Catastrofe o rivoluzione1
di Emiliano Brancaccio
L’ex capo economista del Fondo monetario internazionale ha sostenuto che per scongiurare una futura “catastrofe” serve una “rivoluzione” keynesiana della politica economica. La sua tesi viene qui sottoposta a esame critico sulla base di un criterio di indagine scientifica del processo storico definito «legge di riproduzione e tendenza del capitale». Da questo metodo di ricerca scaturisce una previsione: la libertà del capitale e la sua tendenza a centralizzarsi in sempre meno mani costituiscono una minaccia per le altre libertà e per le istituzioni liberaldemocratiche del nostro tempo. Dinanzi a una simile prospettiva Keynes non basta, come non basta invocare un reddito. L’unica rivoluzione in grado di scongiurare una catastrofe dei diritti risiede nel recupero e nel rilancio della più forte leva nella storia delle lotte politiche: la pianificazione collettiva, intesa questa volta nel senso inedito e sovversivo di fattore di sviluppo della libera individualità sociale e di un nuovo tipo umano liberato. Una sfida che mette in discussione un’intera architettura di credenze e impone una riflessione a tutti i movimenti di lotta e di emancipazione del nostro tempo, tuttora chiusi nell’angusto recinto di un paradigma liberale già in crisi
Prologo
Per scongiurare una futura “catastrofe” sociale serve una “rivoluzione” della politica economica. Così parlò Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo monetario internazionale, in occasione di un dibattito e un simposio ispirati da un libretto critico a lui dedicato (Blanchard e Brancaccio 2019; Blanchard e Summers 2019; Brancaccio 2020). Che un grande cardinale delle istituzioni economiche mondiali adoperi espressioni così avventuristiche è un fatto inusuale. Ma l’aspetto davvero sorprendente è che tale fatto risale a prima del tracollo causato dal coronavirus. Tanto più dopo la pandemia, allora, diventa urgente cercare di capire se l’evocazione blanchardiana del bivio “catastrofe o rivoluzione” sia mera voce dal sen fuggita o piuttosto segno di svolta di uno spirito del tempo che inizia a muovere da farsa a tragedia. A tale interrogativo è dedicato questo scritto.
A chi intenda cimentarsi nella lettura, sarà utile lanciare un avvertimento. Sebbene intessuto di fili accademici, questo saggio risulterà estraneo alle pratiche discorsive dell’ordinario comunicare scientifico. Qui si cercherà infatti di rinnovare un antico esercizio, eracliteo e materialista: di intendere logos come scienza. Scienza non parziale ma generale, per giunta, quindi inevitabilmente colma di vuoti come un formaggio svizzero. Su questi vuoti, prevediamo, gli specialisti contemporanei avvertiranno insofferenza mentre sarà indulgente l’osservatore avvezzo alla critica e alla crescita della conoscenza (Lakatos e Musgrave 1976). Costui è consapevole che solo una visione generale consente di visualizzare quei vuoti, e quindi crea le premesse per tentare di perimetrarli e superarli.
Riproduzione e tendenza
Anche i consiglieri delle dittature fasciste, per una volta, possono trovarsi dal lato della ragione. Nella polemica con Myrdal sullo statuto scientifico dell’economia, Milton Friedman aveva ragione: non vi è motivo di ritenere che quella economica sia scienza “molle” rispetto alla fisica, alla chimica e in generale alle cosiddette scienze “dure”. Dato che la previsione può suscitare imbarazzo all’una e alle altre, che in entrambi i gruppi di scienze l’esperimento è a volte direttamente possibile e altre no, che in nessuno dei due ambiti il test può dirsi perfettamente controllato o isolato, che tra le singole scienze “dure” sussistono differenze metodologiche rilevanti almeno quanto quelle che si registrano tra ognuna di esse e la “molle” economia, e che i giudizi di valore possono influenzare tanto l’una che le altre discipline, si possono intuire le ragioni per cui quella partizione risulta meno robusta di quanto comunemente si creda, e per questo non raccoglie più grandi consensi fra gli epistemologi contemporanei (Brancaccio e Bracci 2019).
Ovviamente ciò non significa aderire allo strumentalismo di Friedman, che è forse la più deteriore tra le varianti della già caduca epistemologia popperiana. Né significa nobilitare la rappresentazione dell’economia suggerita dalla teoria neoclassica-marginalista, che incurante delle sue fallacie Friedman propugnava e che un ignaro Popper elevava addirittura al rango di unico paradigma. Sebbene le teorie e le epistemologie ispirate dall’approccio neoclassico siano anche le stelle polari della ricerca scientifica di Blanchard, qui non si farà cenno a esse. Per le sue comprovate incoerenze logiche e debolezze empiriche, e per la sua interpretazione irrimediabilmente naive del corso degli eventi, l’approccio neoclassico appare infatti inadeguato a valutare la rilevanza storica del crocevia blanchardiano. Misurarsi con l’incedere del processo storico, e quindi anche giudicare la tempestività di “catastrofe o rivoluzione”, è questione scientifica improba, che mai potrebbe esser ficcata negli angusti sgabuzzini della scarsità e dell’utilità neoclassiche. Dinanzi a un tale interrogativo, nella migliore delle ipotesi, lo studioso neoclassico si obbliga a un disagevole silenzio. Se dunque in questa sede si intende decretare la presenza a pieno titolo dell’economia nell’empireo della scienza tout court, e con essa si pretende di indagare sulla biforcazione in questione, allora si dovrà per forza indicare un sentiero di ricerca diverso da quello prevalente (sulla diversità rispetto all’ortodossia neoclassica, cfr. Brancaccio 2010a).
Una via alternativa potrebbe consistere nel recupero di un’ardimentosa e mai rinnegata tesi di Althusser: che dopo avere inteso per “storia” la complessa totalità sociale dominata dal modo di produzione capitalistico e dopo aver situato l’economia nel suo mezzo, arriva a identificare nel Capitale di Marx il primo, pur incerto passo della conoscenza scientifica nel perimetro del fino ad allora inesplorato «continente della storia», come secoli prima il Dialogo di Galileo aveva fornito la chiave metodologica d’accesso nel «continente della fisica» (Althusser 1974). Il paragone, bisogna ammetterlo, appare tuttora imbarazzante, anche laddove sia riferito alla sola fisica dei primordi. Sulla storia, abbiamo detto, l’approccio neoclassico è intrinsecamente muto. Ma pure la scienza critica dell’economia e della storia, ispirata all’analisi marxiana e ai suoi continuatori, si presenta ancora oggi a uno stadio poco più che embrionale. Essa si sviluppa grazie a filoni di ricerca sotterranei che riaffiorano puntuali all’indomani delle crisi, ma il più delle volte restano sommersi e dimenticati, ai margini della grande accademia e delle sue ingenti risorse. Di questa marginalità abbiamo suggerito una possibile spiegazione, che attiene ai contrasti tra la riproduzione del rapporto sociale di produzione e lo sviluppo di un paradigma scientifico che anziché favorire quella stessa riproduzione rischia di ostacolarla. Memore di Esopo, il sistema si guarda bene dal nutrire una serpe teorica in seno. Eppure, nonostante le enormi difficoltà, la serpe cresce. Dai nuovi apporti di teoria della produzione, agli schemi «stock-flow consistent», fino ai modelli ad agenti depurati da infiltrazioni neoclassiche, i filoni di ricerca alternativi continuano a produrre avanzamenti dal punto di vista del metodo, della strutturazione logica e della verifica empirica delle teorie.
Da questi avanzamenti è venuto alla luce uno snodo della moderna scienza economica critica che forse, una volta superato, consentirebbe di compiere qualche concreto passo avanti nell’ancora pressoché inesplorato continente della storia. Lo snodo a cui mi riferisco è l’esigenza di stabilire un collegamento fra la teoria della “riproduzione” e della crisi capitalistica da un lato, e la teoria delle leggi di “tendenza” del capitale dall’altro. L’una e l’altra hanno finora quasi sempre proceduto lungo sentieri separati, come fossero oggetti impossibilitati a connettersi. A riprova di questa idiosincrasia vi è persino l’assenza di una metafora adatta a descrivere il loro possibile incontro: cerchio e linea, ruota e binario, rapporto e catena, nessuna figurazione sembra adeguata al caso. L’innesto fra teoria della riproduzione e teoria della tendenza, tuttavia, sembra indispensabile per tentare di delineare un criterio di indagine dei crocicchi del processo storico. Senza quell’aggancio, anche la scienza critica del capitale rischia di cadere in uno sconfortante mutismo. Una possibile via di collegamento fra le due teorie, allora, può provenire dalla decifrazione di un loro legame inedito, emerso da alcune ricerche recenti. Si tratta del nesso tra le condizioni di solvibilità sottese alla riproduzione del capitale da un lato, e la tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani dall’altro (Brancaccio 2010b; Brancaccio e Cavallaro 2011; Brancaccio e Fontana 2016; Brancaccio e Suppa 2018; Brancaccio, Giammetti, Lopreite, Puliga 2018, 2019; Brancaccio, Califano, Lopreite, Moneta 2020).
C’è motivo di ritenere che questo nesso abbia valenza euristica generale: situato al livello della struttura economica capitalistica, le sue diverse configurazioni sembrano incidere su tutti i piani del rapporto sociale di produzione, fino a plasmare il livello culturale e politico. Se dunque si condivide questa linea di ricerca, diventa necessario estendere la massima althusseriana: la nostra tesi fondamentale è che non è possibile porre interrogativi e rispondervi, se non dal punto di vista della riproduzione e della tendenza, in particolare della tendenza alla centralizzazione del capitale. Alla luce di questa tesi, utilizzando gli strumenti di analisi incorporati in essa, si proverà qui a verificare se il bivio “catastrofe o rivoluzione” debba ritenersi suggestione importuna o al contrario evocazione tempestiva, nel tempo storico.
Fisionomia di una catastrofe
L’etimo di “catastrofe” è “capovolgimento”, “rovescio”, ma anche, tratto dalla tragedia greca, “scioglimento dell’intreccio di un dramma”. Prendendo spunto da Jan Kott, si può tradurre con “atto risolutivo”, che scioglie una contraddizione di sistema. Se questo sia o meno il tempo di una catastrofe così intesa, è il tema oggetto di analisi.
Aggiungere l’ennesima risposta narrativa a un simile interrogativo sarebbe poco utile: si eviterà quindi di navigare senza bussola nel mare magnum della romanzeria futurologica, dal panglossiano Stephen Pinker al cassandrico Millenium Project. Piuttosto, la questione sarà qui esaminata entro un perimetro di osservazione ben delimitato: lo chiameremo legge di riproduzione e tendenza, ovvero la tendenza alla centralizzazione del capitale. Come accennato prima, rarissimi sono i tentativi di cimento in questo campo decisivo di ricerca. Per quel che mi è dato sapere, la sola indagine che in certo modo vi si approssimi e che è salita agli onori delle cronache scientifiche recenti, è quella di Thomas Piketty (Piketty 2014). Criticabile nella esposizione dei dati, fuorviante nella ricostruzione storica del pensiero economico critico e a mezza strada fra tradizione e confusione nella visione teorica, l’opera di Piketty ha tuttavia un indubbio merito: cercare di trarre una legge di tendenza da una relazione di riproduzione del capitale. Quest’ultima viene definita dall’autore «disuguaglianza fondamentale», e consiste nella differenza tra il tasso di rendimento del capitale e il tasso di crescita del reddito. La tesi dell’economista francese è che il secolo ventunesimo sarà contraddistinto da un tasso di rendimento del capitale sistematicamente più alto del tasso di crescita del reddito. Di conseguenza, sotto date condizioni, il capitale crescerà più rapidamente del reddito e questo determinerà pure un incremento continuo dei patrimoni ereditati rispetto ai redditi creati durante una vita di lavoro. Se la riproduzione del sistema impone che il capitale renda più di quanto il reddito cresca, l’implicazione è una tendenza incessante all’aumento delle disuguaglianze tra chi vive di ricchezza e chi vive di lavoro. Si annuncia dunque un secolo rigoglioso, per il moderno rentier e per i suoi pargoli.
Il padre della teoria neoclassica della crescita e premio Nobel per l’economia Robert Solow l’ha denominata «tendenza dei ricchi sempre più ricchi» e ha sostenuto che prima di Piketty nessuno l’avesse mai concepita (Solow 2014). Non è esattamente così, ma il punto che qui merita attenzione è un altro. Il tentativo di Piketty di inquadrare la sua tesi secolare in uno schema tradizionale, di tipo neoclassico, è fallimentare. L’idea di una crescita continua del capitale in rapporto al reddito e di un conseguente sempre maggiore accaparramento del prodotto da parte di chi vive di lasciti ereditari, è un fenomeno che mal si adatta agli “equilibri naturali” tipici della modellistica neoclassica, siano essi non stazionari, stazionari o secolari, e indipendentemente dal carattere esogeno o endogeno della crescita che descrivono. Dunque, anche volendo accantonare per un attimo le incoerenze logiche e le smentite empiriche dell’approccio neoclassico, il tentativo di infilarci dentro la tendenza delineata da Piketty appare in sé contraddittorio. Per quanto l’economista francese possa trovarlo disturbante, la sua idea può trovare adeguata sistemazione solo altrove. L’ambito appropriato, in questo senso, sembra esser proprio la scienza critica del capitale.
In questo contesto teorico alternativo, tuttavia, si fa subito una nuova scoperta. Dentro quella che Piketty chiama la «disuguaglianza fondamentale» sussiste un ulteriore elemento, nascosto e più profondo. Se scomponiamo il rendimento medio del capitale in due parti, quella che attiene al tasso medio di profitto e quella che riguarda il tasso d’interesse medio sui prestiti, possiamo notare che dentro la legge di riproduzione rappresentata dalla “disuguaglianza fondamentale” c’è anche una “condizione di solvibilità” del sistema. In questa cruciale condizione si innesta anche, non per caso, l’ordine generale della politica economica, e in particolare quella che altrove abbiamo definito la solvency rule del banchiere centrale. Ora, a date ipotesi, si può mostrare che quanto maggiore sia il tasso di rendimento medio del capitale rispetto al tasso di crescita del reddito, tanto maggiore sarà il tasso medio d’interesse rispetto al tasso medio di profitto, e quindi tanto più stringente sarà la condizione di solvibilità. Ossia, in altre parole, sarà più difficile onorare i debiti accumulati. Ciò porterà a un aumento delle insolvenze, delle bancarotte e dei fallimenti dei capitali relativamente più fragili ed esposti, e quindi favorirà la loro liquidazione e il loro assorbimento a colpi di fusioni e acquisizioni a opera dei capitali più forti. È questo, per l’appunto, il moto della centralizzazione capitalistica: un fenomeno pervasivo e forse più insidioso della “tendenza dei ricchi sempre più ricchi”, perché a differenza di questa può imporsi anche in base al controllo di un capitale di cui non si è formalmente proprietari. I dati indicano che questo moto di centralizzazione dei capitali è ancora frastagliato, con varianti nazionali e geopolitiche, ma che almeno in potenza non ha limiti né confini, ed è per questo in grado di estendersi all’intero pianeta. Dalla riproduzione del sistema, dunque, si può trarre una duplice tendenza: il capitale non solo tende a crescere rispetto al reddito, come sostiene Piketty, ma tende anche, e soprattutto, a centralizzarsi in sempre meno mani. Come nell’allegoria di Bruegel, i grandi mangiano i piccoli.
I tratti essenziali della legge di riproduzione e tendenza sono stati esplicitati. Siamo dunque al cospetto di un grande meccanismo shakespeariano, funesto quanto inesorabile? O esistono controtendenze? Altrove abbiamo osservato che la centralizzazione può suscitare una reazione. I capitali più piccoli e più fragili, a rischio di liquidazione e assorbimento, possono tentare di organizzarsi per imporre al banchiere centrale e alle altre autorità di governo una linea politica orientata a mitigare le condizioni di solvibilità e a contrastare la dinamica della centralizzazione. Nasce così una lotta, tutta interna alla classe capitalista, tra aggressione dei grandi e resistenza dei piccoli. Da questo scontro, in effetti, può emergere una controtendenza con implicazioni di fase rilevanti, al limite di portata storica. Ma l’evidenza disponibile solleva dubbi sulla possibilità che una simile reazione sia in grado di sovvertire la tendenza centralizzante di fondo. Una teoria della politica economica in grado di spiegare il perché è ancora di là da venire. Tuttavia c’è motivo di ritenere che proprio la crescita del capitale rispetto al reddito abbia qualcosa a che fare con la capacità della centralizzazione di soverchiare le sue controtendenze.
La legge di riproduzione e tendenza fin qui descritta ha riflessi su varie controversie teoriche del passato. Per esempio, essa rigetta l’erronea teoria della produttività marginale decrescente del capitale, mentre non si oppone ma nemmeno necessita della tesi di caduta tendenziale del saggio di profitto. Più in generale, in chiave epistemologica, la legge descritta obbliga a cimentarsi nella difficile costruzione di quella teoria materialista della politica economica che tuttora manca all’appello nella storia della scienza. Non è però questa la sede per approfondire ulteriormente le basi e le implicazioni della legge di riproduzione e tendenza del capitale. Quanto detto finora ci pare infatti sufficiente per sollevare l’interrogativo che qui davvero preme: la tendenza del capitale a crescere rispetto al reddito e a centralizzarsi, costituisce in quanto tale una prova di tendenza del sistema verso la “catastrofe”? Sebbene molta indagine vi sia ancora da compiere in tema, ad avviso di chi scrive è possibile dare una risposta preliminare affermativa, in un senso che trascende la mera analisi economica e investe la totalità sociale del modo di produzione. Il punto di fondo, in estrema sintesi, è che la crescita del capitale in rapporto al reddito e la centralizzazione del suo controllo sono tendenze che in quanto tali annunciano una progressiva concentrazione di potere, economico e di conseguenza politico. Come gli stessi Blanchard e Piketty pur di sfuggita rilevano, una tale dinamica del capitale non sconvolge soltanto l’assetto economico ma può avere enormi ricadute sul quadro politico e istituzionale, e più in generale sul sistema dei diritti. La centralizzazione capitalistica, in altre parole, erode la democrazia e la libertà, anche intese nel mero significato liberale. Al limite, a date condizioni, la tendenza descritta può arrivare a minare le basi stesse del liberalismo democratico. Se così andasse, verrebbe smentita la vecchia eppur tenace credenza kojeviana secondo cui il capitalismo liberaldemocratico mondializzato rappresenterebbe il meraviglioso equilibrio finale di tutta la storia umana.
L’ideologia dominante e la teoria economica che la supporta ci inducono a guardare il capitalismo con uno sguardo cristallizzato sulle sue origini gloriose, in cui una classe borghese in ascesa si incaricava di abbattere l’ancien regime dei privilegi aristocratici. In quel breve attimo della storia, la sconfitta del rentier feudale ad opera dell’imprenditore capitalista segna realmente un progresso generale, non solo economico ma anche civile e politico. La conquista del potere da parte dei capitalisti è oggettivamente un momento di sviluppo in senso liberale e democratico, per ragioni materiali piuttosto ovvie: il modo di produzione che i borghesi incarnano non solo accresce la ricchezza sociale più rapidamente ma la ripartisce anche maggiormente all’interno della società, per il semplice motivo che essi sono più numerosi dei proprietari terrieri. È per questo che il capitalismo delle origini risulta associato a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti. Il movimento oggettivo che stiamo qui analizzando, però, indica che quella fase originaria è soverchiata dagli stessi sviluppi del capitale. Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalesimo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini.
Se dunque la legge di tendenza verso la centralizzazione dei capitali troverà ulteriore conforto in analisi future, una delle implicazioni principali è che da essa potrebbero derivare anche le basi per una previsione di sbocco, come talvolta è stato definito, di «neoliberismo autoritario» (cfr. tra gli altri, Bruff 2014). La fisionomia di una catastrofe inizia a delinearsi.
Tendenza, reazione, conflitto
Nell’accezione originaria, “rivoluzione” richiama il “voltare”, il “rivolgere indietro”. In effetti sembra uno sguardo all’indietro quello che deve avere indotto Blanchard, con Larry Summers, a invocare una “rivoluzione” della politica economica per scongiurare future catastrofi. Per rivoluzione, infatti, i due intendono non molto più che un recupero del vecchio lascito keynesiano: politiche monetarie e fiscali ancor più espansive, se necessario controlli sui capitali e altre forme di repressione della finanza, cui si potrebbero anche aggiungere estensioni del welfare sotto forma di reddito di esistenza (che al di là delle retoriche non è mai stato molto più che una declinazione liberaldemocratica del keynesismo).
Beninteso, la novità non è di poco conto. Per quanto Joan Robinson non avrebbe esitato a considerarlo “bastardo”, un keynesismo così accorato ai vertici del pensiero mainstream non si vedeva da decenni. Tuttavia, da qui a considerarlo praticabile ce ne corre. Altrove abbiamo sostenuto che una tale evocazione di Keynes, per quanto influente, potrebbe risultare vana. Sebbene la storiografia metta in luce solo di rado questo aspetto, bisognerebbe ricordare che la sintesi keynesiana è stata un oggetto politico, prima che teorico. E in quanto oggetto di tal fattura venne forgiato nelle asprezze di un gigantesco conflitto epocale, tra capitalismo e socialismo sovietico. Questo fatto dialettico, mi sembra, vale in generale: oggi come allora, una sintesi keynesiana potrebbe nascere solamente sotto il pungolo del pericolo socialista. Si avverte oggi quel pungolo? Esiste uno scontro di sistema paragonabile a quello degli anni trenta del secolo scorso? Per quanto qui non si condivida del tutto la tesi di Ronald Coase secondo cui la Cina sarebbe ormai un’economia capitalistica a tutti gli effetti (Coase e Wang 2014) occorre riconoscere che per adesso di quel grande conflitto di sistema non vi è traccia nel mondo. Come possa quindi attivarsi la dialettica necessaria al concepimento di una nuova “rivoluzione” keynesiana, resta per il momento un mistero.
A ben guardare, però, la politica keynesiana potrebbe anche materializzarsi in senso diverso: non rivoluzionario ma reazionario. È il caso in cui venga messa al servizio esclusivo dei capitali più deboli e fragili, al solo fine di allontanare il pericolo di una loro liquidazione e rallentare così la centralizzazione nelle mani dei capitali più forti. Questa possibilità esiste. Contrariamente a quanto sostenuto da Blanchard e Summers, e in generale dalla tradizione neoclassica, la “disuguaglianza fondamentale” fra il tasso di rendimento del capitale e il tasso di crescita del reddito non è la risultante di un equilibrio “naturale” ma è piuttosto l’esito di decisioni macroeconomiche. In questo senso, una eventuale politica keynesiana interviene proprio su una componente cruciale della disuguaglianza fondamentale, quella che attiene alla differenza tra il tasso d’interesse medio sui prestiti e il tasso di crescita del reddito. È la condizione di solvibilità, in cui, abbiamo detto, opera anche la solvency rule del banchiere centrale. Manovrando allo scopo di tenere stabilmente il tasso d’interesse sotto il tasso di crescita, il policymaker keynesiano rende meno stringenti le condizioni di solvibilità del sistema, riduce le bancarotte e i fallimenti e pone così un freno alle liquidazioni e acquisizioni dei capitali deboli a opera dei forti. Insomma, una sorta di helicopter money for the petty bourgeoisie anziché for the people che del resto già presentava il limite tipicamente populista della neutralità degli effetti distributivi nel senso di Patinkin.
Per le ragioni accennate prima, sembra difficile che questa linea di indirizzo possa soverchiare indefinitamente il meccanismo di centralizzazione del capitale. Ciò non toglie, però, che la “reazione keynesiana” può scatenare contraccolpi alla centralizzazione marxiana. In generale tenui, cioè tali da rallentarla in virtù di un compromesso tra le diverse fazioni del capitale. Oppure al limite così violenti e pervasivi da trasformare la contesa economica tra capitali in conflitto politico tra nazioni. Questo salto di livello può avvenire, ancora una volta, per ragioni materiali: da un lato capitali mediamente solvibili, più grandi e sempre più ramificati a livello internazionale, dall’altro capitali più piccoli e in affanno che operano invece maggiormente entro i confini della nazione e per questo tendono a identificarsi più facilmente in essa, magari riesumando una politica revanscista, potenzialmente xenofoba, al limite fascistoide, ma sempre a suo modo liberista. In questo rinculo keynesiano, allora, la reazione può farsi nazione, o quantomeno può chiudere la tendenza alla centralizzazione del capitale entro gabbie geopolitiche. Ossia in un senso nuovo rispetto alle vecchie controversie possiamo dire che nello scontro tutto interno alla classe capitalista, Keynes può muovere contro Marx. Una contrapposizione che all’estremo può sfociare in guerra, con ripercussioni prevedibili, ancora una volta, sulle istituzioni liberaldemocratiche. L’altra faccia della catastrofe viene allo scoperto.
Ecologia, tecnologia, distopia
Il fatto che nell’attuale fase storica la lotta politica resti confinata nel recinto della classe dominante ha anche altre implicazioni. Una delle più rilevanti è che ogni disputa viene plasmata dagli apparati ideologici secondo i codici di quell’unica lotta politica.
Il caso del cambiamento climatico è esemplare, in questo senso. Il premio Nobel William Nordhaus ha sostenuto che i costi della riconversione ecologica dell’economia andrebbero sostenuti in misura maggiore dalle future generazioni, visto che grazie alla crescita economica queste risulteranno più ricche delle generazioni attuali. I movimenti ambientalisti hanno contestato questa conclusione, sostenendo che sono le generazioni presenti che dovrebbero farsi carico di evitare danni irreparabili a quelle future. Esaminiamo la controversia dal punto di vista della legge di riproduzione e tendenza del capitale. A differenza dei modelli neoclassici utilizzati da Nordhaus, lo schema alternativo riconosce il carattere indeterminato sia della crescita economica futura che dei potenziali danni provocati da una crisi ecologica. Sotto questo aspetto, dunque, esso prova che gli ambientalisti hanno ragione: occorre adottare un principio precauzionale che porti la generazione presente ad assumere qui e ora i costi di una transizione ecologica dell’economia. La legge di riproduzione e tendenza, però, mette in luce anche un altro aspetto: né l’uno né gli altri attori di questa disputa accennano alla divisione in classi insita nel rapporto sociale di produzione. Come accade anche per altre tenzoni, sul debito pubblico come sul sistema previdenziale, ci si concentra esclusivamente su un generico conflitto generazionale. La lotta di classe sembra del tutto estranea al discorso ecologista. Eppure non ci vuol molto a capire che il conflitto sul clima è inestricabilmente legato al conflitto tra le classi sociali. A questo riguardo, lo schema di riproduzione e tendenza mostra che le crisi ecologiche impattano sui prezzi relativi del sistema in un modo che pressoché inesorabilmente, al giorno d’oggi, colpisce in misura preponderante le classi subalterne. Ma soprattutto, quello schema mette in luce che gli effetti prevalenti del cambiamento climatico non vengono catturati dai prezzi capitalistici: si tratta cioè di quella che gli economisti definirebbero una “esternalità” generale, un fenomeno che si pone al di là delle capacità di calcolo razionale del modo di produzione capitalistico. Il monopolio capitalistico della politica impedisce di visualizzare questi problemi. Con il risultato che oggi, come è stato detto, si riesce a concepire persino la fine della vita sulla terra ma non la fine del capitalismo. Utopico o distopico che sia, anche l’immaginario è storicamente determinato.
Un’altra grande implicazione del monopolio capitalistico della lotta politica è che lo sviluppo della scienza e della tecnica assume una connotazione sociale univoca. A tale riguardo, è bene sottolineare che l’innovazione tecnico-scientifica non è mai una variabile esogena del sistema. Il processo innovativo non cade affatto dal cielo ma è parte in causa del meccanismo sociale. Forse più di ogni altro ingranaggio della riproduzione sociale, l’atto innovativo esprime sempre lo stato delle forze produttive e dei rapporti di forza nella società. L’organizzazione della produzione tecnico-scientifica è infatti in primo luogo organizzazione del potere economico della scienza. Intorno a questo potere montano le lotte politiche più feroci, ma se tali lotte vedono in azione i soli agenti capitalistici, è inevitabile che la produzione tecnico-scientifica in generale, e la produzione dell’innovazione in particolare, vengano messe al servizio esclusivo della riproduzione del capitale e dei suoi rendimenti. Si spiega così l’opera incessante di privatizzazione della conoscenza tecnico-scientifica, a mezzo di brevetti, diritti di proprietà intellettuale, contratti di segretezza. Un’opera che non si è fermata nemmeno dinanzi a una minaccia generale di morte, come il coronavirus. Gli scienziati chiedono di accantonare questa logica privatistica per mettere in comune le conoscenze, condividerle a livello internazionale e coordinare i gruppi di ricerca per accelerare la ricerca sul covid-19. Ma nello stato attuale dei rapporti sociali di produzione, un comuniSmo scientifico nella lotta contro il virus (Brancaccio e Pagano 2020) rischia di essere nient’altro che una voce razionale nel deserto.
Nella sua titanica impresa, dunque, Prometeo non è affatto un eroe solitario, ma piuttosto va inteso come un pezzo dell’ingranaggio, ovvero come un operaio della scienza. E assieme a tutti gli altri operai, anch’egli è in ultima istanza messo al servizio della riproduzione capitalistica e dei rapporti a essa sottesi. In ciò risiede anche il motivo, tra l’altro, per cui dalla legge di riproduzione e tendenza del capitale scaturisce un movimento che nessuna traiettoria dello sviluppo tecnologico, in quanto tale, è in grado di sovvertire. Anzi, a date condizioni, i cambiamenti tecnici potrebbero persino accrescere il tasso di variazione delle tendenze del capitale, come in una sorta di distopia accelerazionista.
Speculazione e libertà del capitale
Dal punto di vista storico, le tendenze fin qui descritte hanno dominato lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, con una rilevante eccezione rappresentata dal cosiddetto «secolo breve». Esse infatti incontrano un freno nella Prima guerra mondiale e nella concomitante ascesa del bolscevismo, e tornano poi in auge con l’inizio della crisi sovietica e l’ascesa di quella fase politica talvolta definita «controrivoluzione neoliberista». Questa è l’epoca in cui si riafferma il primato di una forma specifica di libertà: quella dei proprietari del capitale di muovere le ricchezze e di speculare sui mercati senza più ostacoli di legge. L’apparato ideologico che accompagnò quella svolta si basa su un’idea in fondo semplice: l’efficienza del libero mercato, in particolare del mercato finanziario, porta pace e prosperità. È la visione tuttora prevalente, che però non trova il conforto dei fatti. In realtà, quando le forze che operano sul mercato vengono lasciate libere di espandersi,il sistema risulta continuamente soggetto al movimento speculativo: vale a dire all’istinto, degli agenti del capitale, di guadagnare dalle mere differenze di prezzo tra acquisto e vendita delle merci, dei titoli che le incarnano, delle tecniche, persino dei cambiamenti climatici. Insomma, di qualsiasi oggetto di transazione.
Come è ormai noto anche a Shiller e ad altri esponenti della dottrina economica prevalente, l’impulso speculativo non è affatto un sintomo di efficienza del sistema. Al contrario, esso contribuisce in modo decisivo all’alternarsi di euforia e depressione, al sottoutilizzo sistematico dei mezzi di produzione, alla selezione avversa dei processi tecnico-scientifici, e in generale a quel fenomeno caotico che va sotto il nome di “disorganizzazione dei mercati”. Una disorganizzazione che si manifesta, tra l’altro, nella setacciatura del futuro: conta solo ciò che contribuisce all’accumulo privato di capitale, mentre viene quasi del tutto scartato ciò che riguarda l’avvenire collettivo, come ad esempio la prevenzione dei disastri sistemici.
Come Marx ben sapeva, l’impulso speculativo non è un retaggio della vecchia economia antecedente all’accumulazione primitiva, ma è una caratteristica intrinseca del capitalismo sviluppato. Si può dimostrare, in questo senso, che il moto della speculazione è addirittura alla base della legge di riproduzione e tendenza (Brancaccio e Buonaguidi 2019; Algieri, Brancaccio, Buonaguidi 2020). Questa evidenza ha un’implicazione importante, per il nostro discorso. Se la libertà del capitale mobilita la speculazione, e se la speculazione è alla base del meccanismo che alimenta la crescita del capitale rispetto al reddito e la centralizzazione del suo controllo, allora possiamo arrivare ad affermare che la libertà del capitale non è solo un propagatore di inefficienza sistemica ma costituisce essa stessa una minaccia potenziale per la democrazia liberale. Potremmo dire che la libertà finanziaria degli agenti del capitale tende a soffocare le altre libertà, gli altri diritti. Esperimenti di fascismo liberista in effetti non sono mancati nella storia. Per le ragioni suddette c’è motivo di ritenere che in prospettiva possano propagarsi. C’è un’amara ironia, in questo grande inviluppo.
Polarizzazione e uniformizzazione
Al pari del modello di von Neumann, delle equazioni dei prezzi di Sraffa o delle tavole input-output di Leontief, la legge di riproduzione e tendenza fin qui descritta è un mero schema, confinato nella struttura economica del sistema. Diversamente dai suoi predecessori, però, questo inedito scheletro logico coltiva anche la pretesa di dire qualcosa sui movimenti della sovrastruttura politica. Pretesa immane solo in apparenza, se si ammette che nemmeno un passo nel “continente storia” può ragionevolmente compiersi se si rinuncia a coltivarla. Riassumiamo allora la tesi in questione, semplice e netta. La tendenza alla crescita del capitale rispetto al reddito e alla centralizzazione del suo controllo in sempre meno mani, non sembra compatibile con il mantenimento futuro della democrazia, della libertà, al limite della pace, almeno così come oggi le intendiamo. Il moto profondo del sistema costituisce in sé una minaccia per la sopravvivenza delle istituzioni su cui reggono le democrazie liberali contemporanee. E nella misura in cui la lotta politica sia pressoché tutta interna alla classe capitalista, quel moto non sembra ammettere esiti alternativi: se cioè tutto si riduce al gioco di fazioni interno al capitale, allora lo schema tratteggiato è self-contained. Una vecchia ma non desueta eresia trova così ulteriore sostegno: la libera razionalità individuale dei singoli agenti del capitale guida cecamente verso una catastrofica e illiberale irrazionalità di sistema. Con mezzi di analisi un po’ più generali rispetto ai consueti equilibri non cooperativi di Nash, una nuova vendetta si consuma contro la «mano invisibile» di Adam Smith.
La biforcazione blanchardiana, da cui siamo partiti, sembra quindi trovare una conferma e una smentita: c’è un meccanismo interno al modo di produzione che effettivamente muove verso la “catastrofe”, ma questo stesso meccanismo tende a piegare un’eventuale svolta keynesiana in senso reazionario piuttosto che “rivoluzionario”. Il suono dell’inevitabilità sembra riecheggiare persistente, in questa minacciosa conclusione. Ma qui non si vuol celebrare nessuna filosofia negativa della storia. Né al contempo si vuol cadere nell’idiotismo di chi immagini una totalità “aleatoria” in cui tutto sia improvvisamente possibile, magari solo in virtù di un agire incosciente e speranzoso. Il vincolo epistemologico su cui si vuole qui insistere, è che in ultima istanza tutto deve scaturire dallo schema: come la linea verso la catastrofe è una risultante della legge di riproduzione e tendenza, così dovrebbero esserlo anche i suoi eventuali sovvertimenti.
Uno spunto, in questo senso, viene dalla constatazione che tutte le previsioni che si sono finora irradiate dall’analisi assumono un dato: che ogni lotta si sviluppi dentro la classe egemone, tra i soli agenti del capitale. Si assume cioè che la classe lavoratrice, la classe subalterna, resti silente sul piano politico, e quindi ridotta a variabile residuale nello schema economico. Tale residualità dei subalterni, tra l’altro, accresce le possibilità di risoluzione pacifica delle contese tra grandi e piccoli capitali, magari sotto la bandiera di una centralizzazione che rallenta ma non si arresta. Ora, sebbene questo sia un preciso tratteggio dell’attuale fase storica, dobbiamo per forza ritenerlo valido anche per il futuro? A questo cruciale interrogativo la legge di riproduzione e tendenza può fornire tracce essenziali per una risposta. Il punto è che il movimento verso la crescita del capitale rispetto al reddito e verso la sua centralizzazione in sempre meno mani, è in quanto tale distruttivo per i gruppi sociali intermedi: piccoli capitalisti, ceti medi più o meno riflessivi, borghesia minore, esponenti delle professioni, quadri privati e pubblici, padroncini e rentiers marginali, questo aggregato di corpi centrali è destinato a erodersi: sospinti in piccola parte verso l’estremo superiore della scala sociale, mentre la restante gran parte viene man mano scaraventata verso il basso, i componenti di questo mondo di mezzo finiscono per ingrossare le file degli strati subalterni. Al pari della centralizzazione che lo induce, questo moto potrà arrestarsi e anche indietreggiare in certi momenti, ma sul piano della logica è destinato a imporsi. I dati storici, ancora una volta, vanno in questa direzione. Con buona pace di Bernstein e dei suoi epigoni, la legge di riproduzione e tendenza alla centralizzazione del capitale è anche legge di polarizzazione delle classi.
Infine, la polarizzazione sembra assumere anche i tratti di una tendenziale uniformizzazione delle condizioni della classe subalterna. È una dinamica che avvicina le condizioni di vita e di lavoro a livello internazionale, generalmente dando luogo a una loro convergenza verso il basso (Brancaccio, De Cristofaro, Filomena 2019). Ma uniformizzazione, a ben vedere, significa molto di più. Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati. Che si tratti di nativi o di immigrati, di donne, uomini o transgender, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale. Questo processo di universalizzazione del lavoro mette in crisi le vecchie istituzioni, disintegra gli antichi legami di famiglia basati sulla soggezione della donna all’uomo e allenta i confini nazionali che dividevano la forza lavoro interna da quella esterna. È un movimento che per forza di cose abbatte gli antichi equilibri sociali basati sulle discriminazioni di genere e di razza, e che mette pure in crisi le istituzioni familiari e le convenzioni sociali che soprintendono ai legami affettivi e sessuali: che la forza lavoro sia etero oppure Igbtqiapk, per intenderci, non fa la minima differenza per il capitale. Ma quello stesso movimento, al tempo stesso, risulta guidato da una pura logica di acquisizione di forza lavoro indifferenziata ai fini della intensificazione dello sfruttamento. Pertanto, quali che siano il genere, l’orientamento sessuale, la provenienza, l’etnia, col tempo il capitale ci rende tutti uguali, e questo è il suo aspetto progressivo e universalistico. Ma ci rende uguali nello sfruttamento, e questo è il suo aspetto retrivo e divisivo. Anche l’uniformizzazione di classe è movimento contraddittorio, come ogni altra cosa del capitale.
Nuovo capitale umano
C’è un ultimo movimento, che la legge di riproduzione e tendenza mette in atto e del quale Marx e alcuni suoi epigoni ben conoscevano l’importanza. È il fatto che la legge del capitale implica un progressivo assorbimento di nuova forza lavoro nel processo di accumulazione. Man mano che il capitale si accumula e si centralizza, ulteriore forza lavoro viene prelevata e agganciata alla macchina capitalistica globale. Gambe, braccia e sinapsi di classe, operanti nei più sperduti angoli del mondo, da quel momento e tramite lunghissimi fili vengono guidate da consigli direttivi situati nei nuclei più centrali e ramificati del sistema, e il tutto avviene sotto il dominio di una legge di movimento impersonale.
Con questo ingresso nel sistema, la forza lavoro muta in ingranaggio, pezzo indistinguibile della macchina, operaiato. Questo accade, si badi bene, nel lavoro semplice come in quello più sofisticato, e di riflesso dall’azione produttiva in senso stretto si spande poi ovunque: nel consumo come nelle relazioni sociali e personali, nell’atto ludico e nel pensiero sparso, nel dolore come nell’appagamento di un desiderio. Lo “stare attaccati alla macchina”, in questo senso, è un’espressione che si generalizza e si fa metafora del mondo: non più banalmente soltanto l’operaio industriale o il malato in terapia intensiva, ma chiunque in qualsiasi luogo e momento, in fabbrica come in camera da letto, che si trovi impegnato in pensieri, parole, opere, omissioni e sensazioni, sono tutti costantemente “attaccati alla macchina”. Così, dalla produttività, alla sessualità, all’affettività, tutto della vita diventa tecnico. I teorici della biopolitica hanno vagamente intuito qualcosa, di questo destino di colonizzazione capitalistica delle esistenze. Ma la loro miope epistemologia ha impedito di trarne le implicazioni di fondo. Perché il punto essenziale, qui, è che la tesi marxiana secondo cui la storia umana non è altro che una continua trasformazione della natura umana, va intesa nel senso che la legge di riproduzione e tendenza del capitale è anche legge di riproduzione e tendenza di un nuovo tipo umano capitalistico. Anzi, diciamo pure nuovo capitale umano, un’espressione che viene così liberata dalle aporetiche e infantili concettualizzazioni neoclassiche di Becker e dei suoi seguaci. Ben più persistente e pervasiva delle edificazioni del virile uomo nuovo mussoliniano o dell’altruista nuova umanità sovietica, è dunque in atto una riproduzione tendenziale, continuamente modificata, di un nuovo tipo umano: un nuovo capitale umano.
Quale rivoluzione
Lo schema di analisi fin qui tratteggiato ha raggiunto il suo limite estremo di applicazione. Non è un caso che ciò sia avvenuto dinanzi all’articolarsi dell’umano dentro il termine “classi”, dove anche i più fecondi manoscritti, come è noto, si interrompono. Restano tuttavia le ultime domande in sospeso, che non possono essere eluse. In breve: il fatto che la tendenza alla centralizzazione dei capitali implichi un movimento oggettivo verso la polarizzazione e l’uniformizzazione di classe e l’accumulo di nuovo capitale umano, può esser considerata una ragione sufficiente per prevedere uno sviluppo della lotta politica oltre il perimetro del gruppo sociale dominante? E questa dinamica, in quanto tale, può rendere nuovamente ammissibile il cenno blanchardiano a una “rivoluzione” capace di scongiurare la “catastrofe”?
C’è qualcosa, in queste domande, che le rende particolarmente ostiche. Esse chiamano in causa un elemento che opera “dall’esterno”, direbbe Lenin, ovvero al di là dello schema che descrive la legge di riproduzione e tendenza. Definirlo “soggettivo” darebbe luogo a una pletora di incomprensioni. Meglio il termine “intelligenza collettiva”: un oggetto materiale, neuroscientifico, di cui evidentemente bisognerà delineare una genesi. Da questo punto in poi la selva del “continente storia” si fa ancor più fitta, quasi imperscrutabile con i mezzi impiegati finora. Il canone accademico indurrebbe a fermare il discorso qui e ora, tra le mura scientifiche della legge di movimento. Ma proprio l’incedere catastrofico di questa non lo consente. Restando fedeli al metodo, c’è ancora un passo che dobbiamo cercare di compiere verso l’entroterra del nuovo mondo.
Ricapitoliamo l’intrico di filiazioni della legge di riproduzione e tendenza alla centralizzazione: speculazione e disorganizzazione dei mercati, distopia accelerazionista, polarizzazione e uniformizzazione di classe, formazione di nuovo capitale umano nel senso suddetto, e al contempo una libertà del capitale che nel suo espandersi minaccia di catastrofe le altre libertà e lo stesso liberalismo democratico. Il grande meccanismo è così interamente dispiegato. Alcuni dei suoi ingranaggi appaiono indubbiamente ancora fragili, essendo per adesso ricavati solo da una sorta di variante economica del «paradigma indiziario» (Ginzburg 1979). Ma tutti sono comunque bene attaccati all’albero motore della legge di riproduzione e tendenza, che al contrario può vantare una precisa logica di movimento. Un movimento, come abbiamo visto, vocato a una totalità che non ammette esodo o eremitaggio, e soprattutto risulta pressoché insensibile alle correzioni di rotta. Sono infatti gli oggetti a esso estranei che a quanto pare vengono centripetati, fagocitati, plasmati. Questo vale in particolare per gli oggetti politici. Nel grande meccanismo, la rivoluzione keynesiana si riduce a mera reazione piccolo borghese, e con essa le propaggini del reddito di esistenza o della moneta per il popolo. Ma anche un illuminato accelerazionismo tecnologico (Williams e Srnicek 2013) muta in propulsore distopico, e così analogo destino subirebbe probabilmente ogni altro manifesto per un «capitalismo progressista» (Stiglitz 2020).
Talmente pervasiva è dunque la legge di movimento verso la “catastrofe”, che l’unica “rivoluzione” in grado di scongiurarla sembra possibile solo in virtù di un movimento eccezionale, una mossa inedita. Quale mossa può mai servire in tal senso? Una metafora seducente, per certi versi affine, è la pratica yawara del judo “scientifico”: adeguarsi alla forza avversa, quindi sfruttarla per piegarla in avanti, fino a ottenere il suo rovesciamento e il suo controllo. Gesto elegante, di indubbio fascino. Ma quale può mai essere il suo corrispettivo nella dura prassi della politica? Ebbene, c’è motivo di supporre che questo può risiedere solo in una paziente opera di costruzione, in un lavoro di edificazione di una nuova intelligenza collettiva, per un nuovo scopo. L’obiettivo principale di questo emergente comune intelligere dovrebbe infatti consistere nell’esercitare le nuove leve a comprendere l’arcano della legge di movimento del capitale, e a scoprire che tra i suoi potenti ingranaggi covano immani contraddizioni interne. Quale sia il nucleo di queste contraddizioni è presto detto. Centralizzazione, polarizzazione e uniformizzazione di classe, riproduzione di nuovo capitale umano, hanno una doppia implicazione: da un lato ci avvicinano al catastrofico orizzonte concentrazionario e illiberale prima descritto, ma dall’altro lato oggettivamente erodono le eterogeneità tra i subalterni, concretamente rideterminano la loro universalità, e proprio attraverso questa via aprono opportunità politiche inedite. Man mano cioè che il capitale si ammassa nelle mani di un manipolo sempre più ristretto di capitalisti, man mano che il loro potere si concentra e ci si avvicina alla catastrofe della liberaldemocrazia, diventa al contempo sempre più difficile frastagliare gli interessi della classe subalterna, e risulta sempre più oneroso l’antico esercizio macedone del dividere per dominare. In una impersonale eterogenesi dei fini, mentre cresce la potenza del capitale centralizzato, monta al contempo la fragilità del suo monopolio politico. Più vicina è la catastrofe, più vicina è l’occasione di una svolta.
Duro è l’insegnamento che si trae da questo nuovo intelligere collettivo, che per forza di cose è tale solo se avanguardista, e dunque nemico di ogni possibile “codismo”. Se si intende il mondo nei termini fin qui descritti, si arriva a capire che solo nelle trasformazioni sociali operate dal movimento oggettivo del capitale, un’intelligenza collettiva può trovare condizioni favorevoli per il rovesciamento del rapporto di produzione. Diventa chiaro, allora, che l’ammorbante, continuo vezzeggio del cosiddetto ceto medio è inesorabilmente politica “codista” verso i piccoli capitali e le loro rappresentanze politiche. Una politica tanto diffusa quanto fallimentare, che porta ad assecondare ogni possibile “reazione” piccolo borghese, con le sue tipiche suggestioni bigotte, familiste, ultranazionaliste, intrise delle illusioni del populismo interclassista, e che conduce fuori dalle contraddizioni di fondo del sistema. I medi, insomma, sono passato che resiste. Solo nella consapevolezza di questa collocazione temporale, al limite, si potrà interagire politicamente con essi. Perché solo la polarizzazione, l’uniformizzazione di classe e lo sviluppo di nuovo capitale umano creano condizioni concrete per il cambiamento.
Ma c’è anche un opposto “codismo” che va scongiurato, che consiste nell’ancor più diffusa tentazione di mettersi sulla scia dei grandi capitali e delle loro rappresentanze politiche. È la politica passiva che scaturisce dall’illusione secondinternazionalista, hilferdinghiana, che il movimento oggettivo del capitale porti in sé al rovesciamento del rapporto sociale. Ma non è affatto così. Per piegare le immani forze della legge di movimento occorre che l’intelligere di classe si riunifichi, pensi e agisca intorno a una chiave, una parola d’ordine, una bandiera per l’egemonia. La stessa legge fin qui descritta porta in quanto tale a ritenere che questa chiave sia la modernità della pianificazione collettiva. Tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza, devono riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo. E tutte le iniziative devono quindi essere riconcepite nella cornice logica del piano. Anche le proposte più generose e illuminate, come il controllo democratico della regola di solvibilità del banchiere centrale, dell’ingresso dello Stato negli assetti proprietari del capitale, dei movimenti di capitale e più in generale della bilancia dei pagamenti e delle connesse relazioni internazionali in base a determinati “standard sociali” proposte che chi scrive ha sostenuto non possono più essere accolte acriticamente. Così come, simmetricamente, la lotta per il reddito non è più detto che si riduca a piccolo riformismo liberale. Tutte le iniziative, infatti, assumono carattere rivoluzionario oppure reazionario a seconda che siano o meno intese come tasselli del piano collettivo.
Il piano, dunque. Ecco finalmente una leva forte, la più forte mai concepita nella storia delle lotte politiche, l’unica potenzialmente in grado di piegare la legge di movimento del capitale prima che ci affossi nella catastrofe. Ma come si fa a definire “moderna” una simile arma economica? Come si può affrancarla dalla storiografia mainstream del Novecento? Come la si monda dalle lacrime e dal sangue del passato? Un modo intellettualmente terso esiste, e va praticato. Si tratta di cimentarsi in un esercizio di sintesi tra la pianificazione collettiva e un concetto solo in apparenza antagonistico: la libertà individuale. L’idea dell’assoluta impraticabilità di una simile miscela è la litania del nostro tempo, una costante della comunicazione politica, anche in assenza di una minaccia effettiva, come se lo spettro del piano agitasse continuamente il sonno dei comunicatori del capitale. Gli odierni apparati ideologici insistono infatti con l’idea secondo cui pianificazione, in quanto sinonimo di stalinizzazione, sarebbe anche intrinseco fattore distruttivo delle libertà individuali, le quali di contro sarebbero tutelate solo nell’organizzazione capitalistica della società. In realtà le cose stanno diversamente. Noi, discutendo di fascismo liberista, abbiamo già smentito l’equazione capitalismo uguale diritti. Non solo le sanguinarie dittature capitaliste della storia passata, ma anche le prospettive future delineate dalla legge di movimento, indicano che nei fatti la libertà del capitale costituisce una potenziale minaccia per tutte le altre libertà e per lo stesso liberalismo democratico. Inoltre, a ben guardare, anche l’idea del piano come sinonimo di oppressione autoritaria è in quanto tale fallace. Basti ricordare un fatto ovvio: la storia della pianificazione va molto al di là del naufragio sovietico e lambisce persino un tempio del libero mercato come gli Stati Uniti (Leontief 1974). La verità è che la logica profonda del rapporto tra piano e libertà è ancora tutta da esplorare.
Non possiamo percorrere il lungo filo della riflessione di Marx e dei suoi continuatori su questi temi e in generale sulla “libertà comunista”. Qui preme solo ricordare un punto fondamentale. Nella riflessione marxiana il controllo collettivo della totalità delle forze produttive è condizione per lo sviluppo della totalità delle capacità individuali. La libera espressione dell’individualità si manifesta, in altre parole, solo nella repressione della libertà finanziaria del capitale e nel comunismo pianificatore della tecnica. Vale la pena di aggiungere che questa libera espressione della totalità di capacità individuali attiene alla totalità delle azioni, delle percezioni sensoriali, dell’immaginazione e della creatività in ogni attività umana: dunque non richiama solo la potenza produttiva del lavoro o l’illimitatezza delle possibilità di consumo, ma coinvolge anche lo sviluppo dell’esercizio pedagogico, del gioco, della cura, della sessualità, degli affetti, di quella che con Engels e Kollontaj si potrebbe definire la produzione sociale dell’amore. Anticipando i più recenti sviluppi delle neuroscienze sociali, Marx scrive che i cinque sensi e la sensibilità umana in generale sono vincolate dal rapporto proprietario privato, e possono trovare condizioni di espansione nel suo superamento. Ossia, nel momento in cui il capitale centralizzato si socializza in un piano collettivo, cambia anche il rapporto tra storia e natura umana. Viene infatti raggiunto il limite estremo della legge di riproduzione del tipo umano capitalistico, e si creano quindi le condizioni per la produzione sociale di una nuova umanità, in grado di fare dello sviluppo della materialità corporea e psichica un esercizio ludico complesso, raffinatissimo, liberato. Il Keynes di Bloomsbury l’aveva intuito, arrivando a dare un cenno di fiducia all’esperimento sovietico dei primordi, ancora non stalinizzato, inteso per l’appunto come laboratorio per una nuova forza motrice dell’azione umana (Keynes 1925). Al contrario, Freud ebbe troppa fretta di ridurre erroneamente quello stesso esperimento a una mera celebrazione delle ingenuità antropologiche dell’Emilio rousseauiano (Freud 1930). Gli stessi freud-marxisti sembrano non aver colto tutte le implicazioni potenziali della pianificazione ai fini della liberazione. Nell’indagine sulla nuova umanità liberata dal piano c’è dunque un oggetto scabroso queer, oseremmo dire che è ancora tutto da esplorare. Se non cominceranno presto questa indagine, gli stessi movimenti di emancipazione civile contro il razzismo e le discriminazioni sessuali saranno travolti dalla crisi del liberalismo democratico, che al momento costituisce il loro unico, angusto orizzonte ideologico.
Piano è libertà, dunque, in un senso costruttivo che va ben oltre le semplificazioni del liberalismo sul carattere negativo o positivo delle libertà. Lo si chiami libercomunismo, in senso non liberale ma addirittura libertino, o gli si trovi pure un nome meno capace di épater le bourgeois, fa lo stesso. Quel che conta è indicare la via per l’unica rivoluzione capace, in prospettiva, di scongiurare la catastrofe.
Virus capitale
Nel momento in cui scriviamo, il mondo affronta con strumenti poco più che medievali un virus che in una manciata di mesi ha fatto un milione di morti nel mondo, ha inibito la relazionalità umana più di quanto abbia fatto negli anni la piaga dell’aids, e ha provocato il più repentino tracollo economico nella storia del capitalismo. La pandemia ha fatto precipitare il già fragile quadro economico mondiale in un abisso la cui profondità surclassa la crisi di un decennio fa e può andare persino oltre la grande depressione del secolo scorso. Nel mezzo di una tale voragine la risposta sanitaria ed economica è stata poco più che ordinaria, tra un improvvisato keynesismo dei sussidi e una ricerca contro il virus irrigidita dai diritti di proprietà intellettuale e dall’assenza di accordi di cooperazione scientifica globale. L’invocazione razionale per un «comunismo scientifico nella lotta al virus», abbiamo detto, cade inesorabilmente nel vuoto. Così, tra incertezza sanitaria e ignavia politica, il ritorno al pur modesto sentiero di sviluppo ante-covid appare ormai un miraggio. Le previsioni degli esordi, di una crisi a “forma di v” caratterizzata da un rapido declino e un altrettanto veloce recupero, sono solo uno sbiadito, imbarazzante ricordo.
Questa “crisi totalitaria”, che interviene a tutti i livelli del sistema, è destinata a imprimere una spaventosa accelerazione alla legge di riproduzione e tendenza fin qui descritta. Le cause risiedono nel crollo della domanda effettiva, con una paralisi particolarmente accentuata degli investimenti privati; nel calo di produttività, anche per gli effetti delle regole di distanziamento sociale sui processi di produzione e distribuzione; e in una generale “disorganizzazione dei mercati”, che destabilizza le catene internazionali del valore, crea al contempo sprechi produttivi e problemi di approvvigionamento, e per questa via alimenta il fuoco della speculazione. La solvibilità del sistema, che è alla base delle condizioni di riproduzione, si fa inarrivabile per i capitali più deboli e favorisce così la tendenza alla centralizzazione nelle mani dei capitali più forti. L’orizzonte catastrofico è più vicino. Un’intelligenza collettiva rivoluzionaria è tutta da costruire.
Comments
Questo tipo rischia di "epater" non solo i borghesi ma anche i rivoluzionari di professione. Mi piace!
Premesso che i passi marxiani concernenti la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto che si possono citare sono davvero molti [cfr. la Terza sezione del III libro del “Capitale”, Editori Riuniti, Roma 1968, pp. 259-321, capp. 13° (“La legge in quanto tale”), 14° (“Cause antagonistiche”) e 15° (“Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge”)], e che è puerile pensare che la questione possa essere risolta a colpi di citazioni, conviene innanzitutto distinguere, dal punto di vista metodologico, tre differenti livelli tematici: a) il problema epistemologico; b) il problema economico (ovviamente nel senso della critica dell’economia politica); c) il problema politico. Problema (a): nel “Capitale” Marx adopera due concetti di legge: (a1) legge naturale e (a2) legge tendenziale. Le leggi del tipo (a1) sono necessarie e rendono possibile una previsione rigorosa; le leggi del tipo (a2) sono elaborate sulla base di uniformità ricorrenti, individuabili facendo astrazione dai fenomeni casuali o perturbatori. Fermo restando che il compito dell’economia politica è svelare la legge di natura del movimento di una formazione economico-sociale mediante la costruzione di modelli teorici o, per dirla con Marx, di “tipi generali”, occorre aggiungere che le leggi economiche acquistano piena validità ad un livello di compiuto sviluppo del sistema capitalistico, quando gli elementi perturbatori possono essere assunti come tendenti a zero, e che il concetto di legge tendenziale non è alternativo a quello di legge naturale: le leggi della produzione capitalistica sono infatti “tendenze operanti ed effettuantisi con bronzea necessità”. Sennonché Gramsci, oltre a svolgere nei “Quaderni” osservazioni quanto mai acute sia sul problema (a) che sul problema (b) (cfr. “Quaderni del carcere”, Einaudi, Torino 1975, pp. 1278-1284, 1312-1313), ha esteso il discorso interpretando la nozione di legge tendenziale come un criterio gnoseologico che permette di risolvere il problema del rapporto tra libertà e necessità, e di spiegare la prassi cosciente. Benché lo spunto proposto da Gramsci sia sicuramente pregevole, va anche detto che il concetto di legge tendenziale non era stato elaborato da Marx per spiegare la prassi cosciente, ossia la dimensione di libertà dell’azione umana compatibile con una metodologia fondata sul concetto di legge necessaria; in altri termini, Marx non si è posto il problema della prassi per risolvere il problema dell’agire umano entro un insieme di condizioni, bensì il problema teorico della formulazione di una legge. Pertanto, il concetto di legge tendenziale non è stato elaborato da Marx per spiegare la libertà della prassi, ma per sottolineare il carattere di modello delle astrazioni dell’economia politica, poiché il problema della prassi si configura in Marx (non come problema del rapporto necessità/libertà ma) come problema della elaborazione di uno strumento di verificazione della teoria (cfr. "Tesi su Feuerbach"). Problema (b): è evidente che il tema della caduta tendenziale del saggio di profitto si impone, oggi più che mai e nel contesto dell’imperialismo contemporaneo, come fenomeno intrinseco all’ultima crisi mondiale del capitalismo finanziario, talché si pone la necessità di ripristinare il suo posto centrale nella critica marxiana del sistema capitalistico. Troppo spesso e troppo frequentemente questa legge teorica cosi importante nell’analisi marxiana delle contraddizioni del capitale è stata considerata erronea o superata dai sostenitori del socialismo non proletario, avversari irriducibili del socialismo scientifico. Eppure lo stesso Marx sottolinea che “la progressiva tendenza alla diminuzione del saggio generale del profitto è solo un’espressione peculiare al modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro”, tanto che si può affermare che, nonostante “la grande importanza che questa legge ha per la produzione capitalistica”, essa costituisce il mistero a svelare il quale tutta l’economia politica si è adoperata dal tempo di Adam Smith”. Il problema cruciale che emerge da questa elaborazione è allora quello di definire in modo corretto la composizione del capitale, collegando tale problema a quello del saggio di plusvalore. In una fase di profondo rivoluzionamento delle forze produttive, quale è quella attuale, la definizione della composizione del capitale sia sul versante dell’organizzazione del lavoro sia su quello del capitale fisso (macchine e automazione) mostra infatti tutta la sua centralità, a partire dalla sua base materiale (tecnica) per giungere a quella sociale e di valore (organica). In conclusione, se il fenomeno della “caduta tendenziale” ha un’evidenza empirica e quanto mai tangibile (si pensi alla svalorizzazione del capitale esistente, ai fallimenti, all’aumento della concorrenza sul mercato mondiale, anche tra monopoli, alle concentrazioni e alle centralizzazioni finanziarie ecc.), non altrettanto evidenti e convergenti risultano le relative spiegazioni economiche. Ciò spiega perché ancora una volta si riproponga il problema relativo alla determinazione della “composizione del capitale”. Problema (c): mi sia consentito rinviare ai commenti che ho svolto in precedenza riguardo ai temi del nesso tra concentrazione/centralizzazione del capitale e fascistizzazione, centralità del lavoro salariato e della classe operaia, necessità della lotta contro il moderno revisionismo per l’affermazione dell’egemonia marxista e la costruzione del partito comunista.
Il problema non sono le condizioni e criteri per organizzare una improponibile rivoluzione contro chicchessia ma lo standard delle rappresentazioni del del capitalismo (che è un fenomeno con una logica di funzionamento oggettiva non dipendente da credenze o sensibilità morali soggettive) di chi si dice di sinistra e conoscitore di Marx, standard che da lungo tempo è scivolato verso Lucas e la pseudometafisica neoclassica. In linguaggio gramsciano è venuta meno una grammatica differenziante.
Se la sinistra opta per Lucas e fantasiosi e psichiatrici dsge models va benissimo basta dirlo, così ogni immaginifica e comica lotta si spiegherebbe pure e troverebbe la sua giustificazione teoretica.
Riguardo al capitalismo del fittizio non significa che per l'equivoco fraintendimento del dare il nome sia assiomaticamente vaporoso e immateriale: vuol dire, specie a partire dal 2007-08, che è evoluto nelle sue concrete modalità di operare, accumulare e sfruttare, e che la massa di esclusi è destinata a aumentare. Tra gli aspetti qualificanti principali vi sono gli effetti e modi di assorbimento del progresso tecnico, il ruolo della banca centrale, della moneta fittizia e capitale fittizio, dei derivati e della ricerca e estrazione di rendite, in un contesto di istituzionalizzata carenza di domanda effettiva.
Infine per quanto concerne la "sussunzione" degli sfruttati nella logica del feticismo della merce ciò non rappresenta un fatto ignoto e ignorato. L'ultimo C. Napoleoni per esempio, uno dei pochi a non fare il salto della quaglia, scrisse parecchio in proposito. Tuttavia la differenza tra sfruttatori e sfruttati e di classe è sostanziale e irriducibile e il tentativo di mettere tutti sulla stessa barca è sempre una mistificazione.
In definitiva si tratta di vedere quanto la sinistra o sedicente tale capisca del capitalismo contemporaneo e che parabola voglia raccontare agli sfruttati.
Il titolista fa un grosso disservizio al Papa il cui contenuto di pensiero espresso nell'occasione non ha nulla a che vedere con tale catastrofica invenzione declamata. E per inciso la pandemia a cui fa soprattutto riferimento non è neppure quella scontata, né, volendo, la formulazione teologica usata in alcuni passi è estranea alla teologia di Marx .
È il titolo de L’osservatore romano di stamani 17 ottobre 2020. Gli studiosi di una delle maggiori comunità mondiali, come la Chiesa di Roma, non amano sprecare le parole come certi commentatori di sinistrainrete che, atterriti dalla catastrofe imminente, si rifugiano negli anfratti pseudo filosofici per non vedere o negare l’evidenza. Un patto globale contro la catastrofe dice la Chiesa di Roma.
Ora, il paradosso di questa fase storica consiste in questo: quelli che fin dal 1848 parlavano del capitalismo come di un sistema di sfruttamento e di oppressione da abbattere e da rivoluzionare, mentre la Chiesa di Roma che ha contribuito in modo anche infame a svilupparlo e cavalcarlo, oggi lancia l’allarme per un Patto globale, perché teme che la catastrofe possa mettere in discussione in modo definitivo l’attuale modo di produzione, e dunque la sua stessa esistenza come antica comunità umana.
Di fronte a un evento di portata storica, come il coronavirus, l’uomo, ovvero l’animale “intelligente” e “pensante”, sbanda paurosamente e non sa che fare di fronte a quello che lui ha contribuito a sviluppare attraverso il suo sistema produttivo. E la sinistra, una certa sinistra, quella più intellettuale, cioè i “pensatori”, non riescono a fare altro che ribellarsi alle misure deluchiane perché priverebbero della libertà individuale le persone.
O poveri voi! Ma dove vivete? E da quando esisterebbe la libertà individuale? Da quando l’uomo occidentale si è inebriato che con l’attuale modo di produzione avrebbe dominato la natura e garantito la piena libertà agli individui. Poveri di spirito e meschini pensatori! E da quale strano pianeta sarebbe arrivato il cvoronavirus? Ma come: voi che avete criticato tanto la Chiesa di Roma, oggi mettete la testa nella siepe per non vedere e vi nascondete di fronte all’incedere della catastrofe mentre un gesuita chiama a un patto globale per affrontarla? Che il dio luogo-tempo abbia misericordia di voi.
Ma come: avete fatto i grilli parlanti per tanti anni e al dunque vi dileguate in miserabili pessimismi? E da quando in qua il pensiero e la coscienza per la rivoluzione sarebbero nati prima dell’azione?
No cari signori, non funziona così. L’articolo di Brancaccio, indipendentemente dalle intenzioni e dalle contraddizioni, pone una questione: c’è un processo oggettivo in atto. È necessario prendere innanzitutto atto della sua esistenza come linea di tendenza e ragionare su cosa è possibile fare.
Chi non vuole fare niente, è libero, mò ci vuole di non fare. Ma mai come in certe circostanze il silenzio è d’oro!
Michele Castaldo
Questo saggio comunque sostiene una posizione nuova: se l'abbiamo capito bene dice che la legge di centralizzazione muove al di là della legge di caduta del profitto, e dice che la centralizzazione scassa il sistema liberaldemocratico prima che il profitto vada a zero. Non è una tesi simpatica, è molto meno comoda di quelle che vanno per la maggiore tra i residuati bellici del marxismo. Ma a noi piace per questo. Perchè chiama alla lotta.
Quelli di Redblock
garantiti dalla Costituzione (cfr. il famoso articolo 3). A questo proposito, Marx chiarisce che "tra due pari diritti, decide la forza". Lenin, dal canto suo, ha chiarito che i socialisti nel mondo possono essere divisi in due grandi categorie: coloro che accettano la teoria marxista della lotta di classe, la funzione di guida della classe operaia e la dittatura del proletariato, e coloro che negano tutto ciò. Queste due concezioni del socialismo possono essere definite, in base alla terminologia leninista, "socialismo proletario" e "socialismo non proletario". Nel nostro paese, ad esempio, l'anno 1956 segnò, con la cosiddetta “via italiana al socialismo”, la divisione tra i sostenitori del socialismo proletario e i sostenitori del socialismo non proletario. Recentemente, come si può rilevare anche in questo sito, la letteratura comunista è sommersa da un'ondata di scritti di accademici marxisti. Costoro propongono riflessioni più o meno approfondite sul marxismo e la sua rilevanza per il ventunesimo secolo. Sennonché si può notare che evitano di affrontare due argomenti importanti che dividono il giovane Marx dal Marx della maturità, vale a dire la caduta del saggio di profitto e la dittatura del proletariato. Che dire? Per chi vuole evitare di discutere (o anche tentar di esorcizzare) la teoria e la pratica della dittatura del proletariato, il giovane Marx fornisce ottimi spunti, così come risulta congeniale per coloro che, simili a struzzi, desiderano ignorare il fenomeno, perfettamente osservabile e documentabile, del calo del saggio medio di profitto. Questo è però un grave danno per le prospettive di difesa e di ripresa della classe operaia. La classe operaia rivoluzionaria è, infatti, il sale della terra e il sapore di questa sostanza ci dà il vero marxismo. Citando allora quello che Engels una volta ha chiamato “il nostro vecchio amico Gesù Cristo”, sarà lecito formulare, rivolta ai comunisti, la cruciale domanda che nel discorso delle Beatitudini il Messia rivolse ai suoi seguaci: "Ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente” (Matteo, 5-13).
[Michele C.]
Per contrastare la supposta tendenza alla catastrofe ci vorrebbe un partito, una ideologia e la capacità di una efficace rappresentazione del mondo che faccia presa sulle classi sociali inferiori, ma niente di ciò esiste e probabilmente dopo l'epopea della sinistra degli opportunisti che hanno svolto il ruolo di maggiordomi del grande capitale finanziario e parassitario e hanno propinato mitologie anestetizzanti a simpatizzanti e votanti dovrà passare almeno una generazione prima che riacquistino un poco di credibilità. Oggi si è alla situazione grottesca che solo il partito della Lega in parte scontenta la classe dominante, tutti gli altri sono patetiche marionette. Questa sarebbe la catastrofe vera.
Quanto ai profeti di sventura sono sempre numerosi e di norma figure riciclate alla Vanna Marchi con una qualche merce avariata da vendere. Si spazia dai terroristi del debito (l'inebetimento è tale oggi che non si capisce che a tasso zero il debito non è altro che moneta e che se lasciato decantare nella banca centrale a scadenza sparirà nel nulla) che per conto degii interessi dei creditori fatturano vendendo paure e incubi agli sprovveduti delle classi sociali inferiori perché questi non sviluppino pornografici pensieri, ai necessitati venditori di libri e ai censuratori della banca centrale e fanatici da manicomio del gold standard animati dall'apostolato della restaurazione della solida moneta e armonia intanto che operano nel business della vendita dell'oro.
Il vaporoso con il francese catastrofico si limita a informare il vasto pubblico della sinistra che contrariamente alle mitologie divulgate a lungo il capitalismo non è libero mercato. Chi minimamente conoscesse i classici lo sa già tempo e non si spaventa della catastrofica caduta di uno slogan. E se poi esagerasse e avesse una minima frequentazione di Marx piuttosto si stupirebbe che in un sistema basato sullo sfruttamento, razzismo e menzogna le classi inferiori aderiscano alquanto spontaneamente alla falsa coscienza e al politically correct loro venduto.
Marx era o almeno si sforzava di non essere molto pessimista davanti a eventuali crisi e soprattutto al futuro (che non poteva non avere un senso), perché da teologo scorgeva l'azione implacabile di due vertenti, della dinamica sociale e di quella teologica dell'incarnazione che progressivamente di determinazione in determinazionoe avrebbero tracciato rivoluzionarie configurazioni di ordine spirituale superiore.
Keynes invece da materialista divenne pessimista, il capitalismo forse è incompatibile con redditi elevati per la maggioranza della popolazione e in ogni modo diventa altamente instabile quando raggiungesse un reddito più elevato.
La classe dominante catastroficamente spaventata negli anni 70 dalla crescita capitalistica e dalle rivoluzioni sociali che si portò dietro invece di progettare una compatibile e democratica configurazione politica optò per una riduzione della democrazia e crescita e per la restaurazione di un potere volto al medioevo, con le classi sociali inferiori apparentemente più controllabili se riavvicinate a una condizione ricardiana. . Perciò aggiunse radicalità o rese insanabile una contraddizione e tabù del capitalismo che dinnanzi allo sviluppo e al progresso tecnico senza una programmata azione politica sul tasso di accumulazione e crescita e sul tasso di salario innesca forze recessive sul reddito.
Quanto agli eventi critici troppo annunciati si dovrebbe nutrire qualche dubbio, come dicono le scritture, "For yourselves know perfectly that the day of the Lord so cometh as a thief in the night." (1Thessalonians 5:2, KJV) .
Sul fatto che ci voglia un partito, mi sembra ovvio e non penso che significhi cadere nel settarismo o nell'autoreferenzialità. L'idea che il "movimento" abbatta lo stato di cose presenti senza il "partito", l'abbiamo assecondata fin troppo. "Liberiamoci" anche di quella.
Pongo rimedio ad una incresciosa omissione riguardante un'altra tappa fondamentale della mia formazione marxista: Gyorgy Lukàcs (il rapporto tra Hegel e Marx e la categoria di totalità).
In effetti, il pensiero di Galvano Della Volpe (teoria delle astrazioni determinate) e di Louis Althusser (il concetto di rottura epistemologica) hanno costituito due tappe fondamentali della mia formazione marxista. Ho appreso poi molto, nell’àmbito dell’ortodossia, sia dalla tradizione classica – Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Zedong – sia da quella italiana – Labriola, Gramsci e Togliatti - , Ma altrettanto fondamentale è stata la militanza nel movimento operaio e comunista, che mi ha permesso di verificare quanto sia importante, per affermare l’egemonia marxista, la lotta contro il moderno revisionismo. ‘Salut et fraternité’.
euro-americano, l'equazione "fascismo = comunismo"). Tale opera si fonda interamente sulla rimozione, portata avanti con successo dalle forze opportuniste per decenni e decenni, della consapevolezza delle radici di classe del fascismo e dell'antifascismo e quindi del contenuto di trasformazione radicale dell'ordinamento sociale che quest'ultimo, se sincero e conseguente, assume in tutto il mondo ma, in particolare, in Italia. Il secondo errore è invece quello di ricercare negli avvenimenti attuali i tratti salienti del processo che condusse storicamente all’avvento del fascismo, sempre limitandosi ad accostamenti tra le caratteristiche esteriori dei due fenomeni che, evidentemente, sono solo in parte coincidenti. La verità è che il processo di fascistizzazione si fa di giorno in giorno più evidente, più opprimente e più capillare, e chiunque abbia una certa sensibilità ne avverte già da molto tempo la stretta. Se confrontiamo infatti la situazione della prima metà del XX secolo con la situazione attuale, risulta palese il tratto comune costituito dalla crisi strutturale del capitalismo. Il secondo elemento, però, e cioè un’alternativa rivoluzionaria in atto, è sostanzialmente assente. Inoltre, la crisi del capitalismo si produce oggi nel contesto generato da un altro evento epocale, di segno opposto a quello rappresentato dalla rivoluzione d’Ottobre: l’abbattimento del vallo antifascista di Berlino e la fine del campo socialista, cioè la vittoria della controrivoluzione. E però questa particolare situazione, in cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è nemmeno in gestazione per assenza di antagonismo politico organizzato e diretto da finalità rivoluzionarie, dà luogo al fenomeno della “putrefazione dei processi storici”, di cui la fascistizzazione delle relazioni sociali è il frutto. Questa sommaria ricognizione ha quindi permesso di porre in luce due elementi, la crisi strutturale del capitalismo e l’assenza di antagonismo organizzato, l’uno dei quali è convergente e l’altro è radicalmente divergente rispetto alla congiuntura storica che produsse storicamente il fascismo. Da ciò si ricava una prima conclusione: l’unica minaccia immediata che incombe sul capitalismo contemporaneo sono i suoi stessi limiti strutturali e le conseguenze che il loro manifestarsi comporta (così come indicato nell'articolo di Brancaccio). E' quindi opportuno sottolineare che un fenomeno di acuta reazione, nella metropoli imperialista del nostro tempo, necessariamente erediterà la lezione del fascismo storico, ma non la riprodurrà, quanto meno nei suoi aspetti apertamente dittatoriali, se non in presenza di una soggettività politica capace di minacciare il dominio della borghesia monopolista. D’altra parte, casi quali quello dell'Ungheria di Orbán, della Polonia, dei paesi baltici e dell’Ucraina dimostrano come il tipo di potere autoritario che serve oggi al capitalismo, se ha bisogno di limitare, perseguire o proscrivere l'attività delle forze comuniste, non ha però bisogno di mettere in discussione apertamente le caratteristiche esteriori della democrazia liberale, ad esempio il multipartitismo. Insomma, il fenomeno della fascistizzazione non si realizzerà, nella metropoli imperialista contemporanea, se non entro i confini dettati dalle compatibilità tra i regimi politici nazionali e il controllo economico e burocratico da parte delle istituzioni sovrannazionali e, in buona sostanza, dei vertici della piramide imperialista. Permanendo l’assenza di antagonismo politico e sociale soggettivamente organizzato, la borghesia è dunque libera di perseguire i propri interessi di classe dominante e di fornire alla crisi economica la propria risposta, che nella presente fase storica si identifica con la svalorizzazione delle forze produttive e l’accelerazione, imposta dai monopoli, dei processi di concentrazione e/o centralizzazione del capitale.
Il nodo non riguardava e non riguarda le giravolte intorno al concetto di democrazia, la libertà e ancor meno potrebbe riguardare una discussione sulla violenza.
Ora è vero che Brancaccio nel suo scritto pone la questione della democrazia o della libertà sapendo che abbiamo alle spalle una sorta di zavorra su due fatti di estremo rilievo come lo scioglimento dell'Assemblea costituente in Urss, dal bolscevismo leninista; e la Collettivizzazione delle campagne, operata dal bolscevismo stalinista.
Si tratta di un punto di vista che tratta della democrazia e della libertà dal versante occidentale e occidentalista. Eppure la schiavitù nel più democratico e liberale paese al mondo, gli Usa, è stata ben altra cosa, ed è durata molto ma molto di più. Eppure si tira sempre in ballo l'Urss e i paesi dell'Est europeo o latinoamericani che avrebbero limitato i diritti democratici o le libertà.
Di fronte al presunto scheletro nell'armadio viene del tutto naturale mettere le mani avanti e dimostrare intenzioni diverse da quanto fatto in nome e per conto del comunismo per chiunque voglia parlare in modo serio di superamento dell'attuale modo di produzione. Succede anche a Brancaccio costretto a fare salti mortali principisti senza la possibilità di venirne a capo perché parlare astrattamente di un problema così complicato è arte da bar dell'ideologia.
Cerchiamo perciò di stare al tema.
La questione che si pone in QUESTA FASE storica, dunque non in astratto, comunque e sempre, ma sul piano della concretezza è: a che punto del suo percorso storico è il moto-modo di produzione capitalistico?
Nel leggere Brancaccio in questo articolo si nota - e non credo messo lì per caso - che usa continuamente l'espressione MOTO riferendosi a tutte le questioni che riguardano la natura della crisi attuale del capitalismo riferendosi continuamente alla riproduzione.
Altrimenti detto: siamo in una fase di espansione del modo di produzione e dell'accumulazione, come per esempio lo si era nel 1918 durante l'Influenza spagnola oppure il moto di produzione ha compiuto tutto il suo percorso possibile e si comincia ad accartocciare sub sé stesso. Così va posta la questione.
Ora, non a detta del catastrofista Castaldo, ma di scrittori e ricercatori - ne cito uno soltanto: Massimo Gaggi parlano di Crack America - che definiscono l'attuale crisi generale dei valori occidentali, per non dire del capitalismo come Sistema storico. E tutti gli indicatori segnalano una tendenza generale al caos.
Brancaccio parte da questa visione, centrando la questione del ceto medio e del suo livello di impoverimento e di conflittualità con la cima dell'establishment, e traccia una ipotesi di tendenza verso la catastrofe. Lui non fa niente di particolare, non scopre niente, prende atto di una tendenza che è oggettiva e reale e cerca di delineare un punto di vista contro di essa in difesa di valori opposti a quelli che ci stanno accompagnando verso un futuro catastrofico.
Lo farà anche in modo contraddittorio, ma è il cuore del suo ragionamento da prendere in considerazione o meno.
La stranezza dei ragionamenti all'interno dell'insieme della sinistra, di tutta la sinistra, consiste nel fatto che si guarda indietro, A QUANDO cioè il MOTO-MODO di produzione capitalistico cresceva e la nostra tendenza ideale si arrampicava sugli specchi per disarcionare da cavallo la classe al potere, senza capire che quella classe veniva prodotta da un modo di produzione ascendente, che cresceva a macchia d'olio, mentre oggi quello stesso movimento che è cresciuto per circa 500 anni è allo sbando, viaggia verso il caos, non ha più niente da proporre e, innanzitutto, NON entusiasma più, e in modo particolare lì, nella patria della "democrazia" e della "libertà". Altrimenti detto: l'uomo capitalistico si è comportato come l'apprendista stregone ha suscitato forze che lo stanno portando alla rovina. Basta guardarsi intorno per capirlo.
Vien da chiedersi: MA cari compagni DOVE VIVETE? Se negli Usa si comincia a criticare la meritocrazia per i guasti che ha prodotto [vedi il libro La Tirannia del merito che sta scatenando un dibattito abbastanza acceso] allargando troppo la forbice tra la cima della montagna e lo stesso ceto medio che diviene così una serpe in seno allevata da questo modo di produzione.
Brancaccio non fa altro che cercare di riflettere sui fatti.
Ora, è vero che in un mondo di illusi essere realisti è una illusione. Ma c'è un limite a tutto. Smettiamola di parlarci allo specchio, osserviamo la realtà, cerchiamo di capire in che senso marcia.
Il limite dell'articolo di Brancaccio è un limite oggettivo, perché non si intravede ancora come controtendenza un movimento reale, il famoso soggetto, in grado di evitare il corso obbligato della storia. Ma lui pone una necessità, quella di contrastare la tendenza della catastrofe. Lui si comporta come Plechanov che rivolgendosi agli intellettuali dell'epoca, in Russia, che si sottraevano a un impegno in direzione della rivoluzione diceva: ma se voi ammettete che si va verso una fase rivoluzionaria e non lavorate per essa, essa si darà in modo ridotto da come dovrebbe o non si darà affatto.
Ecco, Plechanov sollecitava non solo a saper intravedere una linea di tendenza verso la rivoluzione, ma anche ad AGIRE per rafforzarla.
Sicché mi suona piuttosto strano che di fronte a un saggio che parte dai fatti e invita a organizzarsi contro una tendenza reale in atto, si CINCISCHI. Strano, molto strano.
Michele Castaldo
Eros Barone, sono d'accordo con te sulla distinzione tra il 'giovane' Marx e il 'vecchio' Marx. Che poi è la distinzione su cui si basa Althusser, che Brancaccio conosce bene e usa ampiamente. Anzi, spero che non si offenda se lo definisco un "althusseriano", anche se originale. Proprio per questo anche io sono sorpreso dall'uso che Brancaccio fa di alcuni passi del 'giovane' Marx, che fino ad ora che io sappia aveva sempre evitato. A differenza tua, però, penso che questa sia una novità interessante e non necessariamente un'aporia. Cioè, se un althusseriano che ben conosce la "rottura epistemologica" tra il vecchio e il giovane Marx inizia anche a lavorare sul collegamento tra i due, forse ha qualcosa di nuovo da dire. Io ho sempre stimato Althusser ma ho pure pensato che del 'giovane' Marx non si dovesse buttare il bambino con l'acqua sporca. Forse Brancaccio la pensa allo stesso modo. Un saluto
Sulla base della categoria della riproduzione e della tendenza e della parola categoriale catastrofe di Olivier Blanchard, uno che per inciso se fosse stato preso sul serio quando occupava determinate posizioni avrebbe fatto perdere anche le mutande, viene delineato un fosco quadro del capitalismo contemporaneo. E va ancora bene che la parola venne pronunciata prima di eventi più terribili, altrimenti si evince che da catastrofe si sarebbe passati a supercatastrofe prossima ventura e Michele C avrebbe condiviso in modo ancora più entusiastico, rivoluzione spirituale e rivoluzione della pianificazione collettivista umanista sembrano incontrarsi nella ineluttabile supercatastrofe e fine del mondo.
Perciò preso atto dell'inesorabile destino polarizzante e uniformizzante e del precipizio catastrofico dietro l'angolo le classi subalterne devono prepararsi alla rivoluzione nella versione della pianificazione collettivista umanista e liberante.
La classe dominante, che è per natura pragmaticamente attaccata al potere e prosaicamente dedita alla valorizzazione del capitale e del denaro, e che come disse Marx (e a suo modo anche Adam Smith) rappresenta i primi comunisti, non ha invece mai perso di vista la propria pianificazione, che per esempio ha utilizzato per promuovere la pseudometafisica e antiscienza neoclassica da destinarsi agli altri, ai poveri di spirito e alla lobotomizzazione e indottrinamento delle classi inferiori. Così come non ha esitato, e non è poca cosa, nonostante lo sminuire del nostro, a usare la banca centrale come architrave del sopraggiunto capitalismo del fittizio, per affrontare gli effetti di un notevole progresso tecnologico, che non ha toccato i salari dei sottomessi, e possibili catastrofi.
La questione della pianificazione come elemento di gestione del capitalismo non è neppure più così estranea ai lettori non proletari del FT e NYT, giornali che danno spazio alla Marianna Mazzucato per spiegare le sue ambiziose teorie o intuizioni sul capitalismo e valore. Sembra pertanto che anche i proletari debbano riaggiornarsi e riqualificare i concetti di capitalismo e rivoluzione per essere all'altezza della supercatastrofe. Si parte da zero o sottozero dopo che i comunisti (non primi) scelsero il neoliberismo e il Lucas e pure il Blanchard pentito portatore di catastrofe.
Keynes resta un referente, all'opposto dei sopra citati era diventato un sofferto e disincantato stalinista.
socialismo/comunismo si costruisce non accantonando come utopismo gli obiettivi ultimi, ma inserendoli entro l’àmbito di un’analisi strutturale delle situazioni concrete, che è poi il grande insegnamento della critica marxiana dell’economia politica. Considerato sotto questo profilo il pensiero di Marx rivela una netta differenza tra il periodo giovanile e il periodo della maturità, sebbene mostri anche un elemento di continuità. La differenza si fa evidente nel momento in cui il giovane Marx teorizza la riappropriazione della ricchezza sociale alienata a partire dalle facoltà soggettive degli individui, laddove la ricchezza deve essere consumata in tale forma. Brancaccio sembra sottoscrivere l’impostazione giovane-marxiana allorché afferma che, per l’appunto, “nella riflessione marxiana il controllo collettivo della totalità delle forze produttive è condizione per lo sviluppo della totalità delle capacità individuali”. In realtà, il Marx maturo non teorizza più l’integrale consumo della ricchezza sociale alienata in questa forma soggettiva, ma configura teoricamente il capitale costante come “seconda natura” e come corpo organico sociale. Dal canto suo, il soggetto sociale ricostituisce l’unità con la natura nel ricambio organico, non consumandola e riassorbendola attraverso le (e in funzione delle) proprie facoltà, ma al contrario perpetuandola e regolandola razionalmente. Correggendo l’ottica soggettivistica secondo cui viene declinato il tema del rapporto tra piano e libertà, posto da Brancaccio e ripreso in alcuni commenti, è opportuno quindi sottolineare che in questa più matura accezione la libertà non è il riassorbimento del mondo oggettivo, ma invece il controllo razionale del ricambio organico tra l’uomo e la natura (sia ‘prima’ che ‘seconda’) e l’uso sociale del pluslavoro. L’elemento di continuità fra il periodo giovanile e quello maturo del pensiero di Marx sta allora nel permanere di una problematica del soggetto; il punto di rottura sta invece nella consapevolezza che la libertà non si costruisce a spese del mondo oggettivo.
continua a guardare il dito... ma non mi attribuire censure che non ho mai fatto, continua a far finta di non capire che è l'impianto che fa acqua, soprattutto tieniti gli insulti per te, visto che sei partito sin da subito con lo sfogatoio e, per par condicio col nome anglofono,
конец связи!
paolo
P.S. @Paolo Selmi, secondo me hai letto un altro articolo. La tua polemica sull'uso della parola "libertà" è semplicemente ridicola (un "cincischiare", come ha ben detto Castaldo). Brancaccio richiama esplicitamente la sconfinata letteratura marxista per chiarire che col termine "libertà" qui si riferisce al legame tra controllo collettivo della totalità delle tecniche di produzione e sviluppo della totalità delle capacità individuali. Questa concezione della "libertà" viene dai Manoscritti, dai Grundrisse e da LENIN. E' una concezione nemica della "libertà del capitale" e slaccia il termine dalle mistificazioni borghesi. Poi lui usa anche "liberazione", che tu preferisci, ma se con questo tu vuoi mettere una censura all'uso della parola "libertà" vuol dire che non capisci né di lotta teorica né di lotta politica.
Tutto il resto è noi ideologica.
Questa “crisi totalitaria”, che interviene a tutti i livelli del sistema, è destinata a imprimere una spaventosa accelerazione alla legge di riproduzione e tendenza fin qui descritta. Le cause risiedono nel crollo della domanda effettiva, con una paralisi particolarmente accentuata degli investimenti privati; nel calo di produttività, anche per gli effetti delle regole di distanziamento sociale sui processi di produzione e distribuzione; e in una generale “disorganizzazione dei mercati”, che destabilizza le catene internazionali del valore, crea al contempo sprechi produttivi e problemi di approvvigionamento, e per questa via alimenta il fuoco della speculazione. La solvibilità del sistema, che è alla base delle condizioni di riproduzione, si fa inarrivabile per i capitali più deboli e favorisce così la tendenza alla centralizzazione nelle mani dei capitali più forti. L’orizzonte catastrofico è più vicino. Un’intelligenza collettiva rivoluzionaria è tutta da costruire.
Michele Castaldo
Primo: libertà per me è un risultato di un processo che si chiama liberazione. Dire piano è libertà è come dire pianto un melo e mangio la mela.
Secondo: qui si parla di "libertà individuali" intese come tu le intendi qui, in questo bel miliardo di esseri antropomorfi che si incazzano se altri cinque vogliono vivere come loro. Se riesci a convincerli tutti e cinque che sia giusto così... porterai anche la pace nel mondo, così farai anche opera meritoria. In bocca al lupo.
In altre parole, io sono convinto che non ci sia nulla da "mondare" a livello di FONDAMENTA. TECNOLOGIA quanto vuoi, all'epoca si lavorava su elaboratori a schede perforate che occupavano palazzi; LOGICHE anche, E SOPRATTUTTO, a mio modesto parere. Qualcosa a questo proposito ero arrivato anche a toccare nel lavoro sull'emulazione socialista (a ciascuno le sue letture... a me piace di più il cirillico, cosa vuoi, son peccatore e mi piace perserverare nel peccato) che puoi continuare bellamente a ignorare: per esempio l'identità fra PRODUTTORE e CONSUMATORE che porta a un livello superiore di partecipazione e coinvolgimento COLLETTIVI, eliminando alcune distorsioni nel processo di pianificazione e, ancor prima, di progettazione e ingegnerizzazione di un bene o servizio. In altre parole, ANCH'IO SONO GOSPLAN PERCHE' TUTTI SIAMO GOSPLAN: questo in prospettiva dovrebbe essere l'obbiettivo da raggiungere. Ma non lo puoi fare se non c'è proprietà sociale dei mezzi di produzione e conduzione pianificata degli stessi, controllo totale di salari, prezzi franco fabbrica e prezzi al dettagli.
Vsego dobrogo, tovarisch! I schastivogo puti!
Paolo
@Alfonso, se io adesso scrivo che sei un incompetente mica questo significa che io e te siamo amici.
P.S. Paolo Selmi, mi sa che non hai capito niente. Rileggi con più attenzione e impara a comprendere che le parole sono pezzi di lotta teorica e politica. Tu in pratica dici che "libertà" è un'espressione che va tranquillamente lasciata alle mistificazioni borghesi. Sei di un'ingenuità disarmante. E leggi almeno Della Volpe, che Brancaccio usa anche senza citarlo.
intervengo a parziale integrazione di questi primi cinque interventi che, ciascuno dal suo punto di vista, mi trovano concorde.
Ha ragione Kugelmann, alla fine è un "gioco a provocare", come se ne leggono su Micromega, sull'Huffington Post e sul Fatto. Alla fine c'è "l'angolo del provocatore"... innocuo e quindi apparentemente disallineato q.b., come si dice nelle ricette di cucina, non dico per non far saltare l'impianto complessivo, ma neanche per non metterlo in discussione. Aspetto messo in evidenza in maniera veramente esemplare da Alfonso, con gli amici di Brancs.
Eros e Carlo smontate alle fondamenta i "distinguo" di Brancs e lo riportate all'ovile, ed è giusto così, perché se questo capitalismo in crisi qualcosa ha di TURBO, è proprio la concentrazione, l'espansione, l'esportazione del grande capitale. A questo proposito, purtroppo nell'alfabeto di Cirillo, è appena uscito un lavoro del buon Katasonov sull'impatto MONDIALE che potrebbe avere la nuova "cifrovaljuta", ovvero lo Yuan digitale cinese (Yuan Chain Coin (YCC) )
https://www.fondsk.ru/news/2020/10/08/mozhet-li-cifrovoj-juan-pomenjat-mirovoj-valutnyj-porjadok-52009.html
Giusto per dare un'idea, la BCC ne ha appena messi in circolo 10 milioni (1 milione e 250 mila euro c.a.) come "esperimento pilota"... tramite lotteria.
https://news.bitcoin.com/digital-yuan-giveaway-10-million-central-bank-digital-currency/
"La legge punisce gli spacciatori e i fabbricatori di biglietti falsi"... ciao!
Giusto per dire dove questa crisi ci sta ANCHE portando.
Francesco, come me del resto, sei rimasto colpito da "Piano è libertà". Bello, ma non vero. Piano non è "libertà", piano è LIBERAZIONE. E non sto qui a fare il contropippotto su cosa implica il primo termine e il secondo. Dice tutto Brancs.
"Come la si monda dalle lacrime e dal sangue del passato? "
Ma, caro Brancs, se volevi trovare spazio per l'ennesima arrampicata sugli specchi, ovvero, "cimentarsi in un esercizio di sintesi tra la pianificazione collettiva e un concetto solo in apparenza antagonistico: la libertà individuale", quindi lasciare a ciascuno l'illusione di fare ciò che vuole mentre qualcuno decide per te cosa fare in un'ennesima variante del modo di produzione attuale, basta dirlo.
Perché altrimenti ci sono alcuni problemi da risolvere. I russi hanno il brutto vizio di non coniare parole nuove, quindi "norma pribyli" (Норма прибыли) voleva dire sia saggio di profitto, che quota di utile in un'economia a proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione e conduzione pianificata degli stessi.
A me interessa la seconda, ora. Abbiamo conquistato il palazzo d'Inverno, nazionalizzato tutte le fabbriche, campi e officine, oltre che le banche. Possiamo fare quello che vogliamo. Possiamo, non "posso" io... Utilizziamo la legge del valore data dal lavoro contenuto in ciascun pezzo prodotto. Aggiustiamo il tutto con coefficienti atti a equilibrare la situazione fra fabbriche più meccanizzate, fra fonderie con accanto un fiume e altre dove invece l'acqua è trasportata tramite acquedotto con relativi costi, ecc. Abbiamo un quadro completo, una fotografia abbastanza accurata dell'esistente. Il prezzo finale di ogni bene o servizio è, in ultima analisi, dato dalla legge del valore più un coefficiente che REGOLA la RIPRODUZIONE AMPLIATA secondo quanto VOGLIAMO SIA AMPLIATA. Per esempio, possiamo dare dei margini minimi a un bene o servizio essenziale, e ampliarli per la vodka e il tabacco. IL BOCCINO IN MANO lo abbiamo noi. NOI. Non è libertà individuale come la intende Brancs. E' liberazione, processo consapevole di impiego di tutte le leve economiche e sociali da parte di una classe e, in ultima istanza, di un popolo che libera sé stesso. Geologi, glaciologi che misurano l'arretramento dei ghiacciai, non saranno più guardati come bestie strane, ma avranno voce in capitolo. E pazienza se il sciur Brambilla (mi scusino tutti i Brambilla) non potrà fare proprio TUTTO ciò che vuole... tipo comprarsi un duemila di cilindrata con un motorino elettrico che gli da 50 km di autonomia per fare finta di fare "green economy"...
Scappo al timbro. Buona giornata a tutti.
Paolo
q = p x b ; ad esempio se in un paese lo stock di capitale accumulato (o “patrimonio”) equivale a 6 annualità di reddito complessivo, cioè b = 600%, e il saggio di profitto medio p espresso come percentuale sul valore di capitale annuo investito vale 5%, allora la quota di capitale nel reddito nazionale annuo è del 30%, cioè q = 30% ; per determinare il saggio di profitto p (o “rendimento”) dividiamo la quota di capitale nel reddito complessivo nazionale annuale per il patrimonio (stock di capitale) presente al momento dato, e abbiamo p= q/ b cioè il 5% con i valori usati sopra.
Se ad esempio il patrimonio pro capite è di 180.000 €, essendo nei volumi presi a esempio 6 volte il reddito complessivo annuale del paese, vuol dire che il reddito pro capite annuo è in media di 30.000 €, di cui 21.000 € sono reddito da lavoro e 9.000 € reddito da capitale (30% sui 30.000 € complessivi, cioè q), da cui si ricava che il reddito da capitale annuale pro capite a 9.000 € sui 180.000 € (le 6 annualità) rappresenta il saggio medio annuo di profitto p, che nel nostro esempio equivale al 5% . Tuttavia con p= q/ b si arriva al saggio di profitto in modo generico finché non specifichiamo in dettaglio come si forma un dato rapporto capitale/reddito, cioè cosa contiene b . A tal fine Piketty usa come base il modello economico di Harrod (1939). Nel contesto keynesiano Harrod stabilì il livello di equilibrio entro il quale si può collegare il rapporto capitale/ reddito al tasso di risparmio annuale r e al tasso di crescita annuale del reddito nazionale complessivo c , e avremo b = r / c quindi se b equivale a 6 annualità di reddito nazionale, allora r equivale a 0,12 e c equivale a 0,02 dato che 6 = 0,12/0,02 ; per cui se un paese risparmia ogni anno 0,12 ovvero il 12% del reddito nazionale, e il tasso di crescita del reddito nazionale è di 0,02 annuo ovvero il 2%, vuol dire che il rapporto capitale/reddito è del 600%, cioè appunto 6 annualità di reddito nazionale. Harrod in realtà definì la relazione c = r/b in quanto cercava una situazione statica di equilibrio, ponendo la domanda seguente: quale tasso di crescita annuale c del reddito complessivo dobbiamo avere per mantenere stabile il rapporto dato tra il capitale accumulato negli anni e il reddito annuale? Con 6 annualità si mantiene l'equilibrio con una crescita annuale di c del 2%; se la crescita anziché del 2% fosse del 3% ovvero 0,03 allora b diminuirebbe a sole 4 annualità di patrimoni rispetto al reddito nazionale annuale, infatti 4 = 0,12/0,03 . Nel modello suddetto si suppone che TUTTO il risparmio si traduca in investimenti volti alla produzione di beni e servizi, che era poi la raccomandazione keynesiana per raggiungere la piena occupazione; infatti nell'esempio numerico il 12% di risparmio annuale va diviso per il rapporto dato capitale/reddito che è di 6 annualità, per cui avremo: 12/6 = 2 , cioè 2% di aumento annuo dello stock complessivo di capitale, che corrisponde alla crescita annua di reddito appunto anch'essa del 2%, quindi l'equilibrio è dato se si ipotizza che l'accumulazione complessiva del capitale, o “stock” cresca allo stesso ritmo del reddito nazionale annuo. Ma nel lungo periodo l'eccesso di credito diviene al contempo eccesso di debito, da cui consegue che quote crescenti di risparmio vanno a ingrossare lo stock di capitale anziché a sostenere la crescita del reddito, compreso ovviamente il profitto, attraverso gli investimenti produttivi. In questo scenario il saggio di profitto p dipende fortemente dal rapporto tra risparmio r e crescita c, perciò abbiamo infine
q
p = ---------
r/c
La formula indica che il saggio di profitto è dato dalla quota di capitale sul reddito annuale ( q ), divisa per il rapporto fra stock di capitale e reddito annuale ( b), il quale è a sua volta dato dal tasso di risparmio annuale ( r ) diviso per il tasso di crescita annuale ( c ), infatti 0,05 = 0,30/6 . Ne consegue che se aumento la quota di risparmio r lasciando invariata la crescita c allora b aumenta di valore, ad esempio se il risparmio annuale dal 12% (0,12) passa invece al 15% (0,15), nella relazione b = r/c avremo che b varia da 6 a 7,5 e nella formula del profitto avremo 0,04 = 0,30/7,5 dove il profitto cala dal 5% al 4%; e se il risparmio r andrà al 20% (0,20) il profitto p dallo 0,04 calerà al 0,03 cioè al 3% rispetto al 5% iniziale, quando il risparmio era solo il 12% del reddito complessivo annuale. Fin qui Piketty che, paradossalmente rispetto al suo sostanziale rifiuto delle teorie marxiste, perviene tuttavia ad una delle tesi più contestate in assoluto di Marx, la celebre caduta tendenziale del saggio di profitto, dal momento che la conclusione inevitabile delle tesi di Piketty porta a considerare che una elevata accumulazione (stock) del capitale è conseguente a un eccesso di risparmio che provoca un calo del saggio di profitto. Insomma Piketty dovrebbe riconoscere che anche dal suo punto di vista, basato sulla distribuzione del reddito anziché sui rapporti di produzione, Marx in fin dei conti aveva ragione anche quando aveva torto.
storico-politica di Marx, i concetti teorico-pratici di “dittatura della borghesia” e “dittatura del proletariato”, la rottura della “macchina” dello Stato borghese e la sua sostituzione con una forma di Stato che ha in sé il principio della propria estinzione, non sarà difficile ritrovare in tali concetti la coppia opposizionale ‘società civile-Stato politico’ che Marx ed Engels non hanno mai cessato di adoperare. Il blocco della teoria politica
marx-engelsiana (più nel primo autore, però, che nel secondo) nasce pertanto probabilmente – questa la mia ipotesi esplicativa - dalla tendenziale inconciliabilità fra questa coppia opposizionale e la ben nota coppia opposizionale di ‘struttura-sovrastrutture’. Concludendo, abbiamo qui un caso esemplare in cui un problema irrisolvibile nei termini della teoria marxiana (benché la geniale “Critica del programma di Gotha” fosse molto vicina al suo corretto scioglimento) sarà risolto nei termini della teoria marxista. Così, se è vero che nel “Capitale” è arduo trovare un passaggio dalla critica dell’economia politica alla problematica dello Stato, è altrettanto vero che, quando la borghesia capitalistica si è trasformata in monopolistica, imperialistica e transnazionale, si è dovuta creare quasi ‘ex novo’ la teoria dell’imperialismo (da Hilferding, Lenin, Rosa Luxemburg ecc.) perché mancava alle spalle un presupposto teorico sufficientemente elaborato. Ciò nondimeno, si potrebbe fare ancora un passo avanti nell'esame di questo problema e chiedersi dove potrebbe essere, all’interno dell’apparato categoriale del “Capitale”, l’aggancio ad una teoria dello Stato capitalistico. A mio avviso, assumendo l’ipotesi euristica secondo cui la critica della politica è inscritta nella critica dell’economia politica e considerando anche l’esperienza storica di questi ultimi decenni (globalizzazione imperialistica, predominio del capitale finanziario, politiche neoliberiste, fascistizzazione ecc.), l’aggancio andrebbe ricercato in quella che Marx chiama l’“unità” del processo di produzione diretto e del processo complessivo di circolazione. Un'ipotesi senz'altro da verificare e dimostrare, ma che risulta condizionante nella ricerca della soluzione del problema che pone Brancaccio, il quale però dimentica un piccolo particolare: che non si dà pianificazione alcuna senza la conquista di quel potere politico di Stato che si trova, come lui ben sa, nelle mani della borghesia imperialista e non si dà alcuna conquista del potere politico di Stato senza una rivoluzione socialista che abbatta quel potere di classe e lo sostituisca con un potere di classe radicalmente alternativo.
"Although putting a value on a given human life is impossible, economists have developed the technique of valuing “statistical lives”; that is, measuring how much it is worth to people to reduce their risk of mortality or morbidity."
A braccio, in italiano potrebbe tradursi :
"Sebbene attribuire un valore a una data vita umana sia impossibile, gli economisti hanno sviluppato la tecnica per valutare "vite statistiche"; vale a dire misurare quanto vale per le persone ridurre il rischio di mortalità o morbilità."
Equo, no? Come Lagarde, che sa bene cosa sia il valore in libbre di carne.
Aren't you tired of this? Grazie