla data t rimarranno definitivamente diversi. In altri termini, visto che i processi di aggiustamento o gravitazione richiedono tempo, essi non sembrano poter aver luogo con riferimento ai prezzi di merci con specifiche date di consegna.[13]

Questo punto fu sollevato per la prima volta da Garegnani durante il convegno tenuto alla State University of New York di Buffalo nel 1974, i cui atti furono poi pubblicati nel 1976, e ripreso pochi anni dopo da Petri (1978). Garegnani, in particolare, sosteneva che l’accantonamento del metodo delle posizioni normali o di lungo periodo, dovuto all’ascesa dell’approccio neo-walrasiano, fosse avvenuto a scapito della significatività della teoria del valore, che si trasformava in una specie di giocattolo intellettuale, sprovvisto di rilevanza per l’analisi della realtà.

Inoltre, Garegnani vedeva all’origine della deriva neo-walrasiana della teoria neoclassica, proprio le difficoltà che questa aveva incontrato con riferimento al capitale come fattore produttivo. Nel determinare la svolta, era stato centrale, secondo Garegnani, il contributo di Hicks. Quest’ultimo aveva inizialmente tentato di adottare—nel libro Theory of Wages del 1932—una spiegazione della distribuzione in termini di sostituibilità (al margine) tra fattori produttivi, ricevendo forti obiezioni dovute alla particolare natura del fattore capitale, concepito come un aggregato, in valore, dei beni capitale. Tali critiche indussero Hicks ad una profonda revisione del suo approccio, fino ad intraprendere—con Value and Capital (1939)—una strada nuova, che se da un lato recuperava alcune caratteristiche della teoria di uno dei padri dell’approccio neoclassico, come Walras, dall’altro obbligava all’abbandono dell’idea tradizionale di equilibrio come centro di attrazione e all’introduzione di nuove nozioni di equilibrio, quelle appunto utilizzate nell’approccio neo-walrasiano.[14]

 

L’equilibrio risparmi-investimenti

Il secondo argomento introdotto da Garegnani—e poi ripreso da alcuni altri economisti—per rispondere alla tesi di Bliss e Hahn, si basava, come detto, sulla possibilità che i fenomeni del ritorno delle tecniche e dell’inversione dell’intensità capitalistica comportassero molteplicità o instabilità degli equilibri anche nei modelli neo-walrasiani, nonostante in questi il capitale non fosse considerato come un fattore produttivo. L’idea di fondo di questo argomento era che gli equilibri neo-walrasiani richiederebbero, in modo più o meno esplicito, l’uguaglianza tra risparmi e investimenti di ciascun periodo. Essendo gli investimenti il valore dei beni capitale nuovi acquistati dalle imprese, i problemi derivanti dalla trattazione della domanda di capitale in valore sarebbero potuti sorgere ancora attraverso la funzione, o la curva, degli investimenti.

In particolare, Garegnani,[15] facendo riferimento allo stesso modello utilizzato da Hahn nel suo articolo del 1982, cioè un modello di equilibrio intertemporale di tipo Arrow-Debreu, aveva cercato di dimostrare, in primo luogo, la presenza implicita di un mercato risparmi-investimenti e, in secondo luogo, la possibilità di equilibri multipli dovuti all’andamento non monotòno della curva degli investimenti nel caso di inversione dell’intensità capitalistica.[16]

Quello Arrow-Debreu è un particolare tipo di modello neo-walrasiano nel quale si suppone che i mercati a pronti e a termine siano: i) completi, cioè vi sia la possibilità di scambiare tutte le merci per ogni possibile data di consegna; ii) di numero finito, ovvero vi sia un numero finito di possibili date di consegna; iii) aperti tutti simultaneamente in un unico istante, l’istante iniziale del primo periodo. Quest’ultima caratteristica ha importanti implicazioni per il punto che stiamo esaminando. Infatti, da un lato, visto che le imprese possono vendere l’output che otterranno nello stesso istante in cui acquistano gli input che impiegheranno, nessuna anticipazione dei costi attraverso il capitale è necessaria,[17] ma i costi possono essere finanziati direttamente coi ricavi. Dall’altro lato, essendo tutti i mercati aperti in un solo istante, l’intera capacità di spesa dei consumatori dovrà essere esercitata in quell’istante, per l’acquisto di merci consegnate poi alle varie date. Così, nel modello Arrow-Debreu, risparmiare nel tentativo di trasferire potere d’acquisto a qualche data futura sarebbe addirittura impossibile, poiché nessuna transazione può aver luogo dopo l’istante iniziale.[18] Si vede dunque che in questo modello non ci sono né gli investimenti delle imprese, né i risparmi delle famiglie.[19]

Fu, di conseguenza, piuttosto agevole per gli economisti neo-walrasiani—e per Mandler (2005) in particolare—dimostrare che i problemi di molteplicità e instabilità degli equilibri, nei modelli Arrow-Debreu, potevano derivare soltanto da fenomeni riguardanti il lato delle scelte dei consumatori,[20] mentre le decisioni delle imprese—tra cui quelle riguardanti i metodi di produzione ed i beni capitale da impiegare—risultavano sostanzialmente ininfluenti.

E’ stato inoltre dimostrato (Fratini 2015) che il fenomeno del ritorno delle tecniche—almeno nel modo in cui esso era stato concepito nel dibattito degli anni sessanta—non è possibile nei modelli Arrow-Debreu. In particolare, affinché il ritorno delle tecniche possa manifestarsi, occorre che il legame tra tasso dell’interesse e i prezzi relativi sia del tipo che emerge quando quest’ultimi rimangono stazionari, cioè lo stesso sistema di prezzi relativi si applica sia agli input che agli output. Se invece i prezzi relativi delle merci consegnate alle diverse date non rimanessero stazionari, il loro legame con le variabili distributive si allenterebbe e si aprirebbe lo spazio per situazioni di coesistenza, invece che di reciproca esclusione, dei diversi metodi per la produzione di una stessa merce.

Tuttavia, sebbene nella teoria neo-walrasiana i prezzi relativi delle merci consegnate alla data t possano essere, in generale, diversi da quelli delle merci consegnate alla data t+1, si possono benissimo concepire modelli in cui, per ipotesi, i prezzi relativi rimangano stazionari. Anzi, se si escludono dinamiche caotiche, le posizioni di equilibrio stazionario dovrebbero essere proprio ciò verso cui tendono i sentieri di equilibrio (sequenziale) neo-walrasiano, su un arco temporale sufficientemente lungo. Così, se si rivolge l’analisi a questi equilibri stazionari, si scopre che non soltanto il ritorno delle tecniche è possibile, ma si può perfino individuare un suo ruolo nel determinare la molteplicità e l’instabilità delle soluzioni, proprio come si era inizialmente tentato di fare, senza successo, con riferimento all’equilibrio Arrow-Debreu.

In questi modelli, infatti, la stazionarietà dei prezzi relativi di periodo in periodo richiede l’assenza di accumulazione netta di beni capitale (per unità di lavoro). Di conseguenza, nel sistema delle condizioni di equilibrio stazionario deve essere inclusa quella secondo cui i risparmi lordi consentano esattamente di finanziare la riproduzione dei beni capitale impiegati, e questa condizione ha caratteristiche assai simili alla condizione di equilibrio tra offerta e domanda di capitale. In particolare, ci si aspetta che sia il livello del tasso dell’interesse ad aggiustarsi in modo tale da rendere nulla l’accumulazione netta, cioè da portare all’uguaglianza tra risparmi lordi e valore dei beni capitale impiegati dalle imprese.

Così, con riferimento ai modelli neo-walrasiani con prezzi stazionari, visto che in essi, come detto, si può manifestare il ritorno delle tecniche, è stato possibile mostrare che l’apparire di questo fenomeno può comportare: i) la molteplicità dei livelli del tasso dell’interesse di equilibrio (Fratini 2007); ii) l’instabilità (locale) degli equilibri, nel senso che livelli del tasso dell’interesse appena inferiori di quello di equilibrio possono generare un ammontare di risparmi lordi maggiore rispetto al valore della domanda di beni capitale da parte delle imprese (Fratini 2013a).

Quindi, in ultima analisi, la tesi avanzata da Garegnani, secondo cui anche i modelli neo-walrasiani—pur non considerando il capitale come un fattore produttivo—non sono immuni da problemi simili a quelli emersi nella prima fase del dibattito, si è dimostrata corretta, sebbene nel contesto dei modelli stazionari, piuttosto che in quelli Arrow-Debreu.

 

Conclusioni

Con riferimento ai dibattiti di teoria del capitale, ciò che sorprende di più è sicuramente il quasi totale disinteresse da parte della grande maggioranza degli economisti contemporanei. Tanto gli studiosi di impostazione neoclassica, quanto quelli eterodossi, con poche eccezioni, sembrano ritenere i risultati di queste controversie—nel caso ne abbiano sentito parlare—delle curiosità per specialisti, il cui interesse è confinato nei meandri più astratti della teoria del valore e della distribuzione, senza alcuna rilevanza per i loro propri studi ed analisi.

Così, il capitale considerato come un fattore produttivo, sostituibile al margine col lavoro, tanto da poter distinguere i diversi metodi (o tecniche) di produzione sulla base del rapporto capitale/lavoro che essi richiedono, continua ad essere presente non solo sui libri di testo destinati agli studenti di primo anno—come aveva scritto Hahn—ma purtroppo anche in innumerevoli articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste scientifiche. Per non dire del ruolo svolto, nella teoria mainstream della crescita, dall’idea secondo cui il tasso dell’interesse, almeno nel lungo periodo, sarebbe determinato dalla produttività (marginale) del capitale.

Le teorie macroeconomiche che costituiscono l’ispirazione per le decisioni di politica economica dei principali paesi del mondo utilizzano quasi sempre una rappresentazione della produzione nella quale il capitale è uno degli input ed il tasso dell’interesse è il prezzo da pagare per il suo uso. Analogamente, le più diffuse interpretazioni dei fenomeni economici che accadono nel mondo, dalla globalizzazione alla crisi finanziaria, si fondano su queste erronee concezioni.

La teoria economica più rigorosa, non mainstream, sembra avere su di se una specie di maledizione di Cassandra. Essa non è in grado, da sola, di fornire una analisi soddisfacente dei fenomeni economici—principalmente perché quest’ultimi sono fortemente influenzati da una moltitudine di circostanze di carattere sociale e istituzionale che difficilmente possono essere proficuamente incluse al livello di astrattezza della teoria—ma risulta invece molto efficace per mettere in luce i problemi e le incoerenze delle analisi superficiali e difettose. Proprio come Cassandra, però, la buona teoria economica è quasi sempre inascoltata.


* Fratini, S.M. 2016. ‘La teoria del capitale a cinquant’anni dal dibattito tra le due Cambridge’. Critica Marxista, 4-5, pp. 64-71.

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Note
[1] Una tale situazione teorica, che è detta “posizione normale” o “posizione di lungo periodo”, ha rappresentato, fin dai tempi di Adam Smith, il punto di riferimento ideale per l’individuazione delle determinanti persistenti dei prezzi relativi delle merci. Solo di recente, come si dirà più avanti, tale metodo è stato in parte accantonato per far posto alle nuove nozioni di equilibrio, come ad esempio quella di Arrow e Debreu, in cui l’uguaglianza di domanda e offerta sui mercati a pronti e a termine richiede, in generale, che i prezzi relativi cambino di periodo in periodo.
[2] L’intensità capitalistica di un certo metodo di produzione viene espressa solitamente attraverso il rapporto tra le quantità di capitale e lavoro che esso richiede.
[3] Nel momento in cui, con l’avvento della teoria neoclassica o marginalista, si è inteso il capitale come un input, si è introdotta anche la distinzione tra i capitalisti, che sono diventati meri fornitori di questo fattore produttivo, e gli imprenditori, cioè coloro che organizzano la produzione, sostenendo i costi e incassando i ricavi. Questa distinzione era naturalmente fittizia, poiché nella pratica, nei sistemi capitalistici, gli imprenditori sono o i capitalisti stessi, o persone da loro delegate. Essa, inoltre, richiedeva che i redditi dei capitalisti fossero visti come parte dei costi sostenuti dagli imprenditori e non come il residuo o plusvalore trattenuto da chi organizza la produzione. Così, la differenza tra ricavi e costi, che chiamiamo naturalmente profitto, fu chiamata extra-profitto ed assegnata agli imprenditori, mentre il profitto normale, trasformato in interessi sul valore del capitale impiegato, fu incluso nei costi. Pertanto, invece di parlare di tasso del profitto, gli economisti neoclassici preferiscono parlare di tasso dell’interesse.
[4] Risulta piuttosto evidente che la natura residuale dei profitti è in antitesi con la concezione del tasso del profitto come un prezzo. Se il tasso del profitto (o dell’interesse) fosse il prezzo per l’uso del capitale, i profitti dovrebbero essere calcolati moltiplicando questo tasso per l’ammontare di capitale impiegato e non come residuo tra il valore del prodotto e i costi.
[5] Il riferimento è all’articolo di Samuelson del 1962.
[6] Levhari (1965).
[7] In realtà, i temi del simposio erano stati in parte anticipati nel corso del primo convegno della Econometric Society, tenutosi a Roma nel 1965, nel quale Pasinetti aveva presentato una prima versione dell’articolo del 1966.
[8] La concezione del tasso dell’interesse come il prezzo che porta in equilibrio domanda e offerta di capitale è caratteristica di quasi tutte le versioni tradizionali della teoria neoclassica o marginalista. Scrive ad esempio Marshall che “l’interesse, essendo il prezzo pagato per l’uso del capitale in qualunque mercato, tende verso un livello di equilibrio tale che la domanda complessiva di capitale in quel mercato, a quel dato saggio di interesse, sia eguale alla quantità complessiva ivi disponibile a quel saggio” (Marshall 1959, pp. 504, 505).
[9] Per dare semplicemente l’intuizione, possiamo dire che un equilibrio è stabile se, nel caso di una piccola deviazione da esso, si mette in moto un processo che ci riporta verso l’equilibrio. Per converso, un equilibrio che non è stabile, è instabile.
Facendo riferimento alla normale dinamica di mercato, secondo cui il prezzo di una merce tende a crescere se la domanda eccede l’offerta e a diminuire nel caso contrario, l’equilibrio è stabile se variazioni del prezzo in più o in meno rispetto al livello di equilibrio, generano variazioni di segno opposto della differenza tra domanda e offerta. Se vi è invece concordanza di segno tra le due variazioni, allora l’equilibrio è instabile.
Per i fondatori della teoria neoclassica, la stabilità dell’equilibrio era una proprietà di grande importanza poiché era vista come la garanzia che i normali meccanismi di mercato sarebbero stati in grado di spingere l’economia verso la posizione di equilibrio, conferendo quindi a quest’ultima rilevanza pratica—e non solo teorica.
[10] Un ulteriore filone del dibattito, di cui qui non ci occuperemo, ha riguardato il significato dell’uguaglianza tra il tasso dell’interesse ed un presunto prodotto marginale del capitale (in valore) che emergeva quando la tecnica adottata era fatta variare, in seguito ad un cambiamento del tasso dell’interesse, mentre i prezzi relativi erano tenuti costanti. Questa controversia ha inizialmente coinvolto Pasinetti, da un lato, e Solow, dall’altro, ai quali si sono successivamente aggiunti altri studiosi.
Senza entrare nei dettagli, ci limitiamo a riportare che, come Pasinetti (1969) fu in grado di argomentare efficacemente, quella uguaglianza aveva significato e caratteristiche molto diverse rispetto alle uguaglianze tra i prezzi dei fattori ed il loro prodotti marginali di cui la teoria avrebbe avuto bisogno per il suo corretto funzionamento. Per una discussione più approfondita di questi argomenti, si veda anche Fratini (2013b).
[11] Non è possibile, né opportuno, entrare qui in dettagli troppo tecnici, ci limitiamo quindi a dire che Bliss, fraintendendo l’argomento proposto da Garegnani nel suo articolo (che, in vero, non era stato posto in modo molto efficace), aveva creduto di poter rispondere utilizzando il teorema di esistenza dell’equilibrio che Arrow e Debreu avevano prodotto alcuni anni prima—nel 1954—con riferimento ad un particolare modello di tipo neo-walrasiano.
In effetti, con il diffondersi dell’impostazione neo-walrasiana—avvenuto gradualmente tra gli anni trenta e sessanta del secolo scorso—le questioni dell’esistenza e della stabilità—a sua volta collegata a quella dell’unicità—del sistema dei prezzi di equilibrio, furono separate. Fu così possibile arrivare, abbastanza rapidamente, ad una dimostrazione di esistenza dell’equilibrio, per i modelli Arrow-Debreu, sotto condizioni piuttosto blande. Ben più complicate erano invece le questioni della stabilità e dell’unicità. In particolare, come si scoprì negli anni, molteplicità e instabilità degli equilibri non potevano essere escluse se non ricorrendo ad ipotesi decisamente restrittive.
[12] Sebbene Hahn fosse nato in Germania, si era trasferito con la famiglia nel Regno Unito durante l’infanzia ed aveva acquisito la nazionalità britannica.
[13] Ciò, soprattutto con riferimento all’equilibrio intertemporale Arrow-Debreu, è addirittura ammesso da alcuni autorevoli economisti neo-walrasiani. Essi vedono tale equilibrio non come un attrattore, ma piuttosto come un benchmak utile soltanto ad evidenziare le particolari e irrealistiche condizioni sotto le quali il funzionamento dei mercati porterebbe ad allocazioni delle risorse disponibili che siano ottimali da un punto di vista sociale.
[14] Non è possibile entrare qui nell’analisi necessaria per dimostrare la necessità dell’abbandono dell’idea dell’equilibrio come posizione normale quando le quantità di beni capitale impiegate inizialmente siano prese per date, come in Walras. Rinviamo per essa al saggio di Garegnani (1976).
[15] L’argomento è stato presentato da Garegnani in vari scritti, di cui il più completo è il saggio del 2003.
[16] Nel modello considerato da Garegnani si assumeva che non vi fossero metodi di produzione alternativi per la stessa merce e quindi il ritorno delle tecniche era sicuramente impossibile.
In Schefold (2005), invece, si proponeva un argomento di instabilità degli equilibri intertemporali neo-walrasiani basato sul ritorno delle tecniche.
[17] Se ci si sbarazza dell’idea che il capitale sia un fattore produttivo, il suo vero ruolo emerge con chiarezza. Come gli economisti classici e Marx avevano ben presente, il capitale è ciò che consente di finanziare l’avvio del processo produttivo, di coprire tutti quei costi che devono essere sostenuti in anticipo rispetto alla vendita del prodotto e l’ottenimento dei ricavi. I ricavi, quindi, consentiranno ai capitalisti di recuperare le somme anticipate, lasciando però anche un profitto, cioè un’eccedenza dei ricavi sui costi.
[18] L’ipotesi dell’apertura dei mercati nel solo istante iniziale riveste importanza fondamentale nell’equilibrio Arrow-Debreu ed è ciò che in sostanza lo distingue dagli equilibri temporanei. Infatti, se tale ipotesi venisse rimossa e i mercati riaprissero in qualche momento successivo, il comportamento degli agenti sui mercati aperti all’inizio sarebbe influenzato dalle loro aspettative circa i prezzi che si potrebbero formare alla riapertura dei mercati: al fianco delle transazioni per scopo di consumo e di produzione, vi sarebbero le transazioni speculative generate da aspettative al rialzo o al ribasso di alcuni prezzi relativi per le merci con consegna futura. Esiste una vasta letteratura circa le numerose difficoltà che la teoria può incontrare nell’includere questo genere di transazioni. Tutte queste difficoltà sono evitate dall’equilibrio Arrow-Debreu.
[19] I primi dubbi circa le nozioni di risparmio e investimento che Garegnani aveva utilizzato nel suo contributo furono sollevati da Schefold (2008).
[20] Essendo il punto molto tecnico, non è possibile qui dare nemmeno una intuizione dei fenomeni che effettivamente potrebbero provocare la molteplicità degli equilibri, né del ragionamento volto a dimostrare che solo questi sono rilevanti. Ci limitiamo a dire che i problemi scaturiscono dalla aggregazione di reazioni diverse da parte dei consumatori a fronte di una stessa variazione del sistema dei prezzi. Così che se le scelte aggregate potessero essere ricondotte a quelle di un agente rappresentativo dell’intera collettività, allora l’equilibrio sarebbe generalmente unico e stabile. 

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