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Record di rifugiati nel mondo: chiediamoci perché
Patrick Boylan
Azzeccato lo spot che l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha diffuso oggi, 20 giugno, per la Giornata Mondiale del Rifugiato. Denuncia il record assoluto di sfollati nel mondo verificatosi nel 2014 – sono stati costretti ad abbandonare casa 60 milioni di persone, equivalente all'intera popolazione dell'Italia – e quella cifra potrebbe essere addirittura superata quest'anno. Davanti a questa impennata vertiginosa, mai vista prima, il video lancia allo spettatore un invito pressante: “Chiediti perché.”
Noi della Redazione di PeaceLink ci siamo chiesti perché – peraltro, è da tempo che ce lo chiediamo – ed ecco le nostre risposte. Sono due. Una individua una causa push (ciò che spinge un soggetto ad andar via dal proprio paese, suo malgrado). L'altra, che sarà oggetto di un successivo editoriale, individua una causa pull (ciò che noi facciamo, pur lamentandoci dei nuovi arrivi sulle nostre coste, per farli arrivare comunque).
Né l'una né l'altra di queste due cause hanno a che fare con le spiegazioni razziste o comunque autoassolventi che circolano oggi con sempre maggiore insistenza, grazie anche ad una certa stampa e a certi ambienti politici demagogici.
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Fine della rivoluzione e tramonto dell’Occidente
A chi andrà il Mandato Celeste?
Amina Crisma*
La storia dell’Occidente è stata incessantemente animata dalla capacità di immaginare e di progettare un mondo diverso dal presente, ci ricorda Paolo Prodi ne Il tramonto della rivoluzione (ed. Il Mulino 2015), ma tale capacità di visione e di progetto appare oggi perduta: quale futuro ci attende senza quella tensione trasformatrice?
1.Il tramonto della rivoluzione e il declino dell’Occidente.
“Libertà è poter immaginare un nuovo inizio”: tornano in mente le parole di Hannah Arendt, leggendo Il tramonto della rivoluzione di Paolo Prodi (Il Mulino 2015), che sarà presentato insieme all’autore da Massimo Cacciari a Bologna, allo Stabat Mater dell’Archiginnasio giovedì 18 giugno alle 17,30.
Il libro ci propone una limpida riflessione su un tema che troppo spesso viene eluso, e che invece ci riguarda tutti, e da vicino:
“Il mito della rivoluzione è finito. Ma l’Europa, l’Occidente sono nati e cresciuti come “rivoluzione permanente”, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra essere venuta meno. (…) Credo che l’innegabile declino dell’Europa non possa essere compreso soltanto sul piano geopolitico o geoeconomico (…) ma debba essere spiegato con il venir meno della capacità rivoluzionaria dell’Europa nelle sue coordinate antropologiche di fondo”.
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Cose che ho notato leggendo “Il Califfato del terrore” di Maurizio Molinari
di Nicola Perugini
Questo è davvero un libro che “tutti dovremmo leggere” come suggerisce Roberto Saviano nella fascetta pubblicitaria che avvolge il libro?
La scorsa settimana ho comprato il Il Califfato del terrore. Perché lo Stato Islamico minaccia l’Occidente (Rizzoli, 2015) di Maurizio Molinari e ho notato alcune strane cose.
Apro a pagina 36 e 37, e trovo uno “scalino” nello stile di scrittura. Mi è sembrato di sentire abbastanza chiaramente la traduzione letterale da un’altra lingua. Molinari introduce la sezione “La rinascita del Califfato”, in cui spiega ai lettori religione e cultura islamica, con le seguenti parole:
L’Islam afferma di essere una religione universale, in grado di coprire ogni aspetto della vita quotidiana, e dunque ha come obiettivo ultimo uno Stato Islamico. Questa idea politica è parte integrante del concetto di ‘umma’, secondo il quale tutti i musulmani, ovunque risiedano, sono legati da una fede che trascende i confini geografici, politici, nazionali. Tale legame è la fedeltà ad Allah e al profeta Maometto. Poiché i musulmani credono che Allah abbia rivelato tutte le leggi concernenti questioni religiose e laiche attraverso il Profeta, l’intera umma è governata dalla sharia, la legge divina, applicabile in ogni tempo e luogo perché anch’essa trascende i confini.
Déja vu. Apro le pagine 16 e 17 del libro Rise of ISIS (un best seller del New York Times) di Jay Sekulow — se ne avete voglia, fate una ricerca in rete per vedere chi è Sekulow, magari se ne riparla in una prossima puntata — e trovo le stesse identiche parole, in inglese:
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La rete dall’utopia al mercato
di Carlo Formenti
Fare i conti con la Rete vuol dire addentrarsi su un terreno scivoloso, dove i limiti della cassetta degli attrezzi dell’autore di turno vengono impietosamente evidenziati. Non sfugge alla regola il saggio di Benedetto Vecchi, La Rete dall’utopia al mercato (manifestolibri - ecommons, 2015). Vecchi non affronta di petto il tema annunciato dal titolo, ma tenta di farlo emergere progressivamente, costruendo un mosaico fatto di decine di tessere, ognuna delle quali prende in esame le idee di uno dei tanti autori che si sono occupati di Internet dagli anni Novanta a oggi. Evitando di seguirlo su questo terreno, mi concentrerò sui nodi fondamentali del suo discorso e, per agevolare il compito al lettore, anticipo il punto di vista da cui prende le mosse la mia analisi critica: le tesi postoperaiste – campo teorico nel quale si inscrive il contributo di Vecchi – scontano, fra le altre, tre evidenti aporie associate alla nostalgia nei confronti di altrettanti “paradisi perduti”.
Il primo lutto è ascrivibile alla perdita delle speranze – stroncate dall’uso capitalistico dell’innovazione digitale – che l’utopia hacker aveva suscitato fra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni del Duemila.
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To Grexit or not to Grexit
Mauro Poggi
John Weeks è professore emerito alla University of London’s School of Oriental and African Studies, autore del bel libro “Economics of the 1%“, dove sostiene che l’egemone dottrina economica neoliberista ignora deliberatamente le proprie contraddizioni logiche per potere sostenere teorie vergognosamente reazionarie a favore dei ceti privilegiati. Mi sono imbattuto in Weeks un paio di anni fa, guardando un video di The Real News della raccapricciante intervista in inglese di Mario Monti al programma di Fareed Zaakaria. L’allora Primo ministro italiano confessava, in buona sostanza e con faccia tosta inenarrabile, che gli obiettivi di consolidamento fiscale e riforme strutturali, per i quali era stato nominato al governo, ancorché pienamente realizzati non potevano produrre miglioramenti economici a meno che la Germania non avesse provveduto ad espandere la propria domanda interna per consentire l’aumento delle esportazioni italiane, giacché con la politica economica in atto (testuale) “in effetti stiamo distruggendo la nostra domanda interna“.
Chiamato a commentare le affermazioni di Monti sui concetti di riforme strutturali e consolidamento fiscale, Weeks – prima di entrare nel dettaglio, aveva esordito con un giudizio sintetico: “Rubbish, spazzatura”. (Vale la pena ascoltare sia l’intervista di Monti che quella di Weeks nel video che ho linkato, entrambe – ciascuna per il suo verso, significative).
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Integraciòn o muerte! Venceremos?
L'America Latina nel suo labirinto
Daniele Benzi
IV. Lo sbarco cinese e altre spinte disgregatrici [Qui e qui le parti precedenti]
La presenza del gigante asiatico nelle dinamiche economiche della regione è cresciuta in modo esponenziale negli ultimi quindici anni. Per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti e i crediti concessi l’incremento è stato enorme dopo l’inizio della crisi mondiale. Diversi autori hanno osservato che l’impatto è tale da avere ri-orientato in poco tempo le politiche commerciali e di sviluppo di vari Paesi, influenzando anche in alcuni casi decisioni strategiche relative agli allineamenti geopolitici nello scenario internazionale. Eppure, per quanto a eccezione del Paraguay lo sbarco cinese sia per il momento molto più accentuato nel Cono Sud, tutti i governi dell’area, a prescindere dagli orientamenti politici o di altra indole, considerano oggi come una priorità l’intensificazione degli scambi commerciali e l’apertura senza riserve agli investimenti asiatici. Questa è d’altronde la principale differenza tra l’avvicinamento della Cina e quello di altre potenze extra-regionali come per esempio la Russia, l’India, o l’Iran: la dimensione e l’estensione di interscambi e interventi assolutamente allettanti che, senza escluderle, hanno mantenuto sinora in secondo piano e basso profilo considerazioni esplicite di ordine geopolitico e militare. D’altra parte, sembrerebbe che al contrario dei suoi predecessori, l’attuale presidente Xi Jinping voglia dare alle relazioni con la regione un chiaro significato e orizzonte politico. Ma è ancora troppo presto per fare speculazioni al riguardo.
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L’organetto di Draghi III
Terza lezione: LTRO, Target 2, OMT (2011-2012)
di Sergio Cesaratto
Pubblichiamo alcune lezioni preparate da Sergio Cesaratto per economiaepolitica.it, dedicate alla BCE e alla politica monetaria. La serie, intitolata l'”Organetto di Draghi”, prevede quattro lezioni: 1) Moneta endogena e politica monetaria; 2) La BCE di fronte alla crisi; 3) LTRO, Target 2, Omt; 4) Forward guidance e Quantitative easing
Sappiamo che nel periodo 2008-2011 la BCE ha espanso il proprio bilancio allo scopo di tenere sotto controllo i tassi di interesse a breve termine (si rimanda a riguardo alla seconda lezione)1. Nel 2010-11 essa ha anche acquistato titoli sovrani dei paesi periferici dell’Eurozona ufficialmente per assicurare la trasmissione della politica monetaria. Abbiamo anche imparato che l’eccesso di liquidità rimane depositato presso l’Eurosistema in particolare nella deposit facility. In questa lezione vedremo come il contagio della crisi a Spagna e Italia abbia costretto nel 2012 la BCE a ulteriori e più eclatanti misure che hanno ulteriormente espanso il suo bilancio. Cominceremo con l’occuparci di uno strano meccanismo monetario chiamato Target 2 che occupò la scena nel 2011 e 2012.
1) 2011: Lo strano caso di Target 2
Nel 2011 Werner Sinn (2011), il più influente economista tedesco, sollevò un polverone mediatico e accademico sostenendo che la BCE stava effettuando un salvataggio silenzioso (stealth bail out) dei paesi periferici attraverso un arcano meccanismo chiamato Target 2.
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L’enciclica della complessità
di Pierluigi Fagan
Con l’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco, la cultura della complessità termina probabilmente la prima fase della sua vita, la fase in cui si è formata ed in cui ha cercato di affermarsi per il riconoscimento. Con questa enciclica, si può dire che tale cultura possa ritenersi affermata. L’affermazione ovviamente non significa che tale cultura è diventata la cultura di riferimento principale, né che spetti al vertice di una istituzione religiosa timbrarne il riconoscimento ma che, data l’ampiezza e la significanza sia del testo che dell’autore, ha ottenuto lo statuto di visione del mondo nel panorama culturale. Del resto, si deve riconoscere al testo papale. la coerenza di forma e contenuto. Qui, davvero si integrano le visioni ecologiche con quelle economiche, con quelle politiche e geopolitiche, con quelle scientifiche, con quelle filosofico-etiche. Poi c’è anche la teologia ma questo è uno specifico dell’autore e della sua immagine del mondo che è nel suo pieno diritto proporre.
L’enciclica è una circolare che detta la linea o meglio, l’interpretazione del mondo, alla rete vescovile della Chiesa cattolica e quindi, dato il percolare culturale dall’alto al basso, si presume dovrebbe informare il punto di vista della Chiesa nei prossimi anni. La Chiesa però, è una istituzione più plurale di quanto ami dar a vedere e quindi non si deve immaginare un rigido allineamento alla nuova impostazione. Rimane però il segno forte di una impostazione e per questa impostazione non c’è che un termine per esprimerne il concetto: complessa.
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Grentry. Il dominio della finanza in Europa e la sua crisi
∫connessioni precarie
Il dato tecnico è semplice: le cosiddette «istituzioni» (il nuovo nome della Troika ottenuto dal governo greco) hanno molto di più da perdere che non la Grecia. Nei quotidiani economici più importanti questa verità è ormai affermata non solo tra le righe: in caso di default greco, e ancor di più di Grexit, a rimetterci maggiormente sarebbero i paesi più esposti nei confronti della Grecia, in particolare Francia e Germania, e gli altri creditori. In modo impietoso Wolfgang Munchau ha recentemente scritto che, se questa circostanza si verificasse, Angela Merkel e Francois Hollande «passerebbero alla storia come i più grandi perdenti finanziari». Il meccanismo di stabilità europeo (ESM) è sì una gabbia per i paesi che ricevono e contraggono debiti, ma è anche un dispositivo attraverso il quale il problema dell’esigibilità dei crediti maturati si riversa inevitabilmente sui paesi creditori. Il fallimento dei primi è un problema finanziario anche e soprattutto per i secondi. L’articolo è stato pubblicato sul «Financial Times» e tradotto dal «Sole24ore»: lo hanno dunque potuto leggere anche quei commentatori, redattori e governanti italiani che pure si ostinano a ripetere un mantra privo di fondamento, secondo il quale al centro della contesa vi sarebbero i nostri soldi o, variazione sul tema, la «credibilità» della Grecia. Hans-Werner Sinn, economista membro del consiglio consultivo del ministero dell’economia tedesco, ha inoltre osservato che un altro mantra, quello della «fuga dei capitali» privati dalla Grecia, dovrebbe preoccupare i paesi riceventi quanto e forse più della Grecia.
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Democrazia fine corsa: la Grecia, l’Europa e noi
Intervista a Etienne Balibar
L’intervista, rilasciata ad Atene da Etienne Balibar il 4-5-2015, è stata pubblicata originariamente dalla rivista Grèce Hebdo La redazione di TYSM ringrazia sia Etienne Balibar che la rivista per le autorizzazioni a tradurre e pubblicare. La traduzione è di Alessandro Simoncini
A metà del 2012 lei ha dichiarato: “siamo tutti greci, siamo tutti europei”, e ha affermato che la distruzione della Grecia susciterebbe quella dell’Europa nel suo insieme. A che punto siamo oggi?
Innanzitutto, non sono il solo a dire questo. Si tratta di una formula utilizzata da un gran numero di intellettuali interni alla sinistra, nella quale vi sono divergenze di giudizio molto profonde sulla questione dell’Europa. Verosimilmente, nella situazione attuale queste divergenze si sono aggravate. La questione non si limita al fatto che occorra un’Europa unita, ma ci impone di sapere qual è il rapporto tra la sopravvivenza dell’Europa e la salvezza del popolo greco. Dal canto mio, mantengo una posizione per la quale questa sopravvivenza e questa salvezza non vadano affatto da sé. Penso che l’avvenire della Grecia sia nell’Europa, non un’Europa qualsiasi ma un’Europa che bisogna costruire. O, per dirla in modo più negativo, penso che l’espulsione, l’uscita della Grecia dall’Europa avrebbe delle conseguenze molto gravi per la Grecia stessa. Mi sembra di intendere che questo sia il punto di vista della maggioranza del popolo greco, ma non è necessariamente il punto di vista di tutti i greci.
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La realtà. Hegel oggi
Alberto Gaiani intervista Luca Illetterati
Wirklichkeit è una delle parole tedesche che significano realtà ed è una delle parole-chiave della filosofia di Hegel. Su questo concetto si terrà dal 3 al 5 giugno a Padova un importante convegno internazionale. Vi parteciperanno, tra gli altri, studiosi della filosofia classica tedesca del calibro di Robert Pippin, Jean-François Kervégan, Birgit Sandkaulen. Ne abbiamo parlato con Luca Illetterati, che, con Francesca Menegoni, è l’organizzatore del convegno.
Sembra che Hegel sia tornato, se non al centro della scena, perlomeno sulla scena. Siamo di fronte a un neo-neoidealismo? A una Hegel-Renaissance in senso generale?
Non credo si possa parlare di una Hegel-Renaissance. Tanto meno di un neo-neoidealismo (che rimane comunque, soprattutto nella sua versione gentiliana, per quanto sostanzialmente non studiato, l’apice della filosofia italiana degli ultimi centocinquant’anni). C’è però indubbiamente a livello internazionale una rinascita di interesse nei confronti della filosofia di Hegel. Molto è dovuto ai cosiddetti neohegeliani di Pittsburgh, John McDowell e Robert Brandom, che hanno ‘usato’ Hegel all’interno di dibattiti e contesti tradizionalmente ostili o indifferenti nei confronti della filosofia dell’idealismo tedesco. Al di là di questo è però interessante che in varie parti del mondo siano attivi in questo momento progetti di ricerca che connettono la filosofia di Hegel alle dinamiche del mondo contemporaneo.
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Egemonia: Gramsci, Togliatti, Laclau
di Toni Negri
(la conferenza che pubblichiamo è stata tenuta alla Maison de l’Amerique Latine, a Parigi, il 27 maggio 2015)
Il discorso di Laclau rappresenta per me una variante neo-kantiana di quello che si potrebbe definire socialismo post-sovietico. Già ai tempi della Seconda Internazionale il neo-kantismo funzionò come approccio critico nei confronti del marxismo: il marxismo non fu considerato come il nemico, ma quell’approccio critico aveva tentato di assoggettarlo e, in certo modo, di neutralizzarlo. L’attacco fu portato contro il realismo politico e l’ontologia della lotta di classe. La mediazione epistemologica consistette, allora, a questo uso e a questo abuso del trascendentalismo kantiano. Mutatis mutandis, tale mi sembra anche, se ci si pone in epoca post-sovietica, la linea di pensiero di Laclau, considerata nel suo movimento. Sia chiaro – qui non si discute di revisionismo in generale, talora utile, talora indigesto. Si discute dello sforzo teorico e politico di Laclau in età post-sovietica a confronto con la contemporaneità.
Partiamo da un primo punto. La moltitudine caratterizza le società contemporanee – ci dice Laclau – ma la moltitudine non conosce determinazioni ontologiche e tantomeno – oggi – regole che possano presiedere alla propria composizione. Solo dall’esterno (pur rispettandone la natura) sarà possibile ricomporre la moltitudine. L’operazione è quella kantiana dell’intelletto che si confronta con la “cosa in sé”, inconoscibile altrimenti che col suggello della “forma”. L’operazione è quella della sintesi trascendentale.
È possibile e desiderabile che eterogenee soggettività sociali organizzino se stesse spontaneamente o debbono piuttosto essere organizzate? La domanda è consueta e sta alla base del criticismo. A questa questione Laclau risponde che oggi non c’è alcun attore sociale per sé, “classe universale” (com’era definita marxianamente la classe operaia), e neppure un soggetto semplicemente prodotto dalla spontaneità sociale, da una self-organization che potrebbe pretendere egemonia.
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Studenti, filosofi e rivolte: alle origini del pensiero minoritario
Militant
Nonostante il superamento del marxismo come ideologia “ufficiale” del campo delle sinistre non abbia portato alla produzione di un altro “pensiero forte”, cioè strutturalmente definito e abbastanza univoco nella sua interpretazione e applicazione, non per questo le sinistre, tanto “di movimento” quanto partitico-istituzionali, sono rimaste prive di una loro guida ideologica. Almeno in Italia, il pensiero tendenzialmente dominante all’interno delle sinistre radicali è scaturito dall’incontro tra il post-strutturalismo francese (Foucault, Deleuze, Guattari), un pezzo di scuola di Francoforte (Marcuse), e la speculazione politico-filosofica post-operaista di Tronti e Negri (descrivendo una sorta di “decrescendo rossiniano”: da Marcuse, uno dei più importanti filosofi del ‘900, a Foucault, uno dei massimi critici del potere costituito e delle sue articolazioni, a Negri, l’esegeta di Spinoza). Non c’è solo questo, ovviamente, ma il cuore del pensiero radicale contemporaneo può situarsi all’incrocio di queste tre “scuole” politico-filosofiche. La sintesi di queste tendenze politico-culturali determina da quarant’anni abbondanti la sostanza del pensiero radicale e conflittuale italiano. Tale pensiero, al di là del giudizio che se ne voglia dare, è caratterizzato però da una contraddizione decennale: sempre più egemone all’interno della mobilitazione politica, fra i militanti, gli studenti, i dirigenti della sinistra, ma sempre più minoritario per la società nel suo complesso e all’interno delle classi subalterne.
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Spigolature economico-filosofiche
Sebastiano Isaia
1. Il “comunismo” di Porro e il vino di Marx
Per il liberale-liberista Nicola Porro «il comunismo» si ha quando lo Stato diventa «l’unico imprenditore» presente sulla scena economica: lo Stato “comunista” organizza il lavoro, stabilisce i salari, adegua la produzione al consumo e all’occupazione e via di seguito. Questo, osserva Porro, lo aveva già capito Alexis de Tocqueville, il quale tra l’altro intuì l’intimo nesso esistente fra «il diritto al lavoro per tutti i cittadini garantito da parte dello Stato» e, appunto, «il comunismo», o quantomeno «una forma di socialismo i cui metodi trasformano, riducono, intralciano la proprietà individuale» (1). Di qui, il discorso di chiaro impianto liberale pronunciato da Tocqueville all’Assemblea francese il 12 settembre 1848, poi pubblicato in un opuscolo il cui titolo entusiasma molto il liberale-liberista dei nostri tempi: Discorso contro il diritto al lavoro. «Avete letto bene: contro il diritto al lavoro», precisa maliziosamente Porro, convinto, a ragione, di irritare soprattutto i feticisti della Costituzione Italiana. Una frecciata che non può certo colpire neanche di striscio chi ha sempre considerato il lavoro salariato (perché di questo ovviamente si tratta) non un «diritto umano», come proclamano i progressisti tipo Camusso e Landini, ma una condanna per chi è costretto a vendersi al Capitale in qualità di merce viva. Una condanna per i salariati («La sua attività appare a lui come tormento, la sua propria creazione come potenza estranea, la sua ricchezza come miseria») e il fondamento della società capitalistica, come insegna lo Spettro di Treviri.
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Il Financial Times delude nuovamente
Francesco Giavazzi sulla Grecia
di Karl Whelan
Ospitando regolarmente le opinioni di persone del calibro di Hans-Werner Sinn e Niall Ferguson, la pagina editoriale del Financial Times sta guadagnando la sfavorevole reputazione di pubblicare spazzatura sull’economia. Questo nuovo articolo del professore italiano Francesco Giavazzi sulla Grecia (“I greci hanno scelto la povertà, facciamoli andare per la loro strada”) primeggia con la sua combinazione di imprecisione e infelici stereotipi nazionali
Giavazzi ritiene che dopo “Cinque anni di negoziati che non hanno conseguito praticamente nulla” l’UE starebbe meglio senza la Grecia. Sostiene che l’attenzione dell’Unione Europea sulla Grecia l’ha distratta da altre questioni e conclude
“Ma l’euro non può essere un sostituto per una maggiore integrazione politica. Infatti, senza tale integrazione, l’euro non può sopravvivere – e oggi, la Grecia si frappone su questa via”.
Voglio offrire alcuni commenti sul pezzo di Giavazzi, a cominciare con la sua affermazione che siano state fatte poche riforme negli ultimi cinque anni.
Nessun progresso in cinque anni? Pubblico Impiego
L’analisi di Giavazzi degli ultimi anni in Grecia è la seguente:
“Cinque anni di negoziati che non hanno ottenuto praticamente nulla (le poche riforme che erano state adottate, come una piccola riduzione del numero esagerato di dipendenti del settore pubblico, da allora sono state rovesciate dalla coalizione guidata da Syriza). E’ abbastanza chiaro che i greci non hanno alcun desiderio di modernizzare la loro società. Si preoccupano troppo poco di un’economia rovinata dal clientelismo“
Prima di tutto esaminiamo una specifica affermazione nell’articolo di Giavazzi, che la riduzione dei dipendenti del settore pubblico è stata piccola ed ha fatto marcia indietro. La relazione del 2014 della Commissione Europea sulla Grecia contiene la seguente tabella sull’occupazione pubblica greca.
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Occupazione, c’è qualcosa che non torna
di Paolo Pini, Roberto Romano
I dati dell'Istat segnalano che l’occupazione cresce più del reddito. Significa che la produttività del lavoro, e quindi anche la competitività, sta scendendo pericolosamente
Svuotare il mare della disoccupazione reale, quasi 6 milioni di persone, con un secchio, forsanche non bucato, è una impresa titanica. Le politiche dell’offerta, più o meno, funzionano come quel secchio che vorrebbe svuotare il mare della disoccupazione secchiata dopo secchiata. I commentatori e politici giorno dopo giorno, con il loro secchio, svuotano il mare e sostengono che le cose stanno migliorando perché hanno cominciato a lavorare assieme. Nella centrifuga delle secchiate sono entrati anche gli ultimi dati occupazionali diffusi il 3 giugno scorso dall’Istat. La pubblicistica, inoltre, evita accuratamente di spiegare la differenza tra persone occupate e le unità di lavoro equivalente tempo pieno1. Potrebbe anche crescere il numero degli occupati, ma le ore complessivamente lavorate possono diminuire. Solo per fare un esempio: 2 part time – magari involontari - equivalgono ad una unità di lavoro equivalente. Un modo per dire che la statistica ha diverse sfaccettature, e l’utilizzo di alcune informazioni al posto di altre è, spesso, una scelta politica, non solo tecnica.
L’Istat comunica che ad aprile 2015 rispetto al mese precedente gli occupati salgono di 159mila unità, e ben di 261mila rispetto ad aprile dell’anno prima. Si tratta di incrementi consistenti: +0,7% il primo in un mese (ma il dato di marzo era davvero negativo) e +1,2% il secondo in un anno. Merito del jobs act dagli effetti esplosivi in meno di un mese che si somma al vantaggio decontributivo previsto da tre mesi per ben 8.000 euro annuali e 24.000 triennali, sempre che le imprese non licenzino prima della scadenza dell’incentivo i nuovi assunti a monetizzazione crescente pagando una manciata di euro per l’indennizzo previsto per recedere dal nuovo contratto2.
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Marx e il colonialismo
Enrico Galavotti
Che Marx ed Engels avessero un atteggiamento ambivalente nei confronti del capitalismo (lo giudicavano negativamente in rapporto al socialismo, ma positivamente in rapporto a qualunque formazione pre-capitalistica), è testimoniato anche dal fatto che la loro analisi del colonialismo non è sempre stata coerente.
Da un lato infatti era esplicita la condanna del colonialismo come strumento di oppressione e sfruttamento; dall'altro però essi tendevano a considerarlo come occasione di sviluppo per popoli arretrati e "senza storia". In questo loro giudizio pesava ovviamente il retaggio della filosofia occidentale, specie quella hegeliana.
Nel Capitale non è affatto chiaro l'apporto determinante del colonialismo alla realizzazione dell'accumulazione originaria. È singolare come nel Capitale non venga mai ipotizzata l'inevitabilità di una serie infinita di guerre civili cui in Europa avrebbe portato l'accumulazione originaria, se nel contempo non fossero state conquistate America, Africa e Asia. La popolazione si sarebbe dimezzata e lo sviluppo capitalistico, se ancora ci fosse stato, avrebbe subìto un rallentamento considerevole.
Nel cap. XXV (libro I del Capitale) dedicato al colonialismo, Marx afferma che la proprietà basata sul proprio lavoro era presente nei territori extra-europei successivamente colonizzati dalle nazioni capitalistiche più industrializzate. Anche questo però è un modo astratto di vedere le cose, poiché al tempo di Marx la proprietà libera in Asia non esisteva più, mentre in America latina era già in forte disuso nel XV sec. Solo in Africa si poteva ancora ampiamente costatare.
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I mercati scommettono su Grexit. E la sinistra insegue Matteo Salvini
L. Sappino intervista Emiliano Brancaccio
“L’Italia non è al sicuro: l’Eurozona è insostenibile. E invece di fermare i migranti bisognerebbe fermare i capitali a caccia di vantaggi fiscali”.
«Se le destre propongono di arrestare i flussi di immigrati, contro di esse bisognerebbe proporre di arrestare i movimenti indiscriminati di capitale a caccia di vantaggi fiscali, bassi salari e alti profitti». Emiliano Brancaccio parla con l’Espresso della crisi dell’eurozona, tutt’altro che risolta. «Letta vi ha detto che per lui l’uscita della Grecia non è una prospettiva realistica? Nel breve termine può essere che abbia ragione», spiega l’economista critico, tra i promotori del “monito” pubblicato già nel 2013 sul Financial Times dove si prevedeva, a causa delle politiche di austerity, la deflagrazione dell’eurozona: «Ma i mercati continuano invece a scommettere sull’uscita dall’Euro». E l’Italia, per Brancaccio, dunque, non deve sentirsi al sicuro, nonostante i dati positivi ripresi dal governo: «Esaltarsi per dati mensili è grottesco. Anche fossero confermate le previsioni più ottimistiche, a fine anno avremmo un milione di posti di lavoro in meno del 2008». Andiamo nel dettaglio, con Brancaccio, soffermandoci anche sul successo di Salvini alle elezioni: «La Lega, come gli altri movimenti di destra, cavalca la lotta all’immigrazione solo come diversivo per evitare di affrontare le vere cause della crisi economica e sociale. Anzi Salvini condisce la xenofobia con una una spruzzata di liberismo fiscale: la flat tax, vale a dire un’aliquota unica per tutti, ricchi o poveri che siano».
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“Esserci” in Expo 2015
Mario Agostinelli
Il diritto di criticare Expo
Sono tra coloro che ritengono che le rilevanti risorse messe in campo per la realizzazione di questo “grande evento” avrebbero potuto essere spese più utilmente in altri modi, con ricadute probabilmente superiori in termini di posti di lavoro, di benessere per i cittadini e di sviluppo per la città di Milano. In questi mesi, di fronte a tutto quello che è accaduto, dall’illegalità allo sperpero di ingenti risorse economiche per l’organizzazione di Expo in una città e in un Paese dove la povertà e la diseguaglianza crescono quotidianamente e che avrebbero urgenza di ben altri interventi, ho maturato un giudizio complessivamente negativo. L’occasione di Expo si è consumata oscillando fino ad arretrare sui contenuti più innovativi e dirompenti, ritenuti troppo vicini ad ipotesi di trasformazione. Idee e progetti che si possono azzardare e mostrare di condividere solo nei convegni, ma non si praticano in realtà né nella prassi amministrativa né nella pratica economica e politica.
La tragedia poi della confusa, contradditoria e irregolare gestione preparatoria va rintracciata nella mancanza di una chiara catena di comando, con il ricorso alla nomina di commissari più o meno straordinari incardinati assurdamente su di una legge che riguardava la Protezione Civile e con provvedimenti che hanno rappresentato una specie di falso ideologico di Stato.
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Riflessioni sull’intervista di Putin al Corriere
di Militant
La lunga intervista del Corriere della Sera a Putin contiene diversi spunti sui quali sarebbe opportuno riflettere. In effetti, leggere la versione “del nemico” dell’Occidente sulle cose del mondo è assai utile, soprattutto quando rimette in ordine alcune verità fattuali completamente distorte dall’informazione liberale. Non bisogna essere “putiniani”, geopolitici o rossobruni, cedere alle sirene dell’eurasiatismo o approdare a rifiuti “culturali” dell’occidentalismo per comprendere come le ragioni della Russia siano completamente svalutate nella lettura quotidiana degli interessi strategici in campo nell’attuale scontro tra Usa-Ue e Russia. Perché se la Russia è un paese capitalista guidato da un governo conservatore (e su questo ci possono essere pochi dubbi), non per questo è automatica una simmetria tra questa e le potenze occidentali.
Non c’è alcuna lotta per l’egemonia regionale o globale, detto altrimenti, quanto un attacco geopolitico, portato avanti sia economicamente che militarmente, contro la Russia. Alcuni passaggi dell’intervista sono, appunto, parte di quella verità fattuale negata a priori dalle retoriche europeiste. E una certa indipendenza di giudizio e di autonomia politico-culturale dovrebbe consentirci di interpretare la realtà con strumenti antimperialisti e internazionalisti, non imboccati dai media mainstream.
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Finale di sistema
di Lanfranco Binni
La crisi del sistema politico italiano è entrata in una nuova fase di implosione. Sono decisamente interessanti i dati delle elezioni regionali del 31 maggio. Il primo dato in ordine di importanza è quello del non voto (48%): un cittadino su due non ha votato, e l’astensione ha colpito (passivamente e in buona misura attivamente) l’area politica della destra e della sinistra di sistema. Alle tradizionali ragioni dell’astensione (sono tutti ladri, sono tutti uguali) si sono aggiunte nuove ragioni di profondo dissenso politico, di dichiarata non partecipazione al gioco truccato di una democrazia rappresentativa infetta, dell’uso della cosiddetta volontà popolare da parte del partito unico della “nazione” che unisce destra e sinistra. Questa tendenza di astensionismo politico, già clamorosamente evidente nelle elezioni regionali del 2014 in Emilia Romagna, si è accentuata nelle regioni “rosse” (Liguria, Toscana, Umbria, Marche) mentre l’astensionismo non è aumentato in Campania e in Puglia. Il secondo dato è la salutare flessione del Pd, abbandonato da due milioni di elettori, in parte di antica tradizione Pci (rifluiti nell’astensionismo, nelle formazioni della “sinistra radicale”, nel Movimento 5 Stelle o nel populismo razzista della Lega) e in parte di destra (rifluiti nell’astensionismo o nella Lega). Il terzo dato è la forte affermazione del M5S, che prosegue, nonostante tutte le campagne dei media al servizio del sistema politico, la sua positiva crescita all’esterno del sistema, dentro e contro, su una linea di tenace autonomia che si dimostra vincente.
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Grecia: la danza sull’abisso
di Francesca Coin e Andrea Fumagalli
La trattativa in corso tra Grecia e Brussel Group sta arrivando alla fase decisiva. A partire dalla tensione degli ultimi giorni, ricostruiamo la storia del debito greco per svelare gli inganni di un’informazione che racconta solo la versione dell’Europa dei più forti e per far meglio comprendere quale sia la posta in gioco per il futuro di una vera Europa sociale. Un futuro che dipende dal fatto che le politiche d’austerity vengano per sempre bannate. E ora che pure la Spagna s’è desta vuoi vedere che anche l’Italia…
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Dopo un tira e molla di dichiarazioni di diverso segno, la trattativa tra la Grecia e i creditori istituzionali ha sancito la deadline finale: è il 30 di giugno. Il governo Tsipras ha infatti ufficialmente chiesto di accorpare le quattro tranche di pagamenti al FMI in unica tranche a fine giugno, come lo stesso regolamento del Fmi prevede. Sarebbe la seconda volta in cui tale clausola di accorpamento verrebbe adottata dagli anni Settanta a oggi.
L’ammontare complessivo è di circa 1,6 miliardi di Euro, ma tale cifra è solo l’antipasto. Entro la fine dell’anno le altre scadenze (sempre in termini di interessi) ammontano ad altri 1,4 miliardi al Fmi e ben 7,7 miliardi alla Bce.
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Il lato cattivo della storia
di Emilio Quadrelli
A partire da “La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini” (Feltrinelli, 2003), scritto con Alessandro Dal Lago, Emilio Quadrelli riflette sul lato cattivo della globalizzazione e su un mercato globale che, ancor prima che le merci, “produce produttori” e condizioni di lavoro marginalizzanti
Qui si genera il mondo delle ombre: masse senza volto costrette lungo un “asse orizzontale” fatto di lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo. Condizione che cagiona continue incursioni nell’ambito delle economie informali e/o illegali e che condanna il migrante, oggetto di una reiterata stigmatizzazione sociale fondata sulla “linea del colore”. Condizione che, tuttavia, sembra fagocitare il futuro prossimo anche di gran parte della forza lavoro in pelle bianca lungo un processo di globalizzazione in basso.
Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d’arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta per “questo anno” (K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica).
Quando, nel 2003, La città e le ombre veniva data alle stampe, l’ordine discorsivo imperante era del tutto imprigionato all’interno delle cosiddette retoriche securitarie, ossia della minaccia che i mondi illegali rappresentavano per la società legittima.
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L'urgente rilancio dell'occupazione? Col sale in zucca (no "permeismo" allowed)
di Quarantotto
1. Repetita iuvant: secondo Eurostat, l'Istat dell'Unione europea, l'Italia ha una delle più basse spese pubbliche pro-capite in €uropa.
2. Infatti, ciò è confermato dai dati sul numero dei pubblici impiegati.
E si tratta di quelli del 2011, a cui sono seguiti ulteriori accorpamenti di strutture e blocchi del turn over, sul fronte organizzativo pubblico (molti credono che la spending review non sia in corso, solo perchè il livore accecante non consente neppure la memoria a breve sulle leggi sfornate a getto continuo).
In questo numero dobbiamo pure conteggiare un precariato - nei settori dell'istruzione e della sanità, ma non solo-, che è un record UE e che ci pone in infrazione rispetto alle direttive europee sulla preferenza per il contratto a tempo indeterminato.
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Riforma della scuola: la vera posta in gioco
di Luca Illetterati
A leggere e ad ascoltare molti dei discorsi chi si fanno sui giornali e in televisione sulla riforma della scuola l’impressione è che perlopiù non ci si accorga o non ci si voglia davvero accorgere di ciò che è in gioco dentro a questo scontro che vede contrapposti da una parte il governo, con in prima fila il premier , la parte maggioritaria del Pd (gli altri partiti della coalizione e i partiti dell’opposizione si limitano a guardare) e dall’altra gli insegnanti; quasi tutti, finora. C’è addirittura chi pensa (e ovviamente c’è chi vuol fare pensare) che si tratti semplicemente di una partita corporativa. Come se gli insegnanti fossero lì a protestare in difesa di rendite di posizione, peraltro difficili anche solo da immaginare per chiunque abbia davvero lavorato qualche giorno dentro una scuola. O che si tratti comunque di una sacca di resistenza di arcigna conservazione ipersindacale rispetto a una necessaria e urgente modernizzazione che non può più attendere.
Una semplificazione che a volte tocca dei picchi formidabili e degni forse di qualche considerazione.
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