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Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”

di Laura Baldelli 

“Di quel Gramsci, che negli anni ’40 era stato figura centrale nella sua formazione e punto di riferimento, specie riguardo al ruolo dell’intellettuale nella creazione e valorizzazione di una cultura popolare e nazionale; e del quale, appunto, non rimangono che ceneri”

Pasolini GramsciPasolini si conferma sempre più tra i più grandi intellettuali del’900, di respiro europeo, un artista fuori del tempo per le sue intuizioni artistiche e sociali; un autore prolifico dalla produzione poliedrica, originale nei vari generi e linguaggi: saggistica, letteratura, cinema, pittura, teatro. Lavori che hanno origini e spinte autobiografiche, ma anche sostenute da un’ideologia forte e da un’intenzione pedagogica.

Tutta l’opera di Pasolini nelle sue varie forme artistiche, ordinata cronologicamente, racconta la storia d’Italia, soprattutto dagli anni ’50 ai ’70, i decenni della rivoluzione antropologica: il passaggio da popolo a massa.

Pasolini riconobbe però nell’espressione lirica il suo canale privilegiato e la sua produzione poetica addirittura fu concepita come “letteratura espressione di appassionata testimonianza di vita” e veicolo d’idee; proprio in un momento storico-letterario in cui invece il successo era tutto per la lirica ermetica, post-ermetica e nuove avanguardie emergevano.

Infatti, con “Le ceneri di Gramsci” scelse contro corrente “la poesia civile” e la tradizione nella forma metrica, recuperando le terzine di enjambement, di endecasillabi con la ricerca della rima incatenata come Dante e Pascoli, considerandola il metro narrativo per eccellenza (non a caso la Divina Commedia fu scritta così) e soprattutto la forma migliore per esprimere la passione.

Possiamo parlare di poetica anti-novecentesca, perché criticò la poesia criptica delle neo-avanguardie, recuperando e rivendicando il ruolo e le responsabilità civili dell’intellettuale. Agli ermetici contrappose lo sperimentalismo formale per esprimere un’idea di poesia che invece si confronta costantemente con la realtà, con il contemporaneo.

Le sue poesie furono definite “articoli in versi”, dove, la scelta delle parole, nulla ha di evocativo, affinché il linguaggio della poesia sia caratterizzato da razionalità, logicità e storicità, creando un “realismo lirico”: “rappresentare la realtà… attraverso la realtà stessa”, come lui stesso diceva. Ma Pasolini prese le distanze anche dal Neorealismo perché considerava “l’essere poeta”, punto d’incontro, sintesi tra due dimensioni dell’esperienza: la vita individuale della coscienza con quella collettiva della storia e l’essere uomo e scrittore impone il dovere sociale di comprendere la realtà storica della società.

Questo fu sempre la sintesi della sua vita.

Sul piano formale e dei contenuti possiamo affermare che riuscì a superare sia la povertà espressiva del Neorealismo, che la dimensione intimistica dell’Ermetismo, proprio grazie alla scelta linguistico-formale pre-novecentesca, ispirandosi a Pascoli e Leopardi, proprio perché la funzione civile della poesia che racconta il presente, richiedeva un lavoro sul linguaggio. Infatti, la ricerca espressiva fu un percorso di conoscenza, affermando che “la poesia è scoperta del mondo e strumento di conoscenza”; non è solo scoperta dell’io, ma entra nella vita come strumento di rinascita e non è solo ricerca della parola perché “il poeta deve entrare con il corpo dentro la poesia”. Pasolini scoprì la poesia grazie alla madre a 7 anni e da subito comprese che era lo strumento per raccontare la realtà e il grande critico letterario Gianfranco Contini, entusiasta già dalla prima raccolta poetica in dialetto friulano “Poesie a Casarsa”, definì la sua poetica “un atto d’amore per la realtà”.

La genesi de “Le ceneri di Gramsci” sta tutta nei primi anni romani, vissuti tra stenti in borgata, ma di grande conquista culturale, espressa nei suoi primi romanzi, in cui la ricerca linguistica lo portò alla lingua delle borgate, compiendo un’opera di regressione nella narrazione, proprio come aveva fatto Verga.

Il titolo allude alla fine di una stagione poetica civile: di quel Gramsci, che negli anni ’40 era stato figura centrale nella sua formazione e punto di riferimento, specie riguardo al ruolo dell’intellettuale nella creazione e valorizzazione di una cultura popolare e nazionale; e del quale, appunto, non rimangono che ceneri.

La lezione etica e civile di Gramsci appare estranea alla nascente società complessa, caratterizzata dal boom economico e dalla conseguente corsa ai consumi in un mondo in continuo mutamento.

Pasolini fu profetico: la raccolta di poemetti uscì nel’57 e di lì a poco l’Italia cambiò paesaggisticamente, come cambiarono gli italiani antropologicamente; addirittura egli parlò di trasformazione dei corpi con la società dei consumi ed intuì prima dei sociologi, dei politici, quanto tutto sarebbe stato pervasivo e totalizzante, e i proletari si sarebbero confusi nella piccola borghesia.

Oggi ne siamo la prova: un territorio devastato, corpi che inseguono modelli di bellezza chirurgica e palestrata, è disdicevole invecchiare! Una società malata nello spirito che cerca conforto nel possedere e nell’apparire, dove nulla scegliamo, ma seguiamo bisogni indotti, pena l’esclusione e l’emarginazione.

Gli undici poemetti furono pubblicati in volume e in ordine cronologico da Garzanti con prefazione dell’autore, dopo essere apparsi sulle riviste letterarie “Nuovi argomenti” e “Officina”, e il titolo è dato dal poemetto n° 7. Il volume uscì a due anni di distanza dal romanzo “Ragazzi di vita”, che fu la novità radicale nel panorama letterario italiano, scatenando critiche da destra e da sinistra, bocciato al premio Strega e al premio Viareggio.

E su quell’eco di polemica, la raccolta fu accolta con successo di pubblico inaspettato e Calvino definì l’opera “uno dei più importanti fatti della letteratura italiana del dopoguerra e certo il più importante nel campo della poesia”. Il successo di vendite fu straordinario per una racconta di poesie.

Nei poemetti l’autore affida alla poesia la narrazione del proprio vissuto interiore, strettamente collegato alle riflessioni sulle vicende italiane, sul destino del comunismo e sul ruolo degli intellettuali. La poesia diventa così spazio di riflessione sui conflitti del proprio tempo e strumento di e per una coscienza collettiva.

Il contesto storico fu particolarmente critico perché il 1956 fu “l’anno terribile”, come lo definì Giovanni Amendola, tutta la cultura e gli intellettuali comunisti entrarono in crisi dopo un susseguirsi di eventi: il XX congresso del PCUS in cui ci fu la condanna di Stalin e “i fatti d’Ungheria”, a cui seguì la diaspora dei comunisti del PCI, che invece si era schierato con l’URSS.

Il poemetto che dà il titolo alla raccolta fu scritto nel ’54 e rappresenta il dramma interiore del poeta, che sceglie la figura retorica dell’ossimoro per esprimere la lacerazione, i tormenti e seguendo la migliore tradizione poetica italiana, come Foscolo, Pasolini visita Gramsci, sepolto nel cimitero acattolico di Roma al Testaccio, la cui lapide “Cinera Gramsci” ispira il titolo e il contenuto: la morte delle speranze suscitate dalla Resistenza.

L’incipit del “maggio autunnale” è l’atmosfera per raccontare il silenzio del presente e “il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare tra le macerie, finito il profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita”, così differente da “quel maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore” e il giovane Gramsci “delineava l’ideale che illumina”. A quelle ceneri il poeta confida la propria delusione per le vicende politiche italiane, perché erano state tradite le speranze per un profondo rinnovamento della società, con la vittoria delle forze conservatrici, ma anche le proprie contraddizioni d’intellettuale, combattuto tra “l’estetica passione” della ricerca dell’autenticità e spontaneità di un mondo non ancora contaminato dal progresso, e l’ideologia marxista che crede nel progresso guidato dagli intellettuali e dalla classe operaia uniti.

Il cambiamento antropologico della società avvertito drammaticamente fu il filo conduttore di tutta la vita di Pasolini e della sua espressione artistica; l’unico a raccontarlo senza essere filosofo, senza essere sociologo, bensì come poeta che si butta nella vita.

Per questo lavoro di una vita è considerato il più grande poeta civile del ‘900.

Rivolgendosi a Gramsci nel poemetto, intrecciando il piano individuale e quello storico, racconta il mondo rurale, a lui così caro, che già negli anni ’50 andava sparendo con l’urbanizzazione, la migrazione, causate dalle scelte economiche che penalizzarono l’agricoltura in favore dell’industrializzazione, dove confluì tutta la forza lavoro. Sparì il mondo contadino, quello che neanche il Fascismo era riuscito ad intaccare, perché secolarmente il proletariato rimaneva fuori dalla Storia come in un vissuto parallelo, e l’ideologia culturale clerico-fascista era rivolta alla borghesia.

Il poeta ricercò quelle caratteristiche nel proletariato povero delle borgate romane, un mondo che non gli apparteneva, ma dal quale era attratto per “la sua allegria” e non per “la sua millenaria lotta”, per “la sua natura” e non per “la sua coscienza”. Amò il popolo per il vitalismo spontaneo, più che per la lotta di classe, ecco il suo interesse per quel sottoproletariato primitivo violento e animalesco dei suburbi romani; ma era alle porte “il mercato” che creava bisogni, rendendo i corpi “merce” per il consumismo. La sua adesione al marxismo gli imponeva però la necessità di denunciare quelle condizioni di miseria e di abbrutimento in nome dell’emancipazione del proletariato, ma proprio il suo riscatto rischiava di cancellarne la vitalità.

Questa sua lotta tra vitalismo irrazionalistico e ideologia marxista, fu “lo scandalo della contraddizione”, che espresse idealmente a Gramsci nei versi famosissimi: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere” e dove rivela la volontà di “non scegliere”. C’è tutta la lacerazione tra la sua adesione razionale all’ideologia comunista ed essere emotivamente “nell’estetica passione”, quella incarnata dall’altra grande figura presente nel cimitero vicino a Gramsci, il poeta Shelley, simbolo della “carnale gioia dell’avventura estetica e puerile”. E proprio a questa passione dei sensi che Pasolini si sentì partecipe ma anche vittima, come recita la domanda rivolta a Gramsci: “Mi chiederai tu morto disadorno, d’abbandonare questa disperata passione di essere al mondo?”

Pasolini comprese che il mondo del sottoproletariato, con quell’allegria dei giovani di borgata, sarebbe scomparsa, perché la società ossessionata dai consumi li avrebbe addomesticati, imponendo nuovi valori con nuovi linguaggi e strumenti: era entrata nelle case la televisione e di lì a poco la scuola di massa, omologando i costumi degli Italiani, eliminando i tratti più autentici e originali del mondo popolare. Usò la parola “omologare”, fenomeno che oggi mistifichiamo con “globalizzazione”.

L’autore avvertì anche che la società dei consumi avrebbe relegato al confino un intellettuale come lui, condannandolo alla solitudine e all’estraneità. Fu sempre un intellettuale disorganico, dissidente, un confinato, un carcerato come Gramsci, un pensatore “corsaro”, si paragonò ad Arthur Rimbaud, a Dino Campana, ma anche a Oscar Wilde.

I versi con i quali il poeta conclude il poemetto sono emblematici: “… Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?”.

In seguito, Pasolini scoprì nel cinema uno strumento per fare poesia, perché l’immagine “rivela la realtà” ed espresse quel suo vitalismo con “La trilogia della vita” con i film: “Decameron”, “I raccolti di Canterbury” e “Il fiore delle mille e una notte”; ma in seguito abiurò questi immensi lavori artistici, perché scoprì “la corruzione millenaria del popolo” che invece tanto aveva amato.

Ma noi sappiamo che non si arrese mai, anzi pagò con la vita la denuncia di quel mondo dominato dal potere sempre più corrotto.

Comments

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Pantaléone
Wednesday, 19 May 2021 15:08
Era un tempo in cui il capitale, nel dominio formale, non aveva inghiottito tutto, c'erano ancora dei settori di gratuità, oggi nel dominio reale tutto è capitale.
Per quanto riguarda Céline, ciò che è divertente è che descrive piuttosto bene la condizione del proletario, ma è totalmente chiuso all'origine, che va alla fine della sua notte. Come tutti quelli che non capiscono la matrice in cui vivono.
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Pantaléone
Wednesday, 19 May 2021 14:53
Io sono una forza del Passato.

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
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Eros Barone
Wednesday, 19 May 2021 11:57
Pier Paolo Pasolini è stato un tipico rappresentante - forse il maggiore - della cultura antimodernista che, sotto vari emblemi e diverse forme, vigoreggia nel nostro paese e che, non per caso, intorno a lui ha costruito un vero e proprio culto, come è dato notare anche in questo articolo dove, a proposito della parte più caduca della sua opera, cioè dei suoi film, si arriva a parlare di "immensi lavori artistici". Con le sue radici ben affondate negli anni Cinquanta, 'età d'oro' di quel mondo popolare premoderno puro e incorrotto pósto ai confini tra le borgate e la campagna, e da lui sempre vagheggiato, lo scrittore friulano elevò a paradigma antropologico e poetico un sogno personale che nasceva dalle sue "buie viscere", esprimendo, in nome di quel paradigma, una negazione, tanto impietosa quanto disperata e tanto accusatoria quanto nostalgica, di tutto ciò che sarebbe accaduto dopo, dai moti del Sessantotto, allorquando esaltò i poliziotti "figli del popolo" e denigrò gli studenti "figli di papà", al 'doppio potere' incarnato dal Palazzo, di cui còlse, con simpatetica intuizione, il volto demonìaco e perverso. La sua opera di poeta, di romanziere, di critico e di regista cinematografico, tra le "Ceneri di Gramsci" e la "Religione del mio tempo", tra "Ragazzi di vita" e una "Vita violenta", tra la rivista "Officina" e il film "Accattone", ebbe sempre come oggetto e come soggetto lo stesso mondo di esperienze e di memorie, un 'tempo perduto' trasfìgurato miticamente in elegia e in tragedia. Uomo di successo, 'compagno di strada' del Partito Revisionista Italiano in cui vedeva, sospinto da un populismo romantico e decadente, una sorta di 'città di Dio' operante su questa terra, intellettuale raffinato cui piaceva giocare a pallone con i ragazzini, sempre, come ìndicano i titoli delle sue stesse opere, alla ricerca della Vita, diventò con il suo indimenticabile 'j'accuse' al gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, lui che ebbe a definire sé stesso "riformista luterano", la coscienza critica del nostro paese nella prima metà degli anni Settanta. In questo paese che, dopo decenni di pesante arretratezza, di bolsa retorica imperiale e di sostanziale provincialismo, con la liberalizzazione degli scambi, l'avvìo dell'integrazione europea e il 'boom economico' cercava una via di sviluppo all'altezza dei tempi e si sforzava di coniugare modernizzazione e modernità, Pasolini assunse la parte del fustigatore dei peccati del mediocre consumismo italico. Se Marx avesse potuto conoscere la polemica pasoliniana contro la "nuova cultura" e contro i tratti criminali e criminogeni della "mutazione antropologica" indotta dal consumismo, avrebbe classificato il suo autore tra gli esponenti del “socialismo feudale”, categoria che annovera nella letteratura del Novecento non pochi esemplari di alto livello: da Eliot a Pound, da Gide a Céline. Riascoltando certe interviste rilasciate da Pasolini, è difficile non avvertire ancora una volta, in quella voce sottile e quasi in falsetto, un colore di morte, l'equivalente fonetico di una vicenda tragica, prodotto di una pianificata confusione tra arte e vita, tra letteratura ed esistenza. A trent'anni dalla fine che concluse tale vicenda, se siamo in grado di comprendere molto meglio di allora che essere orfani è la condizione per diventare adulti è anche perché riteniamo di conoscere la risposta alla domanda che, nella chiusa della lunga poesia sulle “Ceneri di Gramsci”, il testimone, il profeta e, da ultimo, la vittima di quel destino pose a se stesso e a tutti noi: "Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce?".
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