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sinistra

L’insegnamento scientifico e politico di Gramsci sulla costruzione del partito comunista

di Eros Barone

258px Kirchner Berlin Street Scene 19131. La direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (1923-1926) e la lotta contro le opposizioni di sinistra

La lettura dei documenti raccolti nel quinto volume delle opere di Gramsci1 presenta, nell’attuale congiuntura ideologico-culturale, un interesse che, se difficilmente si può sopravvalutare, sicuramente arricchisce il significato dell’80° anniversario della morte del grande rivoluzionario e pensatore sardo. Questo elemento va sottolineato non tanto per i nessi che collegano la situazione di quella fase alla situazione del 1944-1945 e alla situazione odierna (nessi che pure vi sono) quanto per l’insegnamento scientifico e politico che si ricava da questa serie degli scritti di Gramsci precedenti il carcere: l’ultimo articolo contenuto in questo volume è infatti del 22 ottobre 1926 e la prima lettera datata dal carcere è del 20 novembre. L’arresto era avvenuto la sera dell’8 novembre a Roma. Si tratta perciò di un volume che abbraccia un arco di tempo (autunno 1923 – autunno 1926), che coincide con un periodo di intensa attività nella vita militante di Gramsci: periodo che ha riscontro solo nelle lotte operaie del “biennio rosso” 1919-1920, la cui eco si avverte, nitida e costante, in molte di queste pagine.

Il primo aspetto che occorre rilevare è che contro la direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (d’ora in avanti PCd’I), costituita con un atto di forza della Terza Internazionale nella seconda metà del 1923 ed imposta ad una schiacciante maggioranza di bordighiani, convergevano, da un lato, la repressione fascista e, dall’altro, l’attacco della socialdemocrazia turatiana e nenniana contro i cosiddetti “fascisti rossi”: repressione ed attacco che trovavano spazio nell’assenteismo politico del vecchio gruppo raccolto attorno a Bordiga. Allora, esattamente come accade oggi con il tentativo di ricostruire un partito comunista nel nostro paese, la sinistra italiana contrapponeva al PCd’I la tesi secondo cui per battere il fascismo era necessario che la borghesia si staccasse dal fascismo; il corollario di questa tesi era la necessità di un ‘partito di sinistra’ (antifascista), ma non di un partito comunista (anticapitalista). Sennonché, si domanda Gramsci, dopo l’assassinio Matteotti (10 giugno 1924) che cosa è la ‘sinistra italiana’? chi sono gli antifascisti italiani? qual è, nella seconda metà del ’24, il significato della parola d’ordine ‘di massa’ del ‘cartello delle sinistre’?

«In verità - risponde Gramsci - questo decantato ‘cartello delle sinistre’ rassomiglia un po’ troppo ad una associazione di ‘mandanti del fascismo mussoliniano’, associazione di mutuo soccorso e di difesa di fronte allo sdegno dei lavoratori e al giudizio della storia»2. In una relazione al Comitato centrale dell’agosto del ’24 Gramsci definisce i partiti aventiniani come esponenti di un «semifascismo che vuole riformare, addolcendola, la dittatura fascista». Contro la politica di compromesso dell’opposizione aventiniana il PCd’I afferma che «solo una classe, il proletariato, doveva guidare la lotta contro il fascismo, che solo il proletariato avrebbe dovuto condurre fino in fondo questa lotta che non era e che non è solo contro il fascismo come tale, ma (…) è lotta di classe fra il proletariato e la borghesia per il possesso dei mezzi di produzione, e quindi per il potere statale»3

La lotta contro le opposizioni di sinistra all’epoca della crisi Matteotti è la più netta confutazione della tesi sostenuta da quanti, anche all’interno della sinistra di classe, hanno visto nell’eliminazione della direzione bordighiana l’inizio di una direzione ‘centrista’ nel PCd’I. È vero, semmai, proprio il contrario, poiché l’avvento della direzione gramsciana segnò concretamente, cioè nella pratica, la nascita del movimento comunista in Italia: un movimento che passava dalle enunciazioni astratte, di principio, all’organizzazione concreta della lotta contro il fascismo e contro la democrazia borghese.

 

2. Lotta contro il fascismo e contro la democrazia borghese, per la dittatura del proletariato

Orbene, queste due lotte, nel pensiero di Gramsci, sono strettamente connesse. Fermo restando che solo la classe operaia ed i contadini poveri possono battere il fascismo, il vero problema è esattamente l’opposto di quello che vedevano i liquidatori della lotta di classe: il problema del dopo-fascismo condizionava quello della tattica anti-fascista. In altri termini, se si combatteva per un governo ‘democratico’, per un governo ‘di sinistra’, era chiaro che il proletariato doveva essere subordinato politicamente alla borghesia: questa era la strategia indicata da un ampio arco di forze ‘costituzionali’, un arco che partiva da Nenni e arrivava a Giovanni Amendola. Ciò significava che la lotta democratica era direttamente contro la lotta di classe, era lotta antifascista ma, al contempo, lotta anticomunista. Se invece l’obiettivo era il ‘governo operaio e contadino’, che Gramsci, Togliatti e l’enorme maggioranza del PCd’I consideravano sinonimo di dittatura del proletariato, si doveva lottare contro il fascismo «sgretolando – così si esprime Gramsci – la base sociale delle opposizioni, staccando cioè i contadini meridionali dalle posizioni democratiche per portarli a quelle dell’alleanza con gli operai, distruggendo l’influenza che i partiti socialdemocratici hanno nella classe operaia», talché l’obiettivo dei comunisti è quello «di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati»4. Questa è la linea che conquista, tra il ’24 e il ’25, , la maggioranza delle avanguardie operaie italiane, raddoppiando il numero degli iscritti al partito e triplicando la tiratura dell’«Unità». Il PCd’I assumerà in quegli anni il rango di una forza politica di primo piano, la sola in grado di indicare con chiarezza una strategia antifascista e di tradurla in atto.

 

3. Partito comunista e “spirito di scissione”

Per Gramsci «l’unità di fronte contro il fascismo deve crearsi nelle classi sfruttate e deve raggiungersi sotto la direzione della classe operaia»5. A partire da questa premessa si aprono tutta una serie di problemi attinenti alla linea politica, alla tattica e all’organizzazione, ossia, in concreto, alla costruzione del partito. Che cosa vuol dire, dunque, per Gramsci costruire il partito comunista? Qui si colloca una prima importante riflessione. Infatti, per Gramsci costruire il partito comunista non significa costruire un partito più ‘a sinistra’ delle socialdemocrazie italiane, ma, al contrario, un partito radicalmente diverso. I comunisti, come Gramsci non si stancherà mai di sottolineare, non sono più radicali, più ‘a sinistra’ dei socialisti, ma sono esattamente l’opposto; sono, cioè, un partito rivoluzionario contrapposto ad un partito riformista, poiché non si collocano al polo opposto dei socialisti rispetto ai problemi (sindacali, politici e morali) di una stessa classe, ma su un fronte di classe opposto. Ciò significa che il partito comunista è l’avanguardia della classe operaia, mentre i socialdemocratici sono l’ala ‘sinistra’ della borghesia e del fascismo. Ecco perché la polemica contro Bordiga si concentra contro i residui di mentalità socialista (nella fattispecie, massimalista) ancora presenti nel fondatore del PCd’I. Le nuove leve affluite nel partito nei mesi successivi al delitto Matteotti non avranno fatto l’esperienza di vita e di lotta nei partiti socialdemocratici e saranno questi nuovi arrivati che determineranno il trionfo della linea gramsciana nel partito (esattamente come, nella situazione odierna, saranno le nuove leve che emergeranno da un’aspra rottura sociale a ‘bolscevizzare’ concretamente l’attuale Partito Comunista, depurandolo dal pesante retaggio opportunista e revisionista delle precedenti formazioni politiche, tutte di stampo socialdemocratico, da cui è scaturito).

Pertanto, prima ancora di essere un problema di linea politica, il problema della costruzione del partito comunista è, per Gramsci, un problema “morale”, di “concezione del mondo e della vita”, di sano “spirito di scissione”, attraverso i quali approfondire e rendere irreversibile la rottura con la “tradizione socialista”. Ciò spiega come mai i problemi della formazione ideologica di massa e della formazione del gruppo dirigente assumano, in questo periodo, un posto centrale nella elaborazione gramsciana.

 

4. In che cosa consistono studio e cultura per un partito comunista?

Così, la ricchezza e la profondità delle notazioni politico-organizzative su questi temi, oltre a testimoniare tale centralità, rendono particolarmente pregevoli i contributi che Gramsci dedica alla fondazione delle scuole di partito. Sono pagine straordinarie, dove compare quella definizione della cultura proletaria e marxista che deve essere la stella polare di un autentico partito rivoluzionario: «Siamo una organizzazione di lotta, e nelle nostre file si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta la organizzazione, per comprendere meglio quali sono le posizioni del nemico e le nostre, per poter meglio adeguare ad esse la nostra azione di ogni giorno. Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto»6 .

Sotto questo profilo, occorre dunque riconoscere che, congiungendosi con un processo di “bolscevizzazione” che si era sviluppato in modo eminentemente spontaneo, l’azione di Gramsci impresse al partito una “svolta a sinistra” rispetto alla fase contrassegnata dalla direzione di Bordiga. Già la stessa polemica contro il “partito-organo della classe operaia”, cioè puro agente esterno, e a favore del “partito-parte della classe operaia”, «unito alla classe operaia non solo da legami ideologici, ma anche da legami di carattere ‘fisico’»7, è indicativa di quella rottura radicale con la “tradizione socialista” che caratterizza gli anni di costruzione del PCd’I.

 

5. L’importanza della cellula di fabbrica e del lavoro sindacale dei comunisti

Da tale premessa discende logicamente la duplice necessità della cellula come organizzazione dei comunisti all’interno della fabbrica e del lavoro nel sindacato. A questo proposito, è opportuno rilevare il ruolo fondamentale che Gramsci assegna all’organizzazione comunista sul terreno dell’azione sindacale: un ruolo che non ha soltanto motivazioni politiche, ma anche strategiche e di principio. Per Gramsci, infatti, «senza grandi organizzazioni sindacali non si esce dalla democrazia parlamentare»8: la questione sindacale è quindi un aspetto, per molti versi decisivo, della lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato. Inoltre, l’esperienza sindacale ha un grande valore formativo, poiché insegna a grandi masse la negazione pratica del democratismo borghese, quindi un «un modo di far politica» diametralmente opposto a quello che caratterizza la democrazia parlamentare, fondato cioè sulla lotta, sui rapporti immediati di forza e non sulla contrattazione parlamentare. Le “tesi sindacali” permettono di capire a fondo la politica di massa del PCd’I in quegli anni. Gramsci individua il nodo cruciale ‘crescita del partito-sviluppo della rivoluzione’ nell’antitesi ‘scissione di partito-unità del proletariato’: i comunisti proprio perché spezzano l’unità del partito socialista, proprio perché prendono atto che le differenze tra loro ed i riformisti sono differenze di classe, e non di linea politica, possono porsi come nuovo nucleo unificante di tutto il proletariato. Il radicalismo del PCd’I negli anni della direzione gramsciana deriva così dall’incontro fra una ideologia marxista-leninista e una presenza organizzativa in strati sempre più rilevanti di proletariato operaio e contadino: la linea politica viene tradotta in pratica e ciò produce quel “nucleo d’acciaio” che permetterà al partito, solo fra tutti i partiti italiani, di resistere alla repressione fascista degli anni seguenti.

 

6. Teoria e pratica dello “spirito di scissione”

Infine, ecco ciò che Gramsci afferma circa il nodo, strategicamente decisivo, del rapporto tra partito e masse: «Il partito rappresenta non solo le masse lavoratrici, ma anche una dottrina (…) e perciò lotta per unificare la volontà delle masse nel senso del socialismo (…). Il nostro partito attua la volontà di quella parte più avanzata delle masse che lotta per il socialismo e sa di non poter avere per alleata la borghesia in questa lotta, che è appunto lotta contro la borghesia. (…) Questa volontà (…) disgrega gli altri partiti operai – operai per la loro composizione sociale, non per il loro indirizzo politico»9

Gramsci pone pertanto come obiettivo dei comunisti la teoria e la pratica di quello “spirito di scissione” che si può considerare base e principio del suo insegnamento scientifico e politico: «Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana»10.

È questo l’insegnamento di Gramsci di cui occorre, soprattutto oggi, far tesoro per la lotta comunista contro lo Stato democratico-borghese, contro i partiti riformisti e contro le tendenze opportuniste, dovunque e comunque si manifestino.


Note
1 A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista - 1923-1926, Einaudi, Torino 1971. Questo volume, così come gli altri quattro del periodo antecedente ai Quaderni del carcere, sono stati fatti scomparire dalla circolazione editoriale e sono oggi reperibili soltanto in alcune ben fornite biblioteche pubbliche. La ragione di tale scomparsa è evidente, così come è palese il ruolo culturalmente decorativo, filologicamente bifido e politicamente controrivoluzionario della Fondazione Gramsci e della sua direzione social-liberale. In effetti, il ruolo filologico svolto dalla sullodata Fondazione è piuttosto velenoso quando si tratta di speculare sulle divergenze tra Gramsci e il partito nel periodo carcerario.
2 Op. cit., p.195.
3 Ibidem , p. 278.
4 Ibidem, p. 39.
5 Ibidem, p. 198.
6 Ibidem, pp. 49-50.
7 Ibidem, p. 482.
8 Ibidem, p. 38.
9 Ibidem, p. 239.
10 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, vol. I, Einaudi, Torino 1977², p. 333.

Comments

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Eros Barone
Monday, 26 August 2019 23:13
Un'indicazione per Michele Castaldo sul concetto di 'opposti correlativi (simmetrici o asimmetrici)':
https://sinistrainrete.info/filosofia/15262-per-una-teoria-materialistica-dell-errore-degli-opposti-e-della-soggettivitaeros-barone.html .
Per quanto concerne il significato della poesia di Montale, invito Castaldo a fissare l'attenzione non solo sul polo del "girasole impazzito di luce" (che si può leggere come l'effetto deviante della identificazione 'simmetrica' dell'operaio con il capitalista), ma anche sull'altro polo del campo di tensione instaurato dal rapporto di sfruttamento: "l'ansietà del suo volto giallino" (che si può leggere come l'espressione della subalternità e della dipendenza patite dall'operaio-girasole nell'amara antropologia del rapporto di sfruttamento: una sofferenza che Marx ha reso perfettamente in lingua tedesca con il termine 'Trager', con cui ha designato i supporti dei rapporti di produzione, ossia i lavoratori salariati). Infine, un invito al buon Castaldo: non si comporti come un volgare filisteo quando le viene proposto come termine di raffronto, tra l'altro in omaggio ad una sua nozione, un testo poetico. La mente è come un paracadute, non serve se non si apre.
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michele castaldo
Monday, 26 August 2019 15:08
Egregio professore,
sarebbe interessante sapere cosa pensano i suoi studenti rispetto a quello che scrive per "contrastare" le mie tesi.
Tanto rispetto per Montale, ci mancherebbe, e per il suo antifascismo con particolare riferimento al documento di B. Croce, ma, di grazia, che vuol dire:
«opposto complementare asimmetrico»?
Lei si va a infilare in un vicolo cieco citando Montale, e in modo particolare sull'ultimo rigo «portami il girasole impazzito di luce». Che vuol dire? chi fa impazzire di luce il girasole egregio professore?
Ripeto la tesi centrale: il capitalismo è un movimento storico monista e le classi che da esso si producono sono complementari.
Vuole un garbato consiglio? Si occupi di poesia, è una nobile arte. Lasci perdere il materialismo storico che è materia troppo ostica per le sue attitudini.
Cordialmente chiudo qui.
Michele Castaldo
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Eros Barone
Sunday, 25 August 2019 22:49
E' proprio vero, come ha detto Italo Calvino, che un classico è un testo che non ha mai finito di dire quello che ha da dire. Castaldo ama ricorrere alla similitudine dei girasoli per descrivere quella che, a suo dire, è la 'complementarità tra gli operai e i padroni'; io (senza negare l'esistenza degli opposti complementari simmetrici) ho cercato di correggere e integrare la sua visione ricorrendo al concetto di 'opposto complementare asimmetrico'. Montale, quasi un secolo fa, negli "Ossi di seppia" scrive sui girasoli una poesia in cui è possibile ravvisare, rispetto alle nostre due tesi, una sorta di prepostera e geniale 'negazione della negazione': poesia, dunque, bellissima e verissima, con la quale anch'io metto un punto fermo a questa discussione.

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
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michele castaldo
Sunday, 25 August 2019 10:19
Concludo con una nota gli appunti sparsi sulle mie tesi portando a il tutto sintesi politica:
Dal momento che il modo di produzione capitalistico è un movimento impersonale degli uomini con i mezzi di produzione, va dedotto che le sue leggi non possono essere governate. Dunque la sinistra NON DOVREBBE MAI PROPORSI DI GOVERNARLE ma SOSTENERE SEMPRE LE MOBILITAZIONI DI MASSA CHE SI SVILUPPANO CONTRO GLI EFFETTI DI TALI LEGGI.
Tutte le formazioni politiche di sinistra che si sono proposte di governare "meglio" - cioè di sinistra - l'economia capitalistica sono state tutte portate al fallimento e a deludere i lavoratori in ogni parte del mondo: Russia, Cina, Vietnam, Cuba, Venezuela e così via all'infinito.
Circa il M5S - partito marmellata, come lo definisce il professor Barone - è la dimostrazione più semplice, netta e chiara di quanto sostengo: finché esprimevano il malcontento "popolare" sono saliti di consensi, quando hanno preteso - come la sinistra - di governare l'economia sono finiti nella situazione attuale. Stesso dicasi per Tsipras in Grecia. Non diversamente sono andate le cose per i Gilet gialli, che a un certo punto hanno ritenuto di doversi misurare con le "istituzioni" e i "programmi economici" e sono finiti con l'avvolgersi su loro stessi in un grumo di chiacchiere.
Una tesi chiara e limpida come l'acqua di una sorgente d'alta quota.
Se lo si vuole capire: Bene. Se no, ...come sempre dico: la terra continuerà a girare su sé stessa e intorno al sole e i giorni continueranno ad alternarsi alle notti. Non saranno le mie tesi a turbare i sonni di alcun compagno.
Mettiamo così un punto fermo a questa discussione.
Michele Castaldo
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Mario Galati
Saturday, 24 August 2019 21:47
Segnalo a Michele Castaldo un equivoco. Il periodo: "Ma Michele Castaldo vuole andare a parare sulla teoria della rivoluzione proletaria: se la borghesia ha preso il potere politico dopo essere divenuta economicamente dominante, come può il proletariato, da dominato, impossessarsi del potere, senza passare per un processo molecolare di sostituzione e avvicendamento con la borghesia nel potere economico-sociale?» non esprimeva il mio pensiero, ma la sua implicita obiezione alla teoria rivoluzionaria di Marx. Non rischio di essere giudicato bernsteiniano da Eros Barone. Semmai, il rischio è tutto suo; ed è pure molto concreto, visto che evoluzionismo e spontaneismo, come rimarcato da Barone, sono due facce della stessa medaglia.
Quanto alla sua risposta alla mia domanda, non fa che confermare la contraddizione.
Michele Castaldo non assegna alcun ruolo alla personalità nella storia. Allora perché vuole rendere coscienti e consapevoli le persone e ritiene "necessario chiarire a sé stessi e a chi è disposto a capire che siamo ad uno svolto storico e ci troviamo di fronte a un paradosso che è questo:..."
E una volta chiarito a sé stessi e agli altri?
Se il soggetto storico non esiste (il che non ha nulla a che vedere con il materialismo storico, che è anche dialettico), a che pro creare coscienza dell'oggettività meccanica e fatalistica della storia, se questa coscienza della necessità non ha alcuno spazio di intervento?
E se il modo di produzione capitalistico già finito deve essere soltanto spinto a cadere, con quale nuova prospettiva devono farlo gli interessati? Non c'è qui la pandistruzione e l'amorfismo di Bakunin?Non sembra a Castaldo che anche il ribelle-rivoltoso, non dico il rivoluzionario, sia pur sempre un soggetto? Ed è un soggetto che lui vuole formare, ossia educarlo, ovvero portargli la coscienza dall'esterno (si rammenti l'importanza della funzione pedagogica in Gramsci). Altrimenti, se il sistema crolla da sé e il soggetto non ha alcun ruolo nel movimento storico, a che pro capire e far capire, ossia, educare e formare?
A meno che l'intellettuale non abbia soltanto il ruolo della Cassandra che profetizza ciò che inevitabilmente deve accadere e accadrá.
Ma a cosa serve una Cassandra?
Quindi, rimane la domanda: perché scrive?
Escludendo che Michele Castaldo voglia calarsi nel ruolo di Cassandra, rimango fermo alla mia precedente ipotesi.
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Eros Barone
Saturday, 24 August 2019 16:50
La verità, confermata in positivo dall’esperienza storica del proletariato mondiale e dalla teoria scientifica del socialismo, e in negativo, per citare un solo esempio, dalla situazione attuale del nostro paese, è questa: il proletariato ha bisogno, in modo imperioso, di un’avanguardia cosciente e organizzata. Quando si tratta questo tema, vi è chi finge di non capire e, con un mediocre giochetto sofistico, scambia la teoria con l’idea. Sennonché qui non si tratta di idealismo, ma di materialismo dialettico e storico. Citiamo dunque, ancora una volta, con la pazienza dei maestri che si rivolgono ad alunni riottosi e distratti, il Lenin del “Che fare?”: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai abbastanza su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dalle forme più anguste di azione pratica...Solo un partito guidato da una teoria d’avanguardia può adempiere la funzione di combattente d’avanguardia”. E ribadiamo, sempre con Lenin, che il proletariato, spontaneamente, non è rivoluzionario, ma tradunionista, ragione per cui il partito si costruisce ‘dall’alto’, non ‘dal basso’. E che la tendenza spontanea del proletariato sia tradunionista non deriva da una deviazione accidentale, ma dalla sua obiettiva giacenza materiale, “che lo porta a rifugiarsi sotto l’ala della borghesia”. Ciò implica che “la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio ‘solo dall’esterno’ della lotta economica, cioè dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di ‘tutte’ le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e il governo”. Da questo teorema del socialismo scientifico risulta che la distinzione tra le masse e la loro avanguardia è un imperativo rivoluzionario assoluto. Orbene, questo ed altri testi vanno citati in quanto su questo punto la pratica rivoluzionaria non ha mai indotto Lenin a mutare anche minimamente la sua posizione. Per contro, è da rilevare che i seguaci della rivoluzione ‘spontanea’, non organizzata, a torto, sotto il profilo sia politico che intellettuale, si richiamano al leninismo. In effetti, sulla scia degli spartachisti si è formata una tradizione, che si pretende marxista, secondo la quale la teoria rivoluzionaria comincia ad essere elaborata contemporaneamente alla lotta rivoluzionaria del proletariato, restando naturalmente inteso che questa massa non deve essere guidata da chicchessia. Questa interpretazione, il cui carattere erroneo è stato reso evidente da un certo numero di rivoluzioni fallite o disinnescate, è totalmente estranea non solo al pensiero di Lenin, ma in generale al marxismo. Certo, la rivoluzione non si fa sui libri, ma in chi pretende di liberare gli uomini il disprezzo per la teoria e la demagogia dello spontaneismo, spinti fino all’ammirazione per Salvini “capace di dire pane al pane e vino al vino”, discendono da una concezione perlomeno singolare dei propri doveri nei confronti dell’uomo che studia e che lotta. Qualcuno ha infatti osservato che la teoria e la prassi, il pensiero e l’azione non sono due cose distinte; non si passa dall’una all’altra come si potrebbe passare da una biblioteca ad una manifestazione di piazza: il bolscevico è azione quando pensa la teoria, è pensiero quando agisce. Quindi, per tornare a bomba, il proletariato deve assolutamente avere la propria organizzazione politica di classe, perché senza il partito ha le armi spuntate, perché senza un partito proletario non vi potrà essere la rivoluzione socialista. Non per nulla - lo ripeto per l'ennesima volta - i partiti leninisti sono state le uniche forze capaci di sconfiggere il capitalismo e di attuare la rivoluzione socialista. Sennonché, una volta accertate l’importanza e la preminenza della sua funzione nella lotta per il socialismo, è assolutamente escluso che il proletariato possa avanzare in questa direzione da solo (cfr., sulla strategia delle alleanze di classe, Engels, Lenin, Stalin, Gramsci e Mao Zedong). Questo delle alleanze di classe è un nodo fondamentale del pensiero di Lenin, il quale anche su questo terreno ha introdotto un’innovazione rispetto allo stesso Marx: la necessaria alleanza del proletariato con la piccola borghesia e i contadini. Lenin era perfettamente consapevole che queste classi sociali, oltre ad essere organizzate in modo rudimentale (cfr., per citare un esempio attuale di questo tipo di organizzazioni politiche, il M5S, “partito-marmellata”, e la stessa Lega, formazione interclassista e neocorporativa), esprimono comportamenti e obiettivi reazionari. Esse - mi riferisco, come è ovvio, alle classi sociali intermedie -, sono tuttavia subordinate alla borghesia, proletarizzate e schiacciate dal capitalismo, in qualche modo e in qualche misura sfruttate: perciò rappresentano gli alleati obiettivi del proletariato in una prospettiva rivoluzionaria. Devono naturalmente essere guidate, perché conducano la stessa lotta del proletariato, e questo è quanto Lenin non ha mai smesso di sostenere fin dai primi anni della sua attività rivoluzionaria. Già nel 1905 scriveva in “Due tattiche della socialdemocrazia”, illustrando lo schema teorico della 'rivoluzione ininterrotta per tappe': “Il proletariato deve condurre a termine la rivoluzione democratica legando a sé la massa dei contadini, per schiacciare con la forza la resistenza dell’autocrazia e paralizzare l’instabilità della borghesia. Il proletariato deve fare la rivoluzione socialista legando a sé la massa degli elementi semiproletari della popolazione, per spezzare con la forza la resistenza della borghesia e paralizzare l’instabilità dei contadini e della piccola borghesia. Tali sono i compiti del proletariato”. In una forma sintetica e dialettica viene qui formulata una chiara definizione delle alleanze del proletariato e, nel contempo, la definizione del processo rivoluzionario. Impari chi può e vuole imparare.
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michele castaldo
Saturday, 24 August 2019 10:40
Andiamo con ordine.
E' mia buona abitudine rispondere sempre e nel merito alle domande o osservazioni poste. Lo faccio anche in queste circostanze con una premessa: quando si vuole discutere con serietà si evitano epiteti e definizioni fatte. Nelle mie argomentazioni non ne troverete. Non discuto per polemizzare, ma per affermare un punto di vista che ritengo rigorosamente ancorato al materialismo storico.
Vengo alle questioni.
Capisco che discutendo di un certo Antonio Gramsci mi attiro gli strali degli dei di esso studiosi, ma i comunisti sono tali perché sfidano la corrente dei misteri. Pertanto i compagni, militanti e studiosi di Gramsci non possono girare le spalle e far finta di non capire per amore di fedeltà; lui stesso non avrebbe gradito.
In cinquanta e passa anni di militanza politica ho imparato a capire che ci sono due modi di studiare: uno per prendere i voti, l'altro per capire. Non sempre le due cose coincidono.
Scrive Mario Galati:
«Ma se Michele Castaldo non intende educare nessuno, perché scrive?»
Ecco la risposta: perché siamo in una fase dove è necessario chiarire a sé stessi e a chi è disposto a capire che siamo ad uno svolto storico e ci troviamo di fronte a un paradosso che è questo: quando il modo di produzione capitalistico era in auge e si avviava verso il suo apogeo la nostra correte teorica, cioè il marxismo, riteneva che fossimo prossimi alla rivoluzione; oggi che il modo di produzione capitalistico è entrato nella sua fase finale - di un movimento finito, come Marx lo definiva - la nostra corrente ideale è in difficoltà, balbetta e non sa che dire e si rifugia in un armamentario teorico che i fatti si sono incaricati di dimostrare insufficiente quando non sbagliato del tutto. Poi si possono voltare le spalle alla realtà e far finta che la cosa non ci riguardi, ma i fatti restano fatti.
Perché scrivo? Perché a differenza di certi intellettuali occidentali che avendo osservato come il proletariato non è una classe rivoluzionaria sono o andati alla ricerca di un'altra classe o addirittura si sono arresi alla ineluttabilità del capitalismo, io - umile militante - mi sforzo di dimostrare che il soggetto (o i soggetti) non è la classe, ma i rapporti fra essi in un modo di produzione che è monista e che ha fagogitato ogni altro modo di produzione in ogni angolo del pianeta.
Che le classi al suo interno sono complementari in una "gabbia d'acciaio" come la definiva Max Weber.
Si tratta di macigni rispetto a come eravamo abituati a discutere, me ne rendo conto. Ma ritengo di stare dalla parte di chi si interroga e guarda avanti in modo coerente.
I fatti di questi ultimi decenni - dall''80 in poi, cioè dalla sconfitta alla Fiat - si sono incaricati di dirci che la classe operaia è capace di lottare se adombra l'ipotesi di poter strappare conquiste a un capitalismo in crescita, mentre va in crisi quando questo non cresce.
Non solo, ma che di fronte alla concorrenza delle altre sezioni del proletariato mondiale come quello dell'Est europeo e dei paesi asiatici viene attratto dalla polarizzazione corporativa con il proprio capitalista e con il proprio capitalismo nazionale che si sposta a destra e diventa sempre più sovranista e nazionalista, ed è costretto a gridare le stesse parole d'ordine dei Trump e Salvini di turno.
Chi volesse seriamente discutere dovrebbe contrastare questi fatti. Dunque invito Galati e chiunque altro a farlo.
Predico passività, come Galati adombra? No, tanto è vero che esalto ogni lotta - in modo particolare come quelle della Logistica e degli immigrati in generale - proletaria, basta guardare il mio sito, non perché possano costituire il soggetto per un nuovo modo di produzione - come pensavano Marx e Engels nel Manifesto - ma perché accelerano le difficoltà del capitalismo e ne avvicinano la sua crisi definitiva.
Ripeto: se si vuole discutere questi sono gli argomenti.
Veniamo alle altre questioni, scrive ancora Mario Garati:
«Ma Michele Castaldo vuole andare a parare sulla teoria della rivoluzione proletaria: se la borghesia ha preso il potere politico dopo essere divenuta economicamente dominante, come può il proletariato, da dominato, impossessarsi del potere, senza passare per un processo molecolare di sostituzione e avvicendamento con la borghesia nel potere economico-sociale?».
Caro Galati, voglio sperare che il professor Barone non abbia letto questa tua tesi, correresti il rischio di essere definito bernsteista. Chiusa parentesi.
Si, non mi nascondo dietro il dito, non fingo di non capire, non svio per viuzze. Si, questa è la questione: il proletariato non può fare la rivoluzione. Per una ragione molto semplice: mentre la borghesia si sviluppava già come classe dominante seppure senza potere politico, dunque se lo troverà tra le mani grazie alle mobilitazioni popolari; il proletariato è una classe complementare con la caratteristica della subordinazione. Non è la stessa cosa. Penso che Mario sia in grado di capirlo. Il processo molecolare era possibile per i borghesi ma non lo può essere per il proletariato "semplicemente" perché mentre la borghesia è sostenuta dalle leggi del modo di produzione capitalistico, il proletariato è da esse ostacolato in ogni i dove per il suo divenire classe "alternativa" di sistema.
Vogliamo fare un esempio: se in Italia o in qualsiasi altra parte del mondo una fabbrica chiude, gli operai possono fare l'autogestione. A quali condizioni? alle stesse condizioni del mercato, dei prezzi e contro la concorrenza del settore. Diventano piccoli capitalisti, negano così l'identità di classe.
Come vedi, dico a Galati, io sono concreto e affronto le cose a viso aperto.
C'è dell'altro e di più: forconi, tumulti e torbidi.
La storia delle lotte sociali e delle rivoluzioni presenta sempre tre caratteristiche: improvvise, violente e disorganizzate. Perché dovrebbe fare eccezione quella del proletariato? In base a quali caratteristiche nuove della storia? Chi si è avventurato su questo terreno - Kautsky per tutti - ha preso un abbaglio. E Lenin che cercò di emularlo fu costretto a correre appresso alla lotta dei contadini che per tutto un periodo aveva esclusi dal programma del Posdr. Quando i contadini seminarono l'
«Apocalisse per le campagne» scrive qualche storico serio, Lenin li sostenne senza condizione e fu criticato - ma giustificato - dall'aquila reale, Rosa Luxemburg e lo stesso Gramsci - forzando la mano sul piano teorico e storico - definì quella rivoluzione come bolscevica e «Contro Il capitale di Marx».
Allora, dico a Mario, cerca di capire che la realtà in movimento, o il movimento della materia trascina la volontà dell'uomo, in primis non c'è la parola, ma l'azione.
In ultimo: Bakunin è lontano dal mio orizzonte almeno quanto la terra è distante dal sole per la semplice ragione che non assegno nessun ruolo alla personalità della storia.
Veniamo alle cose che scrive il professor Barone.
Mi è stata sempre riconosciuta la caratteristica di chi ha fiducia cieca ad occhi aperti. E se lei, professor Barone, ci fa caso in tutti i miei scritti non ho mai trattato nessun interlocutore con una definizione liquidatoria. Per una ragione semplice: in ogni posizione teorica c'è la volontà di migliorare le condizioni degli uomini, in modo particolare - come nel nostro caso - di quelli oppressi e sfruttati.
Per un professore dovrebbe essere buona abitudine cercare di capire l'interlocutore e andare incontro con argomenti, come cerco di fare in questi giorni rispetto ai suoi scritti. Lei scrive:
«la concezione spontaneista, crollista e anarcoide sottesa alle posizioni di Castaldo». Cosa ha risolto in questo modo?
Non sono un anarchico, non lo sono mai stato semplicemente perché gli anarchici sono fuori dal materialismo, sono espressione di un ribellismo individualistico e personalistico e confondono il dominio del modo di produzione con il dominio dello Stato, che è una sovrastruttura e si modifica con il modificarsi del modo di produzione.
Circa lo spontaneismo, dovrebbe sapere che la storia è mossa per impulsi spontanei, come i terremoti, per necessità che maturano nella profondità degli abissi sociali, visto che parliamo di questo.
Quanto al crollismo, dovrebbe fare lo sforzo di capire che se un movimento storico viene definito da Marx come « impersonale e finito» dovrebbe avere il coraggio di criticare Marx dei Grundrisse e del Capitale, perché da lì che si evince la conclusione "crollista".
Le ho posto una questione che Bucharin cercò chiarire circa la complementarietà delle classi del modo di produzione che è monista. Lei scrive:
« “opposto correlativo asimmetrico”, che porta la classe ad entrare in contraddizione con i rapporti di produzione vigenti e che ‘può’, date certe condizioni (in primo luogo, l’azione di un partito comunista saldamente ancorato alla classe), ribaltare il carattere ‘organico’ della dinamica di sviluppo/crisi del capitalismo».
Opposto correlativo simmetrico? che vuol dire? che porta la classe ad entrare in contraddizione con i rapporti di produzione vigenti? Quando? "date certe condizioni" Quali? "(in primo luogo, l'azione di un partito [...])?
No, caro professore, per Marx è il proletariato che si costituisce e si da in partito politico.
Vede egregio professore mentre in Marx c'è l'dea di un movimento «finito» in lei c'è la visione idealistica della storia, ovvero l'idea che comanda l'azione. Lei neppure cita le difficoltà e le crisi del capitalismo, non le interessano, lei ha chiaro che la storia la fanno i comunisti, o comunque i "personaggi". Non ci trovo nulla di strano, ma il materialismo è un'altra cosa. Un movimento storico si esaurisce in base a leggi proprie che l'uomo non può metter riparo.
Le determinate condizioni devono essere riferite solo ai fattori complementari delle leggi economiche che ad un certo punto - come questa fase storica - portano all'implosione. Una fase la cui durata non siamo in grado di quantificare, come purtroppo pensava Grossmann o la Sinistra Comunista. Ma che sia giunta alla fase finale lo dimostrano mille e più fattori che non sto qui ad elencare.
Quale sarebbe il risvolto della sua tesi: finché non c'è un partito comunista saldamente ancorato alla classe ...Quale? quella che nella concorrenza internazionale delle merci operaie si rifugia verso il proprio capitalista, capitalismo nazionale alla Trump o alla Salvini, come dicevo prima?
In ultimo, egregio professore lei è talmente accecato dalla sua convinzione dell'idea che dirige l'azione - sto nobilitando la sua tesi - che non riesce a distinguere l'azione, ben oltre le teorie corrispondenti di tre personaggi: Kautsky, Lenin e Gramsci. Il primo si comportò da infame sull'aggressione alla Russia al punto da essere definito "rinnegato" dall'Ilic; il secondo, Lenin, seppe stare con la lotta rivoluzionaria dei "torbidi" dei contadini e assegnare loro la terra; il terzo, l'Antonio Gramsci che nonostante l'accumulazione capitalistica avesse intrapreso la strada della ripresa e correndo in soccorso dell'Urss isolato seppe costituire il Pcd'i insieme ad altri comunisti.
Mi creda, caro professore, ha di che imparare.
Cordialmente, Michele Castaldo
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Eros Barone
Saturday, 24 August 2019 01:43
Il lucido intervento di Mario Galati permette di focalizzare la concezione spontaneista, crollista e anarcoide sottesa alle posizioni di Castaldo. In effetti, lo spontaneismo non può che avere due sole versioni rigorose: quella dell’evoluzionismo bernsteiniano (“il movimento è tutto, il fine è nulla”) e quella dell’anarchismo bakuniano. Ma per poter criticare tale concezione occorre muovere, come ho cercato di fare nel commento n. 3, dalla condizione del proletariato nella sua obiettiva giacenza materiale, ossia in quanto forza produttiva esso stesso. E’ proprio questo elemento, che ho tematizzato attraverso la categoria di “opposto correlativo asimmetrico”, che porta la classe ad entrare in contraddizione con i rapporti di produzione vigenti e che ‘può’, date certe condizioni (in primo luogo, l’azione di un partito comunista saldamente ancorato alla classe), ribaltare il carattere ‘organico’ della dinamica di sviluppo/crisi del capitalismo. Se questo non avviene, il corso che necessariamente seguirà tale dinamica non potrà che essere lo sbocco di un processo di evoluzione/involuzione del capitalismo, la cui forza motrice è unicamente lo sviluppo economico e il cui epifenomeno è, altrettanto necessariamente, il riformismo nella sua versione coerentemente bernsteiniana: evoluzionista e parlamentarista, per un verso, eticista e neokantiana, per un altro verso. Ma la spontaneità proletaria può anche sfociare in una negazione immediata e totale di quella obiettiva giacenza materiale che produce e riproduce lo sfruttamento della forza-lavoro. In tal caso, si giunge all’anarchismo, sempre sospeso tra la Scilla del comunismo primitivo e il Cariddi di un ribellismo individualistico. In entrambi i casi, lo spontaneismo giunge, seppure per vie diverse, alla totale liquidazione del socialismo scientifico marx-engelsiano. Al contrario, il pensiero politico di Lenin, radicandosi nella situazione di un paese arretrato e preborghese con alcune isole di sviluppo capitalistico, si configura come restaurazione del marxismo diretta tanto contro l’evoluzionismo opportunista quanto contro l’utopismo anarchico e ha quindi il suo cardine teorico-politico in una critica radicale dello spontaneismo. La teoria del partito come “coscienza esterna” che rende possibile il passaggio dalla ‘classe in sé’ alla ‘classe per sé’ è perciò strettamente unita, come le labbra ai denti, ad una concezione della rivoluzione come discontinuità e salto dialettico, in un rapporto di radicale rottura con ogni spontaneismo. E qui si fa valere la preziosa lezione di Kautsky, che ritroveremo anche in Gramsci, secondo cui la dialettica attraverso la quale il proletariato si costituisce in classe e acquista una coscienza rivoluzionaria non può non essere fondata sul rapporto proletariato/scienza, proletariato/cultura, laddove il marxismo è, ad un tempo, prodotto e critica del pensiero precedente. Sennonché anche Kautsky pagherà il debito, tipico della Seconda Internazionale, nei confronti della concezione evoluzionista ed economicista e, quindi, nei confronti di un risorgente spontaneismo, debito che determinerà non solo la sua incomprensione per la prematura rivoluzione bolscevica come “rivoluzione contro il ‘Capitale’”, ma anche la conseguente liquidazione del concetto di dittatura proletaria. Dal canto suo, Lenin ha sempre combattuto una simile concezione, per cui il passaggio dal capitalismo al socialismo si configura come un processo ineluttabile, la fatale e univoca risultante delle forze oggettive di sviluppo interne alla società capitalistica. Da questo punto di vista, anche la rilettura di Hegel da parte di Lenin sarà funzionale alla battaglia teorico-politica che egli condusse, da un lato, contro il volontarismo estremista e, dall’altro, contro il meccanicismo gradualista, essendo ben consapevole del carattere ‘inorganico’ del processo rivoluzionario avviato dall’Ottobre sovietico, dunque dei limiti oggettivi della rivoluzione russa, a loro volta connessi con una certa fase della rivoluzione mondiale nel contesto dell’imperialismo contemporaneo. A questo punto, è necessario evocare la critica mossa dalla Luxemburg al bolscevismo, notando che il nocciolo teorico di tale critica non va individuato nell’accusa di blanquismo o di centralismo rivolta alle concezioni leniniane della rivoluzione e del partito, ma nello stretto e profondo legame che unisce il pensiero della Luxemburg alle concezioni spontaneiste. Per lei la politica rivoluzionaria scaturisce dalla lotta di classe spontanea che cerca la sua strada, ragione per cui l’incosciente precede il cosciente e la logica del processo oggettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti. Ma qual è la radice di questa visione spontaneista del processo rivoluzionario, che i suoi epigoni attuali ripropongono con una dose ancor maggiore di schematismo e di meccanicismo? Essa è la funzione dirompente che la Luxemburg attribuisce, nel processo rivoluzionario, alla crisi finale del capitalismo, concepita come impossibilità economica del sistema di riprodursi, come rottura irreversibile dell’equilibrio economico-sociale. In questa prospettiva, si comprendono allora non solo le critiche alla teoria leniniana del partito, ma anche le critiche alla stessa rivoluzione sovietica e al potere bolscevico sulle questioni decisive delle nazionalità e del ruolo delle masse contadine. Si trattava di critiche chiaramente inficiate dall’avventurismo, che potevano avere una qualche plausibilità solo se il movimento proletario in Europa e in Germania fosse stato in grado di risolvere positivamente la crisi politica e sociale in atto. Ma proprio in Germania, là dove le condizioni storiche sembravano mature, lo spontaneismo della Luxemburg doveva registrare il suo tragico fallimento sia vanificando l’aspettativa di un crollo finale alimentata dalla crisi del sistema sia confermando l’impotenza del grosso del proletariato tedesco, diviso fra una politica opportunista di collaborazione con la borghesia e tentativi insurrezionali che lo posero alla mercé di una sanguinosa repressione legale ed extralegale e lo isolarono da vasti strati di potenziali alleati (ceti medi impoveriti, masse contadine, intellettuali).
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maurizio rovini
Saturday, 24 August 2019 01:30
Purtroppo mi sento di appoggiare le posizioni di castaldo, ancorché siano dettate da una urgenza che comprendo e per questo in parte imprecise. Sono certo che l'interpretazione sia terreno sempre di scontro in primo luogo terminologica. Non siamo certi di intendere per classe operaia quello che immaginava e vedeva Marx nell'800. Piuttosto quella classe oggi è più simile agli abitanti delle bidonville, come ho visto in Nepal e India piuttosto che nelle fabbriche del primo mondo. Sarebbe bene una visione storica più accurata quando si toccano definizioni sociologiche dal momento che neanche la sociologia usa più.
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Mario Galati
Friday, 23 August 2019 22:48
La nobiltà feudale, come classe sociale, non preesiste al modo di produzione feudale. Cosa ha da dire Michele Castaldo a questo riguardo?
La servitù della gleba, come classe sociale, non preesiste al modo di produzione feudale. Cosa ha da dire Michele Castaldo a questo riguardo?
Il proletariato moderno, come classe sociale, non preesiste al modo di produzione capitalistico. Cosa ha da dire Michele Castaldo a questo riguardo?
La massa schiavile , come classe sociale, non preesiste al modo di produzione schiavistico. Cosa ha da dire Michele Castaldo a questo riguardo?
È chiaro che, messa in questi termini, la cosa non ha alcun senso. Ma Michele Castaldo vuole andare a parare sulla teoria della rivoluzione proletaria: se la borghesia ha preso il potere politico dopo essere divenuta economicamente dominante, come può il proletariato, da dominato, impossessarsi del potere, senza passare per un processo molecolare di sostituzione e avvicendamento con la borghesia nel potere economico-sociale? E qui Michele Castaldo dimostra di ragionare per analogia storica schematica e meccanica (lui, che vorrebbe rinnovare teoria e prassi, in realtà applica lo stesso rigido e preconfezionato schema a tutte le grandi fasi della storia; come se la storia fosse l'eterno ritorno dell'identico) e dimostra di ignorare, volutamente o meno, la teoria marxiana della rivoluzione e, con essa, lo stesso senso della concezione complessiva di Marx, il materialismo storico o, gramscianamente, la filosofia della prassi.
Così rimane soltanto spazio per predicare la fine ineluttabile e, anzi, già avvenuta del capitalismo. Non occorre fare e organizzare nulla. Bisogna soltanto accompagnare questa agonia con la pandistruzione di bakuniniana memoria (leggi: sommosse o tumulti. Dai forconi contadini, al cui retaggio mi sembra ancorato, ai forconi populisti delle nuove folle interclassiste dei perdenti, il nuovo soggetto storico di suo riferimento dietro l'ostentata negazione del soggetto storico).
Rimane ancora inevasa la mia domanda: se Michele Castaldo non vuole educare nessuno (non sia mai che porti la coscienza dall'esterno o che riempia vasi vuoti), perché scrive?
Ho azzardato troppo nell'ipotizzare che lo fa per indurre alla passività e impedire una, seppur difficile, riorganizzazione comunista e favorire invece l'agitazione piccolo borghese?
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michele castaldo
Friday, 23 August 2019 16:16
Egregio professor Barone,
non capisco perché le mie osservazioni, passi che sarebbero disorganiche, ma perché mai sarebbero elusive e isteriche? E' lei che non riesce a mantenere la calma e rispondere nel merito delle questioni che pongo con estrema chiarezza.
Ripeto: a) la borghesia come classe sociale non preesiste al modo di produzione capitalistico;
b) essa si forma, si produce e si costituisce col moto-modo di produzione.
Questo modo di ragionare si definisce materialismo storico.
Lei a riguardo cosa ha da dire? Non sia dispersivo, la prego.
E ancora: il modo di produzione capitalistico è un moto finito - dice Marx - storicamente determinato, anarchico e impersonale che domina la volontà degli uomini. Lei a riguardo cosa ha da dire?
Per tornare a Gramsci, personaggio che ho imparato a stimare ed amare da lunga pezza ma sempre con gli occhi aperti e riflettendo su ciò che lui scrive sul piano teorico. Cito: «Il pensiero idealistico italiano e tedesco [...] pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici bruti, ma l'uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace».
La rivoluzione russa una rivoluzione bolscevica? Una rivoluzione contro «Il capitale» di Marx?
Così parlava Gramsci riferendosi alla rivoluzione del novembre 1917 in Russia. «Dove alla volontà piace, come alla volontà piace»? Povero Giordano Bruno, e povero Marx così maltrattato da Gramsci. Povero Epicuro, Lucrezio e tanti bravi materialisti che evidentemente non avevano capito niente della mente e delle idee che è in grado di esprimere al punto di condurre la realtà secondo la propria volontà.
Lei a riguardo cosa ha da dire? Perché un conto è e deve essere l'entusiasmo per un evento storico di straordinaria importanza che vede gli oppressi e sfruttati ribellarsi alla schiavitù, tutt'altra cosa è andare a spasso con le idee volteggiando sulla loro potenza.
I fatti si sono incaricati di dimostrare che Gramsci - e con lui tanti intellettuali idealisti - aveva torto. E con lui Lenin e ancor di più Stalin.
Questo non vuol dire in alcun modo condannare il gramscismo, il leninismo e nemmeno lo stalinismo, non di questo stiamo ragionando, ma della potenza di un moto-modo di produzione che si fa beffa della volontà degli uomini. E Lenin, che fesso non era, disse: stavamo su un binario obbligato dove pensavamo di guidare ed eravamo guidati. Fu onesto e morì in tempo per essere travolto ulteriormente dalla valanga capitalistica che travolse anche l'Urss prima e la Russia poi.
E' su questo che la invito ad esprimersi. Abbia l'umiltà di misurarsi su questioni di primo'ordine teorico, non disperda in rivoli la riflessione. Procedendo come fa lei non aiutiamo a capire in che mondo siamo e dove stiamo andando. Non riusciamo a spiegare il perché l'uomo non riesce a impedire il disastro ambientale con tutto ciò che questo comporta per le generazioni future.
Capito mi ha, professor Barone!
La ringrazio
Michele Castaldo
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Eros Barone
Friday, 23 August 2019 14:40
Riprendo dalle osservazioni disorganiche, elusive e un po’ isteriche di Castaldo solo un punto che merita di essere chiarito: quello concernente il giudizio sulla rivoluzione francese e il ruolo svolto dai giacobini. Partirei, visto che lui lo ha praticamente ignorato (forse a causa della scarsa familiarità con l’autore), da un acuto giudizio che Gramsci formula in un passo dei “Quaderni del carcere”: “I giacobini...si oppongono ad ogni sosta ‘intermedia’ del processo rivoluzionario e mandano alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi diventati reazionari. I giacobini pertanto furono il solo partito della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni immediate della borghesia francese, ma rappresentavano il movimento rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo storico integrale, perché rappresentavano i bisogni anche futuri”. Sennonché, per evocare l’interpretazione sviluppata da uno dei maggiori storici di questo evento – mi riferisco al Mathiez -,la comprensione del significato della rivoluzione francese non può essere limitata ad un giudizio schematico sulla rivoluzione come conquista del potere da parte della borghesia, ma, sfruttando appunto col Mathiez lo strumento euristico dell’analogia storica e quindi utilizzando sistematicamente come pietra di paragone la rivoluzione bolscevica, va integrata con altre caratteristiche. In questo senso, si deve sottolineare il fatto che la Convenzione fu costretta ad adottare, suo malgrado, misure di controllo dell’economia (requisizioni, maximum ecc.) e che solo Robespierre tentò di attuare sistematicamente e coscientemente una politica sociale che oltrepassava l’orizzonte del liberismo borghese. E’ questa consapevolezza che rende il suo ruolo paragonabile a quello di Lenin. La differenza rispetto a quest’ultimo è che “l’Incorruttibile” non disponeva di una chiara teoria economica – il marxismo – con cui orientarsi. Inoltre egli perse il sostegno della borghesia montagnarda, che non lo volle seguire, andando oltre le misure di emergenza, sul terreno della politica sociale, mentre venne abbandonato dallo stesso movimento sanculotto, inconsapevole dei suoi reali interessi. La ricostruzione di Mathiez va poi integrata, per avere un quadro organico di questo evento nella sua complessità, con quella di Lefebvre, grande studioso della rivoluzione contadina cui spetta il merito di aver mostrato che questa ha una sua autonomia e non è esclusivamente antimonarchica e antifeudale, ma rivela anche quelle caratteristiche di stampo anticapitalistico che saranno poi messe in valore dal protocomunista Caio Gracco Babeuf. Terzo grande studioso (marxista, ‘ça va sans dire’) della rivoluzione francese e, segnatamente, del movimento giacobino è Soboul, il quale ha approfondito la categoria interpretativa di rivoluzione borghese, già messa a fuoco da Mathiez, Lefebvre e altri, studiando in modo particolare i sanculotti parigini e facendo vedere, contro la tesi del trotzkista Guérin, che essi non costituivano affatto un proletariato nel senso moderno del termine, ma erano un coacervo multiforme di piccoli produttori ostili a qualsiasi forma di collettivismo, tendenzialmente anarchici e dunque instabili come base di massa per l’azione del governo rivoluzionario, anche se la loro mobilitazione fu decisiva per arrestare l’invasione straniera e promuovere i primi progetti di una legislazione per la sicurezza sociale. Osserva, comunque, Soboul, richiamando un noto passo del “Manifesto”, che le catene che legittimavano il privilegio aristocratico ed ostacolavano il sorgere della società moderna dovevano essere spezzate e furono spezzate dalla rivoluzione. Da qui nasce la definizione con cui egli riassume i risultati di alcuni decenni di studi: “rivoluzione borghese con un sostegno popolare”. Una definizione che coglie il significato unitario della rivoluzione, riconoscendo nel contempo la molteplicità delle spinte e degli orientamenti che confluirono in essa.
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michele castaldo
Friday, 23 August 2019 09:33
Egregio professor Barone,
ho la buona abitudine di leggere con la dovuta attenzione (o non leggere per niente) quel che mi attrae, per capire, indipendentemente se condivisibile o meno. Da parte sua, come di tantissimi intellettuali, c'è la superficialità e la presunzione di non leggere con la dovuta attenzione perché non interessa capire quello che un umile ragionatore pone all'attenzione di certi interlocutori in una fase molto complessa e difficile per chi si richiama ancora agli ideali del Comunismo, con la C maiuscola.
Sbrodolarsi in un linguaggio filosofico incomprensibile ai comuni mortali serve a spianare la strada ai personaggi alla Salvini, a chi, cioè, è capace di dire pane al pane e vino al vino.
Sono alcuni anni che vado ponendo una rivisitazione degli ideali dei Comunismo mettendo a confronto i fatti e le teorie, da Marx-Engels in poi. Non c'è rispondenza fra i due fattori. Questa è una realtà inoppugnabile. Ho fatto lo sforzo - pubblicando due libri: «Marx e il torto delle cose 1871 1917 2017» e «La crisi di una teoria rivoluzionaria» - di capire quali sono state e quali sono tuttora le difficoltà che ha incontrato una teoria complessa come quella che si richiama a Marx. Sono arrivato alla conclusione che tutti i teorici sono espressioni di tentativi di opporsi all'homo hominis lupo di Hobbes, al tentativo cioè di superare l'agire istintivo dell'uomo che lo porta a competere ed a sopraffare un altro uomo.
Lungo questo percorso, cioè questo tentativo, ci sono stati personaggi che hanno tentato di fare delle proposte che sono risultate insufficienti. Compresa quella del Comunismo? Si, compresa quella del Comunismo. Perché? Perché ho scoperto che c'è un errore teorico di fondo: non si è capito che il soggetto non è l'individuo uomo ma il rapporto fra gli uomini con il resto della natura. Altrimenti detto: una cosa è tale solo in rapporto con un'altra cosa. E questi rapporti, segnati storicamente, hanno portato l'uomo a costituire volta per volta un loro rapporto con i mezzi di produzione. Dunque si è trattato e tuttora si tratta di un movimento storico che ha avuto come sbocco il modo di produzione capitalistico.
Dunque il capitalismo non è un modello, ma un movimento storico.
Marx ci arriva in età matura a questa definizione con i «Grundrisse» prima e «Il capitale» poi.
I tentativi operati dall'uomo contro questo movimento spontaneo e istintivo, sono stati sconfitti grazie alla straordinaria forza del suo moto, che ha fagogitato ogni tentativo di resistere ad esso. Gli esempi a riguardo sono innumerevoli in tutti i continenti.
Molti di questi esempi - Russia, Cina, Vietnam, Cuba, Venezuela, e così via - di "sinistra" o Iran e il mondo musulmano di "destra" hanno tentato quella famosa resistenza cercando di organizzare diversamente il rapporto con i mezzi di produzione della distribuzione, e sono stati tutti sconfitti, partendo dalla Comune di Parigi e prima ancora addirittura dal tentativo della legge sul Maximum che venne introdotta all'indomani della rivoluzione del 1789 in Francia e il povero Robespierre finì al patibolo fra due ali di folla plaudenti.
Ecco perché dico che cercare nella storia passata del movimento operaio degli esempi teorici e politici da poter utilizzare in questa fase è tempo perso, perché o si riesce a capire che il modo di produzione capitalistico è un movimento storico in via di esaurimento oppure si rincorrono le farfalle fra i ghiacciai.
La mia critica nei confronti degli intellettuali consiste in questo: non riescono a vedere il moto di produzione capitalistico come un movimento «finito», come lo definì Marx: anarchico, storicamente determinato, necessitato e impersonale, ma «finito», non eterno.
Di fronte a quello che Marx affermava non c'è teoria "rivoluzionaria" che tenga perché esso - il modo di produzione capitalistico - non è nato con una rivoluzione, ma con una evoluzione e tutto ciò che evolve porta a compimento se stesso e la sua conclusione viene definita rivoluzione. A tal proposito andrebbe corretta la stessa definizione di rivoluzione borghese perché la classe della borghesia si sviluppa e si produce con l'evoluzione del rapporto degli uomini con i mezzi di produzione, non preesiste ad essi.
Lo sforzo da compiere in questa fase è quello non di proporre soluzioni o esempi su come organizzare la società, no, ma di accompagnare questo movimento storico verso la sua naturale evoluzione, contro i suoi sostenitori, e dunque della sua dissoluzione.
Chi si dovesse porre la domanda: con quale soggetto? starebbe fuori tema, perché il soggetto è il movimento storico che incorpora un'insieme di rapporti che ad un certo punto sono destinati a implodere. Questa è la questione.
Mi capisce egregio professor Barone?
Michele Castaldo


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Eros Barone
Friday, 23 August 2019 00:25
Mi scuso con Castaldo e con i lettori per l'esemplificazione scarsamente intelligibile che ho fornito in tema di uso euristico dell'analogia storica - "quandoque dormitat bonus Homerus quoque"... - e cerco di chiarire meglio questa importante metodologia comparativa. Pertanto, la conoscenza per analogia, adoperata quale strumento euristico, consiste nel ricercare non la somiglianza imperfetta di due cose o processi (nella fattispecie, da un lato la congiuntura storica e il quadro politico del periodo che vide la borghesia appoggiare l’ascesa e la conquista del potere da parte del fascismo e, dall’altro, la presente congiuntura politico-sociale caratterizzata dal domino del capitale finanziario transnazionale e dal processo di fascistizzazione), ma la somiglianza perfetta di due rapporti fra cose o processi completamente dissìmili (nella fattispecie, le interconnessioni tra la differente dinamica delle classi antagoniste con la relativa "nomenclatura politica" nei due rispettivi contesti e quella realtà, storicamente mutevole ma morfologicamente invariante, che si è soliti indicare con il sintagma ‘modo di produzione capitalistico’).
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michele castaldo
Thursday, 22 August 2019 07:53
Non so perché se un compagno - di lunghissima militanza e tre volte messo in carcere per attività di avanguardia nei vari settori del proletariato, fra i contadini poveri e i senza casa - a un certo punto cerca di fare un bilancio, si domanda sulle cose, mette a confronto i fatti con le idee - userebbe un linguaggio ancillare e omiletico. E' vero esattamente l'opposto, è Barone e baronie circostanti che pretendono di prelevare dalla cassetta degli attrezzi utensili totalmente inservibili per l'oggi.
Che lui dichiara di «rispondere punto per punto senza poi farlo» dimostra quello che vado da alcuni anni sostenendo: mentre i cristiani (cattolici o meno) hanno il buon gusto di professare misteri ma di dichiararli come tali «mistero della fede» - come dire: il problema è tuo - certi "marxisti" si sottraggono a quest'obbligo.
Ripeto qui un concetto semplice: il partito è parte di un tutto in movimento, esso - il partito - si dà dalle difficoltà del tutto, cioè del modo di produzione capitalistico che è un movimento monista. Questo, piaccia o meno a Barone e ai "marxisti" che la pensano come lui. E' una omelia Brunesca! E sia.
Quando Barone scrive:
«Quello che so è che la borghesia ha impiegato secoli per arrivare al potere e che tale constatazione riguarda minimamente il breve tempo della nostra esistenza, anche se non cambia di un millimetro il problema del “che fare?”, che ci sta dinnanzi».
Lo invito a rileggere con maggiore attenzione il Manifesto del '48 di Marx-Engels dove la borghesia non pre-esiste al modo di produzione capitalistico, ma si forma con esso, in modo materialistico e dialettico.
E se Marx la esalta come classe rivoluzionaria - sempre nel Manifesto - è perché è un giovane intellettuale, dunque un diamante grezzo che lo studio del modo di produzione lo affinerà, come per ognuno di noi comuni mortali.
Quanto a Lenin e al «che fare?» leninista lui si smentisce continuamente, e per fortuna, perché corre in appoggio alla lotta dei contadini quando questi fuggono dal fronte per occupare le terre: più spontaneo di cosi!?! in estate del 1917. E quando indice lo sciopero generale contro il tentativo di colpo di stato, lo sciopero fallisce, a dimostrazione che puoi predicare quanto ti pare ma se la pancia non detta l'azione è tempo perso.
La vera azione rivoluzionaria compiuta da Lenin e dai bolscevichi fu il decreto di requisizione della terra all'aristocrazia e l'assegnazione ai contadini «per bocche ». Fu quell'atto che fece gridare allo scandalo dei governi occidentali; perché a differenza della rivoluzione francese - che attraverso mille artifici del catasto la nuova borghesia nascente (e non preesistente) riuscì ad appropriarsi dei terreni. E che il povero Babeuf scoprì l'inganno, lo denunciò e per questa ragione fu mandato al patibolo. Come mai è calato un muro di silenzio su questo straordinario fatto da parte dei "marxisti"? Come mai viene buttato fango sulla rivolta del popolo vandeano che disobbedì alla coscrizione obbligatoria del governo e fu denunciata solo da Babeuf?
Semplicemente perché si doveva avallare la tesi della democrazia, della progressività borghese, molto in voga all'epoca, anche se si trattava di una democrazia colonialista e imperialista come le bombe democratiche degli Usa in mezzo mondo alla caccia dei dittatori alla Saddam Hussein, Milosevic, dopo aver massacrato il Vietnam.
Ecco, caro Barone, il mio punto di vista, di un militante che ha speso la sua vita per la causa del proletariato ma ad occhi aperti e interrogandosi sui "misteri della fede" fui espulso nel lontano 1959 dal seminario, e successivamente ghettizzato e incarcerato con la complicità di certi "marxisti", divenuti dirigenti della Cgil e del Pci, per le stesse ragioni.
Sono i fatti i giudici della storia, non le chiacchiere. Guardati intorno e vedi cos'è la sinistra di quel filone oggi!
Capito mi hai? Basta un poco di umiltà e tanta, ma tanta buona volontà che manca a una certa età.
Michele Castaldo
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Eros Barone
Wednesday, 21 August 2019 23:34
Rispondo punto per punto alle obiezioni di Michele Castaldo, prescindendo dal tono personalistico del suo linguaggio e dai risvolti ancillari e omiletici del suo atteggiamento. La domanda verte sull’attualità e la necessità di tesaurizzare, nell’àmbito della tradizione rivoluzionaria del movimento di classe italiano, l’insegnamento scientifico e politico di Gramsci sulla costruzione del partito comunista. La mia risposta, ricavata come sempre dalla “cassetta degli attrezzi” del socialismo scientifico (= teoria della transizione dal capitalismo al comunismo ed esperienze storiche del proletariato mondiale), è chiaramente affermativa. In questo senso, è utile sottolineare preliminarmente che la conoscenza per analogia, adoperata quale strumento euristico, consiste nel ricercare non la somiglianza imperfetta di due cose (nella fattispecie, le particolari posizioni di Gramsci sullo Stato, la democrazia borghese, il fascismo e la dittatura proletaria, e le particolari posizioni di Bordiga o di Turati sullo Stato, la democrazia borghese, il fascismo e la dittatura proletaria), ma la somiglianza perfetta di due rapporti fra cose completamente dissìmili (nella fattispecie, il rapporto fra le classi antagoniste in cui tali posizioni si inseriscono e quella realtà, storicamente mutevole ma morfologicamente invariante, che si è soliti indicare con il sintagma ‘modo di produzione capitalistico’). Illustro allora le ragioni che avvalorano la mia risposta, seguendo la traccia formulata nelle sopraccennate obiezioni. a ) Il problema che Lenin imposta e risolve nel “Che fare?” (1902), e che Gramsci riprende nei suoi scritti ed interventi politico-teorici fra il 1923 e il 1926 (quindi prima dei “Quaderni del carcere”, indicati scorrettamente e rozzamente dal mio contraddittore come “’Quaderni’ dal carcere”...) è il problema della genesi e della costituzione del partito indipendente del proletariato. Il cuore di tale problema è il rapporto fra spontaneità e coscienza. Il punto essenziale, da cui Lenin muove nel “Che fare?”, è che la classe operaia esprime una tendenza spontanea verso il tradunionismo, ossia verso una “politica borghese” basata esclusivamente su rivendicazioni economiche (altro che “contenitore vuoto da riempire” o “cavallo alla cavezza”!). Sfugge insomma alla classe, nella sua azione spontanea, il rapporto tra lotta economica e lotta politica. Cómpito del partito è quindi quello di far comprendere al proletariato i rapporti che legano i singoli capitalisti al sistema economico-sociale e quest’ultimo al sistema politico-istituzionale: «La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia con le sole sue forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai ecc.». Orbene, come Gramsci ha imparato alla scuola di Lenin e ha appreso dalla sua personale esperienza politica e ideologica, la coscienza socialista può essere portata agli operai «soltanto dall’esterno»: ciò significa che la teoria rivoluzionaria può essere elaborata soltanto dagli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi che, acquisiti gli strumenti culturali, filosofici e scientifici necessari per avere una visione complessiva della società e del processo storico (la famosa “cassetta degli attrezzi”), rompono, come Marx ed Engels, come Lenin e come Gramsci, con la loro classe di appartenenza e si pongono al servizio della classe operaia. Isolati l’uno dall’altro, l’operaio e l’intellettuale stabiliscono infatti fra di loro lo stesso rapporto che stabiliscono Sancho Panza e Don Chisciotte nel romanzo di Cervantes: quello fa l’esperienza ma non la possiede, questo la possiede ma non la fa. Occorre una mediazione, da un lato, per passare dall’esperienza alla coscienza, dal particolare all’universale, dalla lotta economica contro il singolo capitalista alla lotta politica contro lo Stato borghese e, dall’altro, per compiere il cammino inverso (dalla coscienza all’esperienza, dall’universale al particolare ecc.): occorre il partito (= teoria + organizzazione + programma + strategia + linea politica). Le “Tesi di Lione”, approvate al III Congresso del PCd’I (1926), rappresentano il risultato più organico e più maturo della costruzione di tale partito, sia pure con alcuni limiti che non ho mancato di indicare in un mio articolo pubblicato in questa stessa sede. b) Come si sa, Marx ed Engels non erano proletari, ma diedero l’esempio di persone che, pur essendo esterne alla classe, si assunsero un duplice compito (da questo nasce il “Manifesto” del 1848): quello di costituire un partito e quello di dare, attraverso la costituzione di questo partito, coscienza di classe a una classe che spontaneamente non la possiede, segnando in tal modo una differenza decisiva in un lungo processo storico che aveva visto la borghesia impegnata, attraverso un’attività secolare coronata da notevoli successi, nel formare i propri intellettuali. Certo, gli ‘Arbeiter’ di cui parla Marx non coincidono necessariamente con la classe operaia (ciò avviene in una situazione storica specifica), tanto che oggi vi è una tendenza molto forte a far coincidere la fine del proletariato con la fine della classe operaia. Ma questa è un’identificazione impropria, poiché Marx ed Engels pensavano alla classe degli sfruttati, cioè dei proletari, e tutta la loro visione dipendeva dall’idea che, con il processo storico in atto e sulla base della previsione di cui erano capaci (ed erano capaci di forti previsioni), le due classi fondamentali avrebbero ridotto allo scontro decisivo tra borghesia e proletariato tutto l’insieme dei conflitti sociali. Osservo poi che, dal punto di vista del materialismo storico, le classi sono formazioni oggettive definite da rapporti sociali di produzione che consentono di estrarre pluslavoro e plusvalore ai produttori diretti, e che tale sfruttamento, poiché di questo si tratta, può far nascere negli sfruttati (e sottolineo ‘può’, perché questo fatto può anche ‘non’ accadere) un senso di coesione e una percezione dell’interesse collettivo, che dipendono dalle possibilità di azione comune esistenti in un certo luogo, in un certo tempo e in un certo ambiente. Ciò significa, dunque, che la coscienza di classe delle classi dominate varia considerevolmente, mentre, di norma, le classi dominanti ne sono sempre altamente dotate. Ciò che non varia allo stesso modo, invece, è la resistenza allo sfruttamento, che costituisce anch’essa un altro fattore, parimenti oggettivo, che concorre a definire la classe sociale in quanto tale. Insistere pertanto, come fa Castaldo, sulla complementarità fra le due classi significa adottare un punto di vista che, nella sua unilateralità, coincide con il punto di vista padronale ed è quindi volgarmente apologetico (= riduzione del lavoro salariato a mero capitale variabile). Tale punto di vista, oltre a non corrispondere alle concrete esperienze dei conflitti di classe, finisce, in ultima analisi, con lo svuotare di significato non solo il “Manifesto del partito comunista”, ma anche gran parte dell’opera di Marx. la radice di questo errore è da individuare nella mancata distinzione tra opposti correlativi simmetrici e opposti correlativi asimmetrici (per cui si veda un altro mio articolo qui pubblicato). Del resto, la posizione antimarxista di Castaldo, mescolata al suo pressappochismo storico e al suo determinismo antidialettico, lo porta a commettere degli spropositi, come quello di attribuire un ritardo nella definizione scientifica del modo di produzione capitalistico ad Engels, il quale fu invece il pioniere della critica dell’economia politica e dischiuse con le sue analisi storico-economiche (basti qui ricordare “La situazione della classe operaia in Inghilterra” del 1844) la via che poi Marx avrebbe percorso da par suo. Infine, per quanto riguarda Gramsci, il suo fondamentale contributo è da ravvisare nell'analisi scientifica e della dinamica del conflitto fra le classi in una congiuntura storica specifica e della correlativa configurazione della sovrastruttura politico-istituzionale, senza peraltro tralasciare le acute annotazioni, stimolanti non meno che illuminanti, su “Americanismo e fordismo”, contenute nei “Quaderni del carcere”. c) Arrivato a formulare questo ultimo punto delle sue obiezioni, Castaldo sembra essersi perso in una girandola di riferimenti incongrui, approssimativi e supervacanei, che non mette conto di riportare. Dal canto mio, ribadisco che la coscienza di classe prende corpo e forma in una strategia e in una linea politica, ma la sua sorgente è la teoria, cioè una visione complessiva dell’insieme dei rapporti economico-sociali, politico-istituzionali e ideologico-culturali in cui si articola e si struttura la formazione capitalistica. Senza teoria non esiste una linea politica di classe autonoma, non subordinata cioè all’influenza e alla direzione della borghesia: «Senza teoria rivoluzionaria - insiste Lenin - non vi può essere movimento rivoluzionario». Lenin, muovendosi nel solco della elaborazione teorica di Kautsky, fornisce infatti al socialismo scientifico un apporto nuovo e innovativo, che rompe con le posizioni economicistiche, movimentistiche ed eclettiche presenti (allora come oggi) nei partiti storici del movimento operaio, e che dall’inizio del Novecento in poi costituirà il tratto distintivo della corrente leninista: la teoria del partito. Potrà variare, nelle diverse situazioni nazionali e nelle diverse fasi storiche, l’ordine di successione dei tre fondamentali momenti del processo rivoluzionario (conquista della maggioranza del proletariato, conquista del potere politico di Stato e trasformazione della società), ma ciò che resterà una invariante è la teoria del partito come “strumento per scuotere tutti i rami dell’albero sociale”. Questo spiega perché i partiti leninisti siano stati le uniche forze capaci di battere il capitalismo. Concludendo, una volta elaborata scientificamente, la coscienza di classe si riassume nella proposizione chiave: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, poiché l’idea fondamentale che sta al centro del pensiero marxista e comunista è che l’ultima classe che può rivestire un ruolo decisivo nello sviluppo storico è quella che potenzialmente è in grado di porre fine alle lotte di classe. Come ultima classe del processo storico essa non si limita a conquistare il potere politico per sostituirsi alla classe che dominava in precedenza, ma, attraverso la mediazione della “dittatura del proletariato”, con l’abbattimento quindi della dittatura borghese, mira a porre fine, una volta per tutte, alle dittature storiche e ad aprire la via al “regno della libertà”. In questo senso, come ha sottolineato Marx, la rivoluzione comunista non è necessaria soltanto perché è l’unico mezzo per rovesciare la classe dominante e conquistare il potere politico, ma perché solo con la rivoluzione il proletariato potrà togliersi di dosso tutto il sudiciume ereditato dalla vecchia società. Occorreranno dieci, cento, mille anni? Non lo so. Quello che so è che la borghesia ha impiegato secoli per arrivare al potere e che tale constatazione riguarda minimamente il breve tempo della nostra esistenza, anche se non cambia di un millimetro il problema del “che fare?”, che ci sta dinnanzi.
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Mario Galati
Wednesday, 21 August 2019 23:18
Ma se Michele Castaldo non intende educare nessuno, perché scrive?
Forse per predicare la passività, con la litania iterativa, ipnotica, dell'oggettività meccanica del modo di produzione? O con la svalutazione della storia comunista?
Quanto al detto che è tutto da rifare, l'autore è Bartali, non Gramsci.
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michele castaldo
Wednesday, 21 August 2019 14:14
Eros Barone e tanti altri intellettuali della tradizione di sinistra e/o comunisti fanno parte di quel mondo che non si interroga su niente. E, peggio ancora, rovistano nella "cassetta degli attrezza" alla ricerca dell'arnese utile da utilizzare in ogni circostanza; altrimenti detto: la realtà è immutabile e si ripete sempre uguale a sé stessa. Questo, come tutti gli articoli di Barone, ricalca quel metodo.
Oggi sarebbe da prendere in considerazione «L'insegnamento scientifico e politico di Gramsci sulla costruzione del partito comunista»?
Ma dove vive Eros Barone?
a) la definizione di partito come coscienza esterna è di Kautsky che Lenin copia; la sua natura è metafisica perché presuppone una classe quale contenitore vuoto da riempire in concorrenza (o sfidando) la borghesia. O più chiaramente detto: una classe come un cavallo alla cavezza da dirigere secondo i desideri di chi ha in mano le redini che reggono la cavezza. E Gramsci è l'interpretazione più plastica di quella impostazione che trasferisce in una classe - quella proletaria - che dovrebbe essere educata e che a sua volta dovrebbe fare da educanda per una nuova società. Una tesi ben esposta nei «Quaderni» dal carcere più che dalle "Lettere" dal carcere.
b) Nell'accezione marxiana, il partito - a leggere bene il Moro - vuol dire che è una parte del tutto, del movimento monista del capitalismo, cioè la classe, che si costituisce in classe e si dà in partito politico. Se così - e così è almeno in Marx - quello che scrive Gramsci, al meglio nei quaderni, è abbastanza lontano dal materialismo storico del Moro che ha una ulteriore necessità di approfondimento per chi oggi si sforza di stare nella stessa scia, perché Marx con Engels non prendono in considerazione - almeno nel Manifesto - la complementarietà delle due classi, della borghesia e del proletariato, perché attratti dalla volontà della propaganda politica piuttosto che dalla definizione scientifica del modo di produzione capitalistico, sulla quale Marx ci arriva dopo e Engels ancora dopo.
c) Arriviamo così al vero nodo della questione: se il modo di produzione capitalistico è un movimento storico e per di più monista, come la storia ha dimostrato, esso non può essere affrontato con gli strumenti della metafisica che l'idealismo di Gramsci propone quando scrive:
«Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana».
A mio parere Gramsci va apprezzato come esempio per alcune posizioni politiche, per il suo infervorarsi della Rivoluzione russa fino a dire - scambiando Peppe ' o russo pe 'o filobus (o lucciole per lanterne per quelli oltre il Garigliano) - una rivoluzione del nuovo modo di produzione di natura squisitamente operaio-borghese (quella del febbraio 1917) per una rivoluzione bolscevica-comunista; e per rivoluzione comunista quella del novembre 1917 che fece inviperire tutto il mondo capitalistico borghese perché il contadini strapparono con la lotta la terra all'aristocrazia e i bolscevichi gliela assegnarono. Mentre nel 1979 - una data che i "marxisti" innalzano a proprio simbolo - la nuova borghesia nascente si assegnò la terra contro la volontà dei contadini per cui si erano battuti. In ciò consistette la differenza tra la rivoluzione francese e quella del novembre del 1917 in Russia. Avrebbero di che riflettere i "marxisti", ma ormai è inutile.
Questi "marxisti" non capiranno mai che il marxismo di Marx è un prodotto grezzo che si affina non con la pigrizia intellettuale ripetendo come i cristiani i "misteri della fede", no, ma in un rapporto dialettico tra i tentativi operati da Marx-Engels e lo studio della realtà. Chi pensa di prendere "la leva per sollevare il mondo" dalla cassetta degli attrezzi è fuori dalla storia.
Azzardo una ipotesi: oggi Marx si vergognerebbe di molti "marxisti". E vista l'onestà di Gramsci - che ebbe la forza di dire, a un certo punto: E' tutto da rifare - il sardo si vergognerebbe di che li vuole a tutti i costi come arnese in disuso per la nuova realtà.
L'umiltà non sempre è materia per gli intellettuali.
Spero che Eros Barone ne faccia buon uso.
Michele Castaldo
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