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contropiano

"Mangiati il ricco!!"

L'anticapitalismo è all'ordine del giorno

di Sergio Cararo

Cap d Ail manifestazione contro i paradisi fiscali Cambiare il sistema non il pianeta gal portraitEat the rich”, mangiati il ricco! E’ questo quanto inneggia da dieci anni War Class, una delle reti anticapitaliste che ha animato le mobilitazioni di Londra contro il vertice delle potenze economiche del G20 sulla crisi. L’invocazione di oggi a mangiarsi i ricchi evoca e irride la “Modesta Proposta” con cui nel Settecento Jonathan Swift provocava l’establishment britannico suggerendo di risolvere il problema della povertà…mangiandosi i numerosi figli dei poveri. Eppure dobbiamo riconoscere che l’idea di “mangiarsi i ricchi” come alternativa alla crisi economica, nel XXI Secolo ha una sua piena pertinenza con la realtà della situazione.

Le manifestazioni di Londra contro il vertice del G 20 e quelle di Strasburgo contro il vertice della NATO, hanno fatto venire a qualche osservatore l’idea e la nostalgia di un ritorno alla ribalta dei movimenti antiliberisti che irruppero sulla scena dal dicembre del ’99 a Seattle passando per Genova e Cancùn. In realtà non è la stessa cosa e sotto certi aspetti dobbiamo augurarci e lavorare affinché non siano la stessa cosa. E’ diversa la realtà – caratterizzata dalla manifestazione pubblica della crisi della civilizzazione capitalistica e del suo modello – e sono diverse anche le soggettività sociali che via via entrano in campo.

Emblematica di questa differenza è la preoccupazione espressa dal rapporto sull’instabilità sociale degli stati elaborato dall’Economist Intelligence Unit qualche settimana fa e dall’editoriale del quotidiano confindustriale Il Sole 24 Ore. Quest’ultimo segnala la differenza tra i movimenti no global degli anni scorsi e la rabbia degli operai che perdono il lavoro e sequestrano i manager.

“Il tratto distintivo più rilevante è che nel caso francese l’attacco ai manager dell’industria –e non della finanza – vede la partecipazione di lavoratori coinvolti in consistenti licenziamenti, con la partecipazione di qualche sindacalista” scrive l’editorialista “Gli episodi di conflittualità segnalano la possibilità che si diffondano forme di ribellismo con il coinvolgimento diretto di lavoratori colpiti da licenziamenti per effetti della crisi”. Due sono le considerazioni che l’editorialista confindustriale fa derivare da queste constatazioni: i rischi maggiori non vengono dai movimenti anti-globalizzazione dove ci sono frange violente ma estremamente minoritarie; occorre assolutamente non indebolire i sindacati perché “il ribellismo diffuso può assumere venature populistiche e tende  a saltare le stesse organizzazioni sindacali… è soprattutto il ricorso ai licenziamenti e insieme la debolezza delle organizzazioni che deve far riflettere”.  (1).

Il giornale della grande industria  italiana ci manda dunque a dire di temere che il conflitto sociale veda come protagonisti i lavoratori, che non si limiti a contestare le banche ma prenda di petto anche l’industria, che governo e padronato commetterebbero un errore nell’indebolire troppo i sindacati concertativi (Cgil inclusa e soprattutto) perché in Francia i sindacati sono deboli ma la conflittualità sociale è più dura e alta che in Italia.

Questo documento coglie bene – anche se del tutto involontariamente – uno dei maggiori rilievi critici che negli anni scorsi abbiamo mosso ai movimenti no global nel nostro paese e in Europa, ovvero quello di essere talvolta molto radicali nelle forme di lotta ma riformisti negli obiettivi. La straordinaria indulgenza di cui hanno goduto tutto gli apparati riformisti dentro i Social Forum (dalla Cgil, all’Arci, al PRC bertinottiano etc.), ha fatto sì che questi movimenti sociali venissero sistematicamente depotenziati dalla loro carica conflittuale sul piano sociale mentre – qua e là – venivano tollerate forme di protesta magari radicali ma riconducibili sul piano politico al progetto riformista e concertativo. Questo rapporto piuttosto malsano, è stato però rotto dalla vittoria della destra con relativa sconfitta della sinistra di governo e dall’irruzione della crisi come parametro generale che conforma analisi, azione politica, interessi in gioco e comportamenti sociali di questi mesi.

 

Raccogliere la sfida

In tale scenario, diventa dunque importante discutere una radicalità di contenuti adeguata alla situazione e le forme di lotta conseguenti a entrambe. E’ importante sapere che in questo ambito non sono solo la sinistra anticapitalista e i comunisti a riflettere. Il governo, i padroni e i loro apparati ideologici si sono già posti il problema e si sono messi al lavoro.

1)      Il governo ha varato un provvedimento antisciopero che non solo impedisce il conflitto in un settore strategico come i trasporti ma che penalizza fortemente ogni manifestazione che interrompa la mobilità (blocchi stradali, ferroviari etc.) e si prepara a destrutturare la rappresentatività sindacale per distruggere il crescente sindacalismo di base.

2)      I padroni – nel senso proprio dei padroni delle industrie – fino ad oggi hanno lavorato alla divisione dei sindacati concertativi imponendo la modifica della contrattazione collettiva, marginalizzando la Cgil e firmando accordi separati (vedi Piaggio e Fincantieri). Il rischio di questo atteggiamento è oggi ben visibile e l’editoriale del Sole 24 Ore lascia intendere che la Cgil va recuperata al più presto al suo ruolo di garante della concertazione e del controllo sindacale sui lavoratori e il conflitto sociale;

3)      La crisi, nel suo manifestarsi concreto sull’economia reale fatta di posti di lavoro, salari, consumi, mutui, affitti, fiducia, condizioni e aspettative di vita delle famiglie dei lavoratori, produce un cambiamento nei comportamenti sociali. Una radicalizzazione di questi comportamenti può essere incalanata nella competizione tra poveri o nel razzismo contro gli immigrati oppure può produrre una conflittualità sociale più avanzata. Come è stato detto giustamente in un recente dibattito, oggi un lavoratore può essere un crumiro o un rivoluzionario nello stesso  giorno, dipende dalle indicazioni e dai livelli di organizzazioni che si trova a disposizione in quel momento (2). La differenza tra gli operai di Prato che intendono condividere la sorte con i padroni della loro azienda e gli operai francesi della Sony o della Caterpillar che sequestrano i loro manager per costringerli a non chiudere la fabbrica, salta agli occhi. E’ evidente come in questo caso la funzione della soggettività di una sinistra anticapitalista (e dentro questa dei comunisti) possa rivelarsi decisiva.

Sul piano politico, possiamo rilevare come la coscienza di questi fattori stia producendo idee e progetti definiti. Le destre unite nel nuovo Partito della Libertà ripropongono una forma attualizzata del corporativismo fascista fondato sul Lavoro, un concetto questo che mette insieme gli interessi dei padroni e dei loro operai. I liberisti del Partito Democratico non vanno troppo lontano e propongono un patto neocorporativo con gli stessi presupposti ma dentro cui il ruolo dei sindacati è decisivo ai fini della concertazione generale. I maggiori partiti comunisti (PRC,PdCI) liquidano la crisi in corso come elemento secondario rispetto alle proprie esigenze interne e stentano ancora enormemente a far decollare proposte e atteggiamenti di rottura con il riformismo e la mentalità “governista”. Per questo motivo alternano proposte formalmente giuste come la nazionalizzazione delle banche (ma che se  restano scritte sui manifesti si rivelano velleitarie) e proposte arretrate come gli ammortizzatori sociali o la diffusione dei mercatini popolari per il pane, i libri usati e quant’altro.

Una funzione possibile per la sinistra anticapitalista

 

Una domanda si pone obbligatoriamente. E noi? Come e cosa devono proporre in un contesto di crisi economica e sociale sistemica una sinistra anticapitalista ed insieme ad essa i comunisti?

 

Su questo la discussione deve cessare di essere superficiale ed entrare nel merito, muovendo insieme al dibattito anche l’inchiesta, la mobilitazione, la sperimentazione delle forme di lotta e la verifica delle idee dentro il conflitto sociale esistente ed in quello potenziale.

 

Innanzitutto occorre sottrarsi al ritorno della mentalità “no global” che si è imperniata intorno a obiettivi arretrati e riformisti rappresentati però con forme di lotta “radicali”. Non possiano negare che certe azioni “esemplari” vedano come protagonisti più fotografi e cameraman che militanti e attivisti.

 

Far saltare le casamatte – per dirla con Gramsci – su cui si regge il sistema di comando capitalistico in Italia e in Europa, può essere realizzato sia con forme di lotta pacifiche ma su contenuti radicali (vedi ad esempio il boicottaggio dell’economia israeliana in un paese politicamente schierato con Israele come l'Italia ), sia con forme di resistenza operaia e popolare più avanzate come l’occupazione delle fabbriche a rischio di licenziamenti e chiusure per poter disporre della ricchezza materiale prodotta dai lavoratori, i blocchi stradali e ferroviari, le occupazioni delle case tenute sfitte dalla speculazione immobiliare, l’organizzazioni degli scioperi facendo sì che vengano interrotti i sistemi operativi.

 

Ma il problema vero non sono tanto le forme di lotta quanto gli obiettivi. Su questo la discussione sul programma di fase e sugli obiettivi strategici stenta ancora a decollare (3). Eppure è proprio su questi contenuti e sulla consapevolezza della propria funzione dentro la crisi che il dibattito è urgente e stimolante allo stesso tempo. E’ inevitabile che questo percorso debba produrre una rivoluzione culturale tesa ad evitare l’avventurismo e l’elettoralismo che sono perfettamente convergenti sul piano della mera rappresentazione del conflitto ma inservibili sul piano della sua capacità/possibilità di rottura sociale sostanziale.

Oggi il dibattito e la messa in campo come obiettivo strategico di un progetto politico per l’alternativa al capitalismo e di un programma di fase come fattore di resistenza, organizzazione, controtendenza di vari segmenti del blocco sociale antagonista oggi ancora disgregato, è una necessità della situazione e una possibilità che la realtà stessa rende praticabile e non più velleitaria.

 

Solo se ricominciamo ad avere in mente anche “i fini” del nostro agire politico e della nostra identità  politica e di classe (4) possiamo discutere nel concreto di salario garantito, riduzione dell’orario di lavoro, requisizione degli alloggi sfitti, dell'eliminazione dell’IVA sulle tariffe dei servizi e del blocco delle spese per gli armamenti come contenuti per una possibile ed emancipatrice battaglia anticapitalista dentro la crisi nel nostro paese. Oggi possiamo dire con una certa credibilità che questo percorso si può fare e che il non farlo dipenderà moltissimo dalla nostra soggettività.

            Note:

(1)    Carlo Trigilia.“Se la rabbia antimanager fa più danni dei “no global”, Sole 24 ore del 2 aprile

(2)    Intervento di Giorgio Cremaschi al dibattito “Insieme per, uniti contro”, Roma 27 marzo.

(3)    A maggio del 2008 la Rete dei Comunisti ha elaborato una proposta politica per i comunisti e la sinistra anticapitalisti contenente sette punti programmatici. Ma dopo una partenza incoraggiante dovuta al clima post batosta elettorale di aprile, le interlocuzioni dentro le forze della sinistra alternativa e nei movimenti sociali si è come al solito” ibernato”

(4)    Su questo rinviamo all’articolo“Odio di classe”pubblicato su Contropiano del settembre 2007

 

* direttore di Contropiano per la Rete dei Comunisti

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