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il rasoio di occam

Guerra di posizione e guerra di movimento oggi

di Carlo Formenti

Álvaro García Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006 al golpe di qualche mese fa, è uno dei più grandi intellettuali di sinistra latinoamericani. In "Democrazia, stato, rivoluzione. Presente e futuro del socialismo del XX secolo" (Meltemi, 2020), il lettore trova un’antologia dei suoi interventi più significativi, seguita da una postfazione di Carlo Formenti, che qui ripubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autore

73321866 2640072246222792 770798049533362176 nNel corso di una conferenza tenuta il 27 maggio 2016 a Buenos Aires (e inserita in questa antologia con il titolo “Presente e futuro del processo rivoluzionario”) Linera ebbe a pronunciare parole che, alla luce del golpe contro il governo socialista boliviano orchestrato da destre e militari nel novembre del 2019, suonano sinistramente profetiche. Il tema della conferenza era il riflusso in atto in diversi Paesi del subcontinente latinoamericano, i quali, dopo un lungo ciclo riformista/rivoluzionario caratterizzato da una radicale svolta postneoliberista, se non socialista, erano teatro di violente controffensive delle forze di destra, spalleggiate dall’imperialismo nordamericano.

Nel suo discorso, Linera prende in esame una serie di concause – limiti oggettivi ed errori soggettivi – che hanno determinato questa brusca inversione di tendenza rispetto agli eventi storici dei due decenni a cavallo della transizione di millennio – eventi che tante speranze in un rilancio degli ideali socialisti avevano alimentato, non solo in Sudamerica ma in tutto il mondo. Sui limiti oggettivi torneremo più avanti. Qui preferisco concentrarmi sugli errori soggettivi. Mi pare che dall’analisi di Linera ne emergano soprattutto tre: 1) la sottovalutazione della difficoltà di cambiare la struttura dello Stato; 2) l’eccessivo ottimismo in merito alla possibilità di integrare i ceti medi nel blocco sociale progressista garantendo, al tempo stesso, l’egemonia politico culturale delle classi subalterne; 3) l’incapacità di risolvere il nodo della convivenza fra socialismo, democrazia rappresentativa e democrazia diretta e partecipativa (ma qui, più che di errore soggettivo, sarebbe più corretto parlare di un problema che nessuno è mai riuscito a risolvere nel corso dell’intera storia mondiale del socialismo).

Sullo Stato. In articoli e interventi precedenti a quello di cui stiamo ragionando, Linera sembrava convinto che il processo di trasformazione delle strutture del potere avviato dalla rivoluzione avesse raggiunto, se non un punto di non ritorno, almeno una fase che avrebbe reso difficile una controffensiva del nemico di classe. In quest’ultimo intervento, il vicepresidente boliviano ammette, viceversa, che cambiare dall’interno la macchina statale si è rivelato un compito più arduo del previsto. Se le destre hanno potuto riprendere vigore non è stato solo grazie al controllo sui media, sull’università, sulle fondazioni, sulle case editrici e su una serie di reti sociali, ma anche e soprattutto perché si è dimostrato difficile, se non impossibile, “rieducare” le vecchie élite burocratiche: magistrati, gerarchie militari, personale docente, quadri amministrativi, ecc. E anche perché è fallita quella che Linera chiama “riforma morale”, cioè la lotta contro la corruzione, un cancro che da sempre corrode la vita politica del subcontinente. E infine perché i regimi bolivariani[i] hanno a volte creduto che “governare per tutti” significasse fare concessioni alle destre, dimenticando sia che ciò significa prendere decisioni che indeboliscono la tua base sociale, sia che appoggiare la destra non produce alcun vantaggio perché questa “non è mai leale e non appena vede un indebolimento del popolo torna all’attacco”.

Sui ceti medi. La forte ridistribuzione della ricchezza sociale che non solo il governo boliviano ma tutti i regimi postneoliberisti hanno messo in atto attraverso le loro politiche economiche, dopo essersi emancipati delle pastoie del Washington Consensus e dell’economia del debito, ha portato ovunque a un forte ampliamento delle classi medie. In particolare, rivela Linera, il 20% dei boliviani è passato in dieci anni a essere classe media. Tuttavia, aggiunge: “se all’aumento della capacità di consumo e della giustizia sociale non si accompagna la politicizzazione della società, noi non stiamo vincendo sul piano del senso comune”. Il problema evidenziato da queste parole non si riferisce solo alle “vecchie” classi medie, ma anche a quelle create ex novo dal regime postneoliberista: Linera, per esempio, nota con angoscia che “molti dei nostri fratelli, già dirigenti sindacali e studenteschi, considerano arrivare in parlamento un mezzo per l’ascesa sociale”. Altrettanto significativo l’esempio degli scioperi corporativi indetti da una categoria come quella degli insegnanti, fra i maggiori beneficiari degli aumenti salariali voluti dal governo: un evidente segnale di tensione fra interessi generali del blocco social rivoluzionario e spinta alla sua frammentazione corporativa. Per garantire la tenuta del blocco e assicurarne al tempo stesso la conduzione indigena, operaia, contadina e popolare, sarebbe stato necessario “rieducare” le altre classi agli interessi collettivi come collante dell’unità del Paese, ma (vedi quanto detto sopra a proposito dell’apparato burocratico) il compito si è rivelato tutt’altro che agevole. Leggendo queste considerazioni mi è tornata in mente una serata conviviale con un gruppo di professionisti ecuadoriani alla quale mi è capitato di partecipare a Quito, nell’estate del 2013: in quella occasione, tutti i presenti, ancorché ampiamente beneficiati sul piano economico dalla Revolucion Ciudadana guidata da Raphael Correa, espressero senza riserve la loro preferenza per un ritorno al potere delle élite liberiste (ciò che è puntualmente avvenuto con l’elezione di Lenin Moreno). In quella occasione mi sovvenne il detto marxiano secondo cui, favorendo la crescita della classe operaia, il capitale crea i suoi affossatori: anagrammando le parole di Marx, si potrebbe dire che, favorendo la crescita delle classi medie, i regimi bolivariani hanno creato i loro affossatori.

Su democrazia e socialismo. Questo tema sarà ripreso più avanti, ragionando sul concetto del “farsi stato” delle classi subalterne, e sul confronto polemico fra Linera e le (cosiddette) sinistre radicali. Qui mi limito ad anticipare che Linera ammette, con grande onestà intellettuale, che il problema di dare continuità a un processo rivoluzionario in condizioni di democrazia rappresentativa è un compito assai complicato, se non al limite dell’impossibilità. Il caso dei regimi socialisti bolivariani, tutti saliti al potere per vie legali, attraverso normali processi elettorali, è più unico che raro nella storia delle rivoluzioni sociali degli ultimi due secoli e, proprio in ragione della sua unicità, si trova ad affrontare una sfida difficilissima: come garantire il ricambio delle leadership senza mettere in discussione la democrazia rappresentativa? Il fatto che in molti Paesi latinoamericani siano state introdotte costituzioni che riconoscono, accanto alle tradizionali istituzioni rappresentative, nuove forme di democrazia diretta e partecipativa, non risolve la questione ma anzi la complica ulteriormente, in quanto dà vita a un dualismo istituzionale che, come si è verificato in pratica, tende a divenire antagonistico. Non è un caso se molti leader sono stati costretti a introdurre riforme che hanno loro consentito di ripresentare più e più volte la propria candidatura al seggio presidenziale: costruire leadership collettive in grado di prenderne il posto – la soluzione auspicata da Linera – richiede tempi lunghi che le scadenze imposte dalla logica rappresentativa non concedono, per cui la rivoluzione, nella misura in cui si trova permanentemente esposta, per le ragioni spiegate in precedenza (difficoltà di cambiare la macchina statale e scarsa fedeltà dei ceti medi al blocco sociale rivoluzionario), al rischio di sconfitte elettorali che offrono alle destre la chance di annullare in poche settimane anni e anni di sforzi per cambiare l’economia, la società e la politica di un Paese. Di qui, anche se questo Linera non lo dice, discende il fatto che l’opzione dello scontro frontale fra parti in lotta (sotto forma di restringimento delle libertà politiche e civili, di golpe e/o di guerra civile aperta) finisce inevitabilmente per imporsi.

Faccio ora un passo indietro per discutere le tesi sviluppate nelle sezioni del libro precedenti a quella fin qui esaminata. Il che mi consentirà di affrontare i seguenti interrogativi: l’analisi teorico politica di Linera resta valida malgrado la recente sconfitta della rivoluzione da parte delle destre? Qual è il suo apporto innovativo nei confronti della tradizione marxista? Ha qualcosa da insegnare anche alle forze rivoluzionarie che operano in altri contesti socioeconomici e geopolitici? Per rispondere prenderò le mosse dalle critiche che Linera rivolge sia al marxismo ortodosso, sia all’ideologia dei “nuovi movimenti”, occupandomi, in particolare: 1) dell’evoluzione del sistema capitalista e della composizione di classe a livello mondiale; 2) dell’inaggirabilità del tema della conquista potere politico ai fini della trasformazione del mondo; 3) dei problemi della transizione al socialismo; 4) della critica del radicalismo piccolo borghese “di sinistra”.

Nelle pagine del libro che Linera dedica all’attuale fase dello sviluppo capitalistico convivono parti non particolarmente originali con notevoli spunti innovativi. Fra le prime segnalo: la ripresa del concetto di “accumulazione primitiva permanente” da parte di autori come David Harvey[ii], che hanno il merito di avere evidenziato come l’accumulazione primitiva non sia un fenomeno storico che si è compiuto una volta per tutte nei secoli XVII, XVIII e XIX, ma un processo che il capitalismo rilancia ogni volta che deve compiere un salto di fase (per esempio dal mercantilismo all’industria manifatturiera, dal fordismo al postfordismo e da quest’ultimo al capitalismo finanziarizzato). In questi passaggi, che comportano in generale crisi e distruzione su larga scala di capitali, il capitale fa ripartire l’accumulazione allargata estendendo il dominio del mercato su nuovi ambiti produttivi, sociali, geografici, naturali, culturali, ecc. Questa colonizzazione di nuovi mondi vitali assume spesso forme violente (se non criminali) che lo stesso Harvey definisce “appropriazione per espropriazione”. Partendo da questi concetti, Linera sviluppa un riflessione che si colloca a pieno titolo nel filone di quel marxismo eretico latino americano che valorizza le riflessioni dell’ultimo Marx[iii] (il Marx, per intenderci, che valutò con interesse e attenzione le tesi dei populisti russi che vedevano nelle comunità contadine del loro Paese una possibile scorciatoia verso il socialismo senza passare per le forche caudine del capitalismo). In particolare, Linera sostiene che, se da un lato il capitalismo approda alla sussunzione reale dell’intera conoscenza mondiale (compresi i processi metabolici della natura sfruttati, attraverso l’applicazione unilaterale della ricerca tecnologica e scientifica, a fini del profitto), dall’altro lato, esso procede alla sussunzione formale esterna di processi di lavoro comunitari non capitalisti o precapitalisti. Queste tendenze fanno sì che, accanto alla classe operaia tradizionale, emerga un proletariato mondiale di nuovo tipo diviso in due grandi campi: 1) i lavoratori delle nuove professioni legate alla conoscenza e alla tecnologia delle metropoli (i quali, sottolinea Linera, non si percepiscono come lavoratori ma come imprenditori di se stessi); 2) le comunità precapitalistiche ma associate al processo di accumulazione capitalistico dei Paesi periferici e semiperiferici (perlopiù contadini e in larga misura indigeni, come nel caso delle comunità andine) le quali, viceversa, pur non rispettando le caratteristiche che il marxismo dogmatico richiede affinché un soggetto sociale possa essere inquadrato nella classe operaia, sono indotte dall’aggressione del capitale nei confronti del loro stile di vita, della loro cultura e delle loro stesse condizioni di riproduzione e sopravvivenza, a sviluppare una contraddizione antagonistica nei confronti dell’attuale modo di produzione.

Linera si riferisce a questi strati di classe con i termini di forma comunità e forma moltitudine[iv]. Il secondo concetto ha un’assonanza solo superficiale con la categoria utilizzata da Antonio Negri e discepoli[v], infatti non abbraccia solo i “lavoratori della conoscenza”, ma comprende l’intero mosaico di soggettività proletarie (operai tradizionali, disoccupati, precari, classi medie proletarizzate, sottoproletari, ecc.) che abitano le metropoli ipermoderne, mosaico nel quale Linera non vede, diversamente da Negri, un Soggetto unificato apriori dalla condivisione della medesima contraddizione antagonistica con il capitale, bensì il referente del progetto di costruzione di un blocco sociale in senso gramsciano[vi]. Quanto al primo concetto, mi pare che in esso di possa avvertire una eco della categoria di “proletariato esterno”, utilizzata da autori come Samir Amin e Nicola Zitara[vii]. A prescindere dalla validità di quest’ultimo accostamento, ciò che conta è che Linera sostiene la tesi secondo cui queste forze comunitarie, nella misura in cui sono costrette a lottare contro l’accumulazione primitiva permanente acquisiscono progressivamente una visione del mondo che implica un comunitarismo più ampio e un universalizzante di quello originario, al punto che il modello del socialismo del secolo XXI emerso dalle rivoluzioni bolivariane si può considerare in larga misura una proiezione del buen vivir, cioè del modello socialista originario delle comunità indigene andine (che non a caso hanno svolto un ruolo egemonico nel processo rivoluzionario, sia in Bolivia, sia, anche se in minor misura, in Ecuador[viii] ).

Nel processo boliviano, in particolare, il ruolo egemonico dei movimenti indigeni è stato favorito dalle specifiche condizioni storiche, culturali ed etniche di un Paese in cui le differenze di classe sono tradizionalmente fondate sulle differenze etniche, nella misura in cui la quasi totalità delle classi subalterne sono di origine india (gli indios rappresentano il 70% della popolazione). Le sinistre tradizionali avevano contribuito a mascherare questa realtà anteponendo gli obiettivi politici e sindacali “di classe” a quelli dell’emancipazione delle masse indigene. La presa di coscienza della propria doppia natura di sfruttati e colonizzati da parte di queste ultime, che si è realizzata fra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, ha provocato una etnicizzazione dello scontro di classe e ha fatto sì che gli organismi locali di autogestione del potere sociale, fondati su forme di democrazia diretta e partecipativa ritagliate sulla tradizione delle comunità andine tradizionali, abbiano preso il posto delle vecchie forme sindacali e partitiche, rivelandosi strumenti di mobilitazione, di organizzazione e di lotta decisivi nel momento in cui il blocco sociale borghese, diviso al proprio interno a causa dei conflitti innescati dalle politiche neoliberiste, è entrato in una crisi talmente profonda da far perdere – in una prima fase - il controllo del territorio allo Stato tradizionale, e da spianare la strada – in una fase successiva - alla presa del potere da parte del blocco sociale rivoluzionario egemonizzato dai movimenti indigeni.

Parlando di presa del potere abbiamo introdotto quella che è la principale critica di Linera nei confronti della cultura delle sinistre radicali contemporanee: mi riferisco alla sua netta presa di distanza dall’ideologia antistatalista. Se non si prende il potere, afferma, ci si autocondanna all’irrilevanza politica, perché la lotta per l’emancipazione passa necessariamente attraverso la lotta per il potere dello Stato. L’idea che il mondo si possa cambiare “a partire da se stessi”, operando negli interstizi della vita quotidiana – una visione comune alla maggioranza dei “nuovi movimenti” (ecologisti, pacifisti, femministe, anarchici, autonomi, ecc.) - è una pia illusione. Peggio: è una visione, aggiunge, che “toglie alle classi subalterne i successi ottenuti nelle strutture istituzionali dello stato e rimuove la storia delle lotte che lo hanno attraversato”. Soprattutto è un punto di vista che non coglie la vera essenza dello stato, che lo scambia per una “cosa”, per uno “strumento” mistificandone la reale natura di processo, di relazione sociale. Nel testo della conferenza dedicata al pensiero di Poulantzas, inserita in questa antologia, leggiamo definizioni come “Lo stato è un processo, un agglomerato di rapporti sociali che si istituzionalizzano , si regolarizzano e si stabilizzano”. E ancora: “è il modo in cui la realtà dominante inscrive la sua grammatica di dominio nel corpo e nella mente di ognuno”; “è il processo di formazione di egemonie e blocchi di classe”. Il che significa, conclude, che esso compie una funzione socialmente necessaria perché unifica tutti i membri della società intorno a una comunità territoriale e gestisce i loro beni comuni, per cui non è una macchina monolitica, un Moloch da abbattere perché incorpora tutte le forme di oppressione, autoritarismo, ecc. (nel qual caso “per i dominati non esisterebbe uno spazio di possibile liberazione”), bensì un campo di forze su cui è fondamentale che le classi subalterne si misurino con i propri avversari per assumerne il controllo. Se non c’è consapevolezza di questa necessità, se si nega apriori che esista la possibilità di cambiare le relazioni di dominio, l’orizzonte delle lotte si restringe riducendo queste ultime a “una dispersione caotica e frammentaria di sforzi disconnessi”. Naturalmente non basta conquistare il controllo dello stato: occorre rivoluzionarne radicalmente la natura (anche se, come si è ricordato sopra, si tratta di un’impresa tutt’altro che facile) e, per realizzare tale obiettivo, bisogna costruire dal basso nuove relazioni di potere che devono dare vita a nuove strutture istituzionali, occorre, per dirla con Gramsci, che le classi subalterne “si facciano stato”.

Da parte loro le sinistre radicali (non solo in Bolivia, ma anche nel resto dell’America Latina e in Europa), accusano i governi bolivariani – fra le altre cose - di non avere instaurato un regime socialista ma una variante di “capitalismo di stato”, sul tipo di quelli esistenti fino al 1989 nell’ex blocco sovietico, o tuttora vigenti in Cina e a Cuba; di avere tradito i valori e i principi delle comunità andine – il buen vivir – in nome della vecchia ideologia “industrialista” e “sviluppista”, comune a tutti i regimi statalisti che si sono succeduti in America latina dalla metà del secolo scorso ad oggi (questo è il tasto su cui battono soprattutto i movimenti ecologisti); oppure di essere portatori di una visione “maschilista” e conservatrice in materia di relazioni intersessuali (questo è il leitmotiv dei gruppi femministi).

A queste accuse Linera replica proponendo una concezione del processo di costruzione del socialismo come transizione di lungo periodo. Oggi il primo compito di una sinistra che non si accontenti di agitare astratti slogan rivoluzionari, argomenta, consiste nell’uscire dal neoliberismo. Dal momento che il mercato e l’economia capitalistica non possono essere aboliti per decreto, e che nemmeno nazionalizzazioni più estese e radicali di quelle attuate dalla rivoluzione boliviana avrebbero potuto realizzare tale obiettivo, il compito più urgente era restituire alla società il controllo politico sui processi di distribuzione del reddito, sui flussi commericali e finanziari, oltre ad assicurare alla grande maggioranza dei cittadini che fino ad allora ne erano stati esclusi (in primis alle masse indigene) l’accesso a sanità, educazione superiore, assistenza sociale. Ebbene questi obiettivi, sostiene, sono stati in larga misura realizzati dal processo rivoluzionario, che ha inoltre restituito alla Bolivia la dignità di nazione sovrana, emancipandola dal dominio imperiale nordamericano, nonché ottenuto il riconoscimento della natura plurinazionale e plurilinguistica della Repubblica, un risultato che ha fatto giustizia di secoli di oppressione coloniale della maggioranza indigena da parte delle minoranze bianche e criolle. Certo, ammette, fra la necessità di industrializzare il Paese, anche attraverso lo sviluppo di processi di trasformazione delle materie prime che consentano di incrementare il valore aggiunto, obiettivo indispensabile per finanziare le politiche sociali, e le pratiche del buen vivir esistono delle tensioni, così come continuano ad esistere tensioni fra indigeni e non indigeni, fra città e campagna, fra lavoratori e imprenditori, fra stato e movimenti sociali. Per un lungo periodo, la cui durata è impossibile prevedere, coesisteranno diverse forme di proprietà e di gestione della ricchezza – privata e statale, comunitaria e cooperativa – quindi esisteranno anche conflitti e contraddizioni “in seno al popolo”, per usare un noto concetto maoista. L’importante è che vegano garantiti: 1) l’unità del blocco sociale rivoluzionario; 2) l’egemonia delle classi subalterne (operai, contadini, masse indigene) all’interno di tale blocco sociale. Per descrivere il metodo con cui il MAS (il partito di Evo Morales e Linera) ha guidato la rivoluzione, Linera usa la formula Gramsci – Lenin – Gramsci: ha vinto le elezioni presidenziali battendo il nemico di classe sul piano dell’egemonia e del senso comune (Gramsci); lo ha sconfitto sul piano militare quando questi ha tentato di restaurare il vecchio regime (Lenin); ha consolidato il potere continuando a condurre la lotta per rinsaldare il senso comune rivoluzionario (Gramsci); o, volendo usare altri due concetti gramsciani, si è mosso sia sul terreno della guerra di posizione che su quello della guerra di movimento.

È ora di concludere rilanciando le domande che ho formulato poco sopra: il fatto che le destre siano riuscite a passare al contrattacco con il golpe del novembre 2019 significa che il progetto era sbagliato? Che dall’esperienza boliviana i rivoluzionari possono trarre solo insegnamenti negativi? Che le critiche delle sinistre radicali si sono alla fine dimostrate giuste? Alle prime due domande rispondo che non sono la vittoria o la sconfitta in sé a decretare la validità di un progetto rivoluzionario. La rivoluzione, come ripete più volte Linera nelle pagine di questo e altri suoi scritti, è un processo che avanza per ondate, alternando conquiste e ripiegamenti: non si eliminano secoli di oppressione e sfruttamento con un colpo di bacchetta magica, e la rivoluzione, per dirla ancora con Mao, non è un pranzo di gala: è un processo lento, faticoso, doloroso che richiede sempre un tributo di fallimenti, sconfitte, lacrime e sangue, intervallati da fulminei “balzi di tigre” che consentono di intravvedere l’avvento di un altro mondo, se non di realizzarlo. Anche se non sarà possibile rilanciarla in tempi brevi, l’esperienza boliviana ci avrà comunque regalato, fra le altre cose: una visione innovativa delle contraddizioni di classe a livello mondiale nell’attuale fase di sviluppo capitalistico; una conferma dell’attualità teorico-pratica dei concetti gramsciani di blocco sociale, egemonia e guerra di posizione e di quello leninista di guerra di movimento; la consapevolezza del fatto che nessun avanzamento economico e sociale – se non accompagnato da profondi cambiamenti della coscienza politica – può garantire a tempo indeterminato il consenso della propria base sociale; un duro ammonimento in merito ai rischi di sottovalutare sia l’inaffidabilità delle classi medie come compagni di strada, sia la capacità di resilienza delle classi dominanti, anche quando sembrano avere subito sconfitte strategiche.

Quanto alle critiche delle sinistre radicali mi limito ad alcune brevi considerazioni: nessuna di queste forze politiche, divise in una miriade di sette in perenne conflitto reciproco, ha mai dato un reale contributo alle rivoluzioni sociali del subcontinente latinoamericano. Guidate da visioni dogmatiche e settarie, hanno sempre svolto ruoli marginali e secondari nelle grandi lotte popolari contro le borghesie nazionali e i loro protettori nordamericani. Se hanno avuto qualche spazio politico, lo devono esclusivamente alle vittorie di leader come Lula, Chavez, Correa, Morales, da loro sprezzantemente liquidati come populisti di sinistra, caudilli autoritari e antidemocratici. È appunto in nome della “democrazia” che molti di costoro si sono apertamente schierati a fianco delle opposizioni di destra in Ecuador, Venezuela e Bolivia, salvo spargere lacrime di coccodrillo di fronte alla violenza fascista (spesso hanno descritto le jacqueries della piccola e media borghesia come genuine ribellioni popolari contro l’autoritarismo dei regimi bolivariani, anche se, purtroppo, egemonizzati dalle destre). Ho ben poco da aggiungere sui cosiddetti nuovi movimenti (femministe, ecologisti, pacifisti, ecc.) espressione di minoranze urbane bianche e creole privilegiate, sideralmente lontane dai bisogni e dagli interessi delle classi subalterne e delle etnie indigene. Mi limito a citare la vergognosa dichiarazione di alcune femministe boliviane, le quali, dopo il golpe fascista, hanno detto che quello fra Evo Morales e i militari era un combattimento fra galli machisti che non le riguardava. Questo mentre migliaia di donne indie che manifestavano contro il golpe venivano uccise, ferite e arrestate.


NOTE
[i] In questo testo il termine bolivariano – che normalmente viene associato al regime venezuelano – viene usato in senso più ampio, in quanto allude ai tratti comuni fra le rivoluzioni venezuelana, boliviana ed ecuadoriana. Quindi, quando mi riferisco alla rivoluzione e al regime boliviano con questo termine, vuol dire che sto facendo una riflessione che considero valida non solo per la Bolivia ma anche per gli altri due Paesi.
[ii] Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2018.
[iii] Cfr. fra gli altri, E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009. Vedi anche PP. Poggio, L’Obščina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaca Book, Milano 1976.
[iv] Cfr. A.G. Linera, Forma valor y forma comunidad, traficantes de sueños, Quito 2015.
[v] Cfr. in particolare, M. Hardt, A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004.
[vi] Benché Linera non manifesti simpatia per le tesi di Ernesto Laclau, autore che cita raramente, personalmente ritengo che fra il suo concetto di moltitudine e il concetto di popolo in Laclau (cfr. E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2008) esistano diverse analogie, nella misura in cui entrambi sono tributari della categoria gramsciana di blocco sociale.
[vii] Sul concetto di proletariato esterno vedi S. Amin Classe et nation, Nouvelles Editions Numériques Africaines, Dakar 2014. Vedi inoltre N. Zitara, Il proletariato esterno, Jaka Book, Milano 1972.
[viii] Sull’intreccio fra conflitto di classe e conflitto etnico nella rivoluzione ecuadoriana vedi quanto ho scritto in, Magia bianca magia nera. Ecuador. La guerra fra culture come guerra di classe, Jaka Book, Milano 2014.

Comments

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claudio
Saturday, 15 February 2020 17:01
Interessanti devono essere stati gli interventi di Linera e di Antonio Negri e discepoli, che grazie a lei ce ne rende, seppure una minima parte, partecipi. Essa tuttavia si riferisce ad un determinato e caratteristico tipo di società, quale è quello andino, non proprio, quindi, un modello all’avanguardia nel mondo. Ciò non toglie che ci dimostri quanto sia maledettamente complicato superare il sistema capitalistico di produzione, che si basa, tra l’altro, sulla radicalizzazione del senso della proprietà privata, e quindi anche della corruzione che ne è intrinseca. Quando lei -oltre che Linera- parlate “della critica nei confronti della cultura delle sinistre radicali contemporanee e alla netta presa di distanza dall’ideologia antistatalista”, vedo che giustamente vi riferite ai gruppi anarchici, anarchicheggianti e ai vari altri movimenti spontaneisti, non ai rari internazionalisti che cercano di interpretare gli insegnamenti marxiani, ivi compresi gli effetti della modernizzazione del sistema capitalistico, mantenendo però ferma la dittatura del proletariato. Per quello che tali gruppuscoli accusano i regimi dell’America Latina ‘di non avere instaurato un regime socialista ma una variante di “capitalismo di stato”’, mi pare che abbiano ben più d’una ragione, e solo un maoista e gramsciano come lei, possano dargli torto.
Con riferimento “al pensiero di Poulantzas” e anche ovviamente al suo, da ignorante e per quel poco che ho potuto afferrare dal suo racconto, mi sembra che ambedue contribuiate ad aggiungere un altro bel po’ di confusione. Ne sentivamo la mancanza!
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