Ripensare la funzione di produzione neoclassica
di Gaetano Perone*
Cobb-Douglas aggregate production function surely represents the cornerstone of the neoclassical theory. However, its good fit implies the respect for a series of unrealistic and increasingly restrictive hypothesis. So, this article attempts to summarize and to analyze the most important objections to Cobb-Douglas function raised by heterodox economists
1. Struttura elementare della funzione Cobb-Douglas
La funzione matematica elaborata da Cobb e Douglas (1928) può essere considerata la pietra d’angolo dell’impianto teorico neoclassico. Stabilendo una relazione piana e diretta fra output di prodotto e input produttivi, essa costituisce la più nota funzione di produzione utilizzata nell’analisi economica aggregata (Prescott 1988, p. 532). Nella sua forma elementare, si presenta come segue:
Dove Y rappresenta l’output, A un multi-fattore di produttività della tecnologia adottata, K lo stock di capitale fisico, L il lavoro e α e β le quote distributive del reddito che vanno ai profitti e ai salari, e nel contempo l’elasticità di sostituzione statica di L e K. Teorizzata inizialmente per spiegare la distribuzione del reddito, essa è stata successivamente rielaborata da Solow (1956) per descrivere analiticamente i processi di sviluppo economico.
2. Le principali obiezioni avanzate dagli economisti eterodossi
Nel complesso, il funzionamento di questa relazione tecnica di produzione è piuttosto lineare e non comporta particolari criticità; d’altronde sul piano empirico consente di spiegare discretamente la distribuzione del reddito (Fisher 1971) [1]. Tuttavia, analizzandone la struttura ne emerge chiaramente la dipendenza da una serie di fattori e ipotesi assai restrittive e irrealistiche. Di seguito, proponiamo un elenco – sintetico e per quanto possibile sistematico – delle più importanti obiezioni mosse alla funzione di produzione neoclassica:
i. elasticità di sostituzione fra L e K di tipo statico e fatta pari a 1;
ii. concetto di produttività marginale dei fattori produttivi;
iii. mercati perfettamente concorrenziali;
iv. rendimenti costanti di scala in tutti i mercati, per cui vale necessariamente (α + β) = 1;
v. progresso tecnico esogeno;
vi. forma della curva di isoquanto invariante al progresso tecnico;
vii. difetto di circolarità nella metodologia di misurazione del capitale;
viii. capitale aggregato costituito da beni “malleabili” e considerabili alla stregua di un unico bene.
In primo luogo, è bene chiarire che la funzione di Cobb-Douglas presuppone implicitamente un’analisi di tipo statico (i), in cui le variazioni dei fattori produttivi vengono considerate nella loro dimensione atemporale, ovvero indipendentemente dal tempo. In questo senso, le relative curve sono perfettamente reversibili e i mutamenti sono meramente ipotetici. Un’analisi incompatibile ad esempio con l’introduzione del progresso tecnico e che i marginalisti, con in testa Marshall (1920), hanno preteso di risolvere attraverso l’implementazione delle sole “piccole” invenzioni derivanti dai processi di adattamento delle tecniche esistenti promossi dai lavoratori e dagli imprenditori e quindi endogene al processo produttivo, tralasciando le “grandi” invenzioni frutto, invece, di attività di centri di ricerca e laboratori specializzati esterni all’attività produttiva. Tuttavia, secondo Sylos Labini (2004, p. 25) si tratta di un errore concettuale rilevante, in quanto il progresso tecnico è per sua natura intrinsecamente dinamico, e la sua inclusione nella curva di offerta di lungo periodo delle imprese non è compatibile con l’ipotesi di sostituzione statica in nessuna delle sue declinazioni. D’altronde nemmeno l’idea che il capitale e il lavoro siano perfetti sostituti – ovvero che possano essere sostituiti a un tasso costante e unitario – è empiricamente confermata; nella realtà storica tale valore è oscillato in un intervallo compreso fra 1,3 e 1,6 (Piketty 2014). Quindi il lavoro verrà viepiù sostituito con il capitale [2]. A ciò va aggiunto che la Cobb-Douglas si basa sul concetto fondamentale di produttività marginale (decrescente) dei fattori di produzione (ii), che altro non è che una derivata parziale. Una nozione perfettamente coerente e corretta sotto il profilo matematico ma decisamente debole sotto quello economico. Difatti, la produttività marginale di un fattore, ad esempio del lavoro, può essere concepita come l’incremento di output riconducibile all’impiego di un’unità addizionale del lavoro stesso (un’ora di lavoro in più), lasciando invariati tutti gli altri fattori di produzione. Un incremento destinato a contrarsi nel tempo a causa della progressiva saturazione dell’impiego degli altri fattori. Un’ipotesi poco conforme alla realtà, poiché l’incremento di un fattore – per poter modificare la scala di produzione – deve essere accompagnato, a parità di tecniche produttive, anche da variazioni positive degli altri fattori. A riguardo Sylos Labini (1988, p. 270) precisa che:
«Se in una fabbrica tessile con un dato impianto vogliamo produrre un decimetro quadrato in più di tessuto, noi abbiamo bisogno non solo di accrescere, sia pure di pochissimo, il grado di utilizzazione degli impianti (posto che ciò sia possibile), ma anche di far lavorare qualche minuto in più almeno un operario, il quale, se non vorrà tessere l’aria, dovrà impiegare un batuffolo di cotone grezzo – se di tessuto di cotone si tratta».
Dunque, non è opportuno ignorare questo fondamentale vincolo di natura tecnica, che non è ipotetico ma reale e strutturale. Il legame di funzionalità reciproca e di sostituibilità fra fattori produttivi può essere rappresentato dalla tabella 1. I primi due casi sono ovviamente irrealistici, poiché si presuppone che la variazione riguardi solo uno dei fattori di produzione; stessa sorte anche per il caso 4 in cui la sostituzione di L con K non è coadiuvata da un miglioramento delle tecniche. Gli unici validi sono il caso 3, dove la variazione della produzione è mediata dallo scostamento positivo di entrambi i fattori produttivi e il caso 5, dove la maggiore intensità di capitale (K/L) è accompagnata da un’evoluzione della tecnologia.
Tabella 1. Ipotesi di legami di funzionalità reciproca e sostituibilità fra fattori produttivi.
Per quanto concerne invece l’ipotesi di perfetta concorrenzialità in tutti i mercati (iii), essa implica sostanzialmente la produzione di un bene omogeneo e la presenza sul mercato di un numero infinito di piccole imprese (e di acquirenti), incapaci per definizione di influire sul prezzo di vendita – e quindi price-taker. La struttura atomistica del mercato presuppone la possibilità per ciascun venditore di allocare tutto il prodotto desiderato, a patto di non oltrepassare il prezzo di mercato, che è un dato esogeno. Ancora una volta ci si riferisce a un contesto statico, in cui tutte le imprese avrebbero, fatta eccezione per deviazioni puramente casuali, le stesse quote di K e L. In questo caso le informazioni disponibili sarebbero limitate ad un solo punto della combinazione di K e L e non all’intero isoquanto, ovvero alla curva che descrive tutte le possibili combinazioni dei fattori di produzione che permettono di ottenere la stessa quantità di prodotto. Si tratta di un’obiezione da non trascurare poiché l’isoquanto è costruito sulla base del saggio marginale di sostituzione tecnica [3] (che ne definisce la pendenza) che a sua volta è dato dal rapporto inverso fra le produttività marginali dei fattori produttivi.
Ma non solo; secondo Sylos Labini (1956) il mercato globale moderno è oramai dominato dalla concorrenza oligopolistica per due ordini di ragioni: a) in prima istanza, le innovazioni consentono di accelerare il progresso tecnico e il livello di competitività, riducendo drasticamente il numero di concorrenti sul mercato a causa delle difficoltà implicite nel fronteggiare una frontiera tecnologica sempre più alta, ovvero più avanzata; b) e in secondo luogo, esse danno origine a un profondo processo di diversificazione dei prodotti che fa venire meno l’ipotesi di perfetta omogeneità dei beni stessi. Infine, le caratteristiche stesse dei mercati moderni precludono la possibilità di perfetta concorrenzialità, a causa di svariati problemi connessi ad esempio alla complessità del contesto delle transazioni e alla presenza di asimmetrie informative fra venditori e acquirenti (Vernengo 2012, p. 160).
All’ipotesi appena enucleata si lega intrinsecamente anche quella di rendimenti costanti di scala (iv). Difatti, se si rimuove la possibilità di mercati concorrenziali, si può presumere che l’allargamento della scala di produzione favorito dalle innovazioni tecniche (non preesistenti) consenta una maggiore divisione del lavoro all’interno delle stesse imprese e fra imprese diverse; due circostanze che stimoleranno rispettivamente processi di concentrazione delle fasi di produzione e di differenziazione dei prodotti, tali da favorire la creazione di ulteriori innovazioni (il c.d. effetto Smith). In questo senso, l’aumento delle dimensioni dell’impresa e/o l’approfondimento dei processi di specializzazione permette il conseguimento di rendimenti di scala crescenti di tipo dinamico (Sylos Labini 1993, p. 13-14). Inoltre, è necessario ricordare che nella realtà empirica la somma di α e β raramente uguaglia l’unità, ma spesso se ne discosta in misura rilevante (Sylos Labini 1996, p. 264-265). In alcuni casi tale somma è persino negativa (Pasinetti 2000, p. 206). Dunque, non solo le innovazioni non vengono solo dall’esterno (v) ma incidono sulla curva dell’isoquanto (vi) in modo diretto; in altre parole, non ne determinano una mera traslazione verso l’esterno, ma ne modificano anche la forma (Sylos Labini 2004, p. 38).
A ciò va aggiunto che la metodologia di calcolo del valore aggregato di K soffre di un grave vizio di circolarità (vii), in quanto essa implica la conoscenza dei prezzi di tutti i mezzi di produzione che concorrono a formare il capitale fisso. E affinché ciò avvenga è necessario conoscere i relativi costi di produzione; una condizione che sottende la disponibilità di informazioni complete sui salari corrisposti ai lavoratori e sui tassi di interesse pagati sui finanziamenti. Tuttavia, la teoria neoclassica pretende di determinare quest’ultimi proprio sulla base dei prezzi dei mezzi di produzione, risultando, quindi, incoerente sul piano logico (Sraffa 1960). Ultima, ma di certo non meno irrealistica è l’ipotesi di perfetta adattabilità e malleabilità di tutti i beni strumentali (viii), che vengono considerati alla stregua di un unico bene omogeneo. Secondo Pasinetti (2000, p. 209) il punto di maggiore criticità non sarebbe costituito tanto dall’individuazione di una procedura di aggregazione adeguata ma dalla differente trattazione del capitale e degli altri prodotti aggregati. Difatti, se il capitale viene espresso normalmente in valore, gli altri fattori produttivi, come il lavoro e la terra, sono espressi, invece, in termini fisici. Si viene a determinare un’asimmetria evidente che caratterizza tutto l’impianto della funzione e che ne pregiudica la coerenza interna.
Conclusioni
Alla luce di queste considerazioni, appare davvero complicato capire perché tale costrutto non venga sottoposto ad attenta e meticolosa revisione da parte della teoria economia tradizionale. L’introduzione di vincoli e ipotesi astruse e prive di fondamento logico ha determinato di fatto uno sfasamento fra modello e realtà. L’approccio neoclassico, secondo cui il sistema di produzione può essere inteso come un processo unidirezionale che va dai fattori produttivi ai beni finali di consumo è piuttosto inverosimile. A questa visione, gli economisti classici e post-keynesiani contrappongono quella più coerente di un processo di produzione e del consumo circolare che si autoalimenta (Sraffa 1960, p. 120), e in cui il progresso tecnico è nel contempo un prodotto e un motore della sostituibilità dinamica fra lavoro e capitale (Sylos Labini 2004). In definitiva, l’unico aspetto davvero inattaccabile della costruzione neoclassica appare proprio il rigore analitico.
“Ma il rigore è solo uno dei due requisiti delle proposizioni scientifiche, l’altro essendo la rilevanza. Quando entrambi i requisiti sono presenti una proposizione ha efficacia interpretativa, che dopo tutto è ciò che conta in qualsiasi scienza” (Sylos Labini 2004, p. 114-115).
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