Bordiga, ovvero il ritorno del rimosso
di Carlo Formenti
Perché parlare di Amedeo Bordiga? Lo spunto mi è venuto dalla lettura di un’antologia di testi del primo leader del Partito Comunista d’Italia, tradotti in inglese e pubblicati da un editore di Boston a cura di Pietro Basso: The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amedeo Bordiga (1912-1965). Anche se, a dire il vero, era da tempo che mi tentava l’idea di ragionare su questa ingombrante figura storica del marxismo italiano, sia perché la mia prima esperienza di militanza politica (parlo del 1962-63, anni in cui ero poco più che adolescente), fu in una formazione bordighista; sia perché ho sempre pensato che la damnatio memoriae alla quale Bordiga è stato condannato dal Partito Comunista Italiano sia stata un grave sbaglio, da un lato perché i suoi errori teorici e politici non furono tali da giustificare questa rimozione totale, dall’altro perché proprio analizzando quegli errori – invece di rimuoverli -, assieme ad alcuni suoi illuminanti contributi sulle tendenze del capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale, si sarebbe potuto arricchire il patrimonio teorico del marxismo contemporaneo.
Il lavoro di rimozione è stato molto accurato, per cui immagino che moltissimi compagni (soprattutto se al di sotto dei cinquanta - sessant’anni) non sappiano nemmeno chi fosse. Perciò credo sia prima di tutto il caso di tracciarne un sintetico profilo biografico. Nato a Ercolano nel 1889, Bordiga ha compiuto il suo apprendistato politico nella federazione giovanile del Partito Socialista, a partire dal 1910. In quegli anni i socialisti erano in grande crescita: nelle varie leghe erano inquadrati più di un milione e mezzo di lavoratori, e il partito controllava la CGIL, nata nel 1906.
La sua linea politica era ispirata a una visione gradualista, secondo cui era possibile avanzare verso il socialismo pacificamente e democraticamente, attraverso una infinita espansione della democrazia accompagnata da una lunga marcia nelle istituzioni. Le cooperative e le altre associazioni mutualiste, le case del popolo, ecc. erano concepite come altrettante “isole rosse” che anticipavano i rapporti sociali e umani della futura società socialista (come si vede, i movimenti sociali post rivoluzionari dell’ultimo mezzo secolo non hanno inventato nulla).
Bordiga fu da subito ferocemente contrario a questa linea. In particolare, si oppose all’elettoralismo (posizione che si fece ancora più radicale dopo la rivoluzione del 1917) e agli sbandamenti nazional sciovinisti del Partito Socialista in occasione della guerra coloniale in Libia (1911) e della partecipazione italiana alla Grande Guerra 1915-18. Fu, assieme ad altri compagni della sinistra socialista e al gruppo torinese dell’Ordine Nuovo guidato da Gramsci, promotore della costruzione della frazione comunista e della scissione di Livorno nel 1921 che portò alla nascita del Partito Comunista d’Italia, del quale fu alla guida fino al 1924. La crisi del Partito, legata alla repressione fascista (e al deterioramento della situazione internazionale, con la sconfitta dei processi rivoluzionari in Germania e Ungheria), i contrasti con la direzione della Terza Internazionale (sui quali tornerò più avanti) e con l’ala del partito guidata da Gramsci, portarono alla sua progressiva emarginazione (benché il suo rapporto con Gramsci, che gli successe alla guida del partito, restasse - come nota il curatore dell’antologia Pietro Basso - improntato alla stima reciproca, anche dopo la rottura maturata al Congresso di Lione del 1926).
Dopo il 1926 fu alternativamente incarcerato e inviato al confino dal regime fascista che lo rilasciò nel 1930 (presumibilmente in concomitanza con la sua espulsione dal partito, decisa da Mosca). A partire da quell’anno e fino alla fine della II Guerra mondiale, rimase in silenzio e sospese qualsiasi attività politica. Anche se Togliatti, che lo considerava un potenziale e pericoloso avversario, una delle prime cose che chiese quando rientrò in Italia fu “cosa fa Bordiga”, non fidandosi di questa apparente inerzia. Gli anni del dopoguerra (fino alla morte nel 1970) furono caratterizzati quasi esclusivamente da un approfondito lavoro di analisi teorica sull’evoluzione della società capitalista e di quella sovietica, attività che ebbe effetti politici marginali (il Partito Comunista Internazionalista e altri micropartiti che si inspiravano al suo pensiero ebbero scarsissimo seguito) il che contribuì non poco, assieme al protrarsi della “scomunica” del PCI, alla mancata diffusione delle sue idee, e del contributo che avrebbero potuto offrire, se sottoposte a un serio dibattito. In particolare un simile dibattito avrebbe potuto influire positivamente sulla comprensione di due questioni fondamentali: la definizione della natura della società sovietica (che assume oggi ulteriore rilievo in relazione all’evoluzione di quella cinese); e le tendenze di fondo del capitalismo contemporaneo.
Il rapporto di Bordiga con il partito bolscevico e la III Internazionale fu sempre problematico e ricco di contrasti, benché lui considerasse la rivoluzione russa come un modello e venisse a sua volta considerato dai russi un interlocutore di tutto rispetto. I temi di dissenso furono molti. Bordiga tendeva ad essere astensionista di principio (anche se in alcune circostanze si dimostrò più duttile) mentre l’Internazionale riteneva che il tema della partecipazione alle elezioni fosse una questione puramente tattica, da affrontare concretamente in base alle situazioni contingenti. A differenza di Lenin, Bordiga – a causa della sua idiosincrasia nei confronti di qualsiasi tipo di ideologia nazionalista – non comprese la necessità di costruire l’alleanza fra movimento comunista e lotte per la liberazione nazionale dei popoli coloniali (per esempio nel 1911, quando era ancora nel partito socialista, pur dichiarandosi contrario alla guerra di Libia, non dedicò la dovuta attenzione alla resistenza del popolo libico all’aggressione straniera). Del resto, concentrato com’era sul conflitto fra capitale e lavoro nei Paesi industriali, gli sfuggiva il nesso fra lotta di classe e lotta contro l’oppressione nazionale. Inoltre fu accusato di settarismo nella conduzione della lotta contro il fascismo, in quanto si oppose all’ipotesi di una riunificazione con i socialisti né seppe sfruttare l’opportunità di stringere un’alleanza con gli Arditi del Popolo (che garantivano un livello di efficienza militare superiore a quello delle improvvisate milizie comuniste).
A onore del vero, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, va ricordato che a Mosca le idee in merito alla lotta antifascista furono oscillanti e tutt’altro che chiare (anche perché i vertici dell’Internazionale spesso non conoscevano la situazione interna dei vari Paesi: per esempio, i socialisti italiani erano i primi a non voler far fronte con i comunisti). Ciò detto il problema nasceva anche e soprattutto anche a causa della peculiare concezione del partito di Bordiga. Dal suo punto di vista, il partito non era semplicemente l’avanguardia della classe operaia ma ne era l’organo politico. In un certo senso, per lui il partito era la classe, nella misura in cui rappresentava la classe per sé, ne incarnava la coscienza politica a fronte della spontanea coscienza tradeunionista della classe in sé (per citare la classica formula marxiana). Non a caso criticava l’Ordine Nuovo accusandolo di operaismo e sindacalismo, in quanto l’organo per la liberazione della classe non erano per lui i consigli ma il partito (più avanti vedremo come questa concezione suoni contraddittoria rispetto a quanto pensava a proposito della futura società socialista). Di conseguenza diffidava di qualsiasi tattica (1) implicasse una limitazione dei margini di autonomia del partito dovuta ad accordi e compromessi con altre forze politiche e altri strati sociali, per cui non accettò mai il concetto gramsciano di blocco sociale, né la necessità di costruire un partito di massa, capace di garantire l’egemonia operaia nei confronti delle altre classi subalterne.
Anche sulla questione della natura del fascismo la sua fu una posizione eretica, rispetto a quelle di chi, come Gramsci, pensava che esso fosse espressione degli interessi della classe agraria, o di chi, come Radek e altri dirigenti della III Internazionale, ne rintracciavano le radici sociali nella piccola borghesia. Viceversa Bordiga, in un primo tempo sottovalutò il fenomeno, ritenendo che la grande borghesia sarebbe ben presto tornata ad affidarsi a ideologie più adatte ai suoi interessi, come il liberalismo e la socialdemocrazia, ma poi fu più rapido nel rendersi conto che le classi dominanti sarebbero riuscite ad adattarsi a questo nuovo movimento politico e a renderlo funzionale ai loro obiettivi. In particolare seppe riconoscere, come sottolinea Pietro Basso nell’Introduzione all’antologia citata in apertura, il carattere moderno, sofisticato dell’ideologia nazifascista, la sua capacità di mobilitare ampi strati popolari (anche proletari), e la sua formidabile efficienza militare.
Torniamo all’interpretazione della società sovietica. Molti confondono la sua posizione con quella dei trotskisti, cioè con l’idea che si trattasse di un capitalismo di stato dominato da una nuova classe di burocrati. Tuttavia, pur condividendo la tesi di Trotsky sull’impossibilità di costruire il socialismo in un solo Paese (2), la sua lettura era più sofisticata. Bordiga accolse la svolta della NEP decisa da Lenin come un passo giusto, ma soprattutto inevitabile, come un cedimento alle leggi del mercato imposto dall’accerchiamento della Russia. Ciò detto, era convinto che questo compromesso avrebbe potuto reggere per non più di dieci - vent’anni, dopodiché, se non fossero sopravvenute rivoluzioni in altri Paesi industriali, la Russia sarebbe necessariamente evoluta verso il capitalismo. Questa sua convinzione era così incrollabile che, morto Lenin, osò attaccare la politica della “bolscevizzazione” dei partiti comunisti e a sostenere davanti a Stalin che l’Unione Sovietica - visto che dal suo destino dipendeva quello dell’intero movimento comunista mondiale – avrebbe dovuto seguire le direttive dell’Internazionale e non viceversa (ardire che gli costò la definitiva emarginazione e la successiva espulsione).
Dopo la II Guerra mondiale, la sua posizione subì una ulteriore evoluzione, per cui finì per definire il regime sovietico non come una pura restaurazione del capitalismo, ancorché in forma di capitalismo di stato, bensì come una formazione sociale sui generis, generata da un processo rivoluzionario che aveva assunto forma socialista sul piano politico e capitalista sul piano economico. Inoltre attribuì lo status di nuova classe dominante, non tanto alla burocrazia dello stato/partito, quanto agli strati tecnico manageriali e alle loro reti sociali (3) (per lui il carattere capitalista non si annidava nelle pieghe dello stato bensì nelle imprese, laddove vigevano concorrenza e legge del valore, e quindi sfruttamento). Questa visione, al contrario delle rozze analisi liquidatorie del “socialismo reale” partorite dalle sinistre radicali nate dopo gli anni Sessanta, offre spunti di discussione di grande interesse ed attualità, che chiamano in causa il dibattito sulla natura della società cinese che appassiona i teorici marxisti dei giorni nostri (4).
È chiaro che Bordiga avrebbe negato a priori la possibilità di definire socialista una società come quella cinese, nella quale permangono mercato, moneta e legge del valore. Ed è altrettanto chiaro che avrebbe reiterato la dogmatica convinzione sulla impossibilità di costruire il socialismo in un solo Paese. Al tempo stesso il suo discorso sul dualismo fra potere politico, che nel caso della Cina appare saldamente in mano allo Stato-partito (che inoltre controlla i settori strategici di industria, commercio e finanza) e potere economico (con la presenza di grandi imprese private nazionali ed estere), ma soprattutto il suo discorso sull’apparire di forme inedite della lotta di classe in questo contesto ibrido, può essere rovesciato fino ad assumere una prospettiva del tutto diversa. Ciò è possibile: 1) perché la tenuta temporale e lo straordinario successo dell’esperimento cinese smentiscono la diagnosi che Bordiga formulò ai tempi della NEP: dalla convivenza di socialismo e mercato non deriva necessariamente la vittoria di quest’ultimo in tempi relativamente brevi; 2) decisivo appare, inoltre, il fatto che il Partito Comunista Cinese riconosca esplicitamente (al contrario di quanto avvenne in Unione Sovietica) l’esistenza della lotta di classe e subordini agli esiti di quest’ultima la possibilità o meno di progredire verso forme più avanzate di socialismo.
Quanto a quali debbano essere i criteri per riconoscere un “vero” regime socialista, la visione di Bordiga è classicissima e ritagliata sui dogmi “classici” del marxismo, ben riassunti da un recente articolo (5) di Vladimiro Giacché sull’Antiduhring di Engels: eliminazione degli scambi mercantili e monetari già nella prima fase di transizione, estinzione delle classi sociali e dello stato, rimpiazzato dalla auto amministrazione dei produttori associati nella fase del comunismo realizzato. Ho già espresso in varie occasioni i miei dubbi in merito alla credibilità di questo scenario utopistico (6), ma non è qui il caso di riproporli, mi basta avere messo in luce in che misura la visione di Bordiga fosse più complessa e stimolante di quella di certi critici “libertari” del socialismo reale. Aggiungo solo che, paradossalmente, come anticipavo in precedenza, la sua visione del socialismo – scriveva che mentre il capitalismo è “verticale” il socialismo sarà “orizzontale” (7) perché caratterizzato dalla massima autonomia amministrativa locale – stride con la sua concezione ultra centralista e settaria del partito (vedi sopra) e con le critiche che rivolgeva alla concezione socialista delle “isole rosse” come anticipazioni locali dei futuri rapporti sociali (per cui avrebbe aborrito i discorsi dei movimenti sociali degli ultimi decenni, ancora più orientati in tale direzione). Insomma il massimo del verticismo per approdare al massimo di orizzontalismo.
Concludo con un sintetico accenno (invitando chi volesse approfondire l’argomento a procurarsi l’edizione italiana dell’antologia di cui stiamo ragionando, in via di pubblicazione presso le edizioni Punto Rosso) ad alcune geniali anticipazioni sulle tendenze del tardo capitalismo che Bordiga elaborò dagli anni Cinquanta alla seconda metà dei Sessanta: 1) già negli anni Cinquanta intuì il crescente ruolo che le problematiche ambientali avrebbero assunto nell’aggravare la crisi sistemica, scrivendo che la critica del capitalismo non doveva limitarsi ad analizzare il rapporto capitale-lavoro, ma affrontare anche il rapporto capitale-natura e quello fra il capitale e le altre specie viventi; 2) criticò la tesi che associava il militarismo ai regimi fascisti e ultranazionalisti, dimostrando come, al contrario, esista una stretta correlazione fra militarismo e democrazia perché (riprendo una citazione dalla Introduzione di Basso) la guerra moderna è fondata sulle caratteristiche tipiche di uno stato “che dispone delle maggiori risorse industriali , commerciali, amministrative e finanziarie e in cui il potere ha assunto forme democratiche”, e soprattutto solo lo stato liberal democratico è oggi in grado di ottenere quel consenso sociale che è prerequisito di qualsiasi sforzo bellico; 3) seppe anticipare le tendenze alla finanziarizzazione e alla sostituzione della grande borghesia tradizionale con forme più impersonali, “socializzate” della proprietà capitalistica e mise in relazione tali tendenze con il fatto che gli stati capitalisti postbellici si sarebbero rivelati sempre meno liberali e sempre più totalitari; 4) infine, da ingegnere qual era, quando uscirono le prime edizioni dei Grundrisse, si entusiasmò per lo scenario dipinto da Marx, laddove lo sviluppo del sistema automatico delle macchine veniva descritto come un annuncio dell’imminente trionfo del general intellect sulla legge del valore. Un entusiasmo che ha contagiato anche Antonio Negri, alimentandone i deliri post operaistici sul “comunismo del capitale” (8), con la differenza che Negri non è mai più uscito dal delirio, mentre Bordiga, se avesse potuto assistere all’uso capitalistico delle tecnologie digitali (9), avrebbe a mio avviso saputo rettificare il tiro.
politico-culturale che, data la sua natura proteiforme, si manifesta nelle forme più svariate. Infatti, in un’ottica marxista e comunista il modello classico, ancora attuale, della critica del populismo (e del connesso romanticismo economico) è quello depositato nel “Che fare?” di Lenin (1902), ove l’autore confuta la tesi secondo la quale nelle classi subalterne, nel popolo in quanto tale, è ìnsita la coscienza rivoluzionaria, una superiore visione del mondo non contaminata dai disvalori borghesi. Al contrario, per Lenin la coscienza rivoluzionaria è una costruzione che implica il contributo decisivo degli “intellettuali borghesi”, categoria a cui appartenevano, “per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels”, i quali hanno sempre sottolineato la funzione controrivoluzionaria spesso svolta dal sottoproletariato, dagli “straccioni” e da varie frazioni della piccola borghesia, senza indulgere al mito populista in base al quale la coscienza rivoluzionaria, la prospettiva di una società più giusta, sarebbe un dato naturale e costitutivo del popolo (ovvero della classe operaia: in questo senso, l’operaismo della “rude razza pagana”, a suo tempo celebrato da Tronti e, sulle sue orme, dallo stesso Formenti, non è se non una variante del populismo). Il populismo, quindi, ancorché declinato in direzione progressista e financo rivoluzionaria, non potrà mai surrogare la critica marxista della democrazia borghese, che è il vero compito teorico-pratico da assolvere, giacché, come dimostra ‘ad abundantiam’ la squallida parabola del M5S, il populismo è sempre intimamente reazionario in quanto il suo cavallo di battaglia, in continuità con i movimenti di cittadini “indignati” dalle malefatte della classe politica che si sono succeduti da Tangentopoli in avanti, è sempre stato la lotta alla corruzione, l’idea che basterebbe mandare al governo persone oneste per cambiare le cose senza mettere in discussione il modo di produzione capitalistico né, tanto meno, le regole del sistema liberal democratico. Per quanto concerne il progetto politico a cui il Formenti invita a lavorare, vi è soltanto da sottolineare che si pone, come tutto il riformismo di sinistra (da Turati a Basso, da Ingrao alla Rossanda, con le correlative fumisterie sui ‘contropoteri’ sociali che dovrebbero bilanciare il potere politico centrale e impedirne le derive autoritarie), nel solco togliattiano dello “storicismo assoluto” e della “via italiana al socialismo” che nasce dal taschismo, passa per la politica del VII congresso del Comintern e approda infine all’VIII congresso del PCI. Tràttasi, dunque, di una tradizione intessuta da un robusto filo di destra, in base alla quale quegli obiettivi si configurano come obiettivi intermedi, non, leninianamente, come tappe intermedie di un processo rivoluzionario. In realtà, il progetto del Formenti, benché adornato da una fraseologia marxisteggiante, corrisponde ad un modello squisitamente riformista e presenta un’affinità di fondo sia con il riformismo togliattiano che con il riformismo cattolico, tutti superfetazioni della socialdemocrazia del XXI secolo. Perciò, in un’ottica marxista e comunista, vi è ben poco da valorizzare e, ancor meno, da 'etero-integrare' (con Bordiga, con Lukàcs e così via mischiando). Infine, riguardo alla tesi di Rancière è il caso di rilevare che il protagonista del conflitto - la cosiddetta "parte dei senza parte" - tende ad essere, in chiave anarchicheggiante, più il sottoproletariato che non la classe operaia, e la questione sociale più una questione di redditi che non di rapporti di classe.