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Lezione di Harry Braverman a giovani Aut Op

di Leo Essen

Honoré Daumier 034.jpg1

Come conseguenza del taylorismo le attività lavorative si semplificano e si riducono a semplice dispendio di forza lavoro, di muscoli e cervello. I lavoratori, dice Braverman (Lavoro e capitale monopolistico), diventano intercambiabili. Spariscono le specializzazioni, i lavori si degradano, si appiattiscono, le mansioni si uniformano. Passare da un lavoro ad un altro diventa sempre più facile. È richiesto un periodo brevissimo (addirittura, qualche giorno o qualche settimana) di addestramento o formazione. Si tratta di una conseguenza della divisione del lavoro e della parcellizzazione. I lavoratori diventano tutti uguali, si uniformano in una classe. Nella società i lavoratori sono niente, mentre il capitale è tutto.

Che cos’è il lavoro nel capitalismo? È niente.

La forza costituente della classe lavoratrice si esprime in questa deprivazione: il lavoro è lavoro depauperato, lavoro povero, dequalificato, unskilled.

Come si arriva a questa spoliazione?

Perseguendo due obiettivi: l’efficienza e il controllo della mansione. In verità l’obiettivo è uno, l’efficienza. Il controllo della mansione è subordinato all’efficienza. Essa viene perfezionata da Taylor.

 

2

Il taylorismo spacchetta un processo in singole funzione e le standardizza. La funzione diventa ripetibile. Gli elementi della prestazione e le materie su cui si applica devono rimane costanti, così come deve rimanere costante la procedura. Lo scopo principale della misurazione è la ripetizione. Nella fabbrica di spilli il processo è diviso in modo da rendere le operazioni standardizzabili e facilmente ripetibili. L’efficienza è una conseguenza diretta della ripetibilità. Più la funzione è semplice, più diventa facile ripeterla. In ogni caso bisogna seguire degli standard.

Se si decide di scomporre la produzione di una vite con dado e affidare a due squadre diverse la produzione della vite e del dado, bisogna essere certi che tutte le viti abbiano lo stesso passo di filettatura, lo stesso profilo e la stessa direzione di filetto – idem per i dadi. Tutti i filetti devono essere identici tra loro, e lo stesso vale per i dadi. Un artigiano avrebbe potuto produrre con profitto tante vite + dadi differenti per filetto e passo. In una produzione parcellizzata non ci si può permettere questo lusso. Ogni dado e ogni vite devono essere perfettamente identici agli altri, e le due serie devono essere compatibili.

Lo spacchettamento e la standardizzazione preludono alla ricomposizione e alla meccanizzazione del processo. Una volta rese semplice e standard, le funzioni possono essere riassemblate ed eseguite da una macchina. Solo dopo che l’attività umana è stata resa ripetibile, cioè solo dopo che è stata resa adeguata agli standard di addestramento e di prestazione, tale che tutto possa essere completamente anticipato e le forze umane essere totalmente adattate al meccanismo della produzione secondo specifiche che somigliano alle specifiche di funzionamento di una macchina, allora tutto il processo può essere riassemblalo e affidato a una intelligenza meccanica.

Nel complesso, dice Braverman, nello Scientific Management poco è lasciato al caso, e nel lavoro umano, proprio come in una macchina, il movimento delle parti obbedisce a regole rigide. I risultati vengono calcolati prima che il sistema sia messo in movimento.

Vale la pena di notare un’ultima cosa, dice Braverman. Quanto più il lavoro è diretto da movimenti classificati che attraversano i confini dei mestieri e delle occupazioni, tanto più esso dissolve le sue forme concrete in movimenti di lavoro di tipo generale. La prestazione diventa senza qualità e richiede un lavoratore senza qualità. Essa è ridotta a mera quantità di forza fisica erogata.

Da ciò Braverman conclude che l’esercizio meccanico delle facoltà umane secondo tipi di movimenti studiati indipendentemente dal particolare genere di lavoro da compiere, realizza la concezione marxiana di «lavoro astratto». Il lavoro in forma di modelli di movimento standardizzato, dice, è lavoro usato come parte intercambiabile, e in questa forma corrisponde sempre più, nei fatti, all’astrazione adoperata da Marx nell’analisi del modo di produzione capitalistico.

 

3

Nel 1885 Herman Hollerith inventò la prima macchina senziente, la prima che leggeva e capiva.

La macchina intelligente venne usata nel censimento USA del 1890. Mediante un sistema che assegnava a ogni colonna e a ogni riga un significato dato, la macchina era in grado di leggere le schede elettorali senza la partecipazione diretta dell’uomo.

Hollerith aveva modificato l’informazione – qui stava la genialata – in modo che potesse essere letta da una macchina.

Il procedimento prese piede negli uffici fino a far diventare il cosiddetto lavoro di concetto un lavoro manuale.

Tutta la storia della direzione scientifica del lavoro d’ufficio — dalla divisione del lavoro a Babbage, alla misurazione e parcellizzazione delle mansioni del contabile, dello stenografo, del dattilografo, del copista, del disegnatore e così via — rappresenta la grande preparazione alla meccanizzazione delle professioni intellettuali.

Il taylorismo negli uffici ha creato le condizioni per la parcellizzazione delle funzioni, la quale ha reso le operazioni dell’impiegato leggibili da una macchina. Scomposizione del processo lavorativo – come nella fabbrica di spilli di Smith.

La macchina si avvicina all’uomo e lo sostituisce nella misura in cui l’uomo si avvicina alla macchina.

Cosa hanno rappresentato, in questi decenni, le scuole di scrittura creativa – anche quelle di campagna, come la Holden – con i loro modelli paratattici, Hemingway e «compagnia bella»©? Ricordo persino un libro apparso in una collana diretta da Aldo Nove, scritto secondo la regola: tre parole, punto.

Cosa hanno rappresentato decenni di martellante paratassi, a tutti i livelli – dai comici agli spot politici (I like Ike), fino alla pubblicità (Just do it) — se non la preparazione, per noi umani, a rendere i nostri sentimenti, le nostre affezioni, i pensieri e i ragionamenti machine-readable?

I sistemi di intelligenza automatica, dice Braverman, somigliano ai sistemi automatici delle macchine per la produzione industriale: riunificano il processo lavorativo eliminando le molte fasi che prima erano affidate (tayloristicamente) a operai parziali (Autore → Editor → Redattore → Copy editor → Correttore di bozze → Grafico / Impaginatore → Art director → Produzione → Ufficio stampa).

E cosa sono stati, nelle scuole, la montagna di libri e fotocopie, la parcellizzazione della conoscenza, domande e spunta, interrogazione, enunciazione e voto, analisi del testo narrativo, Situazione iniziale/Esposizione, Esordio/Crisi, Sviluppo/Peripezie, Scioglimento/Situazione finale, Personaggi, Spazio, Tempo, Ellissi, Sommario, Analessi, Prolessi, Discorso diretto, Discorso indiretto, Discorso indiretto libero; cosa sono stati?

 

4

Quando Braverman affronta la composizione di classe avviene uno slittamento nella definizione del lavoro astratto. Gli impiegati, dice, nell’Ottocento erano ancora una frazione separata, non costituivano un aristocrazia operaia, ma una propaggine della classe borghese e benestante. Il segretario era emanazione diretta, talvolta persino un parente, del tenutario o del capitalista. E percepiva una paga che era perlomeno il doppio di quella di un operaio qualificato. Gli impiegati non facevano parte della classe operaia. Non erano lavoratori produttivi. Non producevano surplus. Consumavano il reddito del capitalista o del tenutario che li assumeva, così come tutti gli altri addetti a loro servizio: camerieri, cuochi, maggiordomi, nutrici, precettori, eccetera.

Con il capitalismo monopolistico e con l’esplosione dei compiti legati alla gestione e all’amministrazione, il numero degli impiegati crebbe, e crebbe anche la spinta alla loro proletarizzazione. In effetti, vennero proletarizzati fino al punto che il rapporto sia numerico sia di retribuzione, rispetto ai lavoratori di fabbrica dell’Ottocento, si invertì.

La proletarizzazione comportò l’impiego nei servizi di un numero sempre crescente di donne. Le paghe scesero sotto quelle degli uomini impiegati in fabbrica.

Impiegati e operai, che fino a quel momento appartenevano a due mondi distinti, si trovavano sullo stesso piano. Considerando, perlomeno, le paghe e le mansioni.

Tuttavia, stabilire la composizione di classe a partire dal lavoro concreto svolto o dalle paghe percepite è arduo, se non impossibile. Un cuoco al servizio di un signore del Settecento e un cuoco che lavora in una catena di ristoranti, svolgono gli stessi compiti. Eppure, dal punto di vista del potere che li impiega, si tratta di due lavori diversi tra loro. Dire se il cameriere e il barista, appartengono, insieme agli operai di fabbrica, alla classe dei lavoratori produttivi, analizzando il lavoro concreto che svolgono, non è possibile, dice Braverman.

Il personale dei ristoranti, che cucina, prepara, apparecchia, serve, lava piatti e pentole, eccetera, compie una produzione alla stessa stregua dell’operaio che forgia una tenaglia e di quello che assembla una macchina? I servizi possono essere composti e annessi alla produzione industriale o debbono essere considerati come una forma di impiego accessorio o addirittura estraneo e strutturalmente differente dalla produzione? La classe sarebbe allora composta dai soli lavoratori industriali, gli altri lavoratori costituirebbero al più un insieme al servizio della classe benestante – un insieme di servi?

Determinare la composizione di classe a partire dal lavoro concreto è un errore, dice Braverman. Classificare i commessi e i lavapiatti e i bidelli tra i servi è un errore. Solo una mente aristocratica ottocentesca, un meridionale di stampo borbonico, pensa e crede e dice in tv che un cameriere è un servo, e che il lavoro di cameriere è disonorevole. Mentre il lavoro di giudice, per esempio, o di professore o ingegnere, è nobilitante, ad alto valore aggiunto, o skilled.

Queste, dice Braverman, sono solo alcune delle molte difficoltà che sorgono quando si tenta di fare classificazioni rigide del lavoro nella società capitalistica sulla base delle sue forme determinate, partendo dal lavoro concreto, dalle operazioni particolari che i lavoratori eseguono.

Per il capitalista, dice Braverman, ciò che conta non è la forma determinata del lavoro, ma le sue capacità di produrre, in quanto lavoro salariato, un profitto per il capitalista. Questi è indifferente alla forma particolare del lavoro; a lui non importa se assume operai per produrre automobili, lavarle, ripulirle, riverniciarla, rifornirle di benzina e di olio, noleggiarle, guidarle parcheggiarle, o convertirle in ferro vecchio. Quello che gli interessa è la differenza tra il prezzo che paga per un quid di lavoro e merci e il prezzo che riceve per le merci – siano esse beni o servizi – prodotte o affittate. Quando il lavoratore non offre il suo lavoro direttamente all’utente, ma lo vende a un capitalista che lo rivende sul mercato delle merci, si ha la forma capitalistica di produzione nel settore dei servizi.

Dunque, dice Braverman, non è il carattere concreto, utile, del lavoro che lo qualifica come lavoro produttivo, ma è la sua caratteristica di essere lavoro astratto.

Se la composizione di classe non può poggiare sul lavoro concreto, sull’impegno del lavoratore nel suo lavoro – sulla fatica – dunque sul consumo di forza fisica e intellettuale, perché su queste basi è impossibile – di diritto – constatare un’equivalenza tra le diverse prestazioni, su quale base deve poggiare la composizione di classe?

L’equivalenza deve prodursi in un altro momento del processo, e non in quello del consumo della forza lavoro.

Braverman dice che l’equivalenza poggia sul lavoro astratto e non sul lavoro concreto. E che il lavoro astratto non si afferma nel momento della produzione ma in quello dello scambio. È nello scambio che emerge e si afferma il lavoro astratto.

Solo quando il capitalismo monopolistico crea il mercato universale e trasforma in merce ogni forma di attività della specie umana, comprese molte cose che fino ad allora gli uomini avevano fatto per sé o gli uni per gli altri, solo a questo punto i servizi entrato nella sfera del lavoro astratto.

Le occupazioni nei servizi, dice Braverman, hanno formato un grossa quota della divisione sociale del lavoro per tutta l’epoca capitalistica – per non parlare dei periodi precedenti-, ma ne sono diventate solo di recente una parte produttiva e creatrice di profitto. Braverman sottolinea sia la parola produttiva sia creatrice di profitto. I servizi, intesi come lavoro non produttivo, erano un’eredità dei rapporti feudali e semi feudali sotto forma di una vasta occupazione offerta dall’aristocrazia terriera, così come è sopravvissuta (e come sopravvive tuttora nel costume) in certe aree del mezzogiorno.

Nel 1820, Negli USA le occupazioni servili improduttive (servizi domestici e personali) rappresentavano i tre quarti dell’occupazione complessiva esistente nelle industrie manifatturiera mineraria, della pesca e del legname. Ancora nel 1870 tali occupazioni non erano molto inferiori alla metà di quelle che si registravano in questi settori non agricoli. Dal punto di vista capitalistico, questo tipo di occupazione non costituiva un incremento alla ricchezza o al reddito nazionale, ma ne costituiva una sottrazione. Questa tesi, la tesi del lavoro nei servizi come lavoro improduttivo, enunciata da Adam Smith, non aveva nulla a che fare con la natura dei compiti svolti da questi lavoratori, ma derivava piuttosto dal fatto che tali compiti non venivano svolti sotto gli auspici del capitale in quanto capitale. Il capitalista impiegava lavoro per i servizi non quando accumulava capitale, ma quando spendeva il suo profitto. A mano a mano che queste diverse forme di lavoro passano sotto gli auspici del capitale nel campo dell’investimento remunerativo, esse entrano per il capitalista nel regno del lavoro generale o astratto, del lavoro che valorizza il capitale.

Dunque, in primo luogo il lavoro produttivo deve valorizzare il capitale. Lavoro produttivo vuol dire: lavoro produttivo di plusvalore. In secondo luogo il lavoro è produttivo solo in quanto il lavoro diventa lavoro astratto.

Siamo in un processo. Il lavoro concreto crea il prodotto, senza prodotto non ci sarebbe scambio. Il prodotto deve porsi come valore in uno scambio. Senza scambio non ci sarebbe prodotto. Lo scambio fornisce al prodotto uno chance, e il prodotto fornisce allo scambio un materiale da scambiare. Nello scambio il prodotto sparisce dietro il valore di scambio e il lavoro concreto sparisce dietro lavoro astratto. Il lavoro concreto e il prodotto (l’oggetto d’uso) non sono annientati. Senza di essi lo scambio non sarebbe possibile. Sono solo ricompresi (aufhebung) dal valore di scambio. Il prezzo oscilla intorno al lavoro astratto, e il lavoro astratto è il lavoro socialmente necessario. È quel quid che la società, nello scambio e mediante il sistema dei prezzi, accetta di pagare come minimo necessario per la produzione di una determinata merce.

Il lavoro astratto non può emergere nel momento della produzione. E anche il capitale, che muove alla valorizzazione, non può emergere nel momento della produzione. È solo nello scambio che il processo si perfezione e il lavoro astratto svolge la sua funzione.

 

5

Nel 1930 Alba Edward, funzionario del Bureau of the census, ricostituì le basi concettuali della statistica occupazionale e classificò i lavoratori in Skilled (operai qualificati), Unskilled (manovali) e semiskilled.

Il criterio di Edward era meccanico, alla lettera. Più eri a contatto con una macchina più eri uno skilled worker.

Questo criterio fu usato retroattivamente fino all’inizio del secolo. Così, con un semplice tratto di penna, lavoratori che non erano vicini a una macchina – un conducente di un veicolo a trazione animale, un coltivatore diretto, un allevatore di pecore, un mugnaio, un macellaio, un carpentiere – nonostante avessero una lunga formazione in merito allevamento e alla cura di un animale, alla semina, alla potatura, all’innesto, all’irrigazione, alla raccolta, alla macellazione, eccetera; nonostante avessero una formazione lunga e approfondita, siccome non erano a contatto con una macchina, erano classificati come lavoratori Unskilled, manovali bruti, mentre quelli che erano e sono, poiché gli effetti perniciosi di questa divisione per classi e caste si percepiscono tuttora, quelli che erano a contatto con macchine – l’autista di trattore o l’operaio di catena (oggi di computer o di auto elettrica) erano skilled o, quantomeno, semiskilled.

Queste castronerie statistiche hanno plasmato lo spirito dei tempi sino al punto che ogni nuovo processo di meccanizzazione della produzione – vedi AI – promuove gli addetti o i pretendenti a persone skilled, e domanda all’università di sfornare più skilled workers, anche se poi questi workers dovranno accontentarsi di riempire tabelle o spuntare video per discernere tra osceni e non osceni, tra correct e incorrect.

 

6

Il grande pregio del libro Braverman sta nell’avere analizzato le prestazioni lavorative nel loro processo. Ciò gli ha permesso di cogliere aspetti della meccanizzazione che altrimenti sarebbe stato impossibile cogliere. Soprattutto gli ha permesso di capire come la meccanizzazione sia successiva (sia un effetto) della parcellizzazione. La macchina riesce a svolgere le operazione che prima venivano svolte dall’uomo solo e soltanto se queste operazioni erano già da prima eseguita dall’uomo in modo, per così dire, meccanico. La prima macchina è l’uomo. Tutto il processo della cultura, della formazione, la scomposizione dell’esperienza in concetti, il sapere, i libri, le enciclopedie, i saggi, eccetera, tutto ciò che rappresenta una conquista dell’uomo su ciò che succede nel mondo interiore ed esteriore, questa stessa conquista, tanto celebrata, la superiorità dell’uomo sulla natura eccetera, sono la messa in moto di un processo che porta alla meccanizzazione, un processo che è sin dall’inizio meccanico. C’è del meccanico già nel sapere, nel sentire, nel percepire. La filosofia di Husserl è taylorismo raffinato.

Una volta analizzata la prestazione come processo Braverman fa un’ulteriore scoperta. Una scoperta dalla quale gli Autonomi italiani trarranno le dovute conseguenza.

Le varie forme di lavoro che producono merci per il capitale, dice Braverman, vanno tutte considerate come lavoro produttivo. L’operaio che costruisce un edificio per uffici e quello che provvede alla sua pulizia tutte le sere producono similmente valore e plusvalore. E poiché essi sono produttivi per il capitalista, quest’ultimo consente loro di lavorare e produrre. Nella misura in cui essi sono produttivi, la società vive a loro spese. Sorge allora l’interrogativo: chi sono coloro il cui lavoro è improduttivo? I lavoratori improduttivi vanno esclusi dal proletariato moderno?

Intanto, dice Braverman, bisogna lasciar perdere gli agenti e considerare il processo. Un sarto diventa un lavoratore produttivo non in virtù della sua azione, del suo potere di fare un abito. Così come il capitale non è denaro scambiato con il lavoro. È denaro scambiato con lavoro allo scopo di appropriarsi del plusvalore. Solo quando il plusvalore si trasforma in nuovo denaro il capilista e il lavoratore diventano quello che sono. Perciò, dice Braverman, la trasformazione del lavoro improduttivo in lavoro che, al fine del capitalista di ricavare plusvalore, è produttivo, costituisce il processo stesso di creazione della società capitalista. Il processo è la società stessa. Se in uno dei suoi momenti il processo si inceppa, la società collassa.

La produzione del prodotto è importante tanto quanto la sua realizzazione. Per il capitalista, dice Braverman, l’intento è sempre quello di assicurarsi il massimo margine possibile sui costi. Ma per far questo, egli deve realizzare i valori merce, deve trasformarli in denaro.

Nel capitalismo monopolistico la realizzazione del valore di scambio diventa sempre più importane. In essa vengono impiegate enormi masse di lavoro. E tale lavoro, pur essendo necessario al modo capitalistico di produzione, è di per sé improduttivo, dato che non accresce minimamente il valore o il plusvalore a disposizione della società o della classe capitalista. E tuttavia, questo lavoro concorre alla realizzazione del valore, e senza il momento della realizzazione, quell’industria, o quel ramo di industrie, collassano. La gran massa di lavoro improduttivo in quanto non lavorava per il capitale, dice Braverman, si è ora trasformata in una massa di lavoro che è improduttivo perché lavora per il capitale, e senza questo lavoro è impensabile la realizzazione del plusvalore.

Ai tempi di Smith e Ricardo, dice Braverman, il lavoro improduttivo esisteva soprattutto al di fuori dell’ambito del capitale, pertanto l’economia borghese classica lo ha considerato uno spreco, e ne ha sollecitato la riduzione al minimo. Ma dal momento che la massa di lavoro improduttivo è stata distrutta al di fuori dell’impresa e ricreata su basi diverse all’interno di essa, l’economia borghese trova impossibile mantenere il suo vecchio atteggiamento. Il marginalismo nasce perché l’economia classica, fondata sul concetto di lavoro produttivo, non riesce più a spiegare la nuova struttura sociale. È il concetto stesso di «ricchezza delle nazioni» che ha fatto il suo tempo, dice Braverman, sostituito da quello di prosperità, che non ha nulla a che vedere con l’efficienza con cui i lavoratori producono beni e servizi utili. L’enorme quantità di lavoro socialmente inutile che entra così in circolazione – ricerche di mercato, promozione delle vendite, pubblicità, speculazioni, credito, finanza, spettacolo, musica, sport, istruzione – si è fusa con i processi lavorativi generali. Tutti i processi lavorativi vengono giudicati egualmente utili. Le forme produttive e improduttive del lavoro si mescolano. Il lavoro diventa sempre più una massa indifferenziata.

Nel 1872 suona la campana a morto sia per il laissez faire sia per la filosofia classica tedesca – Nietzsche pubblica Nascita della Tragedia e Menger i Principi di Economia politica.

Dopo il 1872, dice Braverman, nasce l’operaio sociale. Da una parte il processo del lavoro produttivo diventa più che mai collettivo. Solo l’insieme dei lavoratori produttivi dà vita al prodotto finito. Nessuno di essi può più essere considerato produttivo in senso individuale, e la definizione di lavoro produttivo vale solo se riferita a tutti i lavoratori nel loro complesso. Dall’altro, il lavoro improduttivo dell’impresa, essendosi tanto enormemente esteso, ha ricevuto la stesa doppia struttura di quello produttivo dalla divisione capitalistica del lavoro. Da una parte la fabbrica si estende a tutta la società, dall’altra nella società diventa sempre più difficile distinguere il lavoratore produttivo da quello improduttivo. La composizione di classe deve oltrepassare la soglia sia del lavoro produttivo sia del lavoro astratto e trovare nuove base su cui fondarsi.

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