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Legge economica e lotta di classe*

I limiti dell’economia di Mattick

di Ron Rothbart

external98ru3Introduzione redazionale

Sottraiamo all’oblio e proponiamo ai nostri lettori quest’articolo redatto una quarantina d'anni fa, e in apparenza slegato dalla più immediata attualità, per tre motivi essenziali:

♦ esso testimonia di un confronto fra posizioni che potremmo definire «operaiste» – la cui elaborazione e diffusione fu, nel contesto degli anni 1960-’70, ben più ampia del solo, e tanto celebrato operaismo italiano – e posizioni «ortodosse», lasciate in eredità da una parte delle Sinistre comuniste storiche, in merito alla dinamica dell’accumulazione del capitale e del ruolo che la lotta di classe svolge al suo interno;

♦ esso suggerisce non già la squalifica senza appello delle tesi operaiste in senso lato, accomunate dal postulato (implicito o esplicito) del salario come «variabile indipendente» e direttamente politica, ma la presa in conto della lotta salariale come lotta intorno al saggio di sfruttamento, e dunque come fattore che concorre in permanenza alla determinazione del saggio di profitto reale (è questa, a nostro avviso, la maniera corretta di impostare il problema);

♦ infine, esso evoca la questione, ancora oggi tutta da esplorare, del legame tra inflazione e rivendicazioni salariali.

In effetti, non solo il quasi-pieno impiego, ma anche l’inflazione galoppante – che, erodendo di volta in volta le conquiste salariali, rilanciava le rivendicazioni – si inscrive nella combinazione irripetibile che contraddistinse quel ciclo di accumulazione e di lotte che, nei paesi più industrializzati, raggiunse quasi ovunque il suo picco fra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70.

Aggiungiamo che la crisi di quel ciclo si manifestò – in barba alle certezze della teoria economica in voga all'epoca – con il perpetuarsi, e perfino l'accrescersi vertiginoso, dell'inflazione nonostante il rallentamento della crescita economica, l'aumento della disoccupazione e il sotto-utilizzo delle capacità produttive. È per indicare questo peculiare tipo di divergenza fra crescita e inflazione, che fu coniato il neologismo stagflazione. Ed è su di essa che andranno ad impattare, da un lato, le politiche monetarie finalizzate alla stabilizzazione dei prezzi, inaugurate dal Volcker Shock del 1979 – data cruciale – e, dall'altro lato, l'attacco ai meccanismi di indicizzazione dei salari, che la classe operaia era riuscita nel frattempo ad ottenere nella maggior parte dei paesi sviluppati. Più o meno nello stesso frangente, andava preparandosi la nuova sinergia produttiva (ovviamente asimmetrica) fra paesi in via di sviluppo e paesi a capitalismo maturo, espressamente volta ad abbassare i costi di un parte del paniere di sussistenza della forza-lavoro in seno a questi ultimi. Nel «mondo nuovo» così abilmente congegnato – liberato dal rivendicazionismo operaio degli anni 1960-'70 perché liberato a tutti i livelli dalle condizioni che lo avevano reso possibile – si sarebbe infine potuto discorrere in lungo e in largo – e impunemente – della scomparsa degli operai, e godersi in santa pace la «fine delle grandi narrazioni», secondo la formula de La condizione postmoderna del rinnegato Lyotard (uscita, proprio nel 1979, in Francia). Tra queste condizioni, di cui fare tabula rasa per giungere a un nuovo compromesso sociale basato sulle classi medie ascendenti, c'erano ovviamente le rigidità della fabbrica fordista, il mercato del lavoro sotto costante tensione, ma anche – guarda un po'! – i rapporti fra i Ministeri del Tesoro e le banche centrali e, più in generale, i meccanismi della creazione monetaria (ovvero della produzione di moneta di credito):

«La condizione affinché gli Stati possano soddisfare le richieste delle classi medie, è la sottomissione della politica monetaria. Le politiche inflazionistiche sono ormai vietate ovunque. Quando un paese non può ignorare l'evoluzione del suo tasso di cambio – ciò che vale per tutti i paesi emergenti – la politica monetaria è, inoltre, interamente dedicata alla difesa di questo tasso. Questa sottomissione viene spesso presentata come un abbandono della sovranità, una sottomissione alla “dittatura dei mercati finanziari”. Nulla di tutto questo. Qual era il senso della sovranità monetaria? Favorire certi gruppi a spese di altri: quelli che beneficiavano dell'inflazione a spese di quelli che ne soffrivano. La cosiddetta cessione di sovranità è solo una scelta diversa: a vantaggio dei risparmiatori»1.

Riportare alla mente quello snodo storico non riveste un interesse meramente «genealogico», di indagine sulle radici del presente. Malgrado i temporeggiamenti e la timidezza dei ceti politici, si vedeva già da qualche tempo, e ben prima della crisi da Covid, come la configurazione posta in essere dalla crisi degli anni 1970 e dalla sua risoluzione – per farla breve: debole crescita dei salari e inflazione sotto stretto controllo –, si fosse irrimediabilmente incrinata, ed iniziasse ad essere da più parti delegittimata:

«Lo sciopero alla General Motors, che è cominciato domenica [15 settembre 2019, ndr] con circa 50.000 lavoratori metalmeccanici in astensione dal lavoro, potrebbe risultare come il più importante scontro fra maestranze e direzione da molti anni a questa parte.

«Anche i primi anni ‘70 furono un periodo di lotte del lavoro: i lavoratori della GM lanciarono un grande sciopero nel 1970, rivendicando salari più alti. Ma il contesto era differente, e tali erano anche le implicazioni economiche.

«Quella fu un’epoca di rapido aumento dell’inflazione e di potere dei sindacati ai massimi storici – due fenomeni che sono connessi. I lavoratori della GM rivendicavano aumenti salariali che compensassero il già alto tasso d’inflazione, e con lo sciopero li ottennero. Nel contratto triennale, vigente dal settembre 1970 al settembre 1973, il salario dei lavoratori dell’automobile aumentò del 6,5%, confortevolmente al di sopra del 4,5% del tasso di inflazione annuo.

«In quel periodo, i metalmeccanici e altri potenti sindacati alimentavano l’alta inflazione rivendicando – e ottenendo – continui aumenti salariali, che si traducevano nell’aumento dei prezzi al consumo.

«Non è questo che sta accadendo nel 2019. Non è solo il fatto che il tasso di sindacalizzazione sia sceso dal 25% circa della manodopera dell’inizio degli anni ’70 al 10,5% del 2018. […] A differenza delle rivendicazioni salariali da parte dei lavoratori che alimentano un’eccessiva inflazione, come negli anni ’70, questa volta i bassi salari dei metalmeccanici sono stati fattore di un’inflazione troppo debole, una tendenza che i lavoratori sindacalizzati sperano di invertire».2

«Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, e i suoi colleghi hanno intrapreso un importante cambiamento nella loro strategia volta ad affrontare l'inflazione, preludio a quello che potrebbe essere un cambiamento più radicale nel corso dell'anno prossimo [cioè nel 2020, ndr].

«La banca centrale ha fatto marcia indietro sul rialzo dei tassi d'interesse, che era stato previsto per evitare un aumento potenzialmente pericoloso dell'inflazione, che la teoria economica sostiene potrebbe derivare da un mercato del lavoro surriscaldato. […] Powell e alcuni dei suoi colleghi sono rimasti perplessi e turbati dal fallimento della Fed nel portare efficacemente l'inflazione all’obiettivo prefissato del 2%. […] Nel momento in cui la Fed si imbarca in una revisione annuale del suo framework di politica monetaria, Powell ha egualmente espresso la volontà di prendere seriamente in considerazione un approccio in base al quale la banca centrale potrebbe cercare di tenere per un po' il livello dei prezzi al di sopra del suo obiettivo percentuale».3

Dal 2019 molta acqua è passata sotto i ponti, e l'inflazione torna oggi a fare paura, propiziata principalmente dal «super-ciclo» delle materie prime, dall'aumento del costo del trasporto marittimo, dalla penuria di micro-processori e di altri componenti. Ciò apre, anche in seno agli osservatori borghesi, pesanti interrogativi sullo sviluppo ulteriore della crisi in corso: quanto durerà questa inflazione di ritorno? Le banche centrali lasceranno fare, o saranno costrette a rialzare anzitempo i tassi d'interesse? In quale misura l'inflazione «non-labour driven» (estranea alla dinamica salariale) potrebbe trasmettersi al costo del lavoro, e dunque innescare una spirale inflazionistica? E infine – ciò che per noi conta più di tutto: tale trasmissione potrà avvenire automaticamente, o implicherà viceversa una recrudescenza delle rivendicazioni salariali? In merito a questi interrogativi, si danno per il momento poche certezze, ma è chiaro che il persistere di un'inflazione relativamente sostenuta segnalerebbe l'avvio di un cambio di paradigma sul piano della politica economica. Sono sempre di più coloro che condividono il presentimento dell'approssimarsi di un punto di svolta. Questo ci incita a seguire con maggiore attenzione (e apprensione) lo svolgimento quotidiano delle vicende economiche e i loro indicatori. Nell'ottica di aspettare che il capitale faccia hara-kiri? No di certo. Ma men che meno di credere possibile il passaggio in uno schiocco di dita dalla calma relativa che oggi caratterizza la maggior parte dei paesi delle aree centrali, alla contestazione pratica e di massa del modo di produzione capitalistico, senza un periodo intermedio in cui un gran numero proletari in attività, in un gran numero di settori economici, ingaggi significative battaglie attorno alla difesa dei propri interessi economici immediati e si mostri in grado di vincerne almeno qualcuna – e senza che un simile avvio sia dettato da nuovi e rilevanti squilibri in ambito «macroeconomico».

Torneremo più diffusamente sulla questione in un futuro assai prossimo. Per il momento, limitiamoci ad osservare che se la crisi del 2007-2008, tra i suoi innumerevoli effetti benefici, ha senz’altro avuto quello di conferire una nuova udibilità alla teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto e al discorso marxiano tout court, essa ha anche riattivato le sue derive meccaniciste e oggettiviste. Il formato stesso di quella crisi – tendenzialmente deflazionistico nelle aree centrali dell'accumulazione – le ha favorite, poiché in queste aree il livello della rivendicazione operaia ne è uscito globalmente indebolito, almeno a giudicare dal «freddo» dato delle ore scioperate – ciò che non esclude l’esistenza di sacche di intenso conflitto (del resto destinate a moltiplicarsi, in Italia, con la fine del blocco dei licenziamenti). Oggi, contrariamente alla sua vecchia declinazione nelle teorizzazioni di Grossman e Mattick, l'oggettivismo non integra più la lotta di classe post-festum, una volta dimostrata l’ineluttabilità della caduta tendenziale del saggio di profitto fino al «crollo» finale, ma, nel migliore dei casi, tende a farne un semplice rumore di fondo, qualcosa che inevitabilmente accompagna il corso dell’accumulazione, senza mai giocare un ruolo dinamico o decisivo nella genesi delle sue ristrutturazioni, o del suo possibile superamento. E così arriviamo al paradosso di certo post-classismo contemporaneo: exit la lotta di classe, entri pure la presa di coscienza di quanto è brutto e cattivo il capitalismo ad uso e consumo delle «individualità critiche». Ovvero: la meccanica puramente oggettiva del capitale «soggetto automatico» a spasso, mano nella mano, con l'indeterminatezza del puro libero arbitrio. Due assurdità al prezzo di una. Se il 2021 sarà veramente, come ha scritto qualcuno, un 1979 al contrario4, sarà tale anche nel fare piazza pulita di simili derive.

Lasciamo ai duri di comprendonio un enigma su cui potranno spaccarsi le meningi: determinismo non è oggettivismo.

Il Lato Cattivo, giugno 2021

* * *

Il pregio di Mattick, il suo approccio marxista – a confronto del quale Baran e Sweezy si rivelano quasi dei keynesiani – è al tempo stesso il suo difetto, o quantomeno segna i limiti della sua prospettiva. Dal punto di vista di Mattick, la dinamica del capitalismo può essere compresa conoscendo le leggi dell’accumulazione capitalistica. Queste leggi, in ultima istanza, portano il processo di accumulazione ad una via senza uscita, ad un punto in cui i profitti sono insufficienti per un’ulteriore accumulazione. Lungi dal risolvere le contraddizioni classiche del capitalismo, l’intervento dello Stato è solamente l’ammissione della loro persistenza. La contraddizione riappare sotto forma di una crescita mostruosa delle spese improduttive. La «economia mista», non meno che l’economia di mercato, ha i propri limiti, limiti determinati dalle sue contraddizioni interne. Presto o tardi queste contraddizioni diventeranno insormontabili. Come risultato, la lotta di classe potrà intensificarsi e assumere un carattere rivoluzionario. La possibilità rivoluzionaria dipende dalle contraddizioni interne dell’economia.

In questo tipo di analisi, la classe operaia è solo «tacitamente presente»; cioè il suo manifestarsi come classe rivoluzionaria è anticipato e persino sottinteso (se sono date le altre condizioni circa le sue capacità soggettive) nella teoria del crollo, ma al di qua di questa soglia la sua lotta non sembra avere un impatto qualitativo sull’economia. La lotta sui salari e le condizioni di lavoro si svolge all’interno del perimetro della legge del valore. Le leggi dell’accumulazione – e in particolare la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto – che definiscono la dinamica del sistema, includono questa lotta in quanto lotta sul saggio di sfruttamento, una delle variabili dell’accumulazione. La lotta di classe, in questi termini, è dominata dalle «leggi di movimento» dell’economia, e non le viola.

Una teoria alternativa, che postula la lotta di classe come fattore dinamico del capitalismo, venne sviluppata all’inizio degli anni ‘60 da Cornelius Castoriadis (conosciuto anche con lo gli pseudonimi di Paul Cardan e Pierre Chaulieu), principale esponente del gruppo francese Socialisme ou Barbarie5. Più tardi, la rivista americana Zerowork6, influenzata da correnti teoriche italiane, è uscita con un’analisi della crisi che presenta alcune similitudini con l’approccio di Castoriadis. Anche Glyn e Sutcliffe in Gran Bretagna, nel loro libro Sindacati e contrazione del profitto: il caso inglese (Laterza, Roma-Bari 1975), esposero un’interpretazione della situazione britannica alla fine degli anni ‘60 simile a quella di Castoriadis. Non è un caso che un autore decisamente influenzato da Mattick come David Yaffe, abbia criticato quest’interpretazione. Sebbene si possa fare riferimento anche ad altre tendenze e altri autori, nel testo che segue utilizzerò Mattick come rappresentante di una certa tendenza, e Castoriadis e Zerowork come rappresentanti della tendenza opposta.

L’origine di questo dissidio risale agli anni ‘30, quando Karl Korsch avanzò l’idea – in seguito respinta – che dopo il 1850 la teoria di Marx avesse effettuato una progressiva conversione verso un determinismo che ignora la lotta di classe. Korsch si risolse poi nell’idea che si trattava solo di una differenza di accento, e che il Marx della lotta di classe e il Marx della «contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione» si completavano a vicenda.

Castoriadis, viceversa, trattò Marx come un determinista, e ne dedusse che le teorie economiche di Marx non erano valide. Non tenterò qui di approfondire gli argomenti di Castoriadis contro Marx. Egli soleva contrapporre a ciò che viene generalmente, e sbrigativamente, considerato come «marxismo» – cioè il determinismo e il riduzionismo economici – un «nuovo» punto di partenza teorico. La crisi della società, egli pensava, non è puramente economica, ma è la crisi di un intero edificio sociale; essa concerne ogni uomo e ogni donna nel loro quotidiano. Ciò che è importante, secondo Castoriadis, non sono le contraddizioni del sistema economico, ma tutto ciò che tende verso una trasformazione radicale della società mediante l’auto-attività degli individui. Egli affermava che «l’auto-attività è la categoria teorica centrale». Una lettura partecipe di Marx mostrerebbe nei fatti che l’auto-attività è la vera negazione del capitale, la categoria centrale della sua opera. Castoriadis, invece, nella sua lettura insensibile, oppone questa categoria alle leggi economiche marxiane.

Secondo Castoriadis, la pecca di Marx, quella di non tener conto dell’auto-attività nelle sue teorie economiche, ha reso queste ultime obsolete. Contrariamente alle aspettative di Marx, il saggio di sfruttamento (detto anche saggio del plusvalore) non è aumentato costantemente, ma al contrario, nei paesi capitalistici avanzati, è rimasto costante per un certo tempo. Ciò di cui Marx non ha tenuto conto – diceva Castoriadis – è la capacità della classe operaia di conquistare con la lotta un continuo incremento dei salari. Inoltre – e nonostante questo incremento – il capitalismo non è crollato, ma continua a prosperare. Mediante l’espansione del mercato e l’intervento deliberato dello Stato nell’economia, il sistema – sebbene non esente da recessioni – ha perpetuato se stesso senza crisi economiche profonde; e, per di più, non ci si deve attendere nulla dalle sole contraddizioni, per quanto insolubili, del processo di accumulazione. Se il sistema entra in crisi, ciò sarà dovuto alle contraddizioni provenienti dalla burocratizzazione della società, che per Castoriadis è la tendenza essenziale del capitalismo, e della lotta di classe, che per Castoriadis è la vera dinamica del capitalismo.

Discutendo la situazione vigente nella sua introduzione all’edizione del 1974 di Capitalismo moderno e rivoluzione7, Castoriadis non vedeva alcuna ragione per modificare il proprio punto di vista. Egli pensava che la causa principale dell’alto tasso di inflazione fosse la «la crescente pressione […] dei lavoratori salariati e stipendiati per redditi più elevati, meno ore di lavoro e, in misura sempre maggiore, per cambiamenti nelle loro condizioni di lavoro». La conseguenza internazionale di questa crescita del tasso di inflazione dovuta alle lotte sociali, combinata con altri fattori irrazionali che egli considerava «estranei all'economia» (ad esempio le decisioni di natura politica di un certo presidente) avrebbe potuto identificarsi – secondo lui – ad una grave crisi economica, ma essa «non sarà il prodotto di quei fattori che la concezione marxista considera operanti e fondamentali».

Alla fine del 1975, la rivista Zerowork propose un’analisi della crisi in corso che, come quella di Castoriadis, metteva l’accento sulla lotta di classe:

«Dal punto di vista capitalistico, ogni crisi appare come il risultato di un intreccio misterioso di “leggi” economiche e di relazioni che si modificano e si sviluppano acquisendo una vita propria […]. La nostra analisi di classe procede dal punto di vista opposto, quello della classe operaia. In questo rapporto di classe, il capitale è innanzitutto lotta per il potere. Il “limite” del capitale non è nel capitale stesso, e non è la crisi; esso è determinato dalla dinamica della lotta operaia […]. La nuova sinistra vede la crisi dal punto di vista degli economisti, cioè dal punto di vista del capitale […]. Per la sinistra, la classe operaia non può aver prodotto la crisi, essa è piuttosto una vittima innocente delle contraddizioni interne del capitale, un elemento subordinato ad un contesto contraddittorio. Ecco perché la sinistra si preoccupa della difesa della classe operaia»8.

Per Zerowork, il keynesismo fu una strategia basata su un nuovo rapporto fra il capitale e la classe operaia, risultato dalle lotte precedenti. Il «pieno impiego» era stato imposto al capitale. La contro- strategia capitalistica consisteva nel recuperare gli aumenti salariali per mezzo dell’inflazione, espandere il mercato interno ed istituire premi di produttività. Il ciclo di lotte degli anni ‘60 e dei primi anni ‘70, caratterizzato dal «rifiuto del lavoro», ovvero da un’azione tendente a separare il reddito dal lavoro (nella quale l’unità strategica di salariati e non-salariati gioca un ruolo essenziale) impone la crisi al capitale. In effetti, i redditi in costante aumento rivendicati da tutti i settori della classe operaia, combinati con un crescente assenteismo, con «delitti contro la proprietà», con un elevato turn-over, con sabotaggi, con l’opposizione ai premi di produttività, etc., hanno teso a sganciare il reddito dalla produttività, e perciò ad erodere i margini di profitto capitalistici. La classe operaia ha fatto a pezzi l’equilibrio keynesiano facendo sì che i redditi crescano più rapidamente della produttività. Il capitale risponde allora con una strategia di crisi pianificata, tendente a richiudere la frattura fra reddito e lavoro.

Le tesi di Zerowork pongono al centro il saggio di sfruttamento. Esse comportano, come causa originaria della crisi attuale, un intervento attivo da parte della classe operaia per ridurre il saggio di sfruttamento:

«La crisi è caratterizzata da una caduta senza precedenti del saggio di sfruttamento». (op. cit., p. 63)9.

In Inghilterra, dove Glyn e Sutcliffe hanno tentato di dare risalto ad un punto di vista simile, la loro tesi è stata contestata da David Yaffe, che interpretava i fatti in modo differente. La tesi condivisa da Glyn e Sutcliffe e da Zerowork è ancora più forte di quella di Castoriadis. Prima di esaminare la controversia tra Glyn-Sutcliffe e Yaffe, devo fare una precisazione. Nel 1974, Castoriadis sosteneva che la pressione salariale (come pure le rivendicazioni per la diminuzione dell’orario lavorativo e per il miglioramento delle condizioni di lavoro) fosse inflazionistica, e che l’iperinflazione avesse un effetto destabilizzante sull’economia mondiale. Un mutamento nel comportamento dei lavoratori in una determinata fase economica aveva prodotto una recessione mondiale: «Il fattore decisivo, in questo caso, è il cambiamento secolare nel comportamento dei lavoratori salariati e stipendiati, che sono giunti a considerare l’incremento dei loro redditi reali, anno dopo anno, come indiscutibile […]», quale che sia lo stato dell’economia. Consentendo alla disoccupazione di raggiungere livelli catastrofici, si potrebbero cancellare queste aspettative (e così avviene in realtà), ma solo al prezzo di creare una situazione potenzialmente esplosiva. Non si parla qui di incrementi salariali che incidono sui margini di profitto. Ciò che conta per Castoriadis è l’auto- attività, il fatto che i lavoratori cessino di comportarsi come oggetti manipolabili, moderando le loro richieste in funzione della congiuntura. Non era necessario, secondo l’argomentazione di Castoriadis, che la pressione salariale risultasse effettivamente in salari reali più alti, ma solo che essa desse inizio ad una spirale inflazionistica, foriera di un’instabilità monetaria internazionale con effetti deleteri sul commercio mondiale.

L’argomentazione di Zerowork è simile, nel senso che il suo intento principale è comprendere come la classe operaia spezza il tentativo capitalistico di mantenerla al rango di un «fattore di produzione» prevedibile, e diviene un’unità di lotta. Ciò che Castoriadis definisce il «mutamento secolare nel comportamento», Zerowork lo vede come «ricomposizione politica della classe operaia». Dove Zerowork diverge da Castoriadis, è nell’esaltare la pressione salariale piuttosto che altre forme d’appropriazione di reddito (welfare, espropri nei supermercati, autoriduzioni dei trasporti, scioperi degli affitti, etc.), e nel concludere in ultima istanza che la domanda di reddito, combinata con lotte che incidono negativamente sulla produttività, sono la causa della crisi di redditività. Su quest'ultimo punto, Zerowork concorda con Glyn e Sutcliffe.

Il ragionamento di questi ultimi si basava su dati statistici che essi avevano interpretato come una conferma del fatto che in Gran Bretagna, fra 1964 e il 1970, i profitti erano caduti mentre i salari erano cresciuti come percentuale del reddito nazionale. Yaffe ha criticato il loro uso delle statistiche e ha tentato di dimostrare che in realtà, in quel periodo, c’era stato un declino nella quota dei salari reali netti (al netto del prelievo fiscale) relativamente al reddito nazionale. Nello stesso periodo, la produttività è cresciuta più rapidamente dei salari reali. In altre parole, il saggio di sfruttamento aveva continuato ad aumentare. Se questo è vero, le analisi di Glyn-Sutcliffe e di Zerowork non sono in grado di cogliere le origini della crisi di redditività. Essa non può essere dovuta ad una semplice caduta del saggio di sfruttamento, al fatto che i salari reali sarebbero cresciuti più in fretta della produttività.

Per Yaffe, esiste effettivamente un problema relativo al saggio del sfruttamento, ma esso deriva dalle contraddizioni interne del capitalismo moderno, piuttosto che dalla combattività degli operai. Come Mattick, Yaffe è convinto che il capitalismo moderno crei un bisogno di plusvalore che esso non può soddisfare adeguatamente. Poiché sempre più capitale viene impiegato nel settore statale, il totale dei profitti conseguiti è estratto da una base di capitale privato che, in termini relativi, va restringendosi. In questa situazione, la sola via per conservare il tasso medio di profitto è che il saggio di sfruttamento aumenti più rapidamente di quello:

«Al fine di poter finanziare la spesa pubblica con il plusvalore prodotto nel settore privato dell’economia, il saggio di sfruttamento deve essere incrementato più rapidamente di prima per prevenire una effettiva caduta del saggio di profitto e un più rapido aumento del tasso di inflazione».

Il ragionamento di Yaffe si fonda sul presupposto che il capitale variabile consista solo di salari pagati ai lavoratori produttivi, cioè quelli coinvolti nella produzione del plusvalore. Il saggio di sfruttamento non è allora determinato dal livello generale dei salari, ma dal rapporto fra la quota di reddito dei lavoratori produttivi e il plusvalore totale prodotto. Così, se il numero di lavoratori produttivi rimane relativamente stabile o diminuisce, un aumento generale dei salari e un aumento continuo del saggio di sfruttamento sono compatibili, se nel contempo la produttività fa sostanziali progressi. Questa è la base teorica per dedurre che il saggio di sfruttamento ha continuato ad aumentare in Gran Bretagna. Tuttavia, una parte sempre maggiore del plusvalore prodotto è stata impiegata in spese improduttive, non solo come produzione di Stato e previdenza sociale, ma anche come finanza e commercio. In altre parole, la sfera produttiva è stata prosciugata, o «saccheggiata», dalla sfera improduttiva. Sebbene la produttività abbia continuato ad aumentare, non è cresciuta abbastanza rapidamente da produrre una massa di profitti sufficiente a soddisfare tutti i prelievi esercitati sul plusvalore totale dalle due sfere, quella produttiva e quella improduttiva. La spirale inflazionistica sarebbe allora il risultato del fatto che i prelievi sulla massa totale dei profitti superano la sua disponibilità. Certo, i lavoratori hanno lottato per mantenere il prezzo della merce di cui sono portatori – la forza-lavoro – al livello degli altri prezzi, ma la causa fondamentale dell’inflazione è l’accresciuta spesa improduttiva, che a sua volta cresce costantemente perché lo Stato cerca di mantenere alta la produttività, e quindi anche il livello di occupazione, nonostante la stagnazione cronica dovuta fondamentalmente alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Se, dunque, il capitale britannico tenta di spingere verso il basso i salari e di ristrutturare l’industria con conseguenti licenziamenti di lavoratori, è al fine di accrescere la produttività e aumentare ulteriormente il saggio di sfruttamento10.

Sia per Yaffe che per Mattick, l’insufficiente aumento della produttività è innanzitutto un risultato, e solo secondariamente una causa della diminuita redditività. Poiché la recessione post-bellica non si risolse e non poteva risolversi in una classica espansione capitalistica, ma piuttosto in un’espansione del solo settore statale, sovrapposta ad un’autentica stagnazione, l’investimento in nuovi impianti, necessario per un significativo aumento della produttività, non poteva avere luogo. Il rallentamento della produttività deriva fondamentalmente dalle contraddizioni interne del capitale, e ha la sua origine nella caduta tendenziale del saggio di profitto, che non può essere invertita dalle politiche keynesiane.

Sarebbe però ingenuo presumere che ciò che qui è un risultato, sia un semplice dato di fatto.

Zerowork presenta la sua analisi come base per la comprensione della strategia della classe operaia in questo periodo, ed egualmente come base per l’organizzazione rivoluzionaria. La classe operaia si presenterebbe con la richiesta di un reddito addizionale sganciato dal lavoro, e rivendicherebbe un salario per lavori sino ad ora non retribuiti (ad es. il lavoro domestico). Le analisi influenzate da Mattick tendono invece a considerare le varie iniziative operaie come la risposta a condizioni di vita deteriorate11. Entrambe puntano su mezzi e forme di lotta simili, ed entrambe enfatizzano l’autonomia della classe operaia. Ma, messe a confronto, una privilegia l’offensiva ed è più «volontarista», mentre l’altra privilegia l’aspetto difensivo della lotta ed è incline ad un orientamento «spontaneista». Zerowork presenta le sue conclusioni in modo risoluto e polemico, e afferma che non vi è una via di mezzo fra ciò che chiama «il punto di vista capitalistico» secondo cui la crisi sorge dalle contraddizioni interne dell’economia e ciò che chiama «il punto di vista operaio», secondo cui essa viene imposta al capitale dalla classe operaia. Tuttavia, i due punti di vista non sono necessariamente così reciprocamente opposti come pretende Zerowork.

Mattick sottolinea spesso che il classico ragionamento marxiano sulla caduta tendenziale del saggio di profitto si svolge ad un alto livello di astrazione, e non esaurisce la discussione sulla redditività, la quale deve anche tenere conto della complessità del capitalismo reale, concreto. L’analisi di Marx, dopotutto, astrae dalla concorrenza e postula l’esistenza di due sole classi in una società puramente capitalistica. Quindi, per Marx, la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto è, per l'appunto, solo una tendenza, conseguenza ed espressione dell’accresciuta produttività del lavoro, che viene contrastata da altre tendenze: razionalizzazione, riduzione del tempo di circolazione del capitale (medianti migliori trasporti e comunicazioni), apertura di nuove branche produttive aventi una bassa composizione organica e quindi un alto saggio di profitto, devalorizzazione del capitale nelle crisi, importazione di beni alimentari e materie prime a buon mercato, apertura di nuove aree per fruttuosi investimenti di capitale, e infine incremento del saggio di sfruttamento. La tendenza all’aumento del saggio di sfruttamento si oppone a quella della caduta del saggio di profitto, ed entrambe queste tendenze sono il risultato dell’accresciuta produttività del lavoro. Ma il deliberato tentativo dei capitalisti di accrescere o mantenere i profitti aumentando il saggio di sfruttamento mediante salari più bassi e intensificando il lavoro (aumento delle cadenze) ha un’immediata ricaduta politica12. Questi mezzi per aumentare il saggio di sfruttamento degradano ed esasperano i lavoratori, spingendoli – secondo la concezione classica – a rovesciare il sistema:

«[…] la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento [cresce], ma [con essa] cresce anche la ribellione della classe operaia»13.

La caduta tendenziale del saggio di profitto e le sue controtendenze costituiscono una sola dinamica, che è alla base e determina il carattere dell’accumulazione capitalistica, spiega la natura intrinseca delle crisi capitalistiche, e definisce il contesto della lotta, sia dei capitalisti fra loro che fra le classi, per la ripartizione del valore aggiunto. Per Mattick, che si rifà ad Henryk Grossman, il significato ultimo della caduta del saggio di profitto è che essa limita la crescita della massa del profitto, finché questa non diviene insufficiente per una redditizia espansione del capitale privato.

Le confutazioni e revisioni della dottrina di Marx, come pure le sue apologie, trattano spesso delle controtendenze alla caduta del saggio di profitto, della loro capacità a preservare il sistema e dei loro limiti. Fino a un certo punto, l’espansione imperialista si è mostrata molto efficace per il capitale; la stessa guerra mondiale, come afferma Mattick, è servita letteralmente a distruggere capitale, ricreando le condizioni per un periodo di espansione, mentre la crescente monopolizzazione ostacolava la devalorizzazione nella crisi; la taylorizzazione del processo produttivo ha consentito un aumento della produzione e quindi dei salari senza con ciò diminuire il saggio di sfruttamento14, e in secondo luogo ha consentito una espansione del mercato interno; l’espansione del credito è stata un altro fattore; l’intervento dello Stato ha spesso comportato una certa razionalizzazione; trasporti e telecomunicazioni sono migliorati in maniera fenomenale, riducendo il tempo di circolazione del capitale.

Mattick prende in esame le controtendenze a queste controtendenze, i loro limiti. Per esempio, i costi pubblicitari associati ad un più vasto mercato interno per le industrie monopolistiche, assorbono plusvalore; i «profitti» realizzati nell’ambito della produzione di Stato sono in realtà un prelievo sul plusvalore prodotto. Mentre Castoriadis respinge la teoria di Marx, sostenendo che il saggio di sfruttamento non è cresciuto, e Zerowork afferma che la crisi è il risultato della riduzione del saggio di sfruttamento della classe operaia, Mattick riafferma la teoria classica sottolineando i limiti intrinseci dei mezzi utilizzati per preservare il sistema, e prevedendo un punto in cui il raggiungimento di questi limiti provocherà un inasprimento della lotta intorno al saggio di sfruttamento.

Alan Jones ha tentato di risolvere il dibattito tra Yaffe e Glyn-Sutcliffe in questo modo:

«Allo scoppio di una crisi congiunturale, in particolare quando il processo di accumulazione incontra delle difficoltà, è perfettamente possibile, persino inevitabile, che la lotta aperta sul saggio di sfruttamento funzioni come causa dell’innesco della crisi generale […]. Tuttavia non vi è nulla di contraddittorio nell’affermare che in ultima analisi il motivo della caduta del saggio di profitto è un mutamento nella composizione organica del capitale e nell’affermare che in un capitalismo dato, ad un momento dato, l’elemento scatenante della crisi è rappresentato dalla lotta diretta fra la classe operaia e la borghesia sul saggio del plusvalore»15.

Di fatto, l’aumento del saggio di sfruttamento è rallentato «in conseguenza del Maggio 1968 e della continua combattività della classe operaia. L’aumento del saggio di sfruttamento fu rallentato dalla resistenza dei lavoratori e perciò non esercitò più una forza sufficiente a contrastare l’effetto negativo dell’aumento della composizione organica del capitale»16.

Questo approccio mi sembra il più fruttuoso, perché consente di tener conto sia del sistema economico che della lotta di classe, senza immaginare che l’uno sia indipendente dall’altro o completamente determinato dall’altro. Esso ci consente di riconoscere la classe operaia come un fattore attivo nel contesto di un sistema economico che ha le sue contraddizioni interne.

La classe operaia non arriva semplicemente ex post facto a salvare il mondo dalla miseria in cui il capitalismo lo ha precipitato. Se le crisi dimostrano che il capitalismo non ha risolto le sue contraddizioni interne e ha bisogno, come sostiene Yaffe, di aumentare il saggio di sfruttamento più rapidamente di prima, esse dimostrano anche che la classe operaia non è divenuta una componente integrata e manipolata a piacere dal sistema, ma è capace di auto-attività. La sua combattività diviene un ostacolo al funzionamento di un sistema che ha le sue esigenze.

A causa dei differenti livelli di astrazione su cui la discussione viene condotta – teorico e astratto per Mattick e Yaffe, più empirico per Castoriadis e Zerowork – la correlazione e la natura potenzialmente complementare dei due punti di vista non viene inteso. Negli anni ‘30, Anton Pannekoek criticò le teorie economiche dell’ispiratore di Mattick, Henryk Grossman, perché esse trascuravano l’intervento umano. Mattick rispose:

«Persino per Grossman non esistono problemi “puramente economici”; tuttavia questo non impedisce, nella sua analisi delle leggi dell’accumulazione, di limitarsi per ragioni metodologiche alla definizione di presupposti puramente economici, e in tal modo di giungere alla comprensione teorica dei limiti oggettivi del sistema. La cognizione teorica che il sistema capitalistico, a causa delle sue contraddizioni, deve necessariamente procedere verso il crollo non implica affatto che il crollo reale sia un processo automatico, indipendente dagli uomini»17.

Mattick non rimane al livello di astrazione che Grossman applica alla sua teoria della crisi. Egli mette in relazione il modello puro con i fenomeni del capitalismo moderno; ma anch’egli tende a volgersi all’economia, astraendo dalla lotta di classe. Mattick è ben cosciente dei limiti di Grossman e delle applicazioni del suo approccio, e li accetta come limiti auto-imposti per ragioni metodologiche. Secondo lui, tutto ciò che si può dedurre a partire da un’analisi sulle tendenze di sviluppo del capitalismo è che si verificheranno delle crisi e «si presenterà la possibilità di una trasformazione della lotta di classe all’interno della società in una lotta per un’altra forma di società». La teoria economica «non può far altro che dar coscienza delle condizioni oggettive nelle quali deve svilupparsi la lotta di classe e che ne determinano l’indirizzo»18.

Sebbene, come momentaneo procedimento metodologico, questa separazione della teoria economica possa essere giustificata, ogni ipostatizzazione permanente della teoria economica deve tuttavia essere respinta. Come ha affermato Geoffrey Kay, criticando Yaffe:

«L’interpretazione abituale della legge (della caduta del saggio di profitto, nda) può essere criticata […] per il fatto di reificare il processo economico, e di conseguenza separare la lotta di classe dall’accumulazione del capitale. Il proletario rimane sullo sfondo […] La legge, così com’è intesa abitualmente, non può consentire alcuna reale comprensione della crisi finale del capitalismo come travaglio della nascita di una nuova forma di società […] non può dirci nulla circa la classe che farà la rivoluzione […]. Oggettivando l’economia e negando al proletariato qualsiasi ruolo attivo e qualitativo nella formazione della crisi, l’economia marxista ha negato a se stessa qualsiasi possibilità di analizzare sistematicamente la lotta di classe nelle sue forme concrete, e ha rigettato il problema dell’organizzazione politica della classe operaia nel limbo della retorica ideologica»19.

* * *

L’approccio che analizza gli sviluppi recenti in termini di lotta di classe è più diffusamente applicato in Italia, poiché la sua competitività post-bellica era basata in gran parte sui bassi salari. Molti commentatori sostengono che «fu soprattutto il lavoro autoctono a buon mercato a finanziare la ricostruzione economica post-bellica dell’Italia».

«Le industrie esportatrici erano quindi in grado di vendere i loro prodotti a prezzi stabili e decrescenti, mantenendo margini di profitto abbastanza alti da autofinanziare l’ulteriore espansione industriale […]. Quando gli operai cominciarono a domandare salari più alti, l’intero castello di carte crollò […]. Da dieci anni a questa parte è stata la lotta di classe, e specialmente – anche se non esclusivamente – il conseguente aumento del costo del lavoro, a determinare i cicli economici italiani»20.

Nel dopoguerra, le industrie italiane dell’acciaio, dell’automobile e della chimica, si svilupparono con tecnologie avanzate, che consentirono all’Italia dei trarre vantaggio dalla liberalizzazione post- bellica del commercio. La repressione del movimento operaio garantiva bassi salari. All’inizio degli anni ‘60 vari fattori contribuirono ad innalzare il livello di militanza dei lavoratori. Uno di questi fu l’accresciuta parcellizzazione del lavoro e il processo di dequalificazione che cominciò a rompere la vecchia gerarchia della forza lavoro. Un altro fu la riduzione della disoccupazione come risultato del «miracolo economico». La nuova unità e forza della classe operaia si manifestò con l’ondata di scioperi del 1962, che garantì sostanziali conquiste salariali.

In risposta, il capitale dapprima alzò i prezzi e poi, nel 1963, bloccò il credito per combattere l’inflazione. Il saggio d’investimento era già caduto. La stretta creditizia ridusse ancora gli investimenti, e ne seguì una recessione di tre anni, durante la quale i capitalisti ristrutturarono le fabbriche in vista di una maggiore produttività. La produzione crebbe ed i salari diminuirono. Seguì un periodo di ripresa, ma essa era fondata più sul disciplinamento del lavoro che su nuovi investimenti.

In termini generali, l’economia italiana rimase stagnante dopo il 1963. Un altro commentatore osserva:

«La temporanea debolezza (della classe operaia italiana, nda) consentì una nuova fase di crescita nel 1966-1968, ma questa fu ottenuto essenzialmente con la riduzione dei tempi, con pochissimi investimenti in tecnologie più moderne […]. A partire dal 1963-64, i capitalisti italiani hanno investito molto poco, e il crescente ritardo tecnologico ha reso le esportazioni italiane sempre meno competitive»21.

Gli effetti della razionalizzazione delle condizioni di lavoro, oltre al deterioramento delle condizioni di vita nelle grandi città, portò all’«autunno caldo» del 1969. In risposta all’aumento dei ritmi, i lavoratori scioperarono per ottenere un maggior controllo sull’organizzazione e sui ritmi di lavoro, e per aumenti salariali. Per ottenere ciò, dovettero lottare tanto contro i sindacati quanto contro i padroni, e creare forme organizzative autonome: assemblee, consigli di fabbrica e consigli a carattere territoriale. In quel periodo, i lavoratori conquistarono sia sostanziali aumenti salariali, sia un certo potere di contrastare i progetti di ristrutturazione del padronato.

Come al solito, i capitalisti alzarono i prezzi e restrinsero il credito in conseguenza. Tuttavia, la recensione del 1970-72 non corrispose alle speranze di una minore agitazione, e i salari continuarono ad aumentare. In seguito, i problemi italiani si aggravarono per effetto dell’instabilità economica a livello generale. In aggiunta al crescente costo del lavoro ed alla resistenza alla ristrutturazione, il capitale italiano dovette affrontare l’iperinflazione mondiale e le difficili condizioni del mercato. Poiché i costi delle importazioni – specialmente alimentari e petrolifere – aumentavano, e i mercati per i prodotti italiani si contraevano, il deficit commerciale dell’Italia divenne insopportabile e il paese fu costretto ad una dipendenza senza precedenti dal credito internazionale per evitare la bancarotta sul piano ufficiale.

L’offensiva capitalistica successiva ha comportato l’aumento degli straordinari, la riduzione delle festività, l’aumento dei ritmi, e il tentativo di rendere inoperante la scala mobile dei salari. Il tentativo di condizionare un nuovo prestito del Fondo Monetario Internazionale allo svuotamento della scala mobile, è stato respinto vittoriosamente dai lavoratori nella primavera del 1977. La strategia di lungo termine del capitalismo italiano è di rompere il livello di omogeneità raggiunto dalla classe operaia negli anni precedenti, decentrando alcune operazioni di montaggio ed estendendo l’automazione; e di convertire l’industria alla produzione di beni di capitale, ciò che implica la mobilità del lavoro e un lungo periodo di disoccupazione assai elevata. I lavoratori hanno risposto con scioperi selvaggi, sabotaggi, organizzazione autonoma, espropriazioni, autoriduzioni, etc.

Esteriormente, il dato comune di tutto ciò è una lotta sempre più intensa sul saggio di sfruttamento. La forza del capitalismo italiano sembra essere dipesa da una forza-lavoro disciplinata, quantomeno nel dopoguerra. Ogni volta che la classe operaia italiana ha cominciato a rompere questi limiti, l’espansione economica è parsa compromessa e la classe dominante è stata condotta a rispondere con un giro di vite. Ogni vittoria operaia sul fronte salariale si scontra con un aumento dei prezzi, una recessione amministrata e un attacco a livello del processo di lavoro. Di fronte alle difficili condizioni del mercato e senza una classe operaia docile, l’Italia ha dovuto rivolgersi ai prestiti internazionali. Il capitale di investimento interno, che è scarseggiato a partire dal 1963, veniva precedentemente ottenuto solo grazie al basso costo della forza-lavoro locale.

Se questo resoconto empirico restituisce concretezza e specificità all’intensificazione della lotta sul saggio di sfruttamento in Italia, e indica come sia stata decisiva nel determinare l’azione e l’organizzazione autonoma, esso non giustifica pienamente la conclusione che la crisi italiana sia stata «provocata» dall’azione della classe operaia. Dobbiamo fare un passo indietro e chiederci perché l’espansione italiana post-bellica necessitasse di bassi salari; dobbiamo notare che, nel periodo di ricostruzione del dopoguerra, essa era basata su investimenti in nuove industrie, e che dopo di allora non sono più stati effettuati investimenti sostanziali. Se la classe operaia ha precipitato la crisi italiana, è perché il capitale italiano era estremamente vulnerabile all’auto-attività dei lavoratori. È un sistema con ridotti spazi di manovra, che non può tollerare vittorie operaie. Guardando alle «cause», si dovrebbe tornare indietro al periodo anteguerra, e porre questioni generali circa la crisi del capitale fra le due guerre ed i mezzi usati dai capitalisti per superare quella crisi, in altre parole ci si dovrebbe porre proprio quelle questioni a cui Mattick tenta di rispondere in Marx e Keynes22.

In Gran Bretagna, è stata la penuria cronica di investimenti, oltre alla combattività della classe operaia inglese dal 1910 in avanti, a servire da pungolo alle teorie di Keynes. Ed è in Gran Bretagna che le politiche keynesiane sono state applicate più estesamente, e che i limiti dell’economia mista sono risultati più evidenti. Un apparato industriale obsoleto, un bilancio statale in costante espansione, spese per la previdenza sociale relativamente alte, ed un vasto e crescente settore industriale controllato dallo Stato, sono tutti risultati dalla bassa redditività di lungo periodo che ha reso la Gran Bretagna poco attraente per gli investimenti privati e non-competitiva sul mercato mondiale. Nel 1976, la più clamorosa manifestazione di queste condizioni fu il crollo della sterlina.

Per risolvere i suoi problemi monetari, la Gran Bretagna avrebbe dovuto diventare competitiva (preferibilmente in una situazione in cui il commercio mondiale fosse in espansione). E per raggiungere questo obiettivo, avrebbe dovuto diminuire il costo unitario del lavoro, cioè incrementare la produttività e bloccare i salari. Negli anni ‘60 l’industria britannica tentò di fare ciò compensando gli aumenti salariali con varie misure organizzative volte ad aumentare la produttività, e dando il via ad una politica dei redditi. Ma ciò si rivelò inefficace, sia per la crescente combattività operaia – che comportava una crescente tendenza a respingere i premi di produttività – sia perché era diventato evidente che occorrevano larghe immissioni di capitale per ristabilire la redditività del capitale britannico.

Si potrebbe dire che l’ondata di lotte dei tardi anni ‘60 e primi anni ‘70 abbia spinto la Gran Bretagna in uno stato prossimo alla bancarotta, che la ha resa dipendente dal FMI (perlomeno fino a che non si concretizzeranno le rendite petrolifere attese). Ma tutto ciò deve essere visto nel contesto di una cronica stagnazione economica. Un articolo del 1973 sulla Gran Bretagna riassume la situazione in questo modo:

«Il capitale britannico, danneggiato da decenni di scarsi investimenti, richiede un loro sostanziale aumento se vuole affrontare con successo la crescente pressione della competizione internazionale. Le rivendicazioni salariali senza precedenti e gli accordi salariali degli ultimi cinque anni […] hanno manifestamente aggravato questo problema. Inoltre, la disponibilità dei lavoratori a cooperare ad un più intenso sfruttamento del lavoro, nonostante gli accordi di produttività, è in buona parte svanita con la fine degli anni ‘60»23.

Il problema generale dell’economia capitalistica, ovvero la «penuria di capitali», viene pesantemente avvertito in Gran Bretagna, come pure in Italia.

«In nessun paese vi è una crisi capitalistica più acuta che in Gran Bretagna e in Italia […]. La Gran Bretagna deve investire circa 45 miliardi di dollari in nuovi impianti e macchinari per diventare competitiva con i suoi vicini del Mercato Comune e con rivali commerciali quali il Giappone. Di fatto, il governo britannico stimava (nel 1975) che gli investimenti nell’industria sarebbero diminuiti […]»24.

Così i capitalisti pianificatori hanno parlato di «correzione dell’equilibrio fra consumi e produzione», cioè di abbassare i salari e le spese improduttive nella speranza che questo rendesse disponibili maggiori fondi per l’investimento. Tuttavia, i politici debbono mettere in conto la possibilità di un intensificazione della lotta di classe, che la riduzione dei salari e della spesa sociale, unite alla crescente disoccupazione, potrebbero provocare – anche se sarebbe inconcludente continuare con le vecchie politiche.

Per esempio, in Gran Bretagna, dopo il crollo della sterlina, il Cancelliere dello Scacchiere affermava che «le alternative da presentare al Fondo Monetario Internazionale per un nuovo prestito sarebbero “politiche economiche cosi selvagge che potrebbero portare a tumulti per le strade”»25. Ciononostante, il prestito del FMI ha comportato nuovi tagli nelle spese per la previdenza sociale; il pieno impiego è diventato un ricordo del passato e lo Stato previdenziale viene progressivamente smantellato.

Che quella del Cancelliere non fosse pura retorica, è dimostrato dal fatto che questo scenario si è rapidamente verificato in Egitto, quando nel gennaio del 1977 un aumento nei prezzi dei beni alimentari e del carburante, amministrati dallo Stato – misura presa per andare incontro alle richieste del FMI – fece effettivamente scoppiare disordini di piazza. La rivolta polacca del 1976 è un’altra variante di questo schema: essa fu originata da aumenti dei prezzi varati in seguito ad un prestito che la Polonia doveva ricevere. Più tardi, in novembre, Breznev si decise a prestare alla Polonia 1,3 miliardi di dollari, «allorché i dirigenti politici polacchi lo convinsero che senza aiuti economici la rivolta operaia dell’agosto precedente sarebbe stata solo un preludio al ripetersi dell’insurrezione del 1956»26. In generale, il capitale si trova ora costretto ad espandere pericolosamente il credito oltre ogni limite precedentemente ammesso, là dove avverte che il suo potere di aumentare il saggio di sfruttamento è contrariato e si imbatte in una resistenza operaia troppo forte.

Recentemente, in Gran Bretagna, alcuni dirigenti sindacali sono andati affermando che il fatto che l’inflazione sia aumentata rispetto alla scorsa estate, nonostante la compressione salariale, dimostra che gli aumenti salariali non sono all’origine della spirale inflazionistica. In seguito, le pressioni della base hanno fatto fallire il tentativo di rinnovare l’accordo fra il Trades Union Congress e il governo laburista sulla moderazione salariale, e la possibilità di una nuova «esplosione dei salari» minaccia di sprofondare l’economia britannica in una crisi ancor più acuta27.

Naturalmente, le condizioni di tutti gli altri paesi non sono identiche a quelle della Gran Bretagna e dell’Italia, ma la dinamica è secondo noi abbastanza simile da poter generalizzare le conclusioni della discussione. Alla fine degli anni ‘60, il capitale si è trovato nella situazione di dover fronteggiare aspettative crescenti senza aver superato le contraddizioni economiche che lo contraddistinguono, e che limitano la produzione di ricchezza. Poiché non poteva generare profitti sufficienti per una redditizia espansione del capitale privato sulla base di un rinnovamento dell’apparato produttivo, il capitale ha dovuto espandere la sfera improduttiva e contemporaneamente tentare di incrementare la produttività attraverso la razionalizzazione e l’accresciuta intensità del lavoro. Tuttavia, cresceva la resistenza della classe operaia ai premi di produttività, e contemporaneamente cresceva anche la domanda di reddito. Il riemergere delle «contraddizioni interne» del capitalismo ha incontrato il riemergere della combattività operaia. Come risultato, il capitale ha dovuto completamente cambiare di segno alla propria ideologia: «opulenza» e «aspettative crescenti» hanno lasciato il posto alla «crescita-zero» e al «piccolo è bello». E tutta una realtà sociale è stata costruita per intonarsi a questa ideologia.

* * *

A livello empirico, troviamo capitalisti singoli, cartelli o nazioni, tutti intenti a mantenere la loro posizione concorrenziale; in primo luogo aumentando la produttività e bloccando i salari e le altre spese che possono essere considerate flessibili (come i programmi di previdenza sociale). A livello internazionale, la competizione si manifesta nella forma di squilibri commerciali e di conseguenti crisi monetarie che mettono in pericolo economie ormai interdipendenti. Tutte queste questioni, che la borghesia considera «economiche», possono essere lette contemporaneamente come espressione e occultamento sia della lotta di classe che del processo contraddittorio dell’accumulazione capitalistica. In un certo senso – che però rimette in questione il punto di vista marxista – tutto è questione di lotta di classe, poiché il processo dell’accumulazione capitalistica è basato su rapporti di produzione storicamente determinati, che si sono cristallizzati e sono stati mantenuti da una complessa combinazione di violenza fisica e di mistificazione ideologica. Tuttavia, le lotte particolari di talune frazioni della classe operaia, e il loro rapporto con particolari frazioni del capitale, non si sviluppano accidentalmente ma – conformemente alla prospettiva marxiana – nel contesto di un processo di accumulazione del capitale ineluttabile e contraddittorio, che può essere afferrato teoricamente solo sulla base di un’analisi del «capitale sociale totale», cioè ad un livello di analisi che astrae dalla concorrenza, anche se è solo per poter tornare ad essa attraverso una serie di approssimazioni.

Per i marxisti, la lotta fra operai e padroni di varie unità di capitale deve essere compresa nel contesto dell’accentuata competizione internazionale degli anni ‘60 e ‘70. Un’accentuata competizione è tipica di condizioni di crisi, in cui i capitalisti lottano per una massa di plusvalore che è insufficiente relativamente ai loro bisogni per investimenti redditizi ad un dato livello di accumulazione del capitale. Ma la crisi del capitale non è nient’altro che un’insufficienza del plusvalore totale in rapporto alla quantità che sarebbe necessaria per gli investimenti produttivi e le spese improduttive. Ne risulta che in ogni nazione, e in Gran Bretagna più che in altre a causa della sua posizione scarsamente competitiva, si è intensificata la lotta per la ripartizione del plusvalore esistente fra le sue tre funzioni: nuovo capitale costante (officine, macchinari e materie prime), nuovo capitale variabile (salari dei lavoratori produttivi) e rendita (redditi capitalistici e spese improduttive).

Se, a fini teorici, consideriamo secondaria la lotta fra capitalisti e lavoratori su quanto lavoro sia effettivamente scambiato contro un certo reddito, possiamo scoprire ciò che Mattick chiama le «condizioni oggettive nelle quali deve svilupparsi la lotta di classe e che ne determinano l’indirizzo»; cioè, in questo caso, il contesto della stagnazione economica e il fatto che l’intervento statale, lungi dal risolvere questo problema, lo trasforma in un problema di crescita incontrollata delle spese improduttive. Se infine, seguendo Marx, riconduciamo la stagnazione economica alla caduta tendenziale del saggio di profitto e ai limiti delle sue controtendenze, cioè alle contraddizioni interne del capitalismo, possiamo comprendere la sua incapacità a redistribuire le risorse, a soddisfare le rivendicazioni di una classe operaia combattiva, e perché, al contrario, esso debba periodicamente attaccare i livelli di vita della classe operaia e sforzarsi di incrementare la massa del plusvalore spremendolo da ogni singola unità di tempo di lavoro. Quest’analisi appare «oggettiva» in quanto viene sviluppata astraendo dalla lotta di classe, tuttavia essa lascia spazio alla «soggettività» in quanto mostra come la base di una relativa armonia fra le classi debba rompersi, fino a rimettere in questione gli stessi rapporti capitalistici. Essa astrae dalla lotta di classe al fine di mostrare che la crisi di redditività – il contesto in cui la lotta si sviluppa – è immanente allo sviluppo del rapporto capitalistico.

Vi sono limiti inerenti all’organizzazione della produzione e quindi, indirettamente, dell’intera vita sociale, imposti sia dal lato del rapporto capitalistico, sia dal lato del lavoro salariato. Un tale sistema deve sfociare in una multiforme degradazione delle condizioni di lavoro e di vita, compreso – sul lungo termine – un serio declino nel benessere materiale di buona parte della popolazione.

Per quanto questo approccio oggettivo regga teoricamente, se ne devono tuttavia riconoscere i limiti. Il capitalismo, sviluppandosi (e declinando), trasforma il processo di lavoro e la vita in generale, e di conseguenza il carattere e le forme di rivolta mutano anch’essi. Strategia e organizzazione sono storicamente determinate. Aderire alla dimostrazione dell’incapacità del capitalismo a sormontare le sue contraddizioni interne può al massimo porre le premesse per comprendere il carattere specifico della crisi attuale, il carattere specifico delle lotte attuali e la relazione fra l’una e le altre. Se la crisi offre «la possibilità di una trasformazione della lotta di classe all’interno della società in una lotta per una diversa forma di società», rimane da dimostrare come questa possibilità possa divenire realtà.

Dobbiamo cioè: 1) mostrare come l’intensificazione della lotta sul saggio di sfruttamento possa effettivamente diventare, o sia sul punto di diventare, una lotta rivoluzionaria che rompe le barriere del rapporto di capitale, cioè come essa possa trasformarsi in una lotta contro il lavoro salariato, e 2) partecipare a questa trasformazione.

«[“Critica”] implica, dal punto di vista dell’oggetto, un’investigazione empirica di tutte le sue relazioni e sviluppi, “condotta con la precisione di una scienza naturale”, e, dal punto di vista del soggetto, un esame di come i desideri impotenti, le intuizioni e le esigenze di singoli soggetti si sviluppano in un potere di classe storicamente efficace che guida alla “pratica rivoluzionaria”»28.


* [«Collegamenti», n. 8, giugno 1980; traduzione riveduta e corretta]

Note
1 Pierre-Noël Giraud, Le Commerce des promesses, Seuil, 2001, p. 347.
2 Neil Irwin, A rerun from the 1970s? This Economic Episode Has Different Risks, «New York Times», 18 settembre 2019. Disponibile qui: https://economictimes.indiatimes.com/news/international/world-news/a-rerun-from-the-1970s-this- economic-episode-has-different-risks/articleshow/71190263.cms.
3 Rich Miller & Craig Torres, Powell Adopts an Inflation Stance Yellen Shunned, «Bloomberg», 17 aprile 2019.
4 Cédric Durand, 1979 in Reverse, 1 giugno 2021. Disponibile qui: https://newleftreview.org/sidecar/posts/1979-in- reverse.
5 Gruppo-rivista francese in attività dal 1949 al 1965, formatosi in rottura con il trotskismo della IV Internazionale, in particolare sulla questione della natura sociale dell’URSS. Della rivista, uscirono nel periodo summenzionato una quarantina di numeri. Il gruppo entrò in crisi e si sciolse in seguito al rigetto in toto del marxismo da parte di Cornelius Castoriadis (alias Cardan, alias Chaulieu). Alcuni membri superstiti, tra cui Pierre Souyri et Jean-François Lyotard, in disaccordo con la linea di Castoriadis, fondarono il gruppo Pouvoir Ouvrier, che si sciolse nel contesto di riflusso successivo al ’68 francese. Cfr. La fine di «Socialisme ou Barbarie», disponibile qui: http://illatocattivo.blogspot.com/2012/11/la-fine-di-socialisme-ou-barbarie.html.
6 Rivista americana ispirata ai temi dell’operaismo italiano. Ne uscirono due numeri fra il 1975 e il 1977, mentre un terzo numero, in preparazione, non vide mai luce. Questi materiali sono disponibili su internet: www.zerowork.org.
7 Introduzione che non figura nelle edizioni italiane: Paul Cardan, Capitalismo moderno e rivoluzione, a cura del Circolo Rosa Luxemburg, Genova 1968; Paul Cardan, Capitalismo moderno e rivoluzione, a cura del Servizio Internazionale di Collegamento, Ed. 912, Milano 1969. [ndr]
8 «Zerowork», n.1, pp. 2-6.
9 Ibid., p. 63.
10 A mo’ di replica, si potrebbe affermare che Yaffe – sulle orme di Mattick – presenta l’incremento delle spese improduttive come uno sviluppo economico «oggettivo», ma che di fatto tale incremento avviene, almeno in parte, a causa delle lotte operaie passate, reali e potenziali. L’aumento della spesa sociale e l’incremento del settore statale sono avvenuti perché la classe operaia ha conquistato con la lotta il diritto al pieno impiego e un sistema di previdenza sociale di base. Come afferma lo stesso Yaffe, l’obiettivo principale della previdenza sociale è il mantenimento della pace sociale. Quindi, le «spese improduttive» sono esse stesse in buona parte un espediente per mistificare la lotta di classe in quanto fattore causale, e trasformarla in una categoria economica «oggettiva».
11 Cfr., ad esempio, Jeremy Brecher e Tim Costello, Tanto peggio, tanto peggio. La lotta quotidiana in tempi difficili, Rosenberg & Sellier, Torino 1979.
12 Qui è importante la distinzione e il rapporto fra due diversi concetti di «produttività». Per Marx, aumentare la produttività significa aumentare il prodotto di una data quantità di lavoro; per l’economia borghese significa aumentare il prodotto di una data quantità di tempo di lavoro («produzione oraria per addetto»). L’importanza di ciò è che il concetto borghese non distingue tra incremento della produzione oraria per addetto dovuta al progresso tecnologico e quello dovuto all’aumento dei ritmi. Negli anni ‘60 e ‘70, in generale, il ritardo della produttività in senso marxiano ha indotto i capitalisti a tentare di incrementare la produzione oraria per addetto intensificando il lavoro, cioè ottenendo più lavoro da una data unità di tempo di lavoro. Sovente le due cose sono procedute parallelamente; ed es. l’introduzione del lavoro alla catena non solo aumenta la produttività del lavoro, ma costringe gli operai a dei ritmi di lavoro accelerati. Tuttavia, dove e quando manca un ulteriore sviluppo tecnologico, come nelle industrie italiana e britannica degli anni ‘60 e ‘70, l’accento è posto sull’intensificazione del lavoro.
13 Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Einaudi, Torino 1975, p. 937.
14 Taylor stesso affermava che l’Organizzazione Scientifica de Lavoro avrebbe dato «alti salari e un basso costo del lavoro […] non solo in maniera compatibile, ma […] nella maggior parte dei casi interdipendente». (Frederick W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro).
15 Alan Jones, Britain on the Edge of the Abyss, in «Imprecor», n. 40-41, dicembre 1975, p. 3-8.
16 Ibid.
17 Paul Mattick, Zur Marxschen Akkumulation- und Zusammenbruchstheorie, in «Raterkorrespondenz», n. 4, 1934, citato in Guido De Masi & Giacomo Marramao, Consigli e Stato nella Germania di Weimar. Note storiche per una riflessione teorica, in Gabriella M. Bonacchi (a cura di), Teoria e prassi dell’organizzazione consiliare. Da Weimar al New Deal, Franco Angeli, Milano 1976, pp. 7-54. Di Marramao, si veda anche Teoria della crisi e «problematica della costituzione», in Claudio Pozzoli (a cura di), Il comunismo difficile. I comunisti dei consigli e la teoria marxiana dell’accumulazione e delle crisi, Dedalo, Bari 1976, pp. 61-102, che discute vari aspetti della questione in oggetto.
18 Paul Mattick, Introduzione a Henryk Grossman, Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 20.
19 Geoffrey Kay, The Falling Rate of Profit, Unenmployment and Crisis, in «Critique», n. 6, 1976, p. 75. Bisogna dire che in quest’articolo, Kay tende a screditare la teoria della caduta del saggio di profitto. Per conto mio, non sono né un sostenitore di principio né un oppositore delle teorie economiche di Marx, ad esempio della teoria della caduta del saggio di profitto. In questa sede, il mio scopo primario non è determinare la giustezza o la falsità di questa o quella teoria della crisi, ma rapportare diversi approcci alla congiuntura storica attuale. Non ho la pretesa di offrire conclusioni definitive. Discutendo le tesi di Yaffe, Kay suggerisce che il fascino intellettuale esercitato dall’argomentazione marxiana classica è una ragione in più per diffidarne. La stessa cosa si potrebbe dire del fascino di natura politica esercitato dall’approccio secondo cui è la classe operaia a determinare la crisi. Essa fa apparire la classe operaia tanto potente quanto si vorrebbe che fosse. Un ragionamento politico a favore di Mattick, è che le sue vedute possono essere utilizzate contro quelle borghesi, secondo cui se i lavoratori stringessero la cintura e lavorassero di più, dando ai capitalisti la possibilità di ristrutturare, ne risulterebbe un beneficio per tutti sul lungo termine. Per Mattick, simili misure non permettono il ritorno alla prosperità. Il capitale rimane impelagato nella debole redditività. Quand’anche i sacrifici dei lavoratori rendessero la situazione sostenibile per un altro ciclo, i problemi del capitale finirebbero per riapparire e peggiorare. Oltre a quella di Kay, si troverà un’altra critica interessante della teoria della caduta del saggio di profitto in Geoff Hodgson, The Theory of the Falling Rate of Profit, «New Left Review», n. 84, marzo-aprile 1974.
20 J.B. Proctor & R. Proctor, Capitalist Developpement, Class Struggle and Crisis in Italy, 1945-1975, in «Monthly Review», vol. 27, n. 8, gennaio 1976, pp. 2-31.
21 Thelema Anarrea, Notes on Italy, in «Solidarity», vol. 8, n. 4, [s.d., ndr].
22 Cfr. Paul Mattick, Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, De Donato, Bari 1972.
23 Richard Hyman, Industrial Conflicts and the Political Economy: Trends of the Sixties and Prospects for the Seventies, in «The Social Register», 1973, p. 112.
24 «Business Week», 22 settembre 1975, p. 96.
25 «The London Times», 30 settembre 1976.
26 Jan Steinberg, Why a few dissidents are frightening leaders in the West as well as in the East, in «Seven Days», vol 1, n. 3, [s.d.,
ndr], p. 10.
27 Per un resoconto sui più recenti sviluppi della situazione in Gran Bretagna, vedi il mio articolo, The Crisis of Wage Labour in Britain, in «Now and After», n. 12 [s.d., ndr].
28 Karl Korsch, Perché sono marxista, in Id., Dialettica e scienza nel marxismo, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 179.

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